Le nullità di protezione
La giurisprudenza, nazionale ed euro-unitaria, in materia di tutela del consumatore, approfondisce gli aspetti legati al rilievo d’ufficio della nullità della clausola vessatoria e, in particolare quella euro-unitaria, interviene sul tema del rapporto fra clausola abusiva e diritto dispositivo. Il fenomeno della clausola abusiva continua ad essere descritto dalla Corte di cassazione come imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista. Questione ancora aperta è quella degli effetti della caducazione della clausola abusiva ove manchi una norma dispositiva sostitutiva del regolamento negoziale. Sulla questione dovrà valutarsi l’incidenza della proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita”, la quale mira ad una disciplina generale ed esclusiva, sia pure su base volontaria, delle transazioni transfrontaliere per la vendita di beni, la fornitura di contenuti digitali e la prestazione di servizi connessi.
L’intestazione alle nullità di protezione della rubrica dell’art. 36, d.lgs. 6.9.2005, n. 206 (Codice del consumo) fa della disciplina sulla tutela dei consumatori presente in tale norma l’ipotesi ideal-tipica di nullità protettiva. È bene dunque riferirsi a tale disciplina per una messa a punto dello stato dell’arte nella giurisprudenza. Mentre la Corte di cassazione consolida posizioni ormai acquisite, definendo ulteriori dettagli del proprio orientamento, la Corte di giustizia, chiamata a pronunciarsi su questioni pregiudiziali, fornisce ulteriori chiavi di lettura su aspetti della normativa consumeristica già oggetto della propria giurisprudenza. I margini del potere del giudice di rilievo d’ufficio del carattere abusivo della clausola contrattuale è poi ciò su cui la corte nazionale e quella euro-unitaria si incrociano.
Le pronunce cui sarà data qui attenzione sono, quanto alla giurisprudenza nazionale, Cass., 3.4.2013, n. 8167, e, quanto a quella euro-unitaria, C. giust., 21.2.2013, C-472/11, Banif Plus Bank Zrt c. Csaba Csipai, e C. giust., 14.3.2013, C-415/11, Mohamed Aziz c. Caixa D’Estalvis de Catalunya.
Dopo la rassegna della giurisprudenza rilevante nel 2013 saranno fornite le linee della disciplina consumeristica emergente dalla recente proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita”.
1.1 La Corte di cassazione
Il caso all’attenzione di Cass. n. 8167/2013 riguardava un contratto relativo a strumento finanziario, negoziato fuori dei locali commerciali, con riferimento al quale, posto che l’art. 46 c. cons. esclude l’applicabilità solo della sezione I del capo I del titolo III della parte III del medesimo testo normativo, e non anche la sezione III, si è ritenuta applicabile la disposizione di cui all’art . 63 sul foro del consumatore. La Corte richiama due principi di diritto consolidati. In primo luogo afferma che la specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c. della deroga contrattuale al foro del consumatore è irrilevante ai fini della valutazione di abusività della clausola, dato il rapporto di reciproca indipendenza fra la disciplina generale sulla formazione del contratto e quella di settore sul rapporto di consumo. In secondo luogo, si afferma che ai fini dell’esclusione della vessatorietà della clausola di deroga al foro del consumatore non è sufficiente la previsione di un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c.
L’art. 63 d.lgs. n. 206/2005 stabilisce la competenza territoriale inderogabile del giudice del luogo di residenza o di domicilio del consumatore. Ad avviso del giudice di legittimità tale norma introduce un’eccezione rispetto all’art. 33, co. 2, lett. u), d.lgs. n. 206/2005, in relazione al quale è invece consentito al professionista vincere la presunzione di vessatorietà della clausola di deroga al foro del consumatore (dimostrando che la clausola è stata oggetto di specifica trattativa individuale). La deroga in violazione dell’art. 63 costituisce per la Cassazione nullità di protezione ai sensi dell’art. 36 del medesimo c. cons. La nullità può essere rilevata d’ufficio, ma opera soltanto a vantaggio del consumatore, come prevede il terzo comma dell’art. 36. Posto che la nullità non può ridondare a scapito del consumatore, deve essere consentito a quest’ultimo, ove lo ravvisi maggiormente rispondente al proprio interesse, adire un giudice territorialmente competente in base ad uno dei criteri posti dagli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., derogando unilateralmente al foro del consumatore. Questa scelta, precisa la Corte, non scalfisce l’esigenza di tutela contro l’unilaterale predisposizione e imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, che la disciplina consumeristica è funzionalmente volta a garantire.
Non ricorre inoltre, sempre secondo il giudice di legittimità, un interesse generale alla tutela del mercato, tale da giustificare il rilievo d’ufficio della nullità, anche in presenza della deroga imputabile al consumatore. A questo proposito, conclude la sentenza, non può farsi riferimento all’art. 143 c. cons. («I diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili. È nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice»), norma, fra l’altro, limitata alla mera disciplina pattizia, afferma sempre la Corte.
1.2 La Corte di giustizia
Nella prima delle due sentenze della Corte di giustizia in esame, e cioé C. giust., 21.2.2013, C-472/11, Banif Plus Bank Zrt c. Csaba Csipai, in questione è sempre l’ambito del rilievo d’ufficio dell’abusività della clausola, e in particolare se sussista il dovere del giudice nazionale, che abbia accertato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale, di informare le parti per le loro eventuali deduzioni. Nella specie, il diritto nazionale ungherese non prevedeva una norma che imponesse al giudice, prima di pronunciarsi sulla nullità, di sentire le parti.
Ricorda la Corte che il fondamento del potere-dovere del giudice di rilievo d’ufficio del carattere abusivo della clausola risiede nel fatto che solo l’intervento positivo di un soggetto estraneo al rapporto contrattuale è in grado di ristabilire l’eguaglianza fra le parti, nonché di superare lo schermo formale di equilibrio che cela l’inferiorità del consumatore. La Corte richiama il precedente di C. giust., 4.6.2009, C-243/08, Pannon GSM Zrt c. Erzsébet Sustikné Győrfi, in base al quale il giudice nazionale non deve rilevare l’abusività della clausola qualora il consumatore, avvisato dal giudice, abbia dichiarato che non intende invocare la detta abusività. Aggiunge, quindi, il giudice euro-unitario che l’invito alla discussione circa la questione rilevabile d’ufficio, indirizzato alle parti nelle forme previste dalla legislazione nazionale, costituisce attuazione del principio del contraddittorio, sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il giudice nazionale ha così l’obbligo, conclude il giudice di Lussemburgo, di tener conto della volontà espressa dal consumatore quando quest’ultimo, consapevole del carattere non vincolante di una clausola abusiva, afferma tuttavia di opporsi alla sua disapplicazione, dando quindi un consenso libero e informato alla clausola in questione. Rispondendo infine sull’ulteriore questione pregiudiziale, la Corte afferma che il giudice nazionale, per valutare il carattere eventualmente abusivo della clausola contrattuale, deve tener conto di tutte le altre clausole contrattuali.
La prima delle questioni affrontate da C. giust., 14.3.2013, C-415/11, Mohamed Aziz c. Caixa D’Estalvis de Catalunya, la seconda pronuncia in esame della corte euro-unitaria, presenta un minore interesse per il diritto italiano. In gioco è il limite presente nel diritto spagnolo circa la possibilità per il giudice nazionale di sospendere l’esecuzione forzata di un mutuo ricevuto da notaio, sulla base dell’abusività della clausola contrattuale costituente il fondamento del titolo esecutivo stragiudiziale. Un tale limite, contrario alla direttiva comunitaria, non è ravvisabile nel diritto italiano, dato il potere attribuito al giudice, in sede di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo esecutivo stragiudiziale, ovvero della relativa esecuzione forzata, senza alcuna limitazione delle contestazioni opponibili. Può dunque essere fatta valere la nullità di una clausola vessatoria in sede di opposizione a un precetto intimato sulla base di mutuo ricevuto da notaio, e può, di conseguenza, essere adottato il relativo provvedimento cautelare di sospensione dell’azione esecutiva.
Passando alle ulteriori questioni, la Corte focalizza la propria attenzione sulle nozioni di “buona fede” e “significativo squilibrio” a danno del consumatore. Per appurare se una clausola determini un «significativo squilibrio» dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto, occorre tener conto, secondo la Corte, delle disposizioni applicabili nel diritto nazionale in mancanza di un accordo tra le parti in tal senso. È proprio una tale analisi comparatistica a consentire al giudice nazionale di valutare se, e in che misura, il contratto collochi il consumatore in una situazione giuridica meno favorevole rispetto a quella prevista dal vigente diritto nazionale. Per chiarire poi se un tale squilibrio sia stato creato «malgrado il requisito della buona fede», il giudice nazionale deve verificare se il professionista, qualora avesse trattato in modo leale ed equo con il consumatore, avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi che quest’ultimo aderisse ad una siffatta clausola nell’ambito di un negoziato individuale.
1.3 La proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita”
Nell’ottobre del 2011 la Comm. UE ha presentato una proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita”. La proposta ha preceduto di due settimane la direttiva 2011/83/UE del 25.10.2011 sui diritti dei consumatori, che reca modifiche della direttiva 93/13/CEE del Consiglio (sulle clausole abusive nei contratti dei consumatori) e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (su vendita e garanzia dei beni di consumo), e abroga la direttiva 85/577/CEE del Consiglio (sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali) e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (sulla protezione dei consumatori nei contratti a distanza). La direttiva prevede la disciplina degli obblighi d’informazione sia per i contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali che per le altre tipologie di contratti. Con riferimento ai contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali si disciplinano, inoltre, i requisiti formali e il diritto di recesso in favore del consumatore.
La proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita” ha, per sua parte, ad oggetto le transazioni transfrontaliere per la vendita di beni, la fornitura di contenuti digitali e la prestazione di servizi connessi. Essa contiene una disciplina generale e completa riguardo tali tipologie contrattuali, non limitata quindi ai profili strettamente consumeristici. Come si legge nel “considerando”, il regolamento mira al superamento delle barriere che esistono fra le transazioni transfrontaliere, determinate dalle divergenze fra i diritti nazionali dei contratti, consentendo alle parti di convenire che i loro contratti rispondano a un corpus unico e uniforme di norme di diritto contrattuale, che abbiano lo stesso significato e siano interpretate allo stesso modo in tutti gli Stati membri. Di qui la scelta dello strumento del regolamento, direttamente operante negli ordinamenti nazionali, anziché quello della direttiva. Continua il “considerando” che il “Diritto comune europeo della vendita” armonizza il diritto contrattuale degli Stati membri, non già imponendo modifiche ai diritti nazionali in vigore, ma creando nell'ordinamento di ciascuno Stato un secondo regime giuridico per i contratti rientranti nel proprio campo di applicazione. Tale regime dovrà essere identico in tutta l'Unione, e coesistere con le norme vigenti di diritto nazionale dei contratti1.
Il diritto comune può applicarsi ai soli contratti in cui il venditore di beni o il fornitore di contenuto digitale sia un professionista. Nei contratti in cui tutte le parti sono professionisti, il diritto comune europeo della vendita può applicarsi solo quando almeno una parte sia una piccola o media impresa, così come qualificata dalla proposta di regolamento. L’applicazione del diritto comune è subordinata all’accordo delle parti. Nei rapporti tra professionista e consumatore tale accordo è valido solo se il consenso del consumatore è prestato con una dichiarazione esplicita distinta da quella contrattuale, previo rilascio da parte del professionista di nota informativa che richiami l’attenzione del consumatore sull’intenzione di applicare il diritto comune. Una volta che le parti abbiano convenuto di applicare al contratto il diritto comune europeo della vendita, questo costituisce disciplina esclusiva.
Fra le disposizioni preliminari, rilevante ai fini della protezione del consumatore è quella sulla definizione di clausola contrattuale non negoziata individualmente. Tale è quella clausola di cui l’altra parte non ha potuto influenzare il contenuto. Si precisa che la clausola contrattuale scelta da una parte all’interno di un insieme di clausole proposte dall’altra non si considera negoziata individualmente per il solo fatto di essere stata scelta. Nei contratti tra professionista e consumatore, l’onere di provare che una clausola proposta dal professionista sia stata negoziata individualmente incombe al professionista. Le clausole non negoziate individualmente possono essere fatte valere contro l’altra parte solo se questa ne era a conoscenza, o se l’altra parte che le ha predisposte ha provveduto a richiamare su di esse l’attenzione della controparte. Le clausole non si considerano portate adeguatamente all’attenzione del consumatore qualora ad esse si faccia semplicemente riferimento in un documento contrattuale, quantunque sottoscritto dal consumatore.
Circa le informazioni precontrattuali in generale ricorrono due distinte discipline, l’una per i contratti fra professionista e consumatore (ivi compresi i contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali, con i relativi doveri informativi circa il diritto di recesso, il quale risulta peraltro sottoposto ad una dettagliata disciplina), l’altra per i contratti fra professionisti. Anche per ciò che concerne le clausole abusive si prevede una diversa disciplina, a seconda che ricorra la presenza del consumatore, o si tratti di contratto fra professionisti. Dopo avere fornito la spiegazione del significato di “abusivo”, la proposta di regolamento elenca, limitatamente ai rapporti di consumo, le clausole contrattuali considerate abusive in qualunque circostanza, e quelle per le quali opera la mera presunzione di abusività.
Si evidenzieranno ora taluni nuclei tematici che emergono dalla giurisprudenza nazionale e da quella euro-unitaria di cui si è dato conto. L’ultima questione affrontata da C. giust., 14.3.2013, C-415/11 entra nel merito della portata interpretativa dell’inciso “malgrado la buona fede” contenuto nell’art. 33, co. 1, d. lgs. n. 206/2005. Il tema dei limiti alla rilevabilità d’ufficio, su cui come si è visto la giurisprudenza nazionale e quella sovranazionale conservano orientamenti convergenti, sconta ancora alcune difficoltà di sistemazione sul piano dogmatico nella dottrina italiana, soprattutto per la presenza di una norma come l’art. 143 c. cons.
2.1 “Malgrado la buona fede”
Si considerano vessatorie, ai sensi dell’art. 33, co. 1, d.lgs. n. 206/2005, le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. In passato è stato oggetto di discussione se il riferimento alla buona fede fosse da intendere in senso soggettivo, come stato psicologico, o oggettivo, quale regola di comportamento, soprattutto considerando che in altre traduzioni della direttiva comunitaria («en dépit de l’exigence de bonne foi», «contrary to the requirement of good faith», «entgegen dem Gebot von Treu und Glauben») era presente il richiamo al concetto di violazione di una regola, e dunque la buona fede come precetto e non stato psicologico. Si consideri che nell’art. 83 della proposta di regolamento sul “Diritto comune europeo della vendita” si definisce abusiva la clausola, non negoziata individualmente, se produce, a danno del consumatore, uno squilibrio significativo di diritti e obblighi, «in contrasto con la buona fede e la correttezza». Tema di confronto è stato anche quello se buona fede e squilibrio contrattuale costituiscano, o meno, un unico criterio.
Se la buona fede viene intesa come parametro di rilevanza dello squilibrio contrattuale, essa diventa criterio di valutazione dell’atto (e non del comportamento, come è nella logica della buona fede oggettiva), e acquista una funzione, ignota al nostro ordinamento, di condizione di efficacia dell’atto. Diversamente dalla tradizione romanistica, in cui è regola di responsabilità, verrebbe assegnata alla buona fede, alla stessa stregua dell’ordinamento tedesco, il ruolo di regola di validità del contratto. In quanto parametro dell’equilibrio contrattuale la buona fede prende in realtà a proprio contenuto l’equità, e la portata dell’art. 33 sarebbe quindi quella dell’estensione dell’art. 1374 c.c., l’allargamento cioè dell’equità dalla funzione integrativa a quella correttiva del contenuto negoziale, mediante la caducazione delle clausole giudicate vessatorie2. Identificata inoltre la buona fede con l’equità, si attribuirebbe a quest’ultima una funzione invalidante, anch’essa ignota al sistema. Il giudice non esercita un sindacato sul merito del contratto in quanto la valutazione di congruità dello scambio contrattuale è rimessa all’autonomia privata. Lo squilibrio contrattuale non rileva in sé per sé, ma in quanto indice rivelatore di una ulteriore anomalia del contratto, come attesta il caso della azione generale di rescissione per lesione.
Il fenomeno delle clausole abusive dimostra come il tema dell’ingiustizia contrattuale non si fermi al profilo della sperequazione fra le prestazioni, ma involga anche la sfera dei comportamenti in sede di formazione del contratto. La corte euro-unitaria, come si è visto, conferisce autonoma rilevanza al criterio della buona fede, saldandolo a un aspetto comportamentale, sia pure conservando un riferimento allo stato psicologico. Per chiarire se lo squilibrio contrattuale sia stato creato «en dépit de l’exigence de bonne foi» (così l’originario testo della sentenza), bisogna verificare se il professionista, qualora avesse trattato in modo leale ed equo con il consumatore, avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi che quest’ultimo aderisse ad una siffatta clausola nell’ambito di un negoziato individuale. Affermando questo, la Corte implicitamente afferma che il professionista ha tenuto una condotta sleale. Più chiaro è il riferimento alla buona fede in senso oggettivo in Cass. n. 8167/2013.
Sottolinea il giudice nazionale di legittimità che la disciplina consumeristica è funzionalmente volta a garantire l’esigenza di tutela contro l’unilaterale predisposizione e imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista. Il riferimento alla “imposizione del contenuto contrattuale” è ricorrente nella giurisprudenza della Cassazione, in materia di contratti del consumatore, a partire da Cass., 26.09.2008, n. 24262. Si tratta di un comportamento rilevante in sede di formazione del contratto e che, dal punto di vista della buona fede come regola di condotta, acquista un connotato di disvalore. E’ significativo poi che la nozione di imposizione di clausola contrattuale sia presente in alcuni interventi legislativi, relativi a situazioni di asimmetria di potere contrattuale e di tutela del mercato.
Si considerino le seguenti disposizioni legislative elencate in ordine cronologico: l’art. 3, l. 10.10.1990, n. 287 («Norme per la tutela della concorrenza e del mercato»), in base al quale costituisce abuso di posizione dominante, fra l’altro, l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; l’art. 9, l. 18.6.1998, n. 192 («Disciplina della subfornitura nelle attività produttive»), secondo cui costituisce abuso di dipendenza economica l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie; l’art. 62, d.l. 24.1.2012, n.1, convertito con l. 24.3.2012, n. 27 («Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività»), il quale prevede che nelle relazioni commerciali tra operatori economici è vietato, fra l’altro, imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive (rappresenta questione aperta se la norma si riferisca solo alle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari, o abbia portata generale3). Anche nell’art. 7, d.lgs. 9.10.2002, n. 231 («Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali»), prima della modifica intervenuta con l’art. 1, co. 1, lett. g), d.lgs. 9.11.2012, n. 192, vi era un riferimento all’imposizione di clausola contrattuale iniqua.
La caratteristica di queste fattispecie legislative è il concorso di due requisiti, l’uno afferente l’atto (iniquità della clausola), l’altro relativo al comportamento (imposizione). Allo stesso modo la fattispecie di nullità protettiva, definita dall’art. 33, co. 1, d.lgs. n. 206/2005, resta definibile come concorso di squilibrio contrattuale e violazione della buona fede come regola di comportamento, quest’ultima identificabile nella condotta impositiva del contenuto contrattuale mediante l’abuso della superiorità informativa.
La rilevanza del comportamento in sede di formazione del contratto si spiega, come è noto, con le asimmetrie informative che caratterizzano i rapporti di consumo. Un’altra pronuncia euro-unitaria del 2013, C. giust. 21.3.2013, C-92/11, RWE Vertrieb AG c. Verbraucherzentrale Nordrhein-Westfalen, fornendo specifici criteri per valutare se una clausola standardizzata, con cui un’impresa di approvvigionamento si riservi il diritto di modificare le spese della fornitura di gas, risponda o meno ai requisiti di buona fede, ha sottolineato la fondamentale importanza delle informazioni rese al consumatore prima della conclusione del contratto, perché è in base a tali informazioni, ha precisato sempre la Corte, che il consumatore decide se vincolarsi alle condizioni preventivamente redatte dal professionista. È in questo contesto che, a proposito di clausole standardizzate, Cass. n. 8167/2013 ha affermato che la specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c. della deroga contrattuale al foro del consumatore è irrilevante ai fini della valutazione di abusività della clausola.
L’informazione non è un valore che come tale entra nella norma del codice civile sulle condizioni generali di contratto. L’art. 1341 c.c. si limita a disciplinare il procedimento di conclusione del contratto per l’ipotesi di condizioni generali, facendo della conoscenza o conoscibilità il criterio (presuntivo) per stabilire se c’è approvazione delle condizioni, come si evince dal co. 2 del medesimo art. 1341, che per le clausole vessatorie non si accontenta della presunzione di approvazione derivante dalla conoscenza, ma richiede la specifica approvazione per iscritto. L’approvazione, però, non è ancora informazione: a questa mira la disciplina consumeristica. Si può approvare una clausola, ma sulla base di uno stato di sudditanza informativa. È la possibilità di influenzare il contenuto, e dunque la presenza di una negoziazione individuale, che toglie il carattere di abusività alla clausola. Significativa circa l’insufficienza della mera approvazione, stante lo squilibrio informativo, è la disposizione di cui all’art. 7 della proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita”: “La clausola contrattuale scelta da una parte all'interno di un insieme di clausole proposte dall'altra non si considera negoziata individualmente per il solo fatto di essere stata scelta”.
2.2 Il limite al rilievo d’ufficio della nullità
Il rilievo d’ufficio da parte del giudice della nullità protettiva costituisce un leitmotiv della giurisprudenza della Corte di giustizia. Esso rinviene il proprio fondamento, dal punto di vista dei rapporti fra ordinamento sovranazionale e ordinamento nazionale, nella necessità di garantire l’effetto utile della tutela cui mirano le disposizioni della direttiva comunitaria4. Fra le pronunce più recenti si segnala C. giust., 14.6.2012, C-618/10, Banco Español de Crédito SA c. Joaquín Calderón Camino, dove si riconosce il potere del giudice di rilevare d’ufficio, in limine litis, la natura abusiva di una clausola, in relazione ad una domanda di ingiunzione, prima dell’opposizione del consumatore. La preoccupazione fondamentale del giudice sovranazionale resta quella di garantire l’effettività della tutela voluta dalla direttiva.
In ambito italiano sono insorte difficoltà circa l’inquadramento del tipo di legittimazione all’azione, anche in considerazione della norma di cui all’art. 143, co. 1, c. cons. Come è ormai noto, la nullità può essere rilevata d’ufficio, ma opera soltanto a vantaggio del consumatore, secondo quanto prevede il terzo comma dell’art. 36. La qualificazione della legittimazione all’azione come relativa non è pacifica. Si è, ad esempio, osservato che la legge non dice affatto che la legittimazione è ristretta al consumatore; ciò che invece dice è che la nullità (da chiunque venga invocata, e anche se la dichiari d’ufficio il giudice) “opera solo a vantaggio del consumatore”5. Un tale limite al rilievo d’ufficio è stato poi inteso operante sul piano del diritto sostanziale. Il titolare della legittimazione a far valere la nullità di protezione può, mediante convalida (in termini differenti dalla convalida del contratto annullabile – art. 1444 c.c.), consentire alla clausola abusiva, inizialmente inidonea a produrre effetti giuridici, di conseguire efficacia. Il potere del giudice di rilevabilità d’ufficio viene meno, dunque, quando risulti che il soggetto legittimato abbia manifestato (in forma espressa o tacita) la volontà di convalidare la clausola nulla, sanando così il vizio6.
Per altra parte della dottrina resta un’incoerenza fra le nozioni di legittimazione riservata e convalida da un canto (a parte l’inconfigurabilità della stessa convalida per il contratto nullo – art. 1423 c.c.), e il disposto dell’art. 143, co. 1, c. cons. («I diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili. È nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice»)7. È stato anche osservato, senza ricorrere alle nozioni di convalida o sanatoria, che il fatto che il contraente protetto non faccia valere la nullità è riconducibile alla decisione di dare comunque esecuzione al contratto che ne fosse affetto, e quindi più propriamente ad una forma di rinunzia soltanto all’azione8.
Il riferimento, da ultimo, alla nozione processuale di rinunzia all’azione consente di rileggere la disciplina del codice del consumo. A questo proposito non è sufficiente fare leva, per disattivare l’apparente contraddizione fra l’art. 36, co. 3 e l’art. 143, co. 1, sul richiamo in quest’ultima norma alla forma del patto, come sembra fare anche Cass. n. 8167/2013, per escludere, attraverso la previsione di cui all’art. 143, l’ammissibilità del rilievo d’ufficio della nullità anche in presenza della deroga imputabile al consumatore. Anche la rinuncia unilaterale implica un atto dispositivo che ricade nel fuoco della prima parte dell’art. 143, co. 1. Come si è visto in precedenza, C. giust., 21.2.2013, C-472/11 pone il principio processuale del contraddittorio quale limite al rilievo d’ufficio. Invitate le parti a dedurre sulla questione rilevabile d’ufficio, la nullità non sarà più rilevabile ove il consumatore si opponga alla disapplicazione della clausola in questione9. Come anche, per venire al caso della giurisprudenza di legittimità, il giudice non rileverà la propria incompetenza funzionale se il consumatore ha convenuto il professionista in un luogo diverso dal foro previsto dall’art. 63 c. cons.
In realtà, sulla scorta della sottolineatura nella giurisprudenza della Corte di giustizia del profilo processuale, sembra che l’apparente disarmonia fra le disposizioni del c. cons. vada risolta mediante il riferimento alla natura delle norme in gioco. Mentre l’art. 143, co. 1, è chiaramente disposizione di diritto sostanziale, l’art. 36, co. 3, è regola del processo, con conseguenze dunque esclusivamente di tipo processuale.
Il riferimento in C. giust., 14.3.2013, C-415/11 al diritto dispositivo (oggetto di deroga convenzionale) quale criterio di valutazione del “significativo squilibrio”, introduce ad uno dei profili problematici dell’attuale disciplina consumeristica, quello delle condizioni di mantenimento del contratto da cui è stata caducata la clausola vessatoria. La nullità (protettiva) della clausola vessatoria lascia il contratto valido per il resto (art. 36, co. 1, c. cons.). La dottrina ha da tempo evidenziato che le clausole vessatorie rappresentano una deroga (da ultimo definita “irragionevole”) alle norme dispositive, sanzionata in forza dell’abusività delle clausole medesime, sicché il modello di sostituzione della clausola nulla non è quello dell’art. 1419, co. 2, c.c., relativo alle norme imperative, ma quello delle norme dispositive10. Queste ultime, operando in mancanza di determinazione delle parti, trovano applicazione una volta che la clausola abusiva risulti caducata. Che il fenomeno della sostituzione attenga alle norme dispositive, e non a quelle imperative, trova conferma nel fatto che queste ultime entrerebbero comunque nel regolamento negoziale, prima ed a prescindere dalla valutazione di abusività, grazie proprio al loro carattere imperativo.
La pronuncia del 2013 della corte euro-unitaria, appena menzionata, segue C. giust., 14.6.2012, C-618/10, Banco Español de Crédito SA c. Joaquín Calderón Camino, e fornisce una prima risposta al problema lasciato aperto da quest’ultima pronuncia. In questione nella sentenza del 2012 era la normativa spagnola che consentiva al giudice nazionale, laddove accertasse la nullità di una clausola abusiva, di integrare il contratto rivedendo il contenuto della clausola. Secondo il giudice di Lussemburgo la facoltà del giudice di modificare il contenuto della clausola contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore delle clausole abusive, in quanto essi mirerebbero ad utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse dei medesimi professionisti. Per la sentenza del 2012 la semplice non vincolatività della clausola rappresenta una tutela maggiormente efficace per il consumatore rispetto alla ricostruzione giudiziale della regola contrattuale. Coerentemente alle conclusioni della pronuncia del 2012, C. giust., 30.5.2013, C-488/11, Dirk Frederik Asbeek Brusse c. Jahani BV ha affermato che il giudice non può ridurre l’importo di una clausola penale abusiva, ma deve unicamente disapplicare nei confronti del consumatore tale clausola.
Come non si è mancato di sottolineare, ancor prima dell’intervento della riduzione giudiziale della clausola abusiva (in modo da riportarla al di qua della soglia di abusività), ciò che si verifica, per effetto della caducazione della clausola, è la naturale riespansione del diritto dispositivo, abusivamente derogato, per effetto dell’art. 1374 c.c. (quanto all’ordinamento italiano)11. Del resto, già in passato era stato ritenuto che, a seguito dell’inefficacia ai sensi dell’art. 1341 c.c., si avesse l’inserzione automatica nel regolamento negoziale della disciplina dispositiva derogata12. L’odierna pronuncia della Corte di giustizia, facendo del diritto dispositivo il criterio di valutazione del “significativo squilibrio”, integra le conclusioni della sentenza del 2012, che si era arrestata all’alternativa fra caducazione e restrizione giudiziale della clausola, lasciando aperta la porta per una possibile evoluzione della giurisprudenza euro-unitaria nel senso dell’applicazione della norma dispositiva in funzione sostitutiva della clausola vessatoria.
Che la mera caducazione sia più favorevole per il consumatore della riduzione conservativa della clausola è, comunque, controverso in dottrina. Si fa il caso della clausola penale eccessiva, allorquando non sia stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore, clausola in relazione alla quale per il consumatore è più conveniente la riduzione conservativa anziché la caducazione, ed il caso della correzione giudiziale chiesta proprio dal consumatore13. Ma soprattutto va richiamato il caso in cui il diritto dispositivo nulla disponga. La questione diventa rilevante nei casi in cui per effetto del venir meno della clausola abusiva, in mancanza di una norma dispositiva sostitutiva, il contratto possa non essere mantenuto. A questo proposito è stato osservato che, siccome la nullità deve operare soltanto a vantaggio del consumatore, il rilievo d’ufficio della medesima nullità deve ritenersi escluso quando possa determinare la nullità totale del contratto14. Il problema resta per il caso in cui la nullità della clausola vessatoria sia domandata dal consumatore.
Sul tema della sopravvivenza del contratto successivamente alla caducazione delle clausole vessatorie si registrano alcune prese di posizione15. È interessante tuttavia accennare alla problematica alla luce della proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita”. Prevede l’art. 79 della proposta di regolamento che, una volta riconosciuta la non vincolatività della clausola abusiva, le altre clausole contrattuali restano vincolanti solo se il contratto possa essere mantenuto senza quella abusiva. Ciò che dovrebbe saggiarsi, nel caso di norma dispositiva mancante e di contratto che non può essere mantenuto senza la clausola abusiva, è se possa farsi riferimento allo strumento dei cd. implied terms, derivante dal common law, fatto proprio dalla proposta di regolamento. Questa introduce infatti, significativamente nel capo dedicato a «contenuto ed effetti», e non in quello dedicato all’interpretazione, la disciplina delle clausole contrattuali implicite. In base all’art. 68, par. 2, la clausola che si presume implicita deve essere tale da attuare nella misura del possibile quanto le parti avrebbero probabilmente concordato se avessero disciplinato la questione. La clausola contrattuale implicita presuppone, dunque, un regolamento incompleto in relazione alle circostanze sopravvenute. Ciò che ci si deve chiedere è se possa essere ritenuto incompleto il contratto contenente la clausola abusiva, una volta che questa sia intesa come originariamente nulla ed improduttiva di effetti, o meglio non vincolante, per restare alla sistematica del diritto comune europeo. La clausola implicita, in questo caso, mancando il diritto dispositivo, dovrebbe attuare quanto le parti avrebbero concordato se avessero disciplinato il punto rilevante senza l’abuso di superiorità informativa da parte del professionista, e dunque in modo coerente a quella che sarebbe stata la corretta esplicazione dell’autonomia privata (si consideri che, mentre la clausola abusiva è apposta in violazione della buona fede, l’esistenza della clausola aggiuntiva implicita è presunta, alla stregua dell’art. 68, tenuto conto, fra l’altro, del requisito della buona fede e della correttezza). È evidente che il rimedio della clausola contrattuale implicita riaprirebbe la porta all’integrazione giudiziale del contratto, porta che la Corte di giustizia aveva chiuso ritenendo contraria alla tutela del consumatore la restrizione conservativa della clausola.
1 Sulla proposta di regolamento per un “Diritto comune europeo della vendita” si rinvia, anche per ciò che concerne il percorso di formazione della proposta, a Castronovo, C., Sulla proposta di regolamento relativo a un diritto comune europeo della vendita, in Europa e dir. priv., 2012, 289 ss.; D’Amico, G., Direttiva sui diritti del consumatore e Regolamento sul Diritto comune europeo della vendita: quale strategia dell’Unione europea in materia di armonizzazione?, in Contratti, 2012, 611 ss.; Stanzione, P., Il regolamento di Diritto comune europeo della vendita, ibidem, 624 ss.; Sirena, P., Diritto comune europeo della vendita vs. Regolamento di Roma I: quale futuro per il diritto europeo dei contratti?, ibidem, 634 ss.
2 Così Mengoni, L., Problemi di integrazione della disciplina dei “contratti del consumatore” nel sistema del codice civile, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III, Obbligazioni e contratti, Milano 1998, 540 ss.
3 Tamponi, M., Liberalizzazioni, “terzo contratto” e tecnica legislativa, in Contratto e impr., 2013, 91 ss.
4 Per una rassegna della giurisprudenza della Corte di giustizia sulla rilevabilità d’ufficio, Valla, L., La nullità delle clausole vessatorie: le pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea e il confronto con le altre nullità di protezione, in Contratto e impr., 2011, 1373 ss.
5 Gentili, A., La “nullità di protezione”, in Europa e dir. priv., 2011, 91.
6 D’Amico, G., Nullità virtuale – Nullità di protezione (Variazioni sulla nullità), in Contratti, 2009, 742 ss.
7 Minervini, E., I contratti dei consumatori, in Tratt. Roppo, IV, Rimedi -1, Milano, 2006, 572 ss.
8 Scalisi, V., Il contratto in trasformazione. Invalidità e inefficacia nella transizione al diritto europeo, Milano, 2011, 401 ss.
9 Sui rimedi di carattere processuale nell’ordinamento italiano per consentire al consumatore di dedurre sulla questione dell’abusività della clausola, Senigaglia, R., Il problema del limite al potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di protezione, in Europa e dir. priv., 2010, 835 ss.
10 Castronovo, C., Profili della disciplina nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, in Europa e dir. priv., 1998, 39 ss. Nel senso della clausola abusiva quale “deroga irragionevole al diritto dispositivo”, Di Marzio, F., Contratto illecito e disciplina del mercato, Napoli, 2011, 237.
11 D’Adda, A., Giurisprudenza comunitaria e “massimo effetto utile per il consumatore”: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto. Commento a C. giust., 14.6.2012, C-618/10, Banco Español de Crédito SA c. Joaquín Calderón Camino, in Contratti, 2013, 26 ss.
12 De Nova, G., Nullità relativa, nullità parziale e clausole vessatorie non specificatamente approvate per iscritto, in Riv. dir. civ., 1976, II, 487 ss.
13 Pagliantini, S., L’integrazione del contratto tra Corte di giustizia e nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il segmentarsi dei rimedi, in Contratti, 2013, 412.
14 Di Marzio, F., Contratto illecito, cit., 229.
15 Si veda, ad esempio, Valla, L., La nullità delle clausole vessatorie, cit., 1407 ss.