Le novità dell'appello: rinnovazione e concordato sui motivi
Sulla falsariga di una non perspicua e altalenante giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, avallata e fatta propria dalle sezioni unite della Corte di cassazione e dalle proposte avanzate dalla cd. “Commissione Canzio”, la “riforma Orlando” ha introdotto l’istituto della rinnovazione obbligatoria della istruzione dibattimentale in appello, nel caso di impugnazione da parte del p.m. di sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa. Una riforma per molti aspetti inutile e per altri dannosa. Da salutare con favore è, invece, la reintroduzione del cd. patteggiamento in appello: istituto processuale in passato frutto di censure costituzionali e di opposte iniziative legislative, nel quadro di una sostanziale “incomprensione” dello stesso.
Il mantenimento di un doppio grado di merito senza sostanziali limiti “qualitativi” e starei per dire anche funzionali (la stessa rinnovazione della istruzione dibattimentale è istituto meno eccezionale di quanto non si dica), porta con sé non soltanto alcune “torsioni” di sistema, ma anche il possibile “ribaltamento” della decisione adottata in prime cure. Si dirà: tutto questo è fisiologico in un processo di parti; ma l’approdo si complica se non ci si voglia sottrarre da quella sorta di “guerra di religione” che ha accompagnato e seguito le vicende della riforma introdotta dalla legge cd. Pecorella, sui limiti dell’appello del p.m., e sulla relativa “sterilizzazione” operata dalle varie sentenze della Corte costituzionale, che hanno visto dottrina e operatori divisi su fronti (più che altro ideologicamente) contrapposti. Il dato di fondo è che, comunque, ove si voglia annettere alla regola della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” una portata di tipo “sostanziale”, è difficile immaginare che la stessa non si riverberi – rafforzata – sulla regula iuris propria del giudice dell’appello, dal momento che – ove così non fosse – si assisterebbe ad un paradossale arretramento del tasso di persuasività della decisione proprio nella sede in cui, operando una “rimeditazione” del fatto e delle prove alla luce del conferente contraddittorio “critico” sviluppato dalle parti, sarebbe logico presupporre un maggior tasso di “certezza” dei relativi approdi decisori.
D’altra parte, è abbastanza ricorrente in giurisprudenza l’assunto secondo il quale nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, in mancanza di elementi sopravvenuti occorre che la motivazione, nella diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, esprima una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio, anche nei casi di impugnazione presentata dalle parti civili per le sole statuizioni civili (ex plurimis, Cass. pen., sez. III, 27.11.2014, n. 6817, in CED rv. n. 262524).
Se l’appello si “sovrappone” al precedente grado di giudizio senza alcun segmento rescindente, è dunque logico che la revisio prioris instantiae conduca ad un prodotto motivazionale che si “confronti” con la delibazione oggetto del gravame e col merito della domanda impugnatoria, oltre che con le deduzioni antagoniste, dal momento che “il giudizio nuovo” – proprio perché tale – opera come rinnovazione integrale della precedente delibazione, e non come semplice riesame.
È d’altra parte consolidato, sin dai tempi della sentenza Mannino, l’assunto secondo il quale l’appello del p.m. contro la sentenza di assoluzione emessa all’esito del dibattimento, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice ad quem gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597, co. 2, lett. b), c.p.p. (da ultimo, cfr. Cass. pen., sez. V, 30.6.2016, n. 46689, in CED rv. n. 268671).
Neppure può dirsi, peraltro, che la possibilità di una condanna che scaturisca solo dal giudizio di appello sia evenienza contrastante con principi di rango costituzionale (come emerge chiaramente dalle sentenze della Corte costituzionale sulla legge Pecorella) o convenzionale, posto che, a quest’ultimo riguardo, e come si è già rammentato, l’art. 2, co. 2, del Prot. n. 7 alla CEDU prevede espressamente che il diritto ad un doppio grado di giudizio può essere oggetto di eccezioni, fra l’altro proprio quando l’imputato è stato «dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento».
Ma il problema del “ribaltamento” del giudizio si fa davvero acuto ove lo stesso debba trarre alimento da una rivalutazione di una prova dichiarativa, perché in appello debbono trovare applicazione le regole previste per il primo grado, tra le quali anche il principio di immediatezza e di oralità.
Una piccola premessa per tentare di scardinare i miti. Il principio di immediatezza e il suo germano, quello di oralità, non presentano una genealogia particolarmente nobile. Sorti, infatti, nei sistemi di common law, germinano dalle esigenze connesse alla circostanza, un po’ pedestre, che le giurie, chiamate a decidere (immotivatamente) i casi loro devoluti, erano composte – a differenza di quelle continentali, ove operava il sistema dello “scabinato” – da gente di “basso ceto”, il più delle volte scarsamente acculturata, e con alto tasso di analfabetismo.
Il che rendeva indispensabile che il processo, per far comprendere loro fatti e prove, dovesse inscenare il “teatrino” delle prove rappresentative (praesens facit quod praesens non est), portando davanti agli occhi ed alle orecchie dei giurati le “conoscenze” indispensabili per poter emettere un verdetto sulla colpevolezza o innocenza. Il sistema misto ha ereditato quei principi per il dibattimento: l’art. 472 del codice Rocco prevedeva la stessa regola oggi sancita dall’art. 525 del codice di rito: i giudici che deliberano devono essere gli stessi che hanno partecipato al dibattimento; ma vi ha aggiunto una previsione “ad alto potere detonante”. La regola della immediatezza è ora prescritta a pena di nullità assoluta. Se cambia il giudice si ricomincia da capo: e conosciamo tutti la problematicità del tema; la giurisprudenza, con la notissima sentenza Iannasso (Cass. pen., S.U., 15.1.1999, n. 2, in CED rv. n. 212395) ha cercato un qualche punto di equilibrio.
Ma l’aspetto che mi sembra valga la pena di essere esaminato è se la stessa regola debba idealmente riproporsi tal quale anche nel giudizio di appello, ove la rinnovazione della istruzione dibattimentale si presenta come idealmente eccezionale e dove, quindi, il “nuovo giudizio” riposa su un “fisiologico” riesame ex actis delle prove raccolte nel dibattimento di primo grado.
Alcune riflessioni mi sembra siano possibili tanto sul terreno costituzionale che su quello convenzionale.
Quanto al primo aspetto, non penso sia sostenibile che il principio di immediatezza rinvenga una copertura costituzionale, nel senso di ritenere che sia la stessa Carta fondamentale ad imporre che il giudice della sentenza sia sempre e comunque quello che ha proceduto alla istruzione probatoria. La Corte costituzionale, infatti, si è più volte pronunciata in termini vaghi sul significato e sulla pregnanza costituzionale di quel principio, in genere richiamandolo come “principio tradizionale del processo”, specie di quello accusatorio, ed elemento coeso allo sviluppo della dinamica probatoria, raccordabile al terzo comma dell’art. 111 Cost., ma facente parte di quella gamma di principi necessariamente da porre a raffronto con l’intero quadro dei valori ricavabili dalla stessa Costituzione (v., tra le varie, C. cost., 11.12.2001, n. 399; 9.3.2007, n. 67; 30.7.2008, n. 318; 10.6.2010, n. 205).
In sostanza, affermazioni se non proprio neutre, certo suscettibili di piani di lettura diversificati, a seconda che il processo venga riguardato come momento topico di formazione della prova – vale a dire il dibattimento di primo grado – rispetto agli “eventuali” ulteriori gradi di giudizio di merito. D’altra parte, se il sistema ammette l’esistenza di prove precostituite, è difficile pensare ad un vincolo costituzionale di “immediatezza” che finirebbe per contraddirne l’essenza. Siamo ben lontani, infatti, dal modello di accusatorio proprio dei processi di common law, dove il corpo del reato per essere utilizzabile, deve essere portato in aula e mostrato al giudice ed ai giurati, o l’atto irripetibile della polizia giudiziaria (ad es. la perquisizione o il sequestro) deve essere comunque “oralizzato” e veicolato attraverso la deposizione dell’agente operante.
È la stessa Corte costituzionale ad aver affermato con chiarezza che il diritto alla formazione della prova nel contraddittorio, questo sì costituzionalmente presidiato, non può ritenersi in alcun modo dipendente o comunque inciso dal principio di immediatezza (v. C. cost., 21.12.2001, n. 431).
Solo prima facie diversa si presenta la posizione che su tale punto ha maturato la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, ove all’apparente rigidità di taluni enunciati – more solito, non poco assertivi – si contrappongono, poi, affermazioni assai più sfumate.
Nel noto caso Graviano, infatti (C. eur. dir. uomo, 10.2.2005, Graviano c. Italia), la Corte ha affermato di ritenere che «un elemento importante di un processo equo è anche la possibilità per l’imputato di confrontarsi con il suo testimone alla presenza del giudice che dovrebbe da ultimo emettere una decisione; tale regola – ha soggiunto la Corte europea – è una garanzia poiché le osservazioni dei giudici riguardo al comportamento e all’attendibilità di un testimone possono avere delle conseguenze per l’imputato. Pertanto, il cambiamento della composizione del tribunale dopo l’audizione di un testimone decisivo comporta normalmente una nuova audizione di quest’ultimo (vedere P.K. c. Finlandia … 9 luglio 2002 e mutatis mutandis Pitkänen c. Finlandia … 9 marzo 2004 nonché Milan c. Italia … 4 dicembre 2003)».
Dunque, la regola della immediatezza si fonda, secondo la opinione dei giudici di Strasburgo, sulla ritenuta necessità – non normativa, né epistemologica, né concettualmente argomentata – di assicurare all’”istinto percettivo” del giudice la possibilità di trarre elementi di convincimento, basandosi sulle “osservazioni” circa il comportamento e l’attendibilità del testimone. Qualcosa, quindi, che non ha nulla a che vedere con il diritto delle parti a formare la prova in contraddittorio, ma che attiene esclusivamente alla persona del giudice, nel momento in cui è chiamato a “valutare” i risultati della prova raccolta.
È come se il sistema definisse quale inespressa causa di incompatibilità per “inidoneità” del giudice, l’ipotesi di mutamento della persona fisica tra chi ha “raccolto” la prova e chi è chiamato ad apprezzarne i risultati: ma tutto ciò, credo, dovrebbe richiedere scelte di sistemi processuali che non può certo essere la stessa CEDU a definire, trattandosi all’evidenza di opzioni rimesse ai singoli Stati aderenti, nulla dicendo la Convenzione sul punto.
Il che, peraltro, non deve al momento preoccupare più di tanto, considerato che è la stessa sentenza Graviano a ricordare come tale principio non sia assoluto, considerato che nel caso di specie erano ravvisabili «circostanze particolari che giustificano un’eccezione al principio dell’oralità del dibattimento e al principio
dell’immutabilità del giudice», fermo restando l’assunto secondo il quale i diritti della difesa devono ritenersi limitati «in modo incompatibile con la garanzia dell’art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, sulle deposizioni di un testimone che l’imputato non ha avuto la possibilità di interrogare o di far interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento».
Il principio di immediatezza, pertanto, ed il conseguente obbligo di rinnovazione probatoria ove muti il giudice, non può dirsi assurgere, neppure nel giudizio di primo grado, al rango di regola costituzionalmente o convenzionalmente imposta, per lo meno nei termini “radicali” e senza deroghe che quel principio ha ricevuto nelle sue applicazioni pratiche. Ma se così è, ancor più arduo diviene giustificarne l’essenza nel giudizio di appello, rispetto al quale l’attività di acquisizione probatoria – che di per sé rappresenta una non frequente evenienza – si riferisce, di regola, alla nuova assunzione di persone già esaminate nel contraddittorio di primo grado, rendendo dunque per lo meno “sfocate” quelle esigenze di tipo, per così dire, “percettivo” che la stessa C. eur. dir. uomo ha additato a fondamento del principio.
La questione torna di grande attualità in relazione agli approdi cui è pervenuta la stessa C. eur. dir. uomoe e da ultimo le sezioni unite della Cassazione in tema di condanna in appello dopo il proscioglimento in primo grado, a seguito della rivalutazione del contenuto di dichiarazioni già rese in quel grado di giudizio.
Eventi, questi, sui quali è poi “calata” la “cementificazione” normativa della “riforma Orlando”, che ha definitivamente “ingessato” quegli approdi giurisprudenziali, in termini, per di più, e come si osserverà, non del tutto perspicui.
Con la ormai nota sentenza 5.7.2011, Dan c. Moldavia, la C. eur. dir. uomo, infatti, dopo aver premesso che «le modalità di applicazione dell’articolo 6 ai procedimenti davanti alle Corti d’Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione », ha affermato che «se una Corte d’Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove (vedi C. eur. dir. uomo, Popovici c. Moldavia, nn. 289/04 e 41194/04, § 68, 27.11.2007; Constantinescu c. Romania, n. 28871/95, § 55, CEDU 2000-VIII e Marcos Barrios c. Spagna, n.17122/07, §32, 21.9.2010)». Ebbene, nel caso di specie, il tribunale di primo grado aveva assolto il ricorrente perché non aveva creduto ai testimoni dopo averli uditi personalmente; nel riesaminare il caso, la Corte di appello aveva invece dissentito dal tribunale di primo grado sulla attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell’accusa e aveva condannato il ricorrente, senza peraltro udire nuovamente i testimoni basandosi semplicemente sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti. «Visto quanto è in gioco per il ricorrente – si legge nella sentenza – la Corte non è convinta del fatto che le questioni che dovevano essere determinate dalla Corte d’Appello quando essa ha condannato il ricorrente e gli ha inflitto una pena – e facendo ciò ribaltando la sua assoluzione da parte del tribunale di primo grado – avrebbero potuto, in termini di equo processo, essere esaminate correttamente senza una diretta valutazione delle prove fornite dai testimoni dell’accusa. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate». (più di recente v. 5.3.2013, Manolachi c. Romania; 9.4.2013, Flueraş c. Romania).
Fu Vezio Crisafulli, come è noto, a “sdoganare” la distinzione tra disposizione e norma, nella consapevolezza che non tutto il diritto potesse ridursi, come voleva una impostazione rigorosamente giuspositivistica, alla disposizione di matrice legale ed alla sua stretta interpretazione.
Donde la possibilità che vi fossero «norme senza disposizione», come i principi, e, soprattutto, con l’avvento della Corte costituzionale, le varie sentenze interpretative, manipolative, additive, sostitutive, ecc. le quali – andando ben al di là della concezione di Kelsen del giudice costituzionale come di un “legislatore negativo” – incidono per l’appunto, non sul testo delle disposizioni legislative, ma soltanto sul loro significato.
Gustavo Zagrebelsky, a sua volta, nel suo «diritto mite», riprendendo la distinzione formulata da Dworkin ed Alexy fra princìpi e regole, assume che i princìpi comportano un “prendere posizione” di fronte alla realtà; sono “norme prive di fattispecie” che non conducono a una soluzione di tipo binario “si-no” ma inducono una ponderazione e, dunque, un bilanciamento; mentre le regole sono norme per le quali la realtà prende di volta in volta forma solo in quanto fattispecie, il che comporta la sussunzione del fatto nel tipo e una alternativa secca.
Perché questa digressione? Perché a mio avviso la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, di cui ora stiamo parlando, non è né una “norma senza disposizione”, né un “principio privo di fattispecie”: mi sembra, invece, che realizzi una fattispecie senza norma né principio. Il che rende davvero problematico individuare la regula iuris da cui l’assunto – davvero indimostrato, fondandosi su una massima di esperienza (solo se guardo in faccia il testimone posso capire se mente o meno) che tale è per i giudici di Strasburgo, ma che ben può non esserlo per quanti la pensino diversamente – può essere tratto, come conseguenza di un normale prodotto della interpretazione giuridica.
L’epilogo nostrano – totalmente sintonico con la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo – rappresentato dalla nota sentenza delle Sezioni Unite Dasgupta, mi sembra tutt’altro che appagante. Il principio di diritto che qui interessa denota, a mio avviso, un preoccupante “radicalismo”. La massima ufficiale così recita: «La previsione contenuta nell’art.6, par.3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU – che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne – implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado. (Cass., S.U., 28.3.2016, n. 27620, in CED rv. n. 267487, Dasgupta)1».
Il tutto, però, con l’aggiunta di due aggravanti specifiche.
La prima, è che un simile statuto decisorio riguarda tutti i dichiaranti, a prescindere dalla relativa figura di teste, teste assistito e via dicendo, nel panorama ormai quasi incontrollabile di tali figure: il che conduce al paradosso che, mentre le dichiarazioni di alcuni di questi soggetti sono dalla stessa legge processuale ritenuti – in virtù di una presunzione ex lege – dotati di un tasso di credibilità levior, tant’è che le relative dichiarazioni abbisognano della corroboration, in ragione del richiamo all’art. 192, co. 3, c.p.p., al tempo stesso contraddittoriamente si “presume” che soltanto il giudice possa, attraverso non meglio esplicitate qualità introspettive, saggiarne la attendibilità in sede di rinnovazione del relativo esame già condotto in primo grado.
La seconda, è rappresentata dal fatto che l’identica regola riguarda anche l’eventuale rinnovazione della istruzione dibattimentale che si iscriva in quel “letto di Procuste” probatorio che è rappresentato dal giudizio abbreviato, come le stesse Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare nella recentissima sentenza Patalano del 19 gennaio 20172. Il giudizio, dunque, paradigmaticamente informato alla cartolarità ed allo stato degli atti, si trasforma in un modello di giudizio che, addirittura in appello, recupera oralità e contraddittorio (ancora una volta per una “esigenza” del giudice e non delle parti) quante volte il giudice del gravame reputi diversamente la credibilità del dichiarante rispetto a quanto opinato in primo grado.
Un abbreviato che si “allunga”, dunque, e che, con singolare eterogenesi dei fini, presenta sempre meno le sembianze di rito a prova contratta; il tutto, con l’ulteriore singolarità rappresentata dal fatto che, mentre il primo giudice può aver formulato il proprio apprezzamento sulla credibilità del dichiarante semplicemente ex actis, ove il secondo giudice non condivida una simile valutazione, dovrà – ancora una volta – personalmente “udire” il suo racconto nel contraddittorio, in ipotesi mancante nel giudizio di primo grado.
Ma c’è un terzo e delicato aspetto che mi sembra venga fuori da tutto questo e che, specie nel caso del giudizio abbreviato, assume risalto non facilmente eludibile. Il giudice che “intenda” ribaltare la decisione di primo grado sulla base di un diverso “statuto di credibilità” di un dichiarante, come può – ripeto, specie nel giudizio abbreviato in appello, ove la rinnovazione non sarebbe altrimenti giustificabile – procedere ad ordinare la rinnovazione della prova senza tradire e svelare il proprio intimo convincimento, ponendosi, dunque, in una posizione difficilmente compatibile con il “non pregiudizio” e terzietà che lo debbono caratterizzare? Stiamo assistendo alla introduzione di una ipotesi di incompatibilità “convenzionalmente configurata”? Per scardinare la eventualità del iudex suspectus, occorrerebbe far leva su una ordinanza “camuffata”, dalla quale non traspaia la reale intenzione del giudice: ma è difficile eludere il problema se l’appello è stato attivato dalla impugnazione del p.m. contro una sentenza di proscioglimento e il giudice del gravame, proprio attraverso la rinnovazione della istruzione dibattimentale, fa obiettivamente mostra di “non acquietarsi” dei risultati probatori del processo di primo grado e di voler mantenere “le mani libere” ai fini di un eventuale “ribaltamento” della sentenza.
Ma torniamo alla sentenza Dasgupta. Quale il nucleo della decisione? È presto detto. Si afferma, infatti, che il giudice di appello non ha “maggiore autorevolezza” di quello di primo grado, sicché «può vedersi attribuita la legittimazione a ribaltare un esito assolutorio sulla base di un diverso apprezzamento delle fonti dichiarative direttamente assunte dal primo giudice, solo a patto che nel giudizio di appello si ripercorrano le medesime cadenze di acquisizione in forma orale delle prove elaborate in primo grado».
Ciò in quanto “oralità”, “contraddittorio”, “immediatezza” si salderebbero nella motivazione, dal momento che «l’apporto informativo che deriva dalla diretta percezione della prova orale è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova…».
Vale, a mio avviso, l’esatto contrario: la valutazione della prova si fonda sul ragionamento critico e non su percezioni “sensoriali” del giudice: negare questa verità è negare il fondamento costituzionale della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali. Per dirla con habermas occorre che il sapere del giudice sia un sapere “comunicativo” e, dunque, controllabile dall’esterno proprio in funzione dei relativi connotati di persuasività: ed è la stessa persuasività che fonda, per dirla stavolta con Perelman, qualsiasi tipo di logica argomentativa; che è tutto tranne che una accozzaglia di “percezioni”, “sensazioni”, “intuizioni”.
Ecco il punto, a mio avviso. Con questa “cieca” adesione a modelli irrazionali importati chissà da dove, si rievoca quel fenomeno di “intuizionismo giudiziario” che, francamente, pensavamo essere ormai morto e sepolto dai tempi della scuola di Kiel (con i vari Dahm e Schaffstein), che aveva prodotto la scienza giuridica nazista (al positivismo giuridico si sostituisce, infatti, l’intuizione del giudice, interprete del sentimento popolare, al fine d’indagare come la società “sente” il reato).
C’è da chiedersi, poi, perché una siffatta regola valga per l’ipotesi di ribaltamento in appello della assoluzione in primo grado e non per il caso inverso, stavolta in favor dell’imputato, visto che le esigenze di “percezione” del giudice dovrebbero in teoria valere non a senso unico ma anche nella ipotesi in cui non condivida la decisione del giudice di primo grado di aver ritenuto attendibile il teste utilizzato in chiave di accusa. In sostanza, il giudice dell’appello, riformando la decisione di primo grado, può assolvere ex actis, ma non può condannare ex actis, sulla base, però, di uno statuto probatorio alquanto “strabico” e del tutto privo di base normativa (oltre che logica).
Oralità e contraddittorio, poi, non c’entrano per nulla con la “vicenda” agitata dalle Sezioni Unite e dalla C. eur. dir. uomo, essendo stati integralmente soddisfatti nel giudizio di primo grado: in discorso non viene l’acquisizione della prova, ma esclusivamente la sua valutazione. Il che rende ancor più illogica la previsione di un regime peculiare che trasforma la prova dichiarativa in un qualcosa di totalmente scisso, proprio sul piano del relativo apprezzamento critico, rispetto a tutte le altre prove (anche il documento, infatti, ben può essere frutto di diversi tipi di valutazione pure in punto di “credibilità” circa la genuinità e la provenienza).
Per altro verso, non può neppure trascurarsi la circostanza che, ai sensi dell’art. 528 c.p.p. – applicabile anche in appello in virtù del generale rinvio operato dall’art. 598 c.p.p. – è consentito al giudice del gravame di ascoltare la “viva voce” del dichiarante, o leggere la versione integrale delle dichiarazioni e, dunque, di coglierne tutte le eventuali sfumature “emotivamente” (ma a me sembra non giuridicamente) significative.
Last but not least, qualcosa credo debba essere puntualizzato proprio sul versante, critico-argomentativo, della valutazione che il giudice è chiamato a compiere circa i risultati conseguiti dalla prova dichiarativa, specie per ciò che attiene allo scrutinio di “credibilità” del dichiarante. Il tema, a prescindere dai fiumi di inchiostro che sono stati spesi per tentare di razionalizzarne i diversi profili, con il relativo corredo di “massime di esperienza” che la giurisprudenza ha somministrato specie in materia di accomplice evidence, può, ai nostri fini, schematicamente ricondursi alla classica distinzione tra credibilità “interna”, vale a dire giocata solo sul versante del dichiarato e della sua “intrinseca” coerenza ed affidabilità, e credibilità “esterna”, invece apprezzata alla luce di tutte le altre acquisizioni probatorie.
È evidente che, a tutto voler concedere, una qualche logica circa il “riascolto” del dichiarante, per “saggiarne” appunto la credibilità, può porsi solo nel primo caso, dal momento che tutto ciò che è semplice “raffronto” rispetto al compendio probatorio, presuppone, niente di più e niente di meno, che un sindacato ex actis. Esattamente quanto accade per tutte le prove, nel loro reciproco interagire, a prescindere da quale ne sia la fonte di acquisizione. A sanare questa aporia, poi, non mi sembra sia utilizzabile l’argomento secondo il quale anche in caso di inattendibilità “esterna” potrebbe valere l’opportunità di risentire il dichiarante per “contestargli” i contrasti della sua dichiarazione rispetto ad altri elementi di prova, perché – anche a voler prescindere dalla non conferenza di tale ipotesi con i confini entro i quali è normativamente possibile disporre la rinnovazione in appello – simili contestazioni potevano e dovevano formare oggetto del contraddittorio in primo grado, sempre che le parti o il giudice ne avessero avvertito la necessità (sono fin troppo evidenti, infatti, le esigenze “strategiche” che possono suggerire alle parti di “serbare” a fini impugnatori la carta della inattendibilità del teste “ostile”, piuttosto che rischiare di bruciarla in sede dibattimentale con risposte che ne potrebbero sminuire la portata).
La tematica non può peraltro esaurirsi senza un sia pure rapido sguardo alle evoluzioni subite dalla giurisprudenza della C. eur. dir. uomo dopo il caso Dan c. Moldavia. Nella sentenza Sez. II, 26.4.2016, Kashlev c. Estonia, infatti, veniva in discorso il caso di un cittadino accusato del reato di lesioni gravi, per aver brutalmente aggredito – in concorso con un altro individuo in seguito deceduto – una persona all’esterno di un locale notturno. In primo grado, l’imputato era stato assolto da tutte le accuse poiché – a parere del tribunale – non vi sarebbero stati elementi sufficienti per ritenere provata la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. In particolare, le dichiarazioni di alcuni testimoni – che avevano indicato il ricorrente come uno degli aggressori – venivano ritenute dai giudici contraddittorie e, dunque, scarsamente attendibili.
Piena attendibilità veniva, invece, riconosciuta sia alle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal concorrente nel reato (lo stesso si era assunto interamente la responsabilità dell’accaduto) sia alle dichiarazioni di un amico del ricorrente, che asseverava la totale estraneità di quest’ultimo ai fatti contestati.
In seguito, tuttavia, il verdetto d’innocenza veniva ribaltato dalla Corte d’appello, adita su ricorso del p.m.: il giudice del gravame – in base ad una diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in precedenza e senza procedere all’assunzione di alcuna testimonianza orale – aveva ritenuto, infatti, che vi fossero gli estremi per addivenire ad una sentenza di condanna nei confronti del ricorrente. Secondo la ricostruzione della Corte d’appello, le testimonianze riguardanti il coinvolgimento del ricorrente non sarebbero state affatto contraddittorie, dal momento che le discrepanze tra le narrazioni fornite dai testimoni sarebbero esclusivamente riconducibili alle fisiologiche differenze di percezione sensoriale tra i soggetti che assistono ai medesimi avvenimenti. Per contro, né le dichiarazioni dell’amico del ricorrente (in contraddizione con una pluralità di testimonianze “indipendenti”), né la confessione resa dal concorrente nel reato (le cui motivazioni interiori rimangono, peraltro, sconosciute) potevano, ad avviso dei giudici del gravame, essere ritenute attendibili. Divenuta irrevocabile la condanna, il ricorrente lamentava, quindi – di fronte alla Corte di Strasburgo – la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, lett. d), sostenendo di essere stato condannato in appello, sulla base del medesimo materiale probatorio che aveva condotto all’assoluzione in primo grado, senza alcuna rinnovazione dell’attività istruttoria.
Ebbene, la Corte di Strasburgo rilevava, anzitutto, alcuni aspetti non controversi dello svolgimento processuale.
In primo luogo (§ 45), l’imputato – che aveva presenziato regolarmente alle udienze in primo grado – aveva rinunciato inequivocabilmente a comparire personalmente di fronte al giudice del gravame.
Secondariamente (§ 46), né l’imputato né il suo difensore avevano mai richiesto che i testimoni fossero riesaminati nel contesto del giudizio d’appello.
Infine (§ 47) non v’era dubbio che il diritto al confronto coi testimoni d’accusa fosse stato integralmente rispettato nell’ambito del giudizio di primo grado. A questo punto, la Corte europea afferma – ed è questo il punto topico della decisione (§ 48) – che nessun elemento induce a ritenere che nel caso di specie vi sia stata una valutazione arbitraria o irragionevole degli elementi di prova a disposizione delle corti nazionali; al contrario, nel procedimento a carico del ricorrente si sono registrate garanzie processuali sufficienti ad evitare l’arbitrio dell’autorità. In primo luogo, la Corte d’appello – attenendosi alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza consolidata della Corte estone sul tema – ha predisposto una motivazione “rafforzata”, spiegando analiticamente le circostanze che giustificherebbero la revisione del verdetto assolutorio. In tale contesto, la Corte di Strasburgo sottolinea come le differenze di valutazione tra gli organi giurisdizionali interni siano il risultato di un differente approccio complessivo alla vicenda fattuale sottesa al procedimento e, di conseguenza, agli apprezzamenti delle discrepanze e delle convergenze tra le dichiarazioni testimoniali. In secondo luogo, la Corte di Strasburgo pone l’accento sulla possibilità, di cui il ricorrente si è legittimamente avvalso, di impugnare la sentenza di fronte alla Corte Suprema, vale a dire di fronte all’organo giurisdizionale competente a valutare la coerenza e l’adeguatezza delle motivazioni addotte per giustificare la condanna emessa per la prima volta in appello. Infine, la decisione in esame precisa come sia proprio l’esistenza di “presidi” adeguati – in quanto idonei a tutelare l’imputato contro un’arbitraria valutazione delle prove e un’irragionevole ricostruzione dei fatti – nella legislazione e nella giurisprudenza interna, a consentire di distinguere il presente caso dai precedenti in materia, in cui era stata dichiarata la violazione del dettato convenzionale. In conclusione, viste le circostanze enunciate, la Corte di Strasburgo ha ritenuto (pur con una più che motivata dissenting opinion) che nel procedimento penale nei confronti del ricorrente non vi fosse stata alcuna violazione dell’art. 6, co.1 e 3, lett. d), della Convenzione.
Il distinguishing, come ognuno vede, sembra sfumare nei confini dell’overruling. Il che preoccupa non poco, visto che la stessa seconda sezione della C. eur. dir. uomo, nella di poco successiva sentenza Sez. II, 5.7.2016, Lazu c. Moldavia, sembra aver sposato l’opposta tesi. Il caso, infatti, riguardava un imputato per il reato di lesioni occorse a danno di un passeggero di un autobus; il ricorrente era stato dapprima assolto in primo e in secondo grado per insufficienza di prove, in particolare, per la ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni dei testimoni d’accusa; poi, a seguito di annullamento con rinvio da parte della Cassazione, il ricorrente veniva condannato nel secondo giudizio d’appello. Ebbene, chiamata a pronunciarsi in merito ai principi dell’equo processo, la Corte ha ritenuto che nel caso di specie vi fosse stata una violazione dell’art. 6, co. 1, CEDU, e che, in particolare, fosse rimasto pregiudicato il diritto di difesa del ricorrente, essendosi la condanna basata esclusivamente sul materiale probatorio presente nel fascicolo senza che i giudici del secondo grado d’appello avessero provveduto ad esperire il dovuto riesame dei testi d’accusa.
Regna, dunque, sul punto che qui interessa, una significativa “confusione sotto il cielo”, che, a mio avviso, preclude di ritenere realmente “consolidato” il rapsodico incedere della giurisprudenza della C. eur. dir. uomo; almeno nei limiti ed agli effetti limpidamente tracciati dalla Corte costituzionale nella nota sentenza 26.3.2015, n. 49. D’altra parte, un certo “annebbiamento” nella visione giuridica del fenomeno non mi sembra si sia diradato neppure alla luce del più recente caso Lorefice, che ci ha riguardato direttamente come Paese. In sintesi la vicenda: la Corte di appello di Palermo, adita a seguito di impugnazione del p.m. e della parte civile avverso la sentenza di assoluzione del ricorrente dalle imputazioni di estorsione e detenzione di materiale esplosivo, aveva pronunciato sentenza di condanna, senza disporre la nuova escussione dei testimoni a carico, le dichiarazioni dei quali erano state reputate inattendibili da parte dei giudici di primo grado. Avverso la sentenza di appello era stato proposto ricorso per cassazione da parte della difesa del Lorefice, lamentando, fra l’altro, la violazione dell’art. 6 della CEDU in quanto la Corte aveva proceduto ad una rivalutazione della attendibilità dei testimoni, ritenuti inattendibili dal tribunale, senza procedere ad una nuova escussione diretta dei medesimi. La Corte di cassazione, con sentenza 27.3.2013, n. 35730, rigettava il ricorso, testualmente osservando, a proposito del motivo concernente la pretesa violazione della CEDU che «La fattispecie che si presenta nell’odierno processo è del tutto differente [da quella scrutinata in parte qua dalla Corte di Strasburgo a proposito della necessità della rinnovazione in appello]: come sottolineato dalle parti civili e come emerge con chiarezza dall’esposizione fatta nella prima parte della presente sentenza – osservarono, infatti, i giudici di legittimità – il compendio probatorio che ha dato origine alle due sentenze di segno opposto è amplissimo e variegato, cosicché l’essenza della decisione in appello non può, in alcun modo, essere identificata nell’affermazione che un teste, ritenuto inattendibile dal giudice di primo grado, è stato, al contrario, ritenuto attendibile da quello in appello. La Corte di appello ha, piuttosto, – sottolinea la Corte di cassazione – ritenuto di fornire una lettura corretta e logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice e, in questa complessiva rivalutazione del materiale probatorio ha inserito anche la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni: ha preteso, comunque, di non lasciare alcun ragionevole dubbio sulla fondatezza dell’imputazione, quindi assolvendo appieno l’onere motivazionale».
A fronte di tali, pur univoci, chiarimenti, la Corte di Strasburgo, senza spendere una parola sui rilievi che erano provenuti dalla Corte di cassazione, si limita stancamente a ripetere il “mantra” della nuova audizione come garanzia del giusto processo, sul rilievo che «L’évaluation de la crédibilité d’un témoins est une tȃche complexe, qui, normalement, ne peut pas ȇtre accomplie par le biais d’une simple lecture du contenu des déclarations de celui-ci, telles que consacrées dans les procès-verbaux des auditions». Nulla sulla esaustività delle altre fonti di prova; nulla sulla esigenza che il materiale probatorio riceva una lettura non atomistica delle proprie risultanze. In sintesi, una pronuncia che non può certo evocarsi come consentanea e rafforzativa di un qualche indirizzo giurisprudenziale, essendo i relativi dicta, completamente scorrelati rispetto alla vicenda di specie3.
Dulcis in fundo. La confusione delle lingue – ma più che altro dei concetti – si ha con la recentissima sentenza della C. eur. dir. uomo, 27.6.2017, Chiper c. Romania.
In questo caso, la Corte di Strasburgo si riporta nella sostanza, agli argomenti già svolti nella sentenza Kashlev c. Estonia, sottolineando, peraltro conclusivamente, come, malgrado il riapprezzamento delle dichiarazioni testimoniali senza procedere ad una nuova diretta audizione, tale fatto non costituisse nella specie violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione: «Toutefois – precisa la sentenza – la Cour rappelle qu’il revient en principe aux jurusdictions nationales d’apprecier les éléments rassamblés par elles […] La Cour n’a pas à s’ériger de quatrième instance ed les jurisdictions internes sont mieux placées pour apprécier la crédibilité des témoins ed la pertinence des preuves dans una affaire donnée». Presa di distanza, dunque, che rende più che mai auspicabile una parola conclusiva da parte della Grande Camera della Corte di Strasburgo.
Questo è l’intricato contesto d’assieme entro il quale, sulla base dei suggerimenti operati dalla cd. Commissione Canzio, il legislatore si è mosso con la “riforma Orlando” (l. 23.6.2017, n. 103, art. 1, co. 58)4, nella parte in cui, novellando l’art. 603 del codice di rito, ha stabilito, sotto il nuovo comma 3-bis, che «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». Norma, però, mal concepita: essa, infatti, testualmente coinvolge, non la sola rinnovazione della prova dichiarativa oggetto di “contrasto” valutativo da parte del p.m. appellante sul punto, ma finisce per riguardare la intera istruzione dibattimentale, con evidenti riverberi sul piano della coerenza e della tenuta stessa del sistema (si accredita l’ipotesi di un appello come vero e proprio nuovo giudizio, che degrada a semplice “ipotesi” tutto il giudizio di primo grado). D’altra parte, non si comprende, poi, la ragione per la quale la ritenuta inaffidabilità del teste conduca alla necessaria rinnovazione in appello nel caso di assoluzione, ma non nella inversa ipotesi in cui vi sia stata condanna in primo grado, rispetto alla quale la valutazione di attendibilità potrà essere censurata in sede di gravame da parte dell’imputato esclusivamente ex actis. La novella, infine, trascura del tutto il riferimento alla decisività della prova dichiarativa a valutazione “contestata”, rendendo a mio avviso tutt’altro che pacifico un possibile recupero di tale requisito in sede interpretativa. Per altro verso, se si ritiene la rinnovazione “obbligatoriamente” integrale, ha poco senso evocare una “decisività” nel senso di esclusività di quella prova a fondare il giudizio, relegando il residuo materiale probatorio a semplici elementi di contorno ai fini della ricostruzione della responsabilità. Residua infine il dubbio, a mio avviso, che la modifica dell’art. 603 refluisca “automaticamente” anche sul versante del giudizio abbreviato, secondo quanto postulato tanto dalla sentenza Dasgupta, che dalla successiva e ulteriormente chiarificatrice sentenza Patalano di cui si è fatto cenno. Il semplice richiamo alle forme camerali del giudizio di appello (art. 599) che compare al comma 4 dell’art. 443, non sembra infatti sufficiente a richiamare anche i casi (nuovi) di rinnovazione, per di più eterodossi rispetto allo schema del giudizio abbreviato, quali, appunto, la rinnovazione delle prove dichiarative per le quali venga in discorso il tema della relativa valutazione. La costruzione poco limpida della novella rende, quindi, difficilmente preventivabile la portata dei relativi effetti di ricaduta sull’intero sistema dell’appello, giunto, ormai, a noi sembra, ad un livello di “saturazione” problematica di tale intensità da determinarne una davvero indifferibile revisio ab imis.
La “storia” che ha contrassegnato il cd. patteggiamento in appello, che, pure, costituiva l’unica vera novità introdotta col nuovo codice di rito, è stata davvero tormentata. Se ne caldeggiò la introduzione (sotto lo sguardo “corrusco” dei vari censori “puristi” dell’epoca), sull’onda di una presupposizione non scritta: che, cioè, le parti fossero stimolate ad “andare al cuore” delle questioni che intendevano davvero agitare con l’atto di appello, “scremando” la impugnazione da tutti quei motivi di carattere “tuzioristico”, che intasavano il gravame e che determinavano un surplus di motivazione, che in realtà poco o nulla interessava ai contraddittori. Scelta, dunque, intelligente e coraggiosa, specie per i tempi e i costumi giudiziari.
A seguito, tuttavia, di una opinabile decisione della Corte costituzionale che dichiarò illegittimo l’istituto per un discutibilissimo vizio di eccesso di delega (C. cost., 10.10.1990, n. 435), la previsione venne nuovamente reintrodotta con la l. 19.1.1999, n. 14, salvo, poi, inopinatamente, essere ancora una volta espunta dal codice con il d.l. 23.5.2008, n. 92. La “vita” degli istituti ha però un decorso che non sempre corrisponde alle relative vicende normative, se è vero che, malgrado l’abrogazione espressa, la “negoziazione” sui motivi – con accordi più o meno taciti sulla pena – risultasse ancora prassi praticata, specie presso alcune Corti di appello.
La “riforma Orlando”, in un dichiarato anelito di efficientismo e di deflazione del carico giudiziario, ripropone l’ennesima versione dell’istituto, delineandone le sembianze – del tutto analoghe alle precedenti – attraverso l’art. 599 bis; correlativamente ad esso, il nuovo comma 1-bis dell’art. 602 stabilisce che «se le parti richiedono concordemente l’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello a norma dell’art. 599-bis, quando il giudice ritiene che la richiesta deve essere accolta, provvede immediatamente; altrimenti dispone la prosecuzione del dibattimento. La richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se il giudice decide in modo difforme dall’accordo». Fin qui, nihil sub sole novum. L’istituto, quindi, ha ben poco a che vedere con il rito alternativo della applicazione di pena su richiesta di cui agli artt. 444 e seguenti del codice di rito, dal momento che le parti mirano a “comporre”, riducendolo, il tema da devolvere effettivamente al giudice del gravame, attraverso il meccanismo della rinuncia ai motivi di impugnazione.
Le conseguenze sulla pena rappresentano una “risultante” del concordato sui motivi, ed è, quindi, un tema di decisione che non costruisce un rito alternativo e, men che mai, la fonte di una sentenza diversa da quella ordinaria. A scongiurare possibili abusi (ragione per la quale l’istituto era stato fortemente osteggiato da alcuni), il comma 4 del nuovo art. 599-bis stabilisce una sorta di potere “regolamentare” in capo al Procuratore generale presso la Corte di appello, attribuendogli il compito di indicare «i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti». Singolare la sede (e la fonte primaria) della norma, forse più pertinentemente iscrivibile fra le disposizioni di ordinamento giudiziario, e la circostanza che simili poteri di direttiva non risultino invece codificati per il caso (“politicamente” più impegnativo) della applicazione di pena su richiesta. Sulla falsariga, poi, delle preclusioni oggettive e soggettive che caratterizzano il cosiddetto patteggiamento allargato (art. 444, co. 1-bis, c.p.p.), anche il nuovo concordato sui motivi non è consentito per taluni reati e nei confronti di coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza (art. 599 bis, co. 2, c.p.p.). Scelta a nostro avviso opinabile, non solo e non tanto in ragione della selezione dei reati ostativi, quanto e soprattutto per la natura dell’istituto, che non ci sembra proprio iscrivibile nel novero dei “riti” di tipo premiale. La riduzione di pena che può scaturire dalla rinuncia ai motivi, si limita, infatti, ad essere una domanda – non vincolante – al giudice che non rappresenta affatto una sorta di “corrispettivo” a fronte di una rinuncia al diritto alla prova o al diritto al gravame: sicché, introdurre preclusioni che facciano leva sulla natura dei reati per i quali si procede, rappresenta, a nostro avviso, l’inserimento di un “filtro” eccentrico, che poco o nulla ha a che vedere con la natura e la funzione processuale dell’istituto. Ancora una volta, forse, esigenze di politica criminale e di “immagine” fanno velo alla linearità della novella5.
1 V. Lorenzetto, E., Reformatio in peius in appello e processo equo (art. 6 CEDU): fisiologia e patologia secondo le Sezioni Unite, in www.penalecontamporaneo.it, 5.10.2016; v. anche Aprati, R., L’effettività della tutela dei diritti dell’uomo. Le Sezioni unite aggiungono un tassello, in www.archiviopenale.it, n. 2/2016; Giunchedi, F., Ulisse approda a Itaca. Le Sezioni unite impongono la rilevabilità d’ufficio dell’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in Arch. pen., 2016, n. 2, 2 ss.; Aiuti, V., Poteri d’ufficio della cassazione e diritto all’equo processo, in Cass. pen., 2016, 3214; Tesoriero, S., Luci e ombre della rinnovazione dell’istruttoria in appello per il presunto innocente, in Giust. pen., 2017, III, 65; De Marzo, G., Reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado e doveri motivazionali del giudice d’appello, in Foro it., 2016, II, 571; Capone, A., Prova in appello: un difficile bilanciamento, in Processo penale e giustizia, 2016, n. 6, 41; Macchia, A., Linee evolutive del sistema d’appello alla luce della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in Cass. pen., 2017, 2136. Sul tema dell’abbreviato v. anche Belluta, h.-Luparia, L., Alla ricerca del vero volto della sentenza Dasgupta,in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 1.
2 Cass. pen., S.U., 14.4.2017, n. 18620, in www.penalecontemporaneo.it, 8.5.2017, con nota di Luparia, L.-Belluta, H., Ragionevole dubbio e prima condanna in appello: solo la rinnovazione ci salverà?, nonché Mari, N., Resistenze giurisprudenziali al capolinea: la forza granitica della sentenza di assoluzione e la necessaria riassunzione della prova dichiarativa anche nel giudizio d’appello da rito abbreviato, in Arch. pen., 2017, 304.
3 C. eur. dir. uomo, 29.6. 2017, Lorefice c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 12.7.2017, con nota di Pressaco, L., Una censura ampiamente annunciata: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il ribaltamento in appello dell’assoluzione senza rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 7-8.
4 V., al riguardo, fra gli altri, Gialuz, M.-Cabiale, A.-Della Torre, J., Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in www.penalecontemporaneo.it, 20.6.2017; Ceresa-Gastaldo, M., La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflattive, ivi, 18.5.2017.
5 Va segnalato che, allo scopo di controllare l’applicazione del nuovo istituto, è stato previsto (art. 1, co. 72, l. n. 103/2017) che con la relazione sulla amministrazione della giustizia di cui all’art. 86 dell’ordinamento giudiziario, i Presidenti di Corte di appello riferiscano, fra l’altro, dati e notizie sull’andamento dei giudizi di appello definiti a norma dell’art. 599 bis del codice di rito.