Le novità del D.M. Salute 18 novembre 2012
Il cd. “decreto Balduzzi” (d.l. 13.9.2012 n. 158, conv. in l. 8.11.2012 n. 189), pur non ripromettendosi di operare una vera e propria riforma organica del Servizio sanitario nazionale, ha introdotto innovazioni significative nell’architettura del sistema volte ad accrescere l’efficienza delle sue funzioni fondamentali. L’insieme degli interventi contenuti nel decreto può considerarsi, inoltre, la risposta del legislatore alla esigenze di contenimento della spesa che incidono in modo particolare sul versante dell’organizzazione amministrativa. Fra i molti ambiti incisi dalle nuove disposizioni, vengono presi particolarmente in esame: la riorganizzazione dell’assistenza territoriale; le ricadute sul rapporto di lavoro del personale e, in particolare, sulla regolamentazione della libera professione intramuraria dei medici ospedalieri; le novità in tema di dirigenza sanitaria e governo clinico. Si tratta di modifiche la cui entrata a regime è stata calendarizzata nel 2013, e la considerazione del profilo temporale ne giustifica la trattazione all’interno del presente volume.
La locuzione “assistenza territoriale” indica, essenzialmente, l’insieme di prestazioni sanitarie erogate al di fuori delle strutture ospedaliere. Tali prestazioni, sul piano organizzativo, coincidono per lo più con le attività e funzioni che vanno sotto il nome di “cure primarie”: cure più prossime agli assistiti, di minore complessità tecnica e che, perciò, precedono logicamente l’accesso ai nosocomi1.
La prestazione libero professionale intramuraria svolta dal medico condivide con l’attività istituzionale, che il medesimo presta sempre nella struttura di appartenenza, gli elementi qualificatori, essendo anch’essa resa con continuità e con apporto prevalentemente personale e finalizzata a concorrere alla realizzazione degli obiettivi aziendali, in modo da costituire una peculiare modalità organizzativa dell’azienda nell’erogazione dei servizi sanitari.
Con l’espressione “Governo clinico” (Clinical governance) si fa riferimento al novero di strumenti gestori preordinati a favorire il superamento delle barriere ideali e professionali presenti nelle aziende del Servizio sanitario nazionale in cui, tradizionalmente, le varie categorie di professionisti che vi operano (medici, farmacisti, veterinari, psicologi, biologi…), unitariamente considerate quale componente per l’appunto professionale, sono chiamate a interagire e a misurarsi con la componente burocratica dell’azienda, rappresentata, al vertice, dal suo top management: direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo. Sul piano organizzativo la gestione dell’azienda, e le correlate responsabilità, risultano separate dal livello della produzione delle prestazioni sanitarie: il che pone problemi di raccordo il cui costo, in termini culturali prima ancora che funzionali, si riversa innanzitutto sul terreno della qualità delle cure.
Si passa ora a trattare, specificamente, delle tre tematiche centrali che, per quanto attiene al piano organizzativo e del rapporto di lavoro del personale medico, emergono dall’analisi del ”decreto Balduzzi”: tematiche peculiari e distinte ma, allo stesso tempo, accomunate dalla filosofia di fondo di valorizzare le indicazioni provenienti dalla prassi e dalle sollecitazioni di dottrina e giurisprudenza nel senso di una migliore, più trasparente e più efficace ed efficiente organizzazione delle strutture e dei servizi, tenendo conto delle ineludibili esigenze del vincolo di bilancio e della sempre più ridotta disponibilità di risorse finanziarie.
2.1 La riorganizzazione delle cure primarie e dell’assistenza territoriale
Ad onta della evidente centralità delle cure primarie nel contesto sanitario, anche nella prospettiva della realizzazione del fine comunitario della coesione sociale, si tratta di un settore disorganico, nel cui ambito non è stato finora agevole delimitare con esattezza le prestazioni che vi sono ricomprese; così come, uno stato di marcata incertezza avvolge il profilo dei livelli istituzionali competenti e delle professionalità da coinvolgere.
Ciò dipende anche dal tuttora elevato numero di ospedali che affollano il territorio e che necessitano di una legittimazione quanto meno formale: le piccole strutture ospedaliere, pur non somministrando assistenza per acuti, continuano a far fronte alla generica domanda di assistenza, non solo di tipo sanitario, delle fasce più deboli della popolazione, con costi esorbitanti ed inappropriati, rendendo difficoltosa la tracciabilità dei processi produttivi e dei flussi di risorse finanziarie necessarie, elemento cruciale per una efficace politica di programmazione.
Le radici del fenomeno rimontano alle scelte compiute dal nostro legislatore, fin dai decenni precedenti l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (da ora “SSN”), in direzione di quella cultura «nosocomiocentrica» cui ha contribuito in modo significativo la legge di riforma ospedaliera n. 132 del 1968 (cd. “legge Mariotti”). L’assistenza incentrata prevalentemente sull’ospedale doveva considerarsi il precipitato di un’idea di salute coincidente, in senso riduttivo, con la mera assenza di malattia2. Questa nozione originaria lasciò, ben presto, il posto ad un nuovo concetto di salute, intesa quale “benessere psichico, fisico e sociale”, accolto in atti e documenti di organizzazioni internazionali del settore, dalla modesta vincolatività giuridica ma di grande impatto politico-culturale: l’obiettivo di uno stato completo di benessere, se non può formare oggetto di una pretesa determinata ed esigibile, può ben rappresentare, invece, un obiettivo ispiratore delle varie legislazioni3. Si è, dunque, iniziato dall’ospedale a riformare la sanità, ed è stato un «po’ come partire dalla fine, dall’atto più importante e decisivo»4. Uno dei postulati ideologici ispiratori della corrente politico-culturale riformatrice, favorevole ad un Servizio sanitario universale e gratuito per tutti, fu proprio la diffusione di un concetto di salute coincidente con quello di benessere completo dell’individuo. In altre parole, il cambiamento culturale in parola, se da un lato ha soggettivizzato lo stato di salute, facendolo coincidere, sostanzialmente, con un valore percepito dall’individuo, dall’altro ha modificato, dilatandolo, l’oggetto della tutela assicurata dalle prestazioni sanitarie e, con esso, lo stesso rapporto tra amministrazione della sanità e cittadini utenti, tra ciò che si pretende dai soggetti pubblici erogatori e ciò che, invece, è possibile garantire. Gli effetti economico-finanziari di lungo periodo, apprezzabili in termini di aumento esponenziale e sempre più insostenibile della spesa pubblica, alimentati anche dalle incrostature ideologiche che un sistema tenacemente filopubblicistico ha prodotto, sono stati la causa principale dell’insuccesso della riforma del 1968 rallentata, per di più, dalla parcellizzazione dei centri di potere.
Di conseguenza, l’amministrazione sanitaria e, soprattutto, ospedaliera hanno rappresentato un’occasione favorevole allo sviluppo ipertrofico del potere della pubblica amministrazione, usato per lo più in funzione di governo e acquisto del consenso politico, specialmente a livello locale.
La legge Mariotti, oltre a rappresentare la risposta all’esigenza divenuta ormai pressante di uniformare la sanità dal lato dell’offerta, eccessivamente frammentata nel sistema delle mutue, ha prodotto effetti ancora oggi molto ben tangibili: l’ospedale continua ad essere l’unica struttura sanitaria ad avere un modello organizzativo ben definito, ad esprimere un profilo chiaro, strutturale e funzionale. E tale nitidezza altro non è che il frutto di una legislazione puntuale quale fu quella del 1968, che ha disegnato direttamente l’ordinamento dei servizi, senza delegare al Governo questo compito. La l. n. 132 traccia l’architettura organizzativa del costituendo ente ospedaliero secondo uno schema, quello dell’organizzazione delle unità funzionali dell’ospedale per sezioni e divisioni che, diffusamente, resiste ancora oggi quanto meno nella percezione dell’utenza5. E tale organizzazione è rimasta pressoché invariata negli anni ed è stata capace di influenzare l’edilizia ospedaliera e i percorsi di carriera del personale, soprattutto medico, che su quell’organizzazione sono stati da sempre costruiti. Ciò dimostra che quando è direttamente il legislatore ad introdurre un modello organizzativo chiaro e ben riconoscibile, quest’ultimo facilmente e in tempi brevi si radica fino a diventare punto di riferimento e un parametro per l’innovazione. La tipizzazione istituzionale è alla base dell’ordinamento del 1968, e si è poi proiettata su tutti gli altri piani, soprattutto su quello organizzativo, prevedendo un modello dettagliato ed uniforme per gli organi amministrativi e per i servizi6.
Ciò che, invece, è sempre mancato alla regolazione dell’«altra sanità» – cioè, dell’assistenza territoriale – è proprio la tipicità istituzionale come criterio guida dell’intervento normativo. Sicuramente, la natura stessa delle prestazioni da erogare al di fuori dell’ospedale, ma anche la difficile individuazione di tutta l’utenza potenziale dell’assistenza territoriale, non hanno consentito in passato e non permettono tuttora di tipizzare l’organizzazione con la stessa coerenza e precisione con cui fu possibile intervenire sugli ospedali.
Sul tema in oggetto è, nondimeno, intervenuto il d.l. 13.9.2012 n. 158 (conv. in l. 8.11.2012, n. 189) il quale, muovendo dalla constatazione che una nutrita serie di norme adottate negli ultimi anni in vista del contenimento della spesa pubblica ha determinato una cospicua riduzione delle risorse finanziarie destinate al Servizio Sanitario Nazionale, si ispira ad una diversa metodologia: rinunciare all’imposizione di ulteriori risparmi ed operare un sollecito riassetto dei fondamentali elementi organizzativi del SSN che tenga conto sia dei tagli già imposti, soprattutto all’offerta ospedaliera, sia della necessità di una adeguata riqualificazione della rete di assistenza sanitaria e farmaceutica.
Tra i punti qualificanti del decreto, racchiusi in sedici articoli suddivisi in quattro capi, merita una sottolineatura proprio il riordino delle cure primarie (art. 1), attraverso la costituzione di una rete territoriale integrata dei servizi sanitari e sociali in cui possano operare in coordinamento funzionale i vari professionisti secondo una logica multidisciplinare e in base ai principi di collaborazione ospedale-territorio, di continuità assistenziale, di appropriatezza delle prestazioni e del luogo di cura: in un contesto che affida un ruolo importante alla contrattazione collettiva, stante il coinvolgimento di dipendenti del SSN, le regioni, nei limiti delle disponibilità finanziarie, dovranno privilegiare la realizzazione di reti di poliambulatori territoriali sempre aperti, per l’intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana, dotati di strumentazione di base e operanti in sinergia e in collegamento telematico con le strutture ospedaliere.
La proposta relativa all’assistenza territoriale riprende, in linea di principio, alcune soluzioni già contenute negli accordi di settore ed elaborate dalle scienze economiche e dell’organizzazione7: in particolare, la riorganizzazione dei servizi territoriali mediante l’adozione di forme organizzative monoprofessionali e multiprofessionali: le prime, le cd. “aggregazioni funzionali territoriali”, condividono, in forma strutturata, obiettivi e percorsi assistenziali, strumenti di valutazione della qualità assistenziale, linee guida, audit e strumenti analoghi; le seconde, denominate unità complesse di cure primarie, dovranno erogare, in coerenza con la programmazione regionale, prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’integrazione dei medici e delle altre professionalità convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria. I nuovi moduli organizzativi erogano l’assistenza primaria attraverso personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, vale a dire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e gli specialisti ambulatoriali. È nella facoltà delle Regioni, peraltro, prevedere senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la presenza, presso le medesime strutture sulla base della convenzione nazionale, di personale dipendente del Servizio sanitario nazionale, in posizione di comando ove il soggetto pubblico incaricato dell'assistenza territoriale sia diverso dalla struttura di appartenenza. La portata innovativa della riforma è affidata alla tecnica della novella dell’art. 8, d.lgs. n. 502/ 1992. Il riordino delle cure primarie risponde all’esigenza di un rafforzamento del territorio, necessario contrappeso della deospedalizzazione e ha come obiettivo l’attuazione di un modello di rete integrata di servizi sanitari e sociali che risponda ai criteri organizzativi della collaborazione tra ospedale e territorio, di continuità assistenziale e di appropriatezza del luogo della cura. Altro punto qualificante della riforma dell’assistenza territoriale è la previsione del ruolo unico dei medici di medicina generale, disciplinato dalla convenzione nazionale, fermi restando i livelli retributivi specifici delle diverse figure professionali.
Si è sopra accennato, e se ne trova conferma nella stessa relazione tecnica di accompagnamento del disegno di legge, come l’art. 1 abbia riproposto, aggiornandole, le soluzioni già proposte negli Accordi collettivi nazionali della medicina generale. Il compito principale assunto dal legislatore è quello di favorire una maggiore integrazione di tutte le categorie professionali operanti nel SSN migliorando i collegamenti fra esse e le Aziende e gli enti dello stesso SSN. Le attività erogate sul territorio saranno formalmente collegate e comprese tra quelle previste nei livelli essenziali (così art. 1, c. 4 lett. a) d.l. 158/ 2012). Le nuove forme organizzative multiprofessionali potranno essere finanziate dalle aziende sanitarie possano anche per il tramite del distretto sanitario, con forme di finanziamento a budget.
Alla cd. “riforma Balduzzi” va riconosciuto il merito di aver cristallizzato in una fonte primaria gli esiti di un percorso organizzativo finora sviluppatosi nel solo ambito degli accordi di categoria. La partecipazione dei singoli professionisti alle diverse forme organizzative previste, tuttavia, difficilmente potrà discostarsi dal modello dell’adesione volontaria, non essendo ravvisabile uno strumento giuridicamente efficace e vincolante per l’avvio e l’implementazione dei nuovi modelli.
Il medico di medicina generale, invero, continua a configurarsi come un lavoratore autonomo o pararsubordinato, in ogni caso non dipendente dal SSN. Mentre le innovazioni organizzative all’interno dell’ospedale sono destinate ed efficacemente “imposte” ai professionisti in forza del rispettivo incardinamento nell’azienda sanitaria, con riguardo al territorio l’unico meccanismo capace di far accettare pienamente il nuovo sistema è rimesso, allo stato, a forme di cd. moral suasion realizzabili per lo più grazie al riconoscimento di incentivi di carattere economico legati all’adesione dei singoli professionisti al progetto. D’altro canto, una modifica incisiva del rapporto di lavoro che superi il sistema delle convenzioni in favore di un modello di lavoro subordinato, richiederebbe tempi e modalità ben più impegnativi di un decreto legge adottato da un governo tecnico di breve corso.
Nessuna attenzione è stata, viceversa, dedicata dalla riforma alla spinosa questione dei percorsi di carriera dei medici convenzionati, categoria che include liberi professionisti i quali fruiscono di una possibilità di guadagno regolata dal sistema delle convenzioni e dei massimali dei pazienti assistibili. Il loro legame funzionale con gli enti del SSN, del resto, non contempla nemmeno la progressione di carriera secondo il modello tipico del mercato burocratico8 qual è, invece, per molti rilevanti profili quello dei medici dipendenti dalle strutture ospedaliere e dagli enti pubblici del SSN. La doppia natura del medico convenzionato funge, così, da limite alla identità e alla visibilità nel sistema di questo corpo di professionisti, incidendo sensibilmente anche sulle motivazioni a rendere la prestazione lavorativa. L’accesso al ruolo ora unico della medicina convenzionata, a fronte di una retribuzione garantita, annulla di fatto ogni aspettativa di carriera per il professionista all’interno di un sistema sanitario di cui però la medicina convenzionata è parte integrante.
2.2. Le nuove regole sull’attività libero-professionale intramoenia
La ratio della previsione legislativa (art. 15 quinquies, d.lgs. n. 502/1992 e s.m.i.) che autorizza l’esercizio dell’attività intramuraria è stata identificata con l’esigenza di controbilanciare le regole in materia di incompatibilità nel settore medico e di permettere che le aziende sanitarie ed ospedaliere, dotate di autonomia finanziaria, possano beneficiare di nuove entrate9, che in alcune regioni vengono ulteriormente incrementate, generando dubbi circa il rispetto delle regole a tutela della concorrenza: ci si riferisce alla quota di incremento delle tariffe forfettariamente determinata (ad es., nella misura del 10% nella regione Lazio)10 e genericamente destinata al ristoro delle spese di gestione che le aziende stesse sostengono per le attività inerenti alle prestazioni libero professionali.
A monte del discorso vi è la consapevolezza che stabilire una totale incompatibilità fra lo status di medico dipendente della struttura pubblica e l’esercizio di attività libero-professionale – ipotesi pur rientrante nella discrezionalità legislativa e, in linea di principio, condivisibile nella misura in cui tende all’obiettivo di scongiurare, in un sistema di libera concorrenza tra strutture pubbliche e private, l’accaparramento di clientela da parte delle seconde a scapito delle prime su iniziativa dei dirigenti di queste ultime – si risolverebbe in un depauperamento delle migliori energie del settore pubblico, laddove ai professionisti che in esso operano non fosse consentito lo svolgimento di attività libero-professionale nemmeno all’interno delle amministrazioni di appartenenza.
Una particolare attenzione alla tematica in oggetto ha rivolto il d.l. n. 158/2012, puntando a migliorare, secondo una linea di maggior rigore, la disciplina riguardante l’attività libero professionale intramoenia (art. 2), afflitta da un regime transitorio ormai cronico e condizionata da alcune difficoltà strutturali legate alla carenza di spazi adeguati presso le aziende sanitarie di appartenenza del prestatore.
Si possono evidenziare, esaminando il provvedimento, tre convergenti linee direttrici: a) implementazione degli spazi da parte dell’azienda, anche tramite acquisto o locazione di locali presso strutture sanitarie autorizzate non accreditate o mediante stipula di convenzioni con altri soggetti pubblici; b) avvio, in alternativa, di un programma sperimentale, suscettibile di stabilizzazione previa positiva verifica entro il 28 febbraio 2015, per lo svolgimento dell’attività in questione negli studi privati dei professionisti collegati in rete all’azienda attraverso una infrastruttura telematica che consenta l’avocazione di tutti gli adempimenti (come le prenotazioni) da parte dell’azienda medesima e la trasmissione continua ad essa di tutti i dati, che devono essere pienamente tracciabili, afferenti all’attività intramuraria (impegno orario del sanitario, pazienti visitati, prescrizioni effettuate ed estremi dei pagamenti, da corrispondere sempre e comunque all’ente o azienda del SSN)11; c) determinazione degli importi a carico dell’assistito volti a coprire i vari costi, sia per la prestazione ricevuta che per gli oneri sostenuti dall’azienda, la quale beneficerà di un’ulteriore quota del 5% del compenso del professionista, peraltro già sottoposto a pesanti trattenute12, destinata ad interventi di prevenzione o di riduzione delle liste d’attesa.
Il calendario dettato dal decreto Balduzzi prevede che entro il 31 marzo 2013 le regioni predispongano una infrastruttura di rete per il collegamento tra l’azienda e le singole strutture nelle quali vengono erogate le prestazioni di attività libero professionale intramuraria, interna o in rete. Gli interessati possono chiedere – e la domanda è sottoposta al regime del silenzio assenso – la temporanea continuazione dello svolgimento di attività libero professionali presso studi professionali già autorizzati fino all’attivazione del loro collegamento operativo alla suddetta infrastruttura, e comunque non oltre il 30 aprile 2013; dopo tale data l’attività potrà essere svolta solo presso studi collegati in rete, a condizione che non vi lavorino anche professionisti non dipendenti o non convenzionati col SSN, e salvo deroga che può essere concessa dall’azienda, su disposizione regionale, a condizione che sia garantita la completa tracciabilità delle singole prestazioni effettuate da tutti i componenti dello studio professionale associato, con esclusione, in ogni caso, di qualsiasi addebito a carico del Servizio sanitario.
Nelle more dell’attuazione della riforma13, è da segnalare la prevista maggiorazione del 5% che verrà automaticamente applicata ai valori tariffari di ogni prestazione medica libero-professionale resa in regime intramurale.
Si tratta di una modalità di prelievo già sperimentata in alcuni ordinamenti regionali e che dà adito a dubbi circa il rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza e, talvolta, riguardo alla sua stessa legittimità.
Si pensi al caso della regione Lazio, ove – al fine di agevolare la realizzazione degli obiettivi del piano di rientro – con decreto del commissario ad acta è stato disposto un incremento del 10% delle tariffe professionali destinato al ristoro delle spese di gestione sostenute per l’attività intramoenia dalle aziende14.
Ancor più consistente la misura alternativa di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie, pari al 29% dell’importo tariffario, introdotta di recente con atto della Giunta della Regione Umbria15, facendo leva sull’art. 1, co. 796, lett. p-bis, punto 2, l. n. 296/2006, cit., che consente alle singole regioni, in alternativa all’applicazione di una quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro, di stipulare con i Ministeri della salute e dell’economia «un accordo per la definizione di altre misure di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie, equivalenti sotto il profilo del mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario e del controllo dell’appropriatezza».
Tuttavia, considerando la conformazione tipica dell’intramoenia, secondo cui la prestazione viene liberamente richiesta dall’utente che si accolla la tariffa comprensiva di tutti i costi diretti ed indiretti (onorario del professionista, compenso per il personale di supporto, spese aggiuntive, etc.), risalta la diversità fra la fattispecie prevista dalla normativa statale del 2006 e il citato provvedimento amministrativo della giunta umbra.
Mentre, infatti, il prelievo alternativo alla quota forfettaria sulla ricetta si giustifica in quanto finalizzato al parziale pagamento del costo della prestazione resa in regime ordinario secondo la logica del servizio pubblico, qualsiasi ulteriore maggiorazione dell’importo che venga addebitata al paziente al di fuori del rapporto sinallagmatico non sembra potersi qualificare come forma di compartecipazione al costo della prestazione ma, tutt’al più, come misura di finanziamento della spesa sanitaria genericamente intesa: in altre parole, una sorta di imposta bisognosa di un adeguato fondamento legislativo che ne autorizzi l’esazione.
2.3 Le modifiche alla disciplina della dirigenza sanitaria e del governo clinico
Il dualismo tra componente professionale e componente burocratico-manageriale, accentuatosi con le riforme in senso aziendalistico del sistema, è percepito dai professionals come un pericolo per il mantenimento della propria autonomia, nella consapevolezza che la struttura di appartenenza risponde a logiche di tipo squisitamente economico. E la filosofia del governo clinico si comprende nella prospettiva di ricomporre le fratture, e ridurre le distanze, fra il professionalismo dei sanitari e la gestione manageriale delle aziende. Si tratta, tuttavia, di un istituto sfornito di caratterizzazione giuridica e che, mutuato dalle scienze economiche e dell’organizzazione, ha trovato impiego dapprima in documenti di indirizzo politico, essenzialmente nei cd. libri bianchi, e più di recente negli atti di programmazione di settore adottati in sede legislativa, nazionale e regionale.
Sul versante operativo, il governo clinico si traduce in un modello di gestione e controllo idoneo alle esigenze di aziende complesse come quelle sanitarie, nella misura in cui favorisce la partecipazione dei professionals alle scelte fondamentali. In concreto, la finalità è quella di realizzare un sistema non più ancorato a logiche gerarchiche, ma ispirato a logiche concertative e negoziali capaci di rendere i gruppi professionali corresponsabili dei risultati dell’organizzazione nella quale sono incardinati. Strumenti quali la valorizzazione delle professionalità individuali, i meccanismi di valutazione, la responsabilizzazione per il rapporto fra obiettivi e risultati, tendono ad incentivare il confronto e il coinvolgimento nei processi decisionali.
In questa cornice si situa l’art. 4, d.l. n. 158/2012, il quale – rubricato Dirigenza sanitaria e governo clinico – sostituisce il testo vigente dell’art. 17, d.lgs. n. 502/1992, dettando una nuova disciplina per il collegio di direzione. Nella logica del governo clinico, tale consesso costituisce la sede istituzionale per la concertazione tra professionals e top management relativamente agli aspetti fondamentali per la vita dell’azienda. Nell’impianto della riforma del 1992, la scelta in ordine alla composizione di questo organo era lasciata alla discrezionalità delle singole regioni. Con questa disposizione, il legislatore dell’epoca, nell’introdurre l’aziendalizzazione del servizio sanitario e, con esso, la managerialità nella gestione, si era al contempo premurato di compensare la ridotta capacità della componente professionale di incidere sulle dinamiche delle istituende aziende sanitarie.
Il decreto Balduzzi, sollevando qualche dubbio circa la conformità al nuovo assetto di riparto delle competenze legislative alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione, riscrive dunque l’art. 17 del decreto 502.
Il Collegio di direzione diviene “organo” dell’azienda che si va ad aggiungere al direttore generale e al collegio dei revisori. Si tratta di un novum rilevante, che modifica uniformemente la conformazione strutturale di fondo dell’ente sanitario, continuando a rimettere le determinazioni relative alla specifica composizione del collegio ai legislatori regionali, tenuti in ogni caso ad assicurare il coinvolgimento di tutte le figure professionali presenti nella azienda o nell’ente. Alla Regione compete altresì di definire le competenze, i criteri di funzionamento, nonché le relazioni tra il collegio e gli altri organi, soprattutto con la direzione generale. Ai sensi del riformulato art. 17, il collegio di direzione concorre al governo delle attività cliniche, partecipa alla pianificazione delle attività, incluse la ricerca, la didattica, i programmi di formazione e le soluzioni organizzative per l’attuazione dell’attività libero-professionale intramuraria. Nelle aziende ospedaliero-universitarie partecipa, inoltre, alla pianificazione delle attività di ricerca e didattica, sulla base di quanto definito dall’università nella sua autonomia costituzionalmente garantita e alla luce della fisionomia precipua delle aziende universitarie che abbina alle funzioni assistenziali le attività di ricerca e didattica.
Infine, il collegio è chiamato a contribuire allo sviluppo organizzativo e gestionale delle aziende, con particolare riguardo alla individuazione degli indicatori di risultato clinico-assistenziale e di efficienza, nonché dei requisiti di appropriatezza e di qualità delle prestazioni. E partecipa alla valutazione interna dei risultati conseguiti in relazione agli obiettivi prefissati.
Il ruolo del nuovo organo viene assai opportunamente valorizzato già a monte, e non solo a valle, del processo di valutazione dell’attività clinica: esso, infatti, coopera alla determinazione degli indicatori di risultato che, se negoziati fra management e componente professionale, attuano una logica bottom up meglio accettata da quest’ultima rispetto agli obiettivi imposti top down.
In conclusione, il governo clinico trova nel d.l. n. 158 una lodevole consacrazione, quale sede centrale e privilegiata di confronto e negoziazione tra manager e professionisti. Rimane da attendere il grado di attuazione concreta che le regioni sapranno fornirgli; e resta, in ogni caso, il rammarico per alcune incompletezze, quali la mancata previsione circa la vincolatività dei pareri che l’organo rende al direttore generale, pur tenuto a consultarlo obbligatoriamente, e il non aver più inserito l’obbligo per lo stesso direttore generale di avvalersi del collegio per l’organizzazione e lo sviluppo dei servizi, e per l’utilizzo delle risorse umane (si pensi al profilo strategico della definizione dei percorsi di carriera del personale). Sul piano, più specifico, della dirigenza apicale delle aziende, vanno poi segnalate le modifiche al meccanismo di reclutamento ed investitura dei direttori generali.
La posizione del direttore generale delle aziende sanitarie, come è stato osservato, «presenta connotati di atipicità, anche nell’ambito della nuova conformazione della dirigenza pubblica, in quanto egli assomma funzioni di rappresentanza, programmazione e gestionali (cfr. art. 3, d.lgs. n. 502 del 1992), rivestendo un ruolo di vertice, che in altri enti o amministrazioni è svolto dagli organi politici»16.
Una tale concentrazione di poteri così rilevanti17 spiega storicamente la costante tendenza a vincolare questa figura professionale alla attuazione delle linee operative, o anche più semplicemente al gradimento, della maggioranza di governo.
Un’inversione di rotta, tuttavia, si deve sempre al d.l. n. 158/2012, che detta una nuova disciplina della nomina dei direttori generali18: una regolazione che valga a superare le antinomie di un rapporto, fra regione e direttore generale, che nasce con un atto discrezionale su basi sostanzialmente fiduciarie ma vive come un rapporto professionale.
Da tempo si discute, peraltro, di meccanismi capaci di favorire la scelta dei migliori e di neutralizzare le logiche di spartizione politica: fra le ipotesi prospettate vi è stata anche quella della istituzione di un albo nazionale, con condizioni di accesso rigorose e prestabilite, cui le regioni possano attingere per effettuare le nomine di propria competenza19.
Il decreto Balduzzi ha previsto un sistema non molto difforme dallo schema tipico di una idoneità nazionale.
Recita, così, ancora l’art. 4: «La regione provvede alla nomina dei direttori generali delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale, attingendo obbligatoriamente all'elenco regionale di idonei, ovvero agli analoghi elenchi delle altre regioni, costituiti previo avviso pubblico e selezione effettuata da parte di una commissione costituita in prevalenza da esperti indicati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti dalla regione medesima, di cui uno designato dall'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, senza nuovi o maggiori oneri. Gli elenchi sono periodicamente aggiornati. Alla selezione si accede con il possesso di laurea magistrale e di adeguata esperienza dirigenziale, almeno quinquennale, nel campo delle strutture sanitarie o settennale negli altri settori, con autonomia gestionale e con diretta responsabilità delle risorse umane, tecniche o finanziarie, nonché del requisito dell'età anagrafica non superiore a 65 anni, alla data della nomina. La regione assicura adeguate misure di pubblicità della procedura di conseguimento della medesima, delle nomine e dei curricula, nonché di trasparenza nella valutazione degli aspiranti. Resta ferma l'intesa con il Rettore per la nomina del direttore generale di aziende ospedaliero universitarie»20.
La normativa finora vigente non legava il richiesto quinquennio di esercizio delle funzioni dirigenziali allo specifico settore sanitario, vincolo che ora viene opportunamente stabilito ma con una deroga, non del tutto condivisibile (al pari della previsione del limite massimo di età), che ammette alla selezione coloro che abbiano maturato esperienza anche in altri settori purché per il più lungo periodo di sette anni.
Proseguendo nell’analisi della norma risalta la mancanza del parametro valutativo cui commisurare la selezione: sono infatti specificati solo i requisiti minimi di accesso alla selezione ma non i criteri di giudizio sulla cui base questa dovrà essere gestita da parte della commissione.
Si tratta di una questione di non poco conto, se si considera la necessaria uniformità su tutto il territorio nazionale, tanto più che le idoneità di cui trattasi, al pari degli altri atti di qualificazione giuridica, non conosce limiti territoriali di efficacia21: per soddisfare le ragioni unitarie, si sarebbe potuto rimettere la definizione in concreto dei criteri di valutazione dei titoli posseduti dai candidati ad organi come la Conferenza Stato/regioni, deputati per l’appunto a fornire indicazioni condivise.
Tirando le somme, la predisposizione di un elenco di idonei nell’ambito di ciascuna regione crea una rete che si presta a favorire prassi di mobilità ed interscambio fra le varie realtà regionali.
Per quanto riguarda la disciplina delle cure primarie, rimane irrisolto il nodo giuridico della medicina territoriale con i suoi rilevanti riflessi trasversali sull’organizzazione del lavoro e sull’armonizzazione di un settore dell’assistenza che riveste pur sempre un ruolo cruciale all’interno del Servizio sanitario e che rappresenterà sempre più il volano del cambiamento per una auspicabile razionalizzazione del sistema. La riforma Balduzzi va, nondimeno, considerata una base normativa importante su cui costruire un assetto organizzativo che, salvaguardando il presente, assicuri il futuro dell’assistenza territoriale e, in definitiva, dell’intero servizio sanitario.
Relativamente all’attività intramoenia, le perplessità maggiori riguardano i tempi e i modi per l’effettiva attuazione della riforma, e la scommessa sull’effettivo superamento del regime transitorio.
Circa il sistema di reclutamento dei direttori generali delle aziende, la nuova regolamentazione mostra di voler rimediare al deficit di trasparenza nella selezione dei direttori generali, ma avrebbe potuto definire meglio i requisiti di qualificazione di figure professionali così rilevanti: richiedendo, ad esempio, il possesso della laurea in discipline giuridico-economiche, e l’esperienza maturata in strutture di importanza e dimensioni significative o, comunque, afferenti all’ambito sanitario.
Altre misure potrebbero opportunamente riguardare: l’aggiornamento e la formazione continua dei direttori, per consolidarne nel tempo il livello delle competenze; la previsione di un termine di durata massima dell’incarico22; l’estensione delle incompatibilità al periodo successivo alla cessazione dalla carica; l’introduzione di meccanismi oggettivi di selezione anche per la nomina dei direttori sanitari ed amministrativi; l’istituzione di una struttura imparziale e tecnicamente qualificata con compiti di misurazione delle performance e di verifica dei risultati di gestione rispetto agli obiettivi assegnati.
1 La primary care trova una sua definizione nella Dichiarazione di Alma Ata (Urss) sull’assistenza sanitaria primaria del 12 dicembre 1978, che la descrive come comprendente «quelle forme di assistenza sanitaria che sono basate su tecnologie e metodi pratici, scientificamente validi e socialmente accettabili, che sono rese accessibili a tutti gli individui e alle famiglie nelle comunità grazie alla loro piena partecipazione, che sono realizzate a un costo che la comunità e la nazione possono sostenere in ogni fase del proprio sviluppo in uno spirito di autonomia e autodeterminazione. L’assistenza sanitaria primaria è una parte integrante sia del sistema sanitario di un paese, del quale rappresenta la funzione centrale e il punto principale, sia del completo sviluppo sociale ed economico della comunità» (art. 6).
2 In merito, Mattioni, A., Le quattro riforme della Sanità. Una lettura sinottica di snodi istituzionali fondamentali, in Balduzzi, R. (a cura di), Trent’anni di Servizio sanitario nazionale. Un confronto interdisciplinare, Bologna, 2009, 263 ss.
3 In tal senso, Durante, V., Dimensioni della salute: dalla definizione dell’OMS al diritto attuale in Nuova giur. civ. comm., 2001, 2,132-148.
4 Così Cosmacini, G., Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Roma-Bari, 1994, 254.
5 Si intravedono, tuttavia, tentativi di superare la struttura dell’ospedale così come storicamente determinatasi, innovando il modello organizzativo dei nosocomi. Una delle tendenze attuali è proprio la riorganizzazione delle strutture ospedaliere secondo il modello c.d. per intensità di cure che riordina gli ospedali secondo una graduazione per aree dedicate ad utenti omogenei quanto a bisogno assistenziale: in tema, Campagna, M., Il principio organizzativo dell’intensità di cure: possibili riflessi sulla responsabilità medica di una rivoluzione culturale, in Corso, G. – Balboni, E. (a cura di), Le responsabilità in ambito sanitario, Torino, 2011, 121 ss.
6 Pastori, G., Posizione e ruolo degli enti ospedalieri nell’assistenza sanitaria, in AA.VV., Gli enti ospedalieri nella prospettiva della riforma sanitaria, Milano, 1978, 4.
7 Cfr., in materia, Cicchetti, A. (a cura di), Economia e management dell’Assistenza Primaria. Contributi e proposte, Roma, 2010.
8 Sul punto, Freidson, E. Professionalism. The third logic, (trad. it. A cura di R. Ioli), Bari, 2002, 110 ss.
9 C. cost., 28 luglio 1993 n. 355 (in Giur. cost., 1993, 2767 ss.). L’attività intramoenia può, inoltre, fungere da fattore deflattivo per le liste di attesa.
10 Cfr. la rideterminazione della trattenuta aziendale imposta dal Decreto del Presidente in qualità di Commissario ad acta n. U0040 del 14.11.2008.
11 La sperimentazione è subordinata alla sottoscrizione di una convenzione annuale rinnovabile tra il professionista interessato (che abbia un fatturato annuo non inferiore a 12.000 euro) e l’azienda di appartenenza, sulla base di uno schema tipo approvato con accordo sancito dalla Conferenza Stato/Regioni.
12 Sui titolari degli studi graveranno gli oneri per l’acquisto della strumentazione necessaria al collegamento telematico in rete con l’azienda. A ciò si aggiunge l’indeducibilità dei costi, stante la preclusione per essi all’apertura della partita iva e, più a monte, la devoluzione all’ente di una quota significativa del compenso per l’attività svolta oltre a prelievi aggiuntivi a volte imposti dalle singole regioni: un sistema che, evidentemente, può alterare le dinamiche concorrenziali rispetto ai professionisti che operano secondo regimi diversi da quello intramurale e che, peraltro, possono utilizzare attrezzature più competitive o meno obsolete di quelle talvolta messe a disposizione dei professionisti nelle strutture ospedaliere. Si noti, per completezza, che il regime intramurale è attualmente praticato da oltre la metà della classe medica ospedaliera e che il mancato riversamento nelle casse dell’ente pubblico dei proventi di pertinenza aziendale è fonte di responsabilità contabile: per un riscontro, C. conti, sez. giur. Abruzzo, 11.12.2007 n. 857.
13 La nuova disciplina deve essere completata con atti di competenza regionale da adottare secondo i tempi non comprimibili richiesti dalla natura dell’adempimento, e inoltre pone il professionista che esercita l'attività intramuraria in locali diversi da quelli aziendali di fronte a scelte radicali e a problemi non di immediata soluzione, come la definizione dei rapporti con i colleghi di studio.
14 Decreto del Presidente della Regione in qualità di Commissario ad acta 14.11.2008 n. 40, avente ad oggetto la rideterminazione della trattenuta aziendale.
15 Deliberazione G.R. 9.1.2012 n. 3, relativa al recepimento dell’accordo tra Regione Umbria e Ministeri della salute e dell’economia stipulato il 30.12.2011 ai sensi dell’art. 1, comma 796, lett. p-bis punto 2, L. n. 296/2006.
16 Chiappinelli, C., Il quadro dei controlli e delle responsabilità contabili, in Corso, G. – Magistrelli, P. (a cura di), Il diritto alla salute tra istituzioni e società civile, Torino, 2009, 75.
17 Si pensi, solo per un esempio, alla delicatezza che richiede la valutazione di opportunità in termini di rischi/benefici che il direttore generale può essere chiamato a compiere, nel caso di azioni risarcitorie intentate nei confronti dell’azienda, davanti all’alternativa fra il procedimento giurisdizionale e il procedimento di mediazione di cui al d.lgs. n. 28/2010 (tuttavia dichiarato illegittimo per eccesso di delega, relativamente alla sua prevista obbligatorietà, da C. cost. n. 272/2012), tenuto conto che la scelta incide su risorse pubbliche ed interessi indisponibili.
18 Per un primo commento, Niglio, N., La procedura di nomina dei direttori generali presso le ASL alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 189 dell’8 novembre 2012, in www.lexitalia.it, 2012, n. 11. Per una accurata retrospettiva storica v. Merloni, F., Gli incarichi dirigenziali nella ASL tra fiduciarietà politica e competenze professionali, in Pioggia, A. –Dugato, M. –Racca, G. –Civitarese Matteucci, S. (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario, Milano, 2008, 100 ss.
19 Carpani, G., I settori caldi. La sanità, in Merloni, F. –Vandelli, L. (a cura di), La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, Firenze, 2010, 451 ss.
20 La norma prevede, inoltre, che «le regioni provvedono altresì alla individuazione di criteri e di sistemi di valutazione e verifica dell’attività dei direttori generali, sulla base di obiettivi di salute e di funzionamento dei servizi definiti nel quadro della programmazione regionale, con particolare riferimento all’efficienza, all’efficacia, alla sicurezza, all’ottimizzazione dei servizi sanitari e al rispetto degli equilibri economico-finanziari di bilancio concordati, avvalendosi dei dati e degli elementi forniti anche dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali».
21 Corso, G., Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2010, 281 s.
22 In alcune esperienze regionali è previsto, ad es., il limite di tre mandati consecutivi presso la medesima azienda e la durata insuperabile di dieci anni complessivi per lo stesso incarico: art. 37, co. 7-ter, l. reg. Toscana 24.2.2005 n. 40, come modif. dall’art. 37, co. 4, l.r. n. 60/2008.