Le novità del rito sui contratti pubblici
Il d.l. 24.6.2014, n. 90, convertito nella l. 11.8.2014, n. 114, ha introdotto sensibili modifiche nelle regole processuali in materia di contratti pubblici, ingiustamente privilegiando un’estrema accelerazione dei tempi di definizione del giudizio rispetto al diritto delle parti alla completa espressione del diritto di difesa e alla piena cognizione ed effettiva ponderazione delle diverse posizioni, e al corretto espletamento della funzione di garanzia della giustizia nell’Amministrazione che la Costituzione affida ai giudici amministrativi.
L’art. 40 del d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 114/2014, è intervenuto in termini estremamente incisivi sulla disciplina, già “specialissima”, delle controversie in materia di contratti pubblici dettata dagli artt. 120 ss. c.p.a., introducendo ulteriori meccanismi di accelerazione e di deflazione di tale contenzioso.
Come noto, a partire dalla riforma della legge istitutiva dei TAR ad opera della l. 205/2000, il legislatore ha articolato un rito speciale, “accelerato”, per la definizione delle controversie relative a materie aventi particolare valore economico o socio-politico, tra cui quelle concernenti le procedure di affidamento dei contratti pubblici. Il modello, tracciato dal “nuovo” art. 23 bis l. TAR, è stato ripreso dal c.p.a., che però, dandosi carico dell’attuazione della dir. 2007/66/CE, disposta in via interinale dal d.lgs. n. 53/2010, ha distinto tra il rito speciale abbreviato “comune” alle materie già disciplinate dal citato art. 23 bis (provvedimenti relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione per p.u., provvedimenti adottati dalle Autorità indipendenti, ecc.) e un rito specifico, super abbreviato e arricchito di apposite disposizioni di garanzia e bilanciamento dei diversi interessi, per la materia dei contratti pubblici (artt. 120 ss.).
Tradizionalmente infatti tale settore si caratterizza per la difficoltà di trovare un equo temperamento tra l’esigenza, economica e funzionale, che le prestazioni richieste dalle pp.aa. siano sollecitamente rese e quella, morale e giuridica, che il relativo affidamento sia improntato al necessario rispetto della legalità, a tutela delle regole di contabilità pubblica e di garanzia della concorrenza.
Significativamente pertanto l’UE, derogando al principio generale di autonomia processuale degli Stati membri, ha ritenuto necessario intervenire nel settore anche in tale ambito, per garantire agli operatori economici una tutela effettiva contro le violazioni delle c.d. direttive sostanziali sull’affidamento dei contratti. Di fronte alle carenze riscontrate a tale riguardo nelle normative nazionali, le prime “direttive ricorsi” 89/665/CEE e 92/13/CEE sono state poi rinforzate e integrate dalla dir. 2007/66/CE, che ha trovato attuazione in Italia nel citato d.lgs. n. 53/2010, trasfuso poi, con modificazioni, nel c.p.a1. Qualsiasi innovazione nella disciplina della materia deve dunque tenere, necessariamente e primariamente, conto dei precetti ricavabili dalla suddetta, preminente, normativa euro unitaria e dei principi affermati dalla CGUE, che devono coerentemente guidarne l’interpretazione.
In particolare, il rito “specialissimo” disegnato dal c.p.a., nel i) dimezzare tutti i termini processuali (ivi compresi quelli per la proposizione del ricorso), ii) imporre in ogni caso l’immediata fissazione d’ufficio dell’udienza di merito “con assoluta priorità” e iii) la pubblicazione entro 7 giorni del dispositivo della sentenza di primo grado, a prescindere da apposite istanze, iv) richiamare l’obbligo di sinteticità degli atti e prevedere in via ordinaria la redazione della sentenza nella “forma semplificata” disciplinata dall’art. 74, integrando le misure acceleratorie già previste in termini generali dall’art. 119 (oltre al dimezzamento dei termini diversi dalla proposizione del ricorso, stretta correlazione tra fase cautelare e fase di merito), ha creato una corsia iperpreferenziale per tali giudizi, che ne consente la definizione in termini estremamente rapidi (da uno a due anni per entrambi i gradi, al di là del valore economico), con un equo contemperamento tra le esigenze di certezza e quelle di rapidità.
La preoccupazione di evitare o comunque limitare il rallentamento delle procedure di affidamento dei contratti, soprattutto di lavori, per effetto di azioni giurisdizionali pretestuose (preoccupazione aggravata dalla introduzione, ad opera della medesima dir. 2007/66/CE del cd standstill period processuale, che impedisce la stipula del contratto in caso di ricorso accompagnato da un’istanza cautelare) ha peraltro determinato il progressivo aumento del contributo per i ricorsi contro i relativi provvedimenti (variabile ormai da 2000 a 6000 euro in primo grado e da 3000 a 9000 euro in appello) e il graduale aggravio della condanna alle spese, estesa alla violazione del principio di sinteticità2. Con conseguente sensibile riduzione del predetto contenzioso e, per l’effetto, ulteriore accelerazione dei tempi di decisione dei (residui) ricorsi proposti in subiecta materia.
Nondimeno, nella conclamata ottica di dare un impulso acceleratorio alla realizzazione delle opere pubbliche, accanto alle misure di semplificazione delle procedure per il relativo affidamento disposte dal novellato art. 38 del codice dei contratti pubblici, il d.l. n. 90/2014 (artt. 40 e 41) è reintervenuto sul rito applicabile a questi ultimi, introducendo nuove forme di accelerazione e “semplificazione” del giudizio3 e nuovi disincentivi economici alla relativa proposizione4.
Le nuove regole incidono gravemente sul diritto di difesa e sul principio di effettività della tutela.
2.1 I nuovi termini processuali
La prima novità concerne l’obbligo di celebrare l’udienza di merito entro 45 giorni (il d.l. ne prevedeva addirittura 30) dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente (i.e., in base al combinato disposto con gli artt. 46 e 119 c.p.a., entro 75 giorni dalla notifica del ricorso) e di definire “sempre” il giudizio con sentenza in forma semplificata.
Lo strumento, come noto, è disciplinato dall’art. 74 c.p.a., che, riprendendo il testo originario dell’art. 26 l. TAR, come modificato dalla l. n. 205/2000) con la significativa sostituzione dell’espressione “succintamente motivata” con quella di “sentenza semplificata”, ne prevede l’utilizzo, quando il giudice «ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso», chiarendo che in questi casi, in ragione della
evidente (“manifesta”) semplicità della pronuncia, la relativa «motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme».
Nella lettura impostane dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 427/19995, la norma non potrebbe tuttavia mai indulgere ad ammettere la chiusura di un processo con una “procedura sommaria”. Il canone per valutare la compatibilità costituzionale della sentenza semplificata deve essere dunque sempre quello dell’adeguatezza al livello di complessità delle questioni affrontate, che è parametro costante della decisione giurisdizionale. Lo Stato costituzionale non ammette “sottospecie” di sentenze, ma solo impalcature “alleggerite” della decisione a fronte di controversie di più semplice soluzione, senza giungere a legittimare pronunce prive dei contenuti minimi essenziali di una motivazione che consenta di comprendere, eventualmente anche per relationem, il percorso logico seguito dal giudice e le ragioni che sono alla base delle sue decisioni: ragioni che, se non devono consistere in arabeschi logici6, non possono mai ridursi a mere asserzioni7.
Dal quadro normativo emerge chiaramente il limite della pronuncia, che, a norma dell’art. 74, è strettamente e rigorosamente legata alla possibilità, nel caso concreto, di definire il giudizio mediante un sintetico riferimento ad un «punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo» o a un precedente conforme8. La semplificazione si riferisce dunque ai profili trattati e non già alla motivazione, che, se deve sempre essere “concisa” (così l’art. 65 r. proc. del 19079 e 3 e 88
c.p.a.), deve però ineludibilmente rendere in modo chiaro e preciso il pensiero logico seguito dall’organo giudicante: sentenza semplificata è cosa affatto diversa da sentenza ipersuccintamente motivata e, dunque, priva dell’apparato motivazione minimo per essere qualificata “sentenza”.
Negli stessi termini l’art. 49 prevede la sentenza in forma semplificata per definire il giudizio senza procedere all’integrazione del contraddittorio.
In una lettura costituzionalmente orientata del sistema, anche l’art. 60 c.p.a., che lascia al collegio adito in sede cautelare la possibilità di definire immediatamente il giudizio con sentenza “in forma semplificata”, senza ulteriori specificazioni, non può all’evidenza essere inteso come idoneo a svincolarla dalla semplicità delle questioni trattate e dall’obbligo di dare conto, sia pure in modo succinto, delle ragioni su cui si è fondata la decisione, necessarie a verificare il grado di approfondimento “non meramente sommario” della controversia.
Di contro, il nuovo art. 120, impone “comunque” l’utilizzo dello strumento, ciò che, anche in considerazione della irragionevole costrizione dei tempi processuali e degli stessi scritti difensivi (v. infra), conduce a inaccettabili conseguenze sul piano del rispetto dei principi di effettività della tutela e del giusto processo, i quali, ineludibilmente, impongono una piena istruttoria e una chiara e adeguata giustificazione, nella sentenza, delle ragioni che, nella particolare situazione di fatto, hanno determinato la decisione assunta. Lamotivazione costituisce invero strumento indispensabile a consentire alle parti, al collegio, agli eventuali giudici di impugnazione e alla stessa comunità un idoneo controllo sull’equità e sull’imparzialità della pronuncia10 e qualsiasi disposizione diretta a comprimerla oltre i limiti della ragionevole sinteticità già affermata dagli artt. 3 e 88 c.p.a. si pone in evidente contrasto con tali principi e con la stessa nozione di Stato costituzionale di diritto.
Tale tipo di decisione rischia, poi, per un verso, di incrementare il contenzioso, inducendo il soccombente, più difficilmente persuaso delle ragioni che hanno determinato il rigetto delle proprie tesi, a promuovere ulteriori gradi di giudizio o favorendo la presentazione di ricorsi per l’ottemperanza di chiarimento (art. 112, co. 5, c.p.a.) e, per altro verso, di svilire il ruolo di indirizzo interpretativo e di conformazione dell’attività amministrativa che tradizionalmente
costituisce il pregio dell’attuale sistema di giustizia amministrativa.
L’osservanza del termine di 75 giorni dalla notifica (evidentemente l’ultima), soprattutto in considerazione della frequenza quindicinale o talvolta addirittura mensile delle udienze di primo grado, non assicurerebbe peraltro il rispetto dei termini a difesa (fissati, a ritroso dalla data dell’udienza, in 30 giorni liberi per il relativo avviso, e rispettivamente in 20, 15 e 10 giorni liberi per il deposito dei documenti, delle memorie e delle repliche) ogni qual volta le parti diverse dal ricorrente si costituiscano in limine alla scadenza del termine a loro concesso (30 giorni).
La legge si limita infatti a disporre che le segreterie debbano dare “immediato avviso” alle parti della data di udienza a mezzo pec, ma, a parte la relatività dell’aggettivo “immediato”, non stabilisce un tempo entro il quale il Presidente deve fissarla. In ogni caso, per rispettare i nuovi termini, egli dovrebbe fissare l’udienza a prescindere dall’esito dell’eventuale istanza cautelare e dalla verifica, in occasione di quest’ultima, della completezza del contraddittorio e dell’istruttoria.
A questo proposito, si ricorda che, per il combinato disposto degli artt. 45 e 119 c.p.a., il termine per il deposito del ricorso (e degli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione) è di 15 giorni dal perfezionamento dell’ultima notificazione per il destinatario. Ne consegue che, se il ricorrente deposita il ricorso in limine alla scadenza del termine, il tempo lasciato al Presidente per la calendarizzazione dell’udienza è estremamente ridotto e l’esigenza di bilanciare il rispetto dei nuovi termini con il limite dei carichi di lavoro che il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa fissa ai magistrati per ogni udienza di merito potrebbe costringere a lasciare spazi vuoti, che, in assenza di nuovi ricorsi, si risolverebbero in un irragionevole spreco di una risorsa già scarsa. A complicare ulteriormente l’attuabilità della novella, si aggiunge la circostanza che l’organo giudicante non è posto normalmente in grado di conoscere (neppure attivandosi con la massima diligenza a fare autonome ricerche presso il sito delle poste) la data di perfezionamento della notifica nei confronti delle parti diverse dal ricorrente alla quale il nuovo art. 120, co. 6 ancora il termine di fissazione dell’udienza.
Il legislatore è peraltro ben consapevole della oggettiva difficoltà che, alla data dell’udienza, sussistano tutte le condizioni di procedibilità del ricorso, tanto da precisare, nel successivo periodo, che «In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito viene rinviata, con l’ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l’integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l’esigenza di rispetto dei termini a difesa, ad una udienza da tenersi non oltre trenta giorni».
Al di là del semplicissimo rilievo che, considerato il suddetto limite dei carichi di lavoro, ogni rinvio (che per la rilevata insufficienza del primo termine sarà presumibilmente la regola) implicherà l’irragionevole spreco di una risorsa, rallentando per l’effetto inutilmente la definizione di altri processi, il rimedio, come già immediatamente denunciato, è però all’evidenza inadeguato, atteso che l’arco temporale previsto è normalmente insufficiente ad attuare gli adempimenti istruttori e soprattutto a consentire l’integrazione del contraddittorio garantendo i conseguenti diritti di difesa (deposito di documenti, memorie e repliche, eventuali motivi aggiunti e/o ricorsi incidentali sulle risultanze dell’istruttoria; costituzione in giudizio ed elaborazione delle difese da parte dei contraddittori originariamente pretermessi e relative repliche e ulteriori motivi di impugnazione emersi dalla produzione dei relativi scritti e documenti). In altri termini se, considerato anche il carattere ordinatorio del termine fissato dal primo periodo, la prima udienza sembra tendenzialmente destinata ad assolvere un ruolo “istruttorio” piuttosto che a definire effettivamente il giudizio, la previsione di un termine di soli 30 giorni per la celebrazione dell’udienza successiva, per la sua evidente inadeguatezza, incide negativamente sulla sostenibilità dell’intero apparato normativo.
A chiusura della nuova scansione temporale, lo stesso art. 40 ha aggiunto l’obbligo di pubblicazione della sentenza entro 30 giorni dall’udienza. Al di là del suo carattere meramente ordinatorio, la fissazione di un termine per il deposito della decisione costituisce un’importante novità, se si considera che l’art. 89 c.p.a. si limita a fissare un termine massimo per la redazione della sentenza (e non per il relativo deposito) e a prevederne una decorrenza dalla “decisione della causa”, che, nel silenzio della legge, può essere assunta in una camera di consiglio non immediatamente successiva all’udienza di discussione.
La pubblicazione del dispositivo (anticipata, peraltro, a 2 giorni dall’udienza, contro i 7 previsti dall’art. 119 c.p.a.) è, invece, sempre subordinata ad apposita richiesta di parte. Pur considerando che, diversamente da quelli imposti alle parti, i termini per la fissazione delle udienze e per la pubblicazione dei provvedimenti dei giudici non hanno carattere perentorio, è da ritenere che il rischio che la relativa inosservanza possa essere presa in considerazione per la valutazione della diligenza dei magistrati spingerà a cercare di rispettarli, con evidenti riflessi negativi sulla qualità del sistema processuale e sulla legittimità dell’azione amministrativa.
2.2 I limiti “di spazio” degli atti difensivi
La deriva verso il sacrificio di diritti fondamentali in nome di un preteso (ma tutt’altro che evidente) beneficio per gli interessi economici coinvolti nel processo raggiunge però il suo culmine nella legge di conversione del d.l. n. 90/2014.
A fronte delle immediate reazioni alle nuove tempistiche, il legislatore ha inserito in sede di conversione un inedito obbligo di contrazione degli scritti difensivi, secondo le indicazioni che saranno stabilite con «decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute dagli avvocati amministrativisti», tenendo conto «del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti». La disposizione precisa peraltro che «Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti» e che «il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello», lasciando in tal modo intravedere un inaccettabile “esonero” dall’obbligo generale di pronuncia su tutti i motivi di ricorso (a prescindere dalle pagine in cui vengono esposti) che costituisce fondamentale risvolto del diritto al giusto processo e, per l’effetto, principio irrinunciabile dello Stato di diritto.
A nulla vale, purtroppo, il carattere meramente sperimentale11 delle citate disposizioni, ché, per un verso, anche un mese di diniego di giustizia è sufficiente a distruggere la competitività di uno Stato e, per l’altro, si prospetta il serio rischio che, all’esito dell’esperimento, esse siano estese ad altri settori.
2.3 La cauzione e il limite di efficacia delle misure cautelari
Ulteriori limiti al diritto di difesa sono introdotti dal co. 1, lett. b), dello stesso art. 40, che consente al collegio di subordinare l’efficacia delle misure cautelari eventualmente concesse, «anche qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili» alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque non superiore allo 0,5 % di tale valore. La legge di conversione, recependo, almeno in questa parte, le critiche dei primi commentatori, ha opportunamente eliminato il carattere obbligatorio di tali misure previsto dal d.l. n. 90. La disposizione desta, però, non pochi problemi interpretativi e applicativi in quanto: i) non è chiaro se, nel fare riferimento all’“efficacia” della misura cautelare e non alla concessione o al diniego della medesima, il legislatore abbia inteso aggiungere un’ipotesi di cauzione ulteriore a quella già prevista dall’art. 55 c.p.a. per la concessione o il diniego di misure cautelari non attinenti a diritti fondamentali della persona o ad altri beni di primario rilievo costituzionale, che, a differenza di quest’ultima, inciderebbe soltanto sull’efficacia della misura cautelare senza condizionarne l’adozione (con le conseguenze di cui si dirà subito infra), ovvero se, utilizzando atecnicamente il termine “efficacia” in luogo di quello “concessione”, abbia inteso sostituire, nel rito appalti, la disciplina generale della cauzione disegnata dall’art. 55, con un modello che, per un verso, sembra pretermettere o comunque fortemente ridurre la tutela dei predetti diritti, e, per l’altro, fa gravare l’onere della cauzione solo sul ricorrente, in un’ottica di estrema dissuasione dalla proposizione di istanze cautelari, che non può non destare perplessità alla luce dei principi costituzionali ed eurounitari sull’effettività della tutela e del ruolo che l’ordinamento UE ha ripetutamente ed espressamente riconosciuto alle misure cautelari per la relativa garanzia; e ii) non fissa alcun criterio per la determinazione della cauzione, prestando il fianco a gravissime disparità di trattamento a seconda del giudice adito.
La disposizione pone anche un altro problema.
Come noto, l’art. 2, co. 3, della dir. 2007/66/CE, introducendo il c.d. standstill processuale, stabilisce che «Qualora un organo di prima istanza, che è indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice, riceva un ricorso relativo ad una decisione di aggiudicazione di un appalto, gli Stati membri assicurano che l’amministrazione aggiudicatrice non possa stipulare il contratto prima che l’organo di ricorso abbia preso una decisione sulla domanda di provvedimenti cautelari o sul merito del ricorso. La sospensione cessa non prima dello scadere del termine sospensivo di cui all’articolo 2 bis, paragrafo 2, e all’articolo 2 quinquies, paragrafi 4 e 5». In tal modo, l’ordinamento eurounitario si preoccupa di garantire che la stazione appaltante non addivenga alla stipula di un contratto frutto di una procedura di cui sia stato denunciato il contrasto con le regole di evidenza pubblica fissate dalla stessa Unione, fin quando il giudice adito si sia pronunciato sulle istanze cautelari o sul merito del ricorso.
Il d.lgs. 12.4.2006, n. 163 s.m.i., in attuazione di tale disposizione, ha disposto, all’art. 11, co. 10 ter, che «Se è proposto ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all’udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva. L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell’articolo 14, comma 3, del codice del processo amministrativo, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l’esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all’immediato esame della domanda cautelare».
Dal momento che il nostro sistema ha collegato l’operatività dello standstill alla richiesta della misura cautelare e non alla mera proposizione del ricorso, le nuove misure di dissuasione dalle richieste cautelari aprono un ulteriore evidente problema di compatibilità con il diritto dell’Unione.
L’unica possibilità di superare l’ostacolo frapposto alla garanzia soprassessoria sembra quindi quella – offerta dalla prospettata ipotesi di valorizzazione del riferimento del nuovo co. 8 bis dell’art. 120 alla sola “efficacia” della misura cautelare – di proporre comunque l’istanza cautelare per avvalersi dello standstill processuale, cercando di dilazionarne al massimo la trattazione, e per ottenere una prima pronuncia giurisdizionale a conforto del fumus del ricorso, salvo poi rinunciare ai suoi effetti per sottrarsi al pagamento della cauzione. L’effetto che ne deriverebbe metterebbe però in evidente difficoltà la stazione appaltante, che, a fronte di una pronuncia di accoglimento dell’istanza cautelare inefficace, si troverebbe comunque “stretta” tra le pressioni alla stipula da parte dell’aggiudicatario e il fondato rischio di una imminente conferma nel merito delle valutazioni sulla fondatezza del ricorso già sommariamente compiute in sede cautelare (con le conseguenze che in entrambi i casi potrebbero derivarne in termini di responsabilità).
Un’ulteriore incertezza interpretativa e applicativa nasce dal secondo periodo dello stesso co. 8-bis, il quale stabilisce che le misure cautelari eventualmente concesse «sono disposte per una durata non superiore a sessanta giorni» dalla pubblicazione della relativa ordinanza «fermo restando quanto stabilito dal comma 3 dell’articolo 119». La particolare formulazione utilizzata dal legislatore fa sorgere il dubbio che si sia voluto attribuire al giudice un inedito potere di graduazione temporale dell’efficacia delle misure cautelari. Né è chiaro il senso del richiamo all’art. 119, co. 3, presumibilmente riconducibile all’ipotesi della fissazione del merito entro 30 giorni dalla stessa ordinanza, poco conciliabile con il nuovo obbligo generale di fissazione dell’udienza entro 75 giorni dalla notifica del ricorso.
La lettura combinata delle disposizioni introdotte dall’art. 40 e l’evidenziata difficoltà di definire realisticamente il merito nei termini ivi stabiliti, per ragioni certamente non imputabili al ricorrente, non consente in ogni caso di comprendere la ratio e la sostenibilità del previsto limite massimo di efficacia, che dovrebbe peraltro operare nonostante il versamento della cauzione (!).
2.4 La disciplina transitoria
L’art. 40 si chiude con una disposizione transitoria che ne prevede l’applicazione soltanto ai giudizi «introdotti con ricorso depositato, in primo grado o in appello, in data successiva alla data di entrata in vigore» del decreto. La precisazione è importante perché correla l’applicazione delle nuove norme al deposito e non alla notifica del ricorso e, soprattutto, esclude l’applicabilità delle nuove disposizioni ai motivi aggiunti nei ricorsi già depositati. A questo proposito, occorre però distinguere tra gli ulteriori motivi di censura di provvedimenti già impugnati e i cd. motivi aggiunti impropri, con i quali, in forza dell’art. 43 c.p.a., si impugnano provvedimenti nuovi e che, come confermato dall’onere di pagamento di un nuovo contributo unificato, sono sostanzialmente nuovi ricorsi.
Il tema non è, come si è visto, di poco rilievo per gli effetti prodotti dal nuovo regime.
2.5 Le (ulteriori) misure di contrasto dell’abuso del processo
Il quadro delle disposizioni del d.l. n. 90/2014 incidenti nelle controversie in materia di contratti si completa con un ulteriore inasprimento nei suddetti giudizi delle (già pesanti) sanzioni previste dall’art. 26 c.p.a. a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito temerariamente in giudizio.
L’art. 41, lett. b), del decreto inserisce infatti al co. 2 del predetto art. 26, che, come purtroppo noto, affida al giudice il potere/dovere di condannare d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria compresa tra il doppio e il quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo, quando essa abbia agito o resistito temerariamente in giudizio, la precisazione che «Nelle controversie in materia di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite.».
Sulle problematiche suscitate dalle nuove spese del processo, sia consentito il rinvio all’apposita voce, redatta con A. Carbone, in questo volume.
I problemi sollevati dalla novella legislativa in relazione ai tempi del processo, alla contrazione delle difese e delle pronunce e alle misure economiche di deflazione del contenzioso in materia di contratti pubblici sono ancora più gravi quando si consideri che, pur auspicando che la disciplina sostanziale della materia possa approdare ad un livello di chiarezza e semplicità tale da consentire una facile soluzione delle controversie in tale materia, le regole che disciplinano l’affidamento delle commesse pubbliche sono, quantomeno allo stato della normazione e dell’interpretazione giurisprudenziale, caratterizzate da estrema incertezza (come dimostrano le continue modifiche normative e i numerosi interventi dell’Adunanza Plenaria e della Corte di Giustizia).
La prescrizione di definire il giudizio in tempi estremamente rapidi e in forma semplificata appare pertanto di assai difficile attuazione e rischia di interferire pesantemente sulla garanzia di diritti fondamentali come quello ad una tutela effettiva dinanzi a un giudice equo e imparziale, cui si aggiunge, nel processo amministrativo, il diritto della collettività ad un giudizio che, tramite la sua funzione conformativa, assicuri “la giustizia nell’amministrazione” (ruolo primario riconosciuto al Consiglio di Stato dall’art. 100 Cost.)12; di talché i giudici amministrativi non devono e non possono esaurire il loro compito nel trovare la migliore (i.e. “più giusta”) soluzione della controversia particolare a essi sottoposta, ma, devono “approfittarne” per enucleare dal sistema le regole alle quali le p.a. devono, eventualmente anche al di là del caso concreto, “conformare” la propria attività13.
In ciò sta la forza e la stessa ragion d’essere della giustizia amministrativa e ridurla alla mera definizione della specifica controversia (trasformandola in un “sentenzificio”) equivale a fare un pericoloso passo avanti verso la sua eliminazione. Ed è paradossale e contraddittorio che proprio in un momento in cui, anche e soprattutto in considerazione di questo ruolo interpretativo/conformativo, è stato correttamente riconosciuto al massimo organo della giustizia amministrativa un potere di nomofilachia analogo a quello già riconosciuto alla Corte di cassazione (potere che l’Adunanza Plenaria ha esercitato in questi anni ad altissimo livello), si voglia sostanzialmente svilire il ruolo degli altri collegi, con misure che, imponendo una irragionevole compressione dei tempi del processo e della decisione, impediscono il doveroso approfondimento da parte degli organi giudicanti delle delicate e complesse questioni giuridiche che, colpevole anche il modesto livello dei testi normativi, essi sono necessariamente chiamati a risolvere per rendere una “giusta” decisione della controversia e per tracciare corrette e “sicure” linee guida alla futura azione amministrativa14.
La dottrina che si è occupata del giusto processo ha peraltro correttamente evidenziato come ad una dimensione strutturale o procedurale, relativa alle regole di funzionamento del giudizio, si accompagni una dimensione funzionale o sostanziale incentrata sull’effettività della tutela giurisdizionale, per cui il processo è “giusto” (e, dunque, ha i requisiti minimi per essere davvero un “processo”) solo se garantisce forme adeguate di tutela della posizione giuridica soggettiva fatta valere e, dunque, assicura quella certezza del diritto che è data dalla prevedibilità delle decisioni e non coincide con la definizione dei singoli rapporti.
Da ciò la rilevanza della motivazione, che trova il parametro di valutazione della propria adeguatezza nelle esigenze di giustificazione della statuizione, che variano da caso a caso,ma mai possono risolversi in mere asserzioni. Anche in ragione della richiamata funzione extraprocessuale di controllo democratico dell’operato dei giudici15.
In ogni caso, non sono poi compatibili con il diritto ad una tutela piena ed effettiva nei confronti delle pp.aa. e dei soggetti ad esse equiparati i nuovi limiti che la legge vorrebbe vedere imposti agli scritti difensivi, legandovi una deroga all’obbligo generale di pronuncia su tutti i motivi di ricorso.
Con la conseguenza che i giudici (ma prima ancora il Presidente del Consiglio di Stato deputato all’emanazione del richiamato decreto sui limiti spaziali) avrebbero l’obbligo di disapplicare la predetta disposizione per contrasto con il principio di garanzia di effettività della tutela sancito dall’art. 47 della Carta di Nizza e specificamente ribadito in materia di appalti dalla dir. 2007/66/CE; o, quanto meno, di sollevare la questione della relativa compatibilità costituzionale (in riferimento agli artt. 3, 24, 100, 103, 111, 113 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU) e eurounitaria.
A tale proposito, per sgombrare il campo da facili equivoci, sembra opportuno chiarire che i limiti di pagine indicati dall’UE per i processi davanti ai Tribunali e alla Corte di Giustizia, chiamati comunque a risolvere specifiche questioni di diritto su controversie già istruite, sono mere “istruzioni”, di cui è espressamente consentita la deroga «in casi particolarmente complessi in diritto o in fatto» (per i quali, visto il maggior tempo a disposizione, è possibile ottenere una previa autorizzazione allo “sforamento”) e, soprattutto, alla cui inosservanza non è correlata alcuna conseguenza economica, né tanto meno la riduzione dell’obbligo di pronuncia alle sole questioni affrontate nello spazio indicato16. A ciò si aggiunga, in termini dirimenti, che nel processo eurounitario il limite dimensionale degli scritti difensivi, ben lungi dall’essere finalizzato a bilanciare irragionevoli misure acceleratorie di processi già normalmente definiti (in entrambi i gradi) in meno di due anni, trova precisa ragion d’essere nell’esigenza di contenere i costi delle traduzioni in tutte le lingue dei componenti della Commissione: un problema che, evidentemente, non si pone nel nostro processo, nel quale dunque l’obbligo incondizionato di “abbreviazione”, tanto degli scritti difensivi, quanto delle pronunce, si traduce in mero detrimento del valore primario della Giustizia.
La disposizione, oltre a essere assolutamente irragionevole, sproporzionata e gravemente lesiva del diritto di difesa, esponendo lo Stato a facili azioni di responsabilità dinanzi agli organi dell’Unione europea e alla CEDU, è comunque all’evidenza inapplicabile, quando si consideri che i) è sostanzialmente impossibile predefinire con certezza i casi di deroga (quando, cioè «per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti») e, nei tempi brevissimi delle difese, è all’evidenza impensabile un sistema di autorizzazione ex ante, ii) il «valore effettivo della controversia» è di assai difficile predefinizione, tenendo conto che anche un appalto di modesto valore può essere decisivo per la sopravvivenza di un’impresa, iii) è addirittura impossibile predefinire i «diversi interessi sostanzialmente perseguiti» (espressione per sua natura fortemente incerta) e iv) non minore difficoltà presenta, com’è ovvio, la differenziazione preventiva dei limiti delle pagine sulla base della “natura tecnica”. È poi di tutta evidenza che lasciare l’individuazione dei limiti all’esercizio di un diritto fondamentale come quello di difesa alla valutazione discrezionale dei singoli collegi (per quanto si possa confidare nel loro “buon senso”) contrasta con il principio di prevedibilità delle conseguenze dei propri comportamenti (principio di certezza del diritto), oltre che con il principio di uguaglianza, che, nuovamente, assumono ancora più alta valenza quando si riferiscano alla tutela giurisdizionale.
Con ulteriore conferma della necessità di radicale disapplicazione della nuova disposizione.
Occorre in ogni caso precisare che a) «le intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto» sono soltanto il minimum da escludere, nulla evidentemente ostando a che il decreto, alla luce di una lettura coerente con il quadro costituzionale ed europeo, escludere dal computo tutte le parti diverse dalla prospettazione delle questioni e dunque, in primis, la descrizione del fatto; b) la decisione del collegio di ammettere pagine ulteriori e comunque la pronuncia sulle questioni trattate in pagine “ulteriori” rispetto a quelle indicate, non può in ogni caso costituire motivo di impugnazione.
Anche sul piano della ragionevolezza, è facile poi rappresentare i riflessi negativi delle nuove disposizioni sulla piena cognizione che i giudici dovrebbero sempre avere della controversia, anche e soprattutto in una materia complessa e delicata come quella dei contratti pubblici, nella quale il principio di garanzia del giudice naturale impone che il giudice amministrativo conservi un ruolo primario, certamente non inferiore a quello che, in termini sempre più incisivi, ha assunto il giudice penale. La tendenza semplificatrice si pone sotto tale profilo in illogico contrasto con la linea di maggiore attenzione al settore seguita con l’introduzione della legittimazione ad agire dell’AGCM17 e l’istituzione dell’ANAC18, indici della riconosciuta esigenza di non lasciare impunite e incontrastate le violazioni alle regole pro-concorrenziali imposte dall’UE19 e di combattere i fenomeni di corruzione che alterano la legittima conduzione delle gare pubbliche.
Si auspica pertanto che il legislatore ritorni sollecitamente sulla materia, valutando e ponderando con maggiore attenzione i molteplici profili in cui si articola il sistema processuale, per cercare una soluzione che, pur in linea con i propri obiettivi (o, forse, realmente in linea con essi), riesca, da un lato a rispettare i principi di effettività della tutela e, dall’altro, a creare un modello che, al di là delle dichiarazioni mediatiche, sia concretamente in grado di funzionare.
A questi fini occorrerà in particolare tenere realisticamente conto delle concrete situazioni fattuali che incidono sulle tempistiche processuali per circostanze che prescindono dalla volontà e dalla diligenza degli interessati, come quelle legate ai ritardi delle stazioni appaltanti nell’ostensione e nel deposito degli atti di gara, prevedendo apposite sanzioni a loro carico.
Nel rinviare, per le problematiche suscitate dalle nuove “sanzioni economiche” e dalla cauzione per la misura cautelare, all’apposita voce di questo volume, merita, in ultimo, svolgere alcune sintetiche riflessioni su questioni vecchie e nuove del processo telematico e della notifica e comunicazione a mezzo pec. I tempi estremamente compressi del giudizio amministrativo e la circostanza che esso ha sempre come parte naturale almeno una p.a. e spesso si svolge tra persone giuridiche impongono invero di disciplinare gli orari nei quali le predette notifiche e comunicazioni devono ritenersi effettivamente pervenute, tenendo conto degli orari di apertura degli uffici pubblici.
In altri termini, per una indispensabile salvaguardia del diritto di difesa e del principio di parità delle armi, una comunicazione o una notifica trasmessa a mezzo pec (ma il discorso vale anche per il fax) dopo l’orario medio di chiusura degli uffici pubblici (e dunque anche nei giorni non lavorativi) deve valere come effettuata al momento della riapertura.
Diversamente, un termine a difesa già molto ridotto (si pensi a quelli di cinque o di dieci giorni) rischia di diventare inaccettabile.
Anche su questo profilo, sarebbe quindi opportuno un sollecito intervento correttivo.
1 Sulle linee essenziali della disciplina, cfr. inter alia, Matteucci, F., Il processo amministrativo accelerato: il rito abbreviato comune a particolari materie e il giudizio sulle procedure contrattuali negli artt. 119 e 120 cpa, in Sandulli, M.A., a cura di, Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013.
2 Cfr., supra, Sandulli,M.A.-Carbone, A., Le nuove misure economiche di deflazione del contenzioso.
3 Cfr. in termini fortemente critici, Sandulli,M.A., Osservazioni a primissima lettura sull’impatto del d.l. 24 giugno 2014 n. 90 sul sistema di giustizia amministrativa e Il tempo del processo come bene della vita, in www.federalismi.it e Lipari, M., L’efficienza della p.a. e le nuove norme per il processo amministrativo, in www.giustamm.it.
4 Cfr. ancora Sandulli, M.A.-Carbone, A., cit.
5 Resa a proposito dell’art. 19 del d.l. 25.3.1997, n. 67, precisando in particolare che la sentenza succintamente motivata deve comunque avere «tutte le caratteristiche, per il tipo di cognizione piena e gli effetti, dell’ordinaria sentenza che chiude il processo, escluso ogni carattere di “procedura sommaria”».
6 Calamandrei, P., Elogio dei giudici scritto da un avvocato, (1936), rist. Milano, 2001, 174.
7 Sull’esigenza che il potere del giudice sia sempre “sottoponibile a verifiche logiche”, Villata, R., Riflessioni introduttive allo studio del libero convincimento del giudice nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1990, 217.
8 La particolare delicatezza di decidere se un precedente sia conforme (si ricordi la pluricentenaria prassi speculare del giudice di common law, che fa evolvere il diritto motivando sul perché un dato precedente non sia “conforme” e necessiti quindi affermare regole progressivamente nuove), rende anche questo aspetto degno della massima attenzione nella pur stringata motivazione della sentenza ex art. 74 c.p.a. Nella prassi assai spesso la affermata “conformità” di precedenti richiamati in quella sede si rivela illusoria a un confronto critico fra le due vertenze.
9 Vacirca, G., Riflessioni sulla forma delle sentenze e dei pareri, in Foro amm., 1982, 1616.
10 I limiti del presente scritto impongono di nuovo il rinvio a Sandulli,M.A., Il tempo del processo, cit. e agli aa. ivi richiamati, e tra essi in particolare, Clini, A., La forma semplificata della sentenza nel “giusto” processo amministrativo, Padova, 2009.
11 Ciò ne evidenzia semmai a titolo ulteriore l’irragionevolezza, stante che l’“esperimento” è condotto sulla pelle delle parti coinvolte nelle vertenze del periodo sperimentale.
12 Mi si consenta il rinvio a Sandulli, M.A., Osservazioni conclusive, in Atti del Convegno “Il ruolo del giudice: le magistrature supreme” svoltosi presso l’Università degli studi “Roma Tre” il 18 e 19 maggio 2007, Milano, 2007.
13 Per tutti, Nigro,M., La giustizia amministrativa, Bologna, sin dalla I ed. del 1973; id, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 1163. Sulla funzione conformativa delle sentenze amministrative cfr. anche Andreani, A., Dispositivo e contenuto decisorio della sentenza amministrativa, in Atti del XXVII Convegno di Studi amministrativi dell’Amministrazione provinciale di Como,Milano, 1983; Benvenuti, F.,Giudicato (dir. amm.), in Enc. dir., XVIII, 892 ss.; Sandulli, A.M., Il giudizio innanzi al Consiglio di Stato,Napoli, 1963, 423; Barbagallo,G., Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in Paleologo, G., a cura di, I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano, 1998, che richiama per una sua espressa affermazione Cons. St., A.G., 6.10.1994, n. 236. Nella posizione più tradizionale Guicciardi, E., La giustizia amministrativa, Padova, 1954, 181 ss. e Capaccioli, E., Per la effettività della giustizia amministrativa (saggio sul giudicato amministrativo), in Imp. amb. p.a., 1977, I, 3 ss.. Patroni Griffi, F., La sentenza amministrativa, in Cassese, S., a cura di, Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, 4459. Sulla peculiarità della funzione della g.a., cfr. le Relazioni al Convegno di Varenna su Diritto ed economia, cit., e in particolare la Relazione introduttiva di A. Pajno, in www.giustizia-amministrativa.it.
14 Calabrò, C., Il giudizio di ottemperanza, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, III, 2022: «L’annullamento è la breccia attraverso la quale la funzione orientatrice della sentenza amministrativa penetra nelle linee di azione dell’amministrazione».
15 Barbagallo, G., Stile e motivazione, cit., 256: «un pubblico colto di non esperti, leggendo una buona parte delle decisioni del Consiglio di Stato, dovrebbe essere in grado di capire la questione, la soluzione e le ragioni di essa».
16 Cfr. Corte di Giustizia e Tribunale di primo grado, “Istruzioni pratiche alle parti”, in GUCE 4.4.2002 e le istruzioni della Corte di Giustizia sul rinvio pregiudiziale in GUCE 28.5.2011.
17 Art. 21 bis, l. 10.10.1990, n. 287, su cui Cossu, L., Potere delle Autorità di impugnare gli atti delle P.A., in Libro dell’anno del diritto, 2013.
18 Su cui la voce di Sticchi Damiani, S., in questo volume.
19 Da ultimo, significativamente, Cons. St., sez. VI, 12.9.2014, n. 466.