Le novità nel giudizio di cassazione
Il saggio prende in considerazione le recenti riforme (introdotte, da ultimo, anche con il d.l. 22 .6. 2012, n. 83) che hanno riguardato la Corte di cassazione, sottolineando in modo particolare che esse hanno modificato sotto vari profili la disciplina del procedimento presso la Corte e le sue modalità di decisione dei ricorsi, ma mostrano limiti rilevanti dovuti essenzialmente a ciò che si dovrebbe fare per realizzare un modello di corte suprema in linea con ciò che è accaduto in altri ordinamenti. Si mostra in particolare, da un lato, come tali riforme siano finalizzate a far sì che la Corte pronunci un numero assai maggiore di “principi di diritto” rispetto al passato, sulla base di una concezione discutibile e onnipervasiva della cd. nomofilachia; dall’altro lato, si mostra come tali riforme non siano in grado di porre in essere la vera fondamentale riforma di cui vi è grande bisogno, ossia una radicale riduzione del numero delle decisioni che la Corte deve prendere. In sostanza, si rimane a mezza strada tra il modello tradizionale della Corte di cassazione e il modello moderno delle “corti del precedente”.
La situazione attuale in cui si trova la Corte di cassazione è segnata soprattutto da tre recenti interventi legislativi che hanno ritoccato in più punti ed in modo rilevante la disciplina precedente: il primo intervento è stato effettuato dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, che ha modificato gli artt. 360, 361, 363, 366, 369, n. 4, 374, 375 nn. 2-5, 384, ed ha introdotto gli artt. 366 bis, 380 bis.e ter; il secondo intervento è stato effettuato con la l. 18.6.2009, n. 69, che ha introdotto l’art. 360 bis, ha modificato l’art. 375, n. 1 e 5, l’art. 376 e l’art. 380 bis, e ha abrogato l’art. 366 bis.e l’art. 385, co. 3; il terzo intervento è stato effettuato con l’art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito in l. 7.8.2012, n. 134, con cui si è modificato l’art. 360, n. 5. Dall’insieme di questi interventi normativi emerge un quadro complesso e largamente rinnovato, di cui si darà conto nelle pagine che seguono.
Nel corso della sua lunga vita, iniziata con l’unificazione del Regno ma anche prima in vari Stati preunitari, la Corte di cassazione non è rimasta sempre uguale a se stessa: al contrario, è passata attraverso varie fasi di trasformazione, lungo un percorso complicato e non sempre coerente, che – a quanto si può intuire – non è ancora terminato. Scopo di queste pagine non è di svolgere una dettagliata analisi storica delle vicende della Corte dalle sue origini ai nostri giorni, ma di mettere in evidenza due aspetti rilevanti di queste vicende: da un lato – appunto – le fasi salienti di questa trasformazione; dall’altro il fatto che essa appare – nel momento attuale – quanto mai incerta, collocandosi ora la Corte in una sorta di terra di nessuno tra due (o più) modelli fondamentali di corti supreme, senza che si possa intravedere, nella mescolanza di aspetti eterogenei ed incoerenti che essa presenta, una direzione abbastanza univoca nella quale la prossima e non evitabile fase di trasformazione potrà indirizzarsi.
La Corte di cassazione nasce al momento dell’unità d’Italia, in modo faticoso e problematico con la progressiva imposizione del modello piemontese, a sua volta fedelmente derivato dal modello fondamentale rappresentato dal Tribunal de cassation francese1. Tuttavia, è solo nella prima metà del ’900 che – in un processo durato vari decenni – si consolida quello che potrebbe definirsi come il “modello italiano” di Corte di cassazione.
Il primo momento di questo processo può essere individuato nel 1920, con l’apparizione della monumentale opera di Calamandrei che determinerà nei decenni a venire la prospettiva teorica e dogmatica nella quale l’istituto della Cassazione verrà collocato da processualisti e da legislatori, oltre che – come si dirà – dalla stessa giurisprudenza della Corte2. È con Calamandrei, infatti, che si definiscono con chiarezza le funzioni della Cassazione, ricondotte ai concetti fondamentali della nomofilachia e dell’uniformità della giurisprudenza.
Il secondo momento è costituito dalla unificazione della Cassazione realizzata nel 1923: solo la Cassazione unica, come scrive non a caso lo stesso Calamandrei, può realizzare in modo coerente ed effettivo queste due funzioni, e soprattutto quella che consiste nell’unificazione della giurisprudenza da parte di un solo organo giudiziario di vertice3.
Il terzo momento è costituito dal codice processuale del 1940: è infatti nella elencazione tassativa dei motivi di ricorso contenuta nell’art. 360, molto più sintetica e precisa di quella che era contenuta nell’art. 517 del codice del 1865, che si definisce il ruolo della Corte come giudice di mera legittimità. In questo modo viene codificata con precisione l’area entro la quale la Corte esercita la sua funzione nomofilattica. Inoltre, nell’art. 374, co. 2, si specifica che la funzione di unificazione della giurisprudenza della stessa Corte viene affidata alle Sezioni Unite.
Il medesimo modello di corte viene poi ulteriormente codificato nell’art. 65 della legge del ’41 sull’ordinamento giudiziario, nel quale la Corte di cassazione viene definita come «organo supremo della giustizia», la cui funzione consiste essenzialmente nell’assicurare «l’esatta osservanza e uniforme interpretazione della legge» oltre che la «unità del diritto oggettivo nazionale». Il riferimento alla «esatta osservanza» della legge riflette evidentemente una concezione veteropositivista dell’interpretazione, così come il «diritto oggettivo nazionale», nel quale viene aggiunto un tocco di nazionalismo caratteristico dell’epoca4. È chiaro tuttavia che la norma fa propria, nella sostanza, la teoria di Calamandrei intorno alle funzioni che spettano alla Corte di cassazione.
Infine, il modello italiano si consolida definitivamente, sul piano normativo, nel 1948 con l’art. 111 co. 2, (ora co. 7) della Costituzione, nel quale si prevede la possibilità del ricorso in Cassazione «per violazione di legge» contro tutte le sentenze.
Attraverso queste vicende si fissa in modo chiaro un modello di Corte di cassazione che è sostanzialmente quello che Calamandrei aveva individuato nel 1920: una corte suprema unica collocata al vertice del sistema giudiziario, con il compito di assicurare l’osservanza della legge intervenendo contro le sue violazioni commesse dai giudici inferiori, così realizzando in modo integrale e completo la funzione di nomofilachia, ma limitando il proprio controllo ai profili di legalità sostanziale e processuale, senza incidere sul merito delle controversie e soprattutto senza decidere in alcun modo sui fatti che a tali controversie avessero dato origine. È utile notare che il n. 5 dell’art. 360, che riguarda il controllo sulla motivazione e quindi soprattutto della giustificazione del giudizio di fatto, viene introdotto solo nel 1950, recependo una giurisprudenza della Cassazione che era iniziata sotto il codice del ’65 e correggendo la dizione contenuta nel codice del ’40, ma comunque con l’intenzione di limitare il ruolo della corte al controllo sulla correttezza logica del ragionamento del giudice, e non sul suo contenuto5.
2.1 Verso la terza istanza
È noto che l’imposizione in tutto il territorio nazionale unificato del “modello a cassazione” segnò la fine dei sistemi che si ispiravano al “modello della terza istanza”. Tuttavia l’idea che la corte suprema fosse o dovesse essere soprattutto l’organo di una istanza finale di giustizia sul caso concreto non venne mai meno, ed anzi trovò manifestazioni rilevanti già nella prassi anteriore al codice del ’40. Però, e quasi paradossalmente, questa idea emerge nella prassi, e poi a livello normativo, proprio dopo che – come si è detto poc’anzi – si è fissato il modello della Cassazione come supremo organo di controllo della legittimità sostanziale e processuale.
Questo modello, in realtà, non trova attuazione nella giurisprudenza della stessa Corte di cassazione. Sotto questo aspetto un momento importante può essere individuato nel 1953, quando la famosa sentenza n. 2593 delle Sezioni Unite stabilisce – dando origine ad una giurisprudenza fluviale che applicò in modo sistematico e coerente lo stesso criterio – l’interpretazione del termine «sentenze» contenuto nell’art. 111, co. 2, della Costituzione affermando che esso significa «sentenze in senso sostanziale». Successivamente questa interpretazione viene confermata da una quantità di decisioni della Corte relative ad un ampio numero di fattispecie particolari che qui non mette conto di elencare: basti dire sintenticamente che la «sentenza in senso sostanziale» è ogni provvedimento, emanato in qualunque forma, che decida o incida su una situazione di diritto sostanziale. In questo modo si escludono almeno due interpretazioni possibili della norma costituzionale: si esclude, da un lato, che essa si riferisca solo ai provvedimenti pronunciati in forma di sentenza, il che avrebbe drasticamente ridotto il suo campo di applicazione. Dall’altro lato, non si prende neppure in considerazione l’ipotesi che la norma assicuri solo la possibilità del ricorso in cassazione (escludendo l’eventualità che esso sia sottoposto – come accade ad esempio in Germania – ad una autorizzazione preventiva): si dà per certo, infatti, che la garanzia costituzionale assicuri il diritto di ottenere in ogni caso una decisione sul merito del ricorso. In sostanza, l’interpretazione che la Corte accoglie estende in misura rilevantissima l’ambito del potere di controllo che essa esercita, configurandolo in qualsiasi situazione specifica in cui una pronuncia investe in qualche modo un diritto, ed implica che in tutte queste ipotesi la Corte possa e debba entrare nel merito dei motivi di impugnazione. Inoltre, si afferma (e questa soluzione sarà codificata dal legislatore nel 2006) che la «violazione di legge» di cui parla la norma costituzionale include in realtà tutti i motivi di ricorso indicati nell’art. 360. Così il controllo che la Corte esercita diventa completo ed onnicomprensivo: nessuna violazione di legge sfugge alla verifica di legittimità che la Cassazione svolge attraverso il ricorso ordinario, o attraverso il ricorso “straordinario” che è stato costruito proprio interpretando nella maniera più estensiva possibile il co. 2 dell’art. 111 della Costituzione.
Parallelo allo svolgersi di questa vicenda interpretativa è l’inclinarsi della prassi della Cassazione verso quella che è stata definita come la tutela dello jus litigatoris, a scapito della tutela dello jus constitutionis. Questa distinzione, entrata ormai da tempo nella vasta letteratura che si occupa del modo come la Corte opera in concreto, indica che essa interpreta la propria funzione essenzialmente come ultima istanza di giustizia del caso particolare, modellando le proprie decisioni sulla caratteristiche specifiche della singola controversia, ed operando – di conseguenza – un controllo di merito sulla giustizia della decisione nel singolo caso, piuttosto che una verifica – in termini generali – della «esatta osservanza della legge», ossia della corretta interpretazione della norma applicata dal giudice del merito. Mentre nel modello tradizionale il giudizio di merito veniva riservato essenzialmente al giudice di rinvio, dovendo la Corte limitarsi a svolgere una funzione rescindente, diventa sempre più evidente che essa, sotto l’apparenza di un sindacato di mera legittimità, mira in realtà a decidere nel merito la controversia, e a piegare in questa direzione l’interpretazione delle norme a cui fa riferimento.
Questa tendenza, che non era nuova nel passato ma che negli ultimi decenni si è riscontrata con evidenza sempre maggiore, si è – per così dire – intrecciata con un altro orientamento della giurisprudenza della Corte, evidente nel modo in cui essa interpreta e applica il n. 5 dell’art. 360 relativo al controllo sulla motivazione. Approfittando in qualche modo delle incertezze di una parte della dottrina, che addirittura nega la possibilità di un controllo puramente logico sulla motivazione della sentenza, la Cassazione si occupa in modo tutto sommato superficiale e riduttivo dei vizi logici della motivazione, individuando poche fattispecie (per di più talvolta definite in modo logicamente non appropriato), ma in compenso approfitta della possibilità che il ricorso per vizio di motivazione le dà di occuparsi dei fatti, per effettuare non di rado un vero e proprio controllo sul modo in cui il giudice del merito ha deciso sui fatti della causa, pur ribadendo in linea di principio che tale controllo non le è consentito.
Emerge dunque in modo abbastanza chiaro una sorta di irresistibile tendenza della Corte ad interpretare il proprio ruolo come orientato alla finale formulazione di una decisione di merito sull’intera controversia, e sulle circostanze specifiche di ogni singola situazione che viene sottoposta al suo giudizio, piuttosto che limitato – per così dire – alla verifica della esatta interpretazione e applicazione della legge.
Questa tendenza viene poi sostanzialmente codificata dal legislatore nel 1990, con la modificazione dell’art. 384 intesa a prevedere che la Corte, accogliendo il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (e quindi ora anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro) possa decidere la causa nel merito se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto6. In proposito sono opportune almeno due osservazioni. La prima è che in questo modo spetta alla stessa Corte la decisione se operare come corte di mera legittimità, il che comporterebbe una pronuncia di cassazione con rinvio, o come corte di terza istanza, il che consente di porre fine al processo con una sentenza di merito. Ecco dunque che si ammette la conversione della Corte di cassazione in un modello di corte suprema sostanzialmente diverso da quello che derivava dalla tradizione storica e dalla fase di fissazione del modello che si è sommariamente descritta in precedenza. Per così dire, l’ambiguità che da tempo si era rilevata nella interpretazione del proprio ruolo da parte della Corte si risolve, ma si risolve in modo curioso, ossia configurando un organo che è al contempo giudice della mera legalità e giudice del merito, a seconda delle circostanze. Tuttavia queste circostanze – e questa è la seconda osservazione – non vengono individuate a priori con una norma generale, ma vengono apprezzate di volta in volta dalla stessa Corte, che in ogni caso concreto “decide come decidere” sul ricorso. Questa decisione, peraltro, viene presa dalla stessa Corte prendendo in considerazione i fatti così come sono stati accertati dal giudice di merito. Vero è che la Corte non ripete e non può modificare direttamente questo accertamento, ma essa deve comunque valutare se occorre o se non occorre un nuovo accertamento, il che implica comunque un giudizio sui fatti della causa.
2.2 Il principio di diritto
Nel d.lgs. n. 40/2006 una particolare concezione della nomofilachia7 trova attuazione in varie norme che vale la pena di prendere in considerazione, e si fonda su uno strumento che il legislatore ritiene evidentemente essenziale, ossia il principio di diritto.
L’istituto è ben noto, trattandosi della regola di giudizio che la Corte di cassazione in passato doveva enunciare allo scopo di determinare la decisione in diritto del giudice di rinvio (art. 384) o di qualunque altro giudice che fosse chiamato ad occuparsi della stessa causa a seguito dell’estinzione del giudizio di rinvio (art. 393). È parimenti noto, d’altronde, che l’istituto era pressoché caduto in desuetudine, senza tuttavia che ciò causasse gravi inconvenienti, a causa della diffusa disapplicazione dell’art. 143 disp. att. c.p.c., che richiede alla Corte di «enunciare specificamente» nella sentenza il principio di diritto8. Il recente legislatore dà invece luogo ad una reviviscenza del principio di diritto, ed anzi ad una sua esaltazione, facendone il cardine di una pretesa rinnovata funzione nomofilattica della Corte di cassazione.
Il decreto in oggetto prevedeva, introducendo un nuovo art. 366 bis, che il ricorrente concludesse l’illustrazione di ciascun motivo di ricorso con la formulazione di un «quesito di diritto»9. Tale formulazione era prevista «a pena di inammissibilità»: in proposito la Corte avrebbe dovuto provvedere in camera di consiglio, come previsto dal rinnovato art. 375, n. 5. La formulazione del quesito di diritto costituiva dunque un onere il cui mancato adempimento era fortemente sanzionato. Si trattava di una disposizione da valutare non negativamente, poiché avrebbe potuto indurre i ricorrenti ad essere più chiari e precisi nella formulazione dei motivi di ricorso. Tuttavia l’esito applicativo di questa norma fu immediatamente negativo, e diede addirittura luogo ad una complessa giurisprudenza nella quale si tentava di definire quali dovessero essere le condizioni per una corretta formulazione dei quesiti. Di conseguenza, il legislatore tornò rapidamente sui suoi passi e con la l. n. 69/2009 cancellò il neonato art. 366 bis10.
Eliminata la formulazione necessaria dei quesiti di diritto, rimane tuttavia stabilito che la Corte deve o può enunciare principi di diritto in numerose occasioni. Ciò accade anzitutto quando la Corte decide sul ricorso ex art. 360, n. 3, per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed ora anche per violazione o falsa applicazione di contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro. Secondo il nuovo art. 384, riformato con lo stesso decreto n. 40 del 2006, infatti, il principio di diritto va enunciato non solo quando la Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio (come accadeva in precedenza), ma tutte le volte in cui «decide il ricorso», ossia anche quando lo rigetta e non cassa la sentenza. È chiaro allora che la funzione del principio di diritto non è più soltanto quella di indirizzare la decisione del giudice di rinvio eliminando la decisione errata dal giudice di merito e formulando la corretta interpretazione della norma. La funzione del principio di diritto diventa anche (o soltanto, nelle ipotesi di rigetto del ricorso e di conferma della sentenza impugnata) quella di rendere manifesta l’opinione della Corte sulla questione decisa, pur quando tale opinione rimane priva di effetti sul caso concreto11.
La glorificazione del principio di diritto emerge anche da un altro aspetto del nuovo art. 384, ove si dispone che la Corte enunci il principio anche quando «decidendo su altri motivi di ricorso», ossia accogliendo o respingendo il ricorso fondato sui motivi indicati nei nn. 1, 2, 4 e 5 dell’art. 360, «risolve una questione di diritto di particolare importanza»12. In tal modo si prevede che la Corte enunci principi di diritto anche su questioni processuali, se esse sono di particolare importanza: vi è qui evidentemente una notevole estensione delle ipotesi in cui il principio di diritto deve essere enunciato. In passato, infatti, esso poteva riguardare solo questioni relative alla violazione o falsa applicazione delle norme di diritto sostanziale (e solo nel caso in cui tali norme risultassero violate) mentre ora esso può essere enunciato anche quando la Corte decide questioni processuali, ed anche nel caso in cui rigetti il ricorso fondato su motivi di carattere processuale.
La norma che attribuisce maggiore enfasi al principio di diritto è tuttavia la nuova versione dell’art. 363, pure introdotta nel 200613. Com’è noto, in passato vi si prevedeva un istituto da tempo sostanzialmente disapplicato, ossia il ricorso nell’interesse della legge, che era ispirato ad astratte finalità nomofilattiche ma che non ha mai svolto un ruolo significativo nel funzionamento della Corte di cassazione. Invece di abolirlo, come sarebbe stato ragionevole, il legislatore ha deciso di farlo rivivere, naturalmente dopo un’operazione di restyling che lo rendesse più coerente con l’ispirazione generale della riforma. Non si parla più, quindi, di ricorso nell’interesse della legge, ma di «principio di diritto nell’interesse della legge»: formulazione curiosa e ridondante, dato che è difficile immaginare un principio di diritto che sia contro l’interesse della legge. Forse, però, si vuol solo dire che il principio di diritto non viene formulato nell’interesse delle parti: infatti la norma – così recependo la versione preesistente dell’art. 363 – fa riferimento all’iniziativa del procuratore generale presso la Corte di cassazione, il quale può chiedere che la Corte «enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi». Il mutamento rispetto al vecchio testo dell’art. 363 è rilevante: il ricorso nell’interesse della legge era infatti finalizzato alla cassazione della sentenza viziata da illegittimità (pur senza effetti per le parti), ossia all’eliminazione di una decisione non conforme a diritto, naturalmente qualora la Corte avesse ritenuto fondato il ricorso. Ora, invece, la sentenza non viene più cassata: la Corte si limita a enunciare il principio di diritto, probabilmente anche nel caso in cui ritenga il ricorso infondato (benché si tratti del principio di diritto «al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi»).
L’aspetto più rilevante del nuovo art. 363 attiene comunque all’individuazione delle fattispecie nelle quali il principio di diritto può essere enunciato nell’interesse della legge. L’ipotesi in cui le parti non abbiano tempestivamente proposto il ricorso, o vi abbiano rinunciato, è ovvia, dato che in caso contrario l’iniziativa del procuratore generale sarebbe superflua. Assai meno ovvia è la nuova fattispecie introdotta nell’art. 363, che trova applicazione quando «il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile»14. Questa formulazione allude con ogni evidenza a tutti quei provvedimenti per i quali si esclude anche la possibilità del ricorso “straordinario” ex art. 111, co. 7, della Costituzione, in quanto non sono idonei – secondo il criterio da tempo consolidato – a decidere o a incidere su diritti soggettivi con possibile efficacia di giudicato. Vengono allora alla mente intere categorie di provvedimenti non impugnabili in Cassazione, né in altri modi, tra cui spiccano i provvedimenti cautelari, i provvedimenti anticipatori e i provvedimenti di volontaria giurisdizione. Non occorre tuttavia affannarsi ad individuare specificamente di quali provvedimenti si tratti, poiché la categoria è definita in termini negativi, e quindi include qualunque provvedimento non ricorribile in cassazione e non altrimenti impugnabile.
La novità è davvero rilevante, poiché viene attribuito alla Corte di cassazione il potere di pronunciarsi in ordine a provvedimenti – e quindi su questioni di diritto – che in passato erano completamente sottratti al suo controllo, e che lo sono tuttora, salva l’eventualità di una iniziativa del procuratore generale. In proposito sembrano legittime opinioni diverse. Da un lato, può non essere infondata la preoccupazione che gravi e frequenti illegalità vengano commesse nell’ambito della tutela cautelare ed anticipatoria e della giurisdizione volontaria. Non a caso, infatti, la pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge viene richiesta soprattutto a proposito di provvedimenti cautelari. Tuttavia, sarebbe stato forse più opportuno rendere ricorribili in cassazione i relativi provvedimenti, perché in tal modo le parti avrebbero potuto fruire degli effetti della cassazione delle decisioni illegittime che le avessero colpite, mentre il principio di diritto enunciato nell’interesse della legge non ha alcun effetto sul provvedimento del giudice di merito (art. 363, ult. co.). In tal modo si sarebbe aperta la via ad un numero probabilmente assai elevato di ricorsi, ma almeno si sarebbe assicurata alle parti una tutela effettiva contro le violazioni di legge commesse in loro danno dai giudici della cautela, dell’anticipazione o della giurisdizione volontaria. Appare comunque curioso un meccanismo che sembra finalizzato a porre rimedio a gravi violazioni di legge, ma che non è in grado di produrre effetti positivi per le parti che hanno subito direttamente queste violazioni. D’altra parte, può suscitare perplessità questa concezione “pervasiva” della funzione della Cassazione, la quale dovrebbe potersi pronunciare su tutto ciò che accade anche negli angoli più riposti del sistema giurisdizionale, ed anche su questioni e provvedimenti che per loro natura sono ordinariamente sottratti al controllo della Corte. La perplessità non viene eliminata, ed anzi potrebbe aumentare, considerando che si tratta di un controllo meramente eventuale che dipende esclusivamente dalle scelte e dagli orientamenti del procuratore generale, e che comunque l’intervento della Cassazione sarebbe privo di effetti diretti sulla singola controversia nella quale l’illegittimità ha avuto luogo.
L’intenzione del legislatore di indurre comunque la Corte a “dire la sua” emerge anche dal nuovo co. 4 dell’art. 363, pure introdotto dal decreto n. 40 del 2006, ove si prevede che la Corte enunci d’ufficio il principio di diritto anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile, se ritiene che la questione decisa sia di particolare importanza. Un’interpretazione ragionevole di questa norma porterebbe a ritenere che la “questione decisa” di cui si parla sia soltanto quella che ha determinato l’inammissibilità del ricorso, dato che se dichiara il ricorso inammissibile la Corte non affronta altre questioni, né di merito né di rito, e quindi non può pronunciarsi, e non può enunciare principi di diritto, su tali questioni15. Si tratta quindi soltanto di questioni attinenti alla mancanza dei motivi previsti dall’art. 360. Tuttavia non è facile immaginare quali questioni di particolare importanza, tali da meritare l’enunciazione di un principio di diritto, possano sorgere in fattispecie così specifiche e limitate.
Il legislatore del 2006 ha dunque inteso far sì che la Corte di cassazione enunci il principio di diritto in una quantità di occasioni: può accadere che vengano enunciati vari principi di diritto nella stessa sentenza, se vari erano i motivi di ricorso (anche sui motivi che vengono respinti, e possibilmente anche su quelli inammissibili), ed inoltre che si enuncino principi di diritto su questioni di merito che la Corte decide in senso conforme alla sentenza impugnata, su questioni di carattere processuale, e addirittura su materie non ricorribili in cassazione. L’immagine che viene alla mente è quella di una Corte che tendenzialmente enuncia principi di diritto su tutto, non lasciando che alcuna questione rimanga priva del “suo” principio di diritto. Dunque l’intero universo delle questioni possibili, sostanziali e processuali, dovrebbe essere coperto da una fittissima rete di principi di diritto, teoricamente senza che vengano lasciate lacune di sorta: in sostanza, la Corte di cassazione dovrebbe poter esercitare la sua funzione di nomofilachia in ogni occasione nella quale si verifica l’applicazione di una norma giuridica. Si tratta di un’immagine quasi da incubo. Ma sembra che questa sia la situazione ideale verso la quale il legislatore si è orientato.
In proposito vale tuttavia la pena di svolgere qualche considerazione. Anzitutto, è da prevedere un consistente incremento della quantità dei principi di diritto che la Corte dovrà enunciare, rispetto al passato: uno per ogni motivo di impugnazione, con l’aggiunta delle varie situazioni nuove che si sono già indicate. Una conseguenza facilmente prevedibile di questo consistente incremento quantitativo delle pronunce della Corte è un aggravamento degli inconvenienti che notoriamente affliggono la sua giurisprudenza: incoerenza, contraddittorietà, variabilità ingiustificata, imprevedibilità16. Il fatto che si tratti di principi di diritto invece che – come per il passato – di sentenze delle quali il principio di diritto non veniva espressamente enunciato, è irrilevante. Anzi: in molti casi si avranno più principi di diritto per ogni sentenza, e quindi il numero dei principi di diritto supererà abbondantemente quello delle decisioni della Corte. Tali inconvenienti, che dipendono essenzialmente dalla quantità eccessiva delle pronunce che la Corte è chiamata ad emanare, e dalla conseguente difficoltà di assicurare un minimo di ordine e di coerenza in una giurisprudenza pletorica e alluvionale, sono dunque destinati ad aggravarsi. Quindi non è facile intendere come il legislatore possa aver pensato che incrementando significativamente il numero dei principi di diritto la Corte potrebbe svolgere meglio la sua funzione nomofilattica.
Un altro problema di notevole rilievo riguarda la natura e l’efficacia del principio di diritto. Quanto alla natura, non vi è nulla di nuovo: si tratta sempre di una enunciazione del significato che la Cassazione ritiene essere proprio della norma di cui si ipotizza l’applicazione. Siffatta attribuzione di significato avviene con riferimento alla fattispecie concreta che è oggetto della controversia, ma si tratta pur sempre di una enunciazione “di principio”, ossia di una riformulazione della norma espressa in termini generali, non di una applicazione diretta della norma ai fatti del caso concreto. Si potrebbe anche parlare di una “concretizzazione” della norma, ma una norma “concretizzata” è pur sempre una norma riferibile ad una generalità di casi concreti. In ogni caso, dunque, si tratta del frutto dell’interpretazione che la Corte effettua sulla norma, sia pure con riferimento alla singola fattispecie che è oggetto di decisione. Sotto questo profilo, l’esercizio effettivo della funzione di nomofilachia consisterebbe nella emanazione, da parte della Corte di cassazione, di una rilevante quantità di enunciazioni relative al significato delle norme che vengono in rilievo nei singoli casi. In molte ipotesi – ossia quelle che giungono più spesso davanti alla Corte – si avrebbe una pluralità di enunciazioni interpretative riferite alle stesse norme, dato che, almeno delle ipotesi di violazione o falsa applicazione di norme di legge o di contratti collettivi, la Corte deve in ogni caso enunciare il principio di diritto, sia che accolga sia che respinga il ricorso. Si potrebbe addirittura pensare che la Corte eserciti in modo più intenso la sua funzione di nomofilachia proprio quando enuncia numerosi principi di diritto in riferimento alla stessa norma, a poco rilevando la prevedibile eventualità che essi abbiano contenuti uniformi e ripetitivi ovvero diversi o contraddittori da caso a caso.
2.3 Le “corti del precedente”
Mentre si svolge la fase evolutiva (o meglio: involutiva) che si è appena tentato di descrivere, si aggrava sino a raggiungere proporzioni abnormi la crisi di funzionalità della Corte di cassazione: crisi che già si manifestava negli anni ’60 ma che aumenta rapidamente nei decenni successivi e che continua sino ad oggi. Questa crisi si caratterizza per molti fattori, ma due tra essi appaiono particolarmente rilevanti. Il primo fattore è l’aumento quantitativo dei ricorsi che vengono proposti e – di conseguenza – delle sentenze che la Corte pronuncia ogni anno17. Quando si superano le 30.000 sentenze all’anno è chiaro che ci si trova di fronte ad una sorta di monstrum che non ha paragoni in altri ordinamenti, nel quale la funzione di tutela della legalità sfuma in un pulviscolo di decisioni ad hoc, che nella migliore delle ipotesi, e con tempi lunghi, realizzano la tutela dello jus litigatoris nei singoli casi concreti, ma certamente non attuano la funzione consistente nell’assicurare l’esatta interpretazione della legge. Il secondo fattore – che è diretta conseguenza del primo – consiste nella frequente mancanza di coerenza nella giurisprudenza della stessa Corte (e quindi nell’incapacità di rendere uniforme la giurisprudenza dei giudici inferiori). Troppo spesso questa giurisprudenza è – come già si è accennato – contraddittoria, incerta, variabile e confusa, sicché anche la funzione consistente nel rendere uniforme l’interpretazione della legge viene sostanzialmente frustrata, anzitutto per quanto attiene all’interpretazione della legge da parte della stessa Corte.
Nella perdurante inerzia del legislatore, questa situazione viene più volte denunciata dalla dottrina, che non solo analizza i gravi inconvenienti che ne derivano, ma suggerisce riforme radicali che tengano conto di un modello alternativo di corte suprema. Questo modello esiste da sempre negli ordinamenti di common law ma si va realizzando – sia pure con modalità diverse – anche in vari ordinamenti di civil law. Il modello si caratterizza in quanto la funzione preminente delle corti supreme viene individuata nella creazione e nel governo di precedenti destinati a stabilire l’interpretazione appropriata delle norme di legge e – soprattutto – ad orientare in senso possibilmente uniforme l’applicazione di queste norme da parte dei giudici successivi: si può parlare sinteticamente di “corti del precedente” per identificare in termini molto generali le corti che svolgono questa funzione18.
L’idea che la Corte di cassazione dovesse operare anche come corte del precedente non era in realtà estranea al “modello italiano”: già Calamandrei aveva chiarito nel 1920 che la nomofilachia avrebbe dovuto realizzarsi attraverso decisioni capaci di indirizzare in senso uniforme l’interpretazione della legge nella giurisprudenza successiva19, e va nella stessa direzione il riferimento alla «uniforme interpretazione della legge» contenuto nell’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario. Queste indicazioni non possono però essere seguite nella situazione di crisi che si è richiamata poc’anzi: in una giurisprudenza pletorica e contraddittoria è spesso difficile, e non di rado impossibile, scoprire decisioni alle quali si possa attribuire la qualità di precedenti. Inoltre, l’uso e l’abuso delle massime, che non sempre esprimono la vera ratio decidendi del caso, fanno della giurisprudenza nostrana – e dell’uso che ne viene fatto nella prassi – qualcosa che non è neppure lontanamente paragonabile a quanto accade nei sistemi in cui si applica il “vero” precedente, fondato essenzialmente sull’analogia tra i fatti del caso anteriormente deciso e quelli del caso che dev’essere deciso successivamente20.
Vi è peraltro un ulteriore elemento che costituisce un carattere essenziale delle vere corti del precedente, ossia il numero limitato di casi che queste corti decidono nel merito. Vale per queste corti la regola per cui l’efficacia del precedente come regola destinata ad essere applicata nei casi futuri è inversamente proporzionale al numero dei precedenti: migliaia di precedenti possono talvolta costituire una “giurisprudenza”, ma il valore di ognuno di essi è necessariamente limitato, e non è neppure determinabile, mentre pochi precedenti – o addirittura un solo precedente – possono avere una forza tale da orientare davvero la giurisprudenza successiva.
Appare dunque evidente che il modello delle corti del precedente si fonda su meccanismi di selezione dei ricorsi capaci di ridurre drasticamente – rispetto al modello italiano – il numero delle decisioni che la Corte Suprema deve rendere ogni anno. Gli esempi canonici sono quelli della Corte Suprema degli Stati Uniti che – essendo anche corte costituzionale – pronuncia in tutte le materie meno di 100 sentenze all’anno, e la Corte Suprema inglese (prima la House of Lords e ora la Supreme Court di recente istituzione) che ne pronuncia circa 60. Nell’Europa continentale l’esempio più significativo – e più direttamente riferibile per contrasto alla situazione italiana – è quello del Bundesgerichtshof tedesco, che pronuncia annualmente poco più di 3.000 sentenze civili. Si tratta di un numero elevato se rapportato a quelli delle corti di common law, ma questo numero è modesto se si considera che esso costituisce poco più del 10% delle sentenze normalmente pronunciate dalla nostra Corte di cassazione.
Si intende facilmente che nelle corti del precedente il problema centrale è quello dei criteri secondo i quali vengono selezionati i casi destinati ad essere decisi. Tali criteri possono essere molto diversi nei singoli casi. Ad esempio, la Corte Suprema degli Stati Uniti dispone di una discrezionalità assoluta – sicché non motiva la decisione con cui rifiuta il certiorari – ma l’analisi della sua giurisprudenza in proposito mostra che la Corte accetta o rifiuta di decidere in funzione dell’opportunità di creare o modificare un precedente, eventualmente risolvendo conflitti emersi nella giurisprudenza delle corti inferiori21. Particolarmente interessante è l’esempio tedesco, dove il ricorso alla Corte Suprema è autorizzato (dalla corte d’appello o dalla stessa corte di revisione) solo quando esso solleva una questione di diritto di fondamentale importanza e la relativa decisione può contribuire alla futura evoluzione del diritto. Anche in questo caso è chiaro che la selezione avviene tenendo presente quello che noi chiameremmo jus constitutionis e considerando l’opportunità che tali questioni vengano decise in modo tale da costituire precedenti capaci di orientare la giurisprudenza successiva22. È anche chiaro, peraltro, che criteri di questo genere non sono finalizzati soltanto ad una riduzione quantitativa del numero dei ricorsi che vengono decisi. Poiché la funzione di queste corti è chiaramente orientata nel senso di partecipare attivamente, con le loro sentenze e con l’influenza che esse possono avere sulle decisioni future, alla evoluzione del diritto, il criterio di selezione – come è evidente nel caso tedesco – è essenzialmente qualitativo, essendo fondato sulla natura e l’importanza della questione di diritto che la corte considera opportuno risolvere con una propria decisione. Ciò che rileva in queste corti, infatti, non è solo la necessità che esse affrontino un numero limitato di casi, ma soprattutto la possibilità che esse decidano solo i casi nei quali la loro decisione ha una proiezione futura sulla soluzione di questioni particolarmente rilevanti in prospettiva generale.
L’indifferenza del legislatore verso i gravi problemi che si sono richiamati più sopra cessa finalmente nel 2009, quando si affronta il problema di come ridurre il carico di lavoro della Corte di cassazione “filtrando” i ricorsi che ad essa vengono proposti. Dopo varie incertezze, dovute probabilmente alla mancanza di idee chiare sul da farsi, la l. n. 69 introduce un sistema di selezione dei ricorsi che si articola essenzialmente in due punti: a) l’introduzione di criteri di «inammissibilità» dei ricorsi che debbono essere applicati preliminarmente (art. 360 bis); b) la creazione di una «apposita sezione» della Corte (art. 386), che ha il compito di svolgere la selezione preliminare dei ricorsi in base a questi criteri23.
Queste norme, e in particolare l’art. 360 bis, hanno immediatamente sollevato critiche dovute soprattutto alla loro discutibile formulazione letterale, che ha subito dato luogo ad interpretazioni diverse e contrastanti da parte della dottrina. Non è il caso di approfondire qui l’analisi di tutti i problemi che ne sono derivati, ma è forse utile indicare le difficoltà più rilevanti che derivano dai criteri indicati nell’art. 360 bis.
Anzitutto, non appare infondato in linea generale il dubbio che l’introduzione di “filtri” all’ammissibilità dei ricorsi, presumibilmente finalizzata ad escludere la decisione nel merito in una quantità rilevanti di casi, sia in contrasto con la garanzia costituzionale del ricorso in Cassazione prevista dall’art. 111, co. 7, della Costituzione. Certamente, come già si è detto, una drastica riduzione del numero dei ricorsi che vengono decisi dalla Corte appare indispensabile, ma per giungere a questo risultato sarebbe stata opportuna – per non dire necessaria – l’eliminazione di tale garanzia, onde lasciare al legislatore ordinario il compito di modellare gli opportuni criteri di selezione. Si potrebbe dubitare dell’opportunità di eliminare questa garanzia, ma dev’essere chiaro che essa non viene attuata se vi sono ricorsi che vengono esclusi dall’esame del merito in base ad un “filtro” che non riguarda la loro validità formale ma la loro fondatezza nel merito.
In proposito problemi assai rilevanti attengono all’interpretazione del n. 1 del nuovo art. 360 bis, ove si prevede che il ricorso venga dichiarato inammissibile «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi da confermare o mutare l’orientamento della stessa». A parte ogni considerazione sulla formulazione contorta e linguisticamente infelice della norma, si può osservare (come fa ad esempio Cass., S.U., ord. 6.9.2010, n. 1905124, ossia la prima decisione a sezioni unite in argomento) che questa valutazione di inammissibilità si fonda in realtà su un giudizio relativo alla infondatezza del ricorso, o – più precisamente – dei motivi di ricorso. Si rileva infatti, in base al dettato letterale della norma, che il criterio in questione non prevede propriamente una ragione di inammissibilità in senso tecnico, ma – appunto – una decisione sul merito del ricorso, per quanto attiene in particolare alla capacità dei motivi in esso contenuti di indurre la Corte a decidere in proposito.
Rimane comunque dubbia la natura della selezione che secondo questo criterio verrebbe effettuata. Se si parla di “filtro” (come fa ad esempio la Cassazione nell’ordinanza ora citata), si vuole forse suggerire che la vera decisione di merito è quella che le sezioni ordinarie formuleranno sui ricorsi che la sezione speciale ha ammesso, mentre la valutazione di “non inammissibilità” non investirebbe davvero il contenuto della decisione impugnata, ma solo la consistenza dei motivi del ricorso. In questo caso, però, diventa difficile – se non impossibile – dimostrare che questo sistema non è in conflitto con la garanzia costituzionale del ricorso in Cassazione25.
Se invece si parla di «infondatezza» (come pure fa, con scarsa coerenza, la stessa ordinanza), allora si dice che la decisione della sezione speciale è in realtà un giudizio sul merito del ricorso. In tal caso si aggira forse l’obiezione di illegittimità costituzionale, ma allora si mette tra parentesi la funzione di filtro che il giudizio preliminare di inammissibilità dovrebbe svolgere. In altri termini: se si ammette che si tratti di un vero e proprio giudizio sul merito del ricorso, il solo effetto della riforma consisterebbe nel fatto che esso verrebbe formulato dalla sezione apposita26 invece che da una sezione semplice ordinaria, e il procedimento si svolgerebbe secondo quanto previsto dal nuovo art. 380 bis, ossia con modalità sostanzialmente analoghe a quelle del procedimento ordinario disciplinato dall’art. 379. Nella medesima prospettiva sorge però un ulteriore problema: se in via preliminare la sezione apposita ritiene che i motivi di ricorso non siano manifestamente infondati, con ciò valutandone il merito, e quindi ammette il ricorso, si avrà un nuovo procedimento assai simile a quello che ha già avuto luogo presso la sezione speciale, e si avrà infine una nuova decisione sul merito del ricorso (che potrà essere conforme o difforme rispetto a quella già formulata da questa sezione) da parte della sezione ordinaria alla quale il ricorso viene assegnato.
Al di là di problemi come questi, che comunque introducono complicazioni rilevanti nella stessa definizione della natura del meccanismo di selezione introdotto con la riforma, si può rilevare che il criterio di riferimento per la valutazione che la sezione speciale deve effettuare è costituito dalla «giurisprudenza della Corte». Alla base di una norma come questa si può forse – con una certa dose di buona volontà – avvertire l’intenzione del legislatore di fare della Corte di cassazione una sorta di corte del precedente, in qualche modo orientandola verso il modello di cui si è fatto cenno più sopra. Con un’interpretazione caritatevole della norma si potrebbe anche dire che essa tende a far sì che la Corte tuteli lo jus constitutionis nel momento in cui la sezione apposita decide se è il caso o non è il caso che la Corte modifichi o confermi la propria giurisprudenza, mentre lo jus litigatoris rimarrebbe irrilevante, potendo essere sacrificato da un giudizio di inammissibilità. Se così fosse, si potrebbe forse dare della riforma un giudizio positivo, pur con i limiti derivanti dalla discutibile formulazione della norma, e dal fatto che se la selezione preliminare sacrifica lo jus litigatoris risorge il dubbio circa la legittimità costituzionale della norma stessa.
Rimangono tuttavia due osservazioni critiche al riguardo. Da un lato, la norma presuppone l’esistenza di una giurisprudenza della Corte che meriti di essere confermata attraverso un giudizio di inammissibilità del ricorso. Di conseguenza il ricorso sarebbe necessariamente ammissibile tutte le volte in cui la Corte non si sia mai pronunciata sulla questione, ma anche tutte le volte in cui la Corte si è pronunciata – magari in un numero rilevante di casi – ma la sua giurisprudenza è contraddittoria, confusa o incoerente. In queste situazioni, infatti, può essere impossibile stabilire che cosa dice davvero la giurisprudenza della Corte (e il ricorso a criteri statistici, suggerito da taluno, è evidentemente inefficace, dato che una singola decisione difforme dalla maggioranza delle decisioni può essere in realtà un leading case o il segno di un revirement della Corte su quella questione). Poiché però – come tutti sanno – situazioni come queste sono assai frequenti, accadrà spesso che, in mancanza di una giurisprudenza abbastanza chiara e consolidata alla quale rapportare il provvedimento impugnato e in base alla quale valutare i motivi del ricorso, questo non potrà essere dichiarato inammissibile. Se questo è un filtro, allora è destinato a funzionare poco, ossia a determinare l’ammissibilità di numerosi ricorsi e ad escluderne in proporzione limitata il riesame nel merito. Se così fosse, ma il punto andrà verificato su tempi più lunghi in base alla effettiva applicazione della norma in oggetto, finirebbe con l’essere frustrata quella che sembrava essere la principale finalità perseguita dal legislatore del 2009, ossia – appunto – una sostanziale riduzione dei ricorsi destinati ad essere decisi nel merito in via ordinaria.
Va poi ulteriormente osservato che qui non si parla di “precedente” ma di “giurisprudenza”: la differenza non è irrilevante, poiché il precedente è – come già si è accennato – una decisione dotata di particolare forza persuasiva in virtù dell’analogia tra i fatti del caso già deciso e i fatti del caso da decidere, mentre la giurisprudenza è l’insieme delle decisioni su una medesima questione, insieme che – come si è detto – può essere confuso e contraddittorio, e quindi poco persuasivo, soprattutto quanto è costituito da un gruppo più o meno numeroso di massime prive di riferimento ai fatti dei casi decisi.
Dall’altro lato, va sottolineato che l’oggetto della valutazione è costituito dai motivi di ricorso e dalla conformità del provvedimento impugnato alla giurisprudenza – se esiste – della Corte. Ciò significa che tale valutazione non verte sulla natura e sull’importanza della questione di diritto che viene sollevata con il ricorso, e non verte se non in via indiretta – ossia solo quando i motivi di ricorso sono così ben formulati da mettere in dubbio la giurisprudenza della Corte – sulla opportunità di stabilire un nuovo precedente o di confermare tale giurisprudenza. In ogni caso, il ricorso va dichiarato ammissibile, e quindi viene rimesso ad una sezione ordinaria, indipendentemente dalla natura e dall’importanza della questione affrontata, tutte le volte in cui il provvedimento impugnato sia non conforme alla giurisprudenza della Corte. Si può fondatamente dubitare se una selezione di questo genere sia una vera selezione qualitativa come quella che viene posta in essere presso le corti del precedente di cui si è parlato più sopra. Ciò che qui si mira a realizzare, in effetti, non è un vero e proprio “governo dei precedenti” quanto la conformità delle decisioni di merito alla giurisprudenza – se esiste – della Corte di cassazione. Vi è dunque il rischio – ma il punto andrà pure verificato nel prossimo futuro su dati concreti – che la selezione sia puramente quantitativa, ossia venga orientata semplicemente alla riduzione del carico di lavoro delle sezioni ordinarie, ma sulla base di criteri formalistici o addirittura variabili e casuali.
3.1 Una Corte del giusto processo?
Il n. 2 dell’art. 360 bis.prevede che il ricorso venga dichiarato inammissibile se risulta «manifestamente infondata la censura relativa ai principi regolatori del giusto processo»27. Si tratta di una norma formulata in maniera singolarmente impropria, e non solo perché rinvia ad una nozione – come quella di «giusto processo» – che, malgrado la superflua consacrazione costituzionale e i cospicui sforzi definitori di molta dottrina, continua a rimanere ampiamente vaga e indeterminata (oltre che, probabilmente, inutile). Il vero problema che si è posto è, invero, di stabilire se vi sia e quale sia la coerenza di questa norma con la circostanza che i nn. 1, 2, 4 e 5 dell’art. 360 già stabiliscono quali sono i motivi di ricorso in cassazione per vizi in procedendo. Non è possibile esaminare qui nel dettaglio le varie opinioni che sono state espresse in proposito. La tesi che appare maggiormente fondata è comunque quella che esclude che si sia verificata una sorta di abrogazione implicita di queste norme, e che quindi il ricorso sia ammissibile nei casi da esse previsti indipendentemente dal se la norma processuale violata esprima o non esprima un principio del giusto processo. Se, inoltre, si ammettesse il ricorso solo nei casi di violazione di questi principi, si finirebbe per violare l’art. 111, co. 7, della Costituzione, che ammette in generale il ricorso per «violazione di legge». Sembra dunque che la violazione dei principi del giusto processo possa verificarsi come ipotesi autonoma, rispetto ai vizi processuali di cui parla l’art. 360, solo quando nell’applicazione di una norma si sia verificata una lesione di tali principi ma il relativo vizio non rientri nell’ampia categoria delle nullità processuali previste dal n. 4 dell’art. 36028. Si potrebbe pensare, ad esempio, al caso in cui il giudice abbia usato il potere discrezionale che gli viene riconosciuto dall’art. 209 c.p.c. in modo tale da comprimere eccessivamente o da elidere il diritto alla prova di una parte o di entrambe le parti.
È facile rilevare, tuttavia, che accogliendo questa interpretazione il campo di applicazione del n. 2 dell’art. 360 bis.viene ad essere fortemente circoscritto, e limitato a ipotesi non irrilevanti ma certamente non frequenti di violazione delle garanzie processuali.
3.2 Fine del controllo sulla motivazione?
La funzione della Corte di cassazione subisce una rilevante modificazione in ragione della l. 7.8.2012, n. 134, che ha convertito il d.l. 22.6.2012, n. 83. Questo decreto conteneva un art. 54, co. 1 lett. b), non modificato dalla legge di conversione, secondo il quale il n. 5 dell’art. 360 configura ora il ricorso in cassazione «per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». In proposito si può osservare in prima lettura che la “decisività” del fatto corrisponde all’identico requisito che già era previsto a proposito del controllo sulla motivazione, mentre la condizione che esso sia stato «oggetto di discussione» tra le parti equivale alla precedente previsione che il fatto in questione fosse «controverso» tra le parti.
Dunque la vera e sostanziale novità consiste nella previsione che il motivo di ricorso riguardi l’«omesso esame» di un fatto invece che il vizio di motivazione della decisione relativa a quel fatto. In proposito il legislatore ha ceduto alla ricorrente tentazione – illusoria, come si vedrà – di ridurre il carico di lavoro della Cassazione eliminando il ricorso relativo ai vizi di motivazione della sentenza impugnata.
In questo modo il legislatore compie in realtà – forse senza rendersene conto – un notevole salto all’indietro nella storia del problema. Dovrebbe esser noto, infatti, che di omesso esame di fatto decisivo parlava il n. 5 dell’art. 360 nella formulazione originaria del codice del ’40, mentre solo con la riforma del 1950 si parlò di vizi della motivazione, nel tentativo di eliminare le incertezze interpretative che erano subito sorte a proposito di che cosa costituisse un «omesso esame di fatto decisivo»29. Non è difficile prevedere che ora, nel vigore della norma che opera un rilevante “ritorno all’antico”, si ripropongano proprio gli stessi dubbi, con l’eventuale aggiunta di dubbi nuovi, che avevano provocato l’intervento del legislatore del ’50.
Va d’altronde sottolineato che l’intervento del nuovo legislatore è probabilmente destinato a non produrre alcun risultato significativo, se non quello di incrementare la già profonda confusione che esiste intorno al ruolo e al funzionamento della Corte di cassazione.
Il legislatore avrebbe dovuto considerare, infatti, che il controllo sulla motivazione fu inventato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione prima del 1940, in assenza di una norma equivalente all’art. 360, n. 5, ma in relazione all’art. 517, n. 2, del codice del ’65, che prevedeva il ricorso in Cassazione contro la sentenza che fosse nulla per mancanza di motivazione in base all’art. 361, n. 2, dello stesso codice30. Tenendo conto di ciò, si può essere facili profeti nel prevedere che la Corte di cassazione, memore della sua storia, continui a svolgere un controllo sulla esistenza, sufficienza e logicità della motivazione, anche in base alle norme attuali: basterà argomentare nel senso che il ricorso in cassazione è ammesso in base al n. 4 dell’art. 360 per nullità della sentenza, e che la sentenza è nulla se non contiene, in base all’attuale formulazione dell’art. 132, n. 4, «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione»31.
3.3 Conclusione
Nel periodo che si è preso in considerazione, che copre diversi decenni e giunge sino ai nostri giorni, la Corte di cassazione ha conosciuto vari cambiamenti che permettono di parlare di una vera e propria trasformazione rispetto al modello che si era consolidato nella prima metà del ’900. Non si è però trattato di una transizione chiara ed univoca da quel modello ad un diverso modello di corte suprema: la Cassazione continua ad essere la corte del controllo di legittimità che era nel modello originario, ma ha assunto chiari caratteri di una corte di terza istanza, che decide nel merito e non di rado riesamina – benché ciò non rientri nelle sue funzioni – anche il giudizio di fatto. La tutela dello jus constitutionis, che avrebbe dovuto essere la sua funzione primaria, si converte spesso nella tutela dello jus litigatoris, e sulla uniformità della giurisprudenza della stessa Corte prevale la varietà e l’incoerenza delle decisioni modellate sulle peculiarità dei singoli casi concreti. Anche quando, come accade con le riforme recenti, appare all’orizzonte il modello delle corti del precedente, questo modello non viene recepito con chiarezza in alternativa al modello originario: se ne deriva l’indicazione relativa alla necessità di una forte selezione dei ricorsi, ma le norme che dovrebbero realizzarla vengono formulate in modi tecnicamente infelici, tali da far dubitare della loro efficacia e da non assicurare una selezione qualitativa fondata sull’importanza delle questioni da decidere e su un effettivo “governo del precedente”.
D’altra parte, sembra evidente che la trasformazione della Corte, quale che sia la direzione che ha preso finora e che prenderà in futuro, sia ben lontana dall’essere conclusa. Non solo, infatti, non è possibile ricondurre la situazione attuale ad un modello coerente, ma si può facilmente presumere che le norme introdotte nel 2009 e nel 2012 non siano affatto in grado di risolvere i problemi che affliggono la Corte, e siano anzi fonte di ulteriori complicazioni e variazioni interpretative. Si può dunque prevedere che bisognerà por mano a riforme ulteriori, se si vorrà fare della Cassazione una corte suprema moderna ed efficiente, capace di svolgere il ruolo che le corti di vertice hanno assunto negli ordinamenti attuali. È chiaro tuttavia che riforme di questo genere esigeranno proprio quelle scelte “di sistema” chiare e coerenti che finora sono mancate.
1 Su questa vicenda v. più ampiamente Taruffo, M., Cassazione e revisione: un problema nella storia delle istituzioni processuali, in Id., Il vertice ambiguo. Saggi sulla cassazione civile, Bologna, 1991, 27 ss.
2 Cfr. Calamandrei, P., La Cassazione civile, vol. I, Storia e legislazioni, ora in Id., Opere giuridiche, VI, Napoli, 1976, e vol. II, Disegno generale dell’istituto, ora ibidem, VII, Napoli, 1976.
3 Cfr. Calamandrei, P., Per il funzionamento della Cassazione unica, ora in Id., Opere giuridiche, cit., VIII, Napoli, 1979, 369 ss.; Taruffo, M., Calamandrei e l’unificazione della Cassazione, in Id., Il vertice ambiguo, cit., 51 ss. In argomento v., da ultimo, Picardi, N., L’unificazione della Corte di cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 721 ss.
4 Cfr. in particolare Taruffo, M., La Corte di Cassazione e la legge, in Id., op. ult. cit., 59 ss.
5 In argomento v.più ampiamente Taruffo, M., La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 474 ss.
6 In argomento, v. per tutti l’ampia analisi di Panzarola, A., La Cassazione civile giudice del merito, I-II, Torino, 2005.
7 Su questa concezione cfr. in particolare Taruffo, M., Una riforma della Cassazione civile?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 759 ss.
8 In argomento v. Taruffo, M., op. ult. cit., 764.
9 Sul tema v. per tutti Carratta, A., Formulazione dei motivi, in Le recenti riforme del processo civile, diretto da S. Chiarloni, Bologna, 2007, 383 ss.
10 In proposito cfr. per tutti Silvestri, E., Le novità in tema di giudizio di cassazione, in Il processo civile riformato, a cura di da M. Taruffo, Bologna, 2010, 428 ss.
11 In argomento cfr. Carratta, A., Enunciazione del principio di diritto e decisione della causa nel merito, in Le recenti riforme, cit., 480 ss.
12 In argomento v. Carratta, A., op. ult. cit., 486 ss.
13 Cfr. Carratta, A., Principio di diritto nell’interesse della legge, in Le recenti riforme, cit., 354 ss.; Taruffo, M., op. ult. cit., 766 ss.
14 In senso critico cfr. Carratta, A., op. ult. cit., 364 ss.; Taruffo, M., op. ult. cit., 769 ss.
15 In senso contrario, ossia nel senso che la Corte possa occuparsi anche di tutte le questioni di merito e processuali che sono oggetto del suo giudizio, è l’orientamento espresso dalla stessa Corte nell’ordinanza n. 11185 del 2011.
16 Su questi aspetti della giurisprudenza della Corte esiste da tempo un’ampia letteratura. In argomento cfr., ad es., Taruffo, M., Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 709 ss.
17 In proposito v. più ampiamente Taruffo, M., Una riforma, cit., 755 ss.
18 Per un panorama comparatistico delle funzioni svolte dalle varie corti supreme cfr. i saggi raccolti in Annuario di diritto comparato e studi legislativi 2011, Bari, 2011, 11 ss.; in Cortes supremas. Funciones y recursos extraordinarios, E. Oteiza coord., Buenos Aires e. a., 2011; in The Role of Supreme Courts at the National and International Level, ed. by P. Yessiou-Faltsi, Thessaloniki, 1998, e in Le corti supreme, Atti del convegno (Perugia 5-6 maggio 2000), Milano, 2001.
19 Cfr. Calamandrei, P., Cassazione civile, cit., II, 104.
20 V. più ampiamente Taruffo, M., Precedente, cit.
21 In argomento v. in particolare Barsotti, V., L’arte di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, Torino, 1999.
22 Cfr., anche per riferimenti, Taruffo, M., Una riforma, cit., 779.
23 In argomento v. più ampiamente Silvestri, E., op. cit., 414 ss.
24 Pubblicata in Foro it., 2010, I, 3333, con nota di G. Scarselli.
25 Sui profili di illegittimità costituzionale dell’art. 360 bis, n. 1, v. ampiamente Fontana, G., Il filtro magico in nome della nomofilachia (profili costituzionali dell’art. 360 bis c.p.c.), in Studi in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, II, 1482 ss.
26 In proposito cfr. Silvestri, E., op. cit., 423 ss.
27 In argomento v. più ampiamente Silvestri, E., op. cit., p. 420 ss.
28 In proposito cfr. Chizzini, A., in Balena, G.-Caponi, R.-Chizzini, A.-Menchini, S., La riforma della giustizia civile, Torino, 2009, 114 ss.
29 Su questa vicenda v. più ampiamente, e per riferimenti, Taruffo, M., La motivazione, cit., 482 ss.
30 Più ampiamente in proposito cfr. Taruffo, M., op. ult. cit., 474 ss.
31 In argomento vale la pena di segnalare che con l’art. 52 della l. n. 69/2009 il legislatore, già vittima della insensata tendenza ad azzerare la rilevanza della motivazione, ha modificato l’art. 118 disp. att c.p.c. affermando che la motivazione della decisione in fatto consiste «nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa». Questa norma è fortemente criticabile, e non va esente da dubbi di incostituzionalità (in relazione all’art. 111, co. 6, Cost.), in quanto pare ovvio che la mera «esposizione» dei fatti rilevanti non equivalga affatto alla giustificazione razionale della decisione con cui questi fatti sono stati considerati come veri sulla base delle prove acquisite al giudizio (in questo senso v. più ampiamente Taruffo, M., La motivazione della sentenza, in Il processo civile riformato, a cura di M. Taruffo, Bologna, 2010, 381 ss.).