Le modifiche in tema di ricorso per cassazione
Tra le modifiche al regime delle impugnazioni di immediata operatività introdotte nel sistema processuale dalla l. 23.6.2017, n. 103, si segnalano, per la loro significativa incidenza, anche in considerazione della sostanziale stabilità di cui le norme del titolo III del libro IX hanno, sin dalla loro introduzione nel 1989, goduto, quelle relative al ricorso per cassazione, contrassegnate dalla finalità, esternata dalla stessa relazione al disegno di legge citato e subito posta in evidenza del resto anche dai primi commenti, di deflazionare l’abnorme accesso al rimedio di legittimità o per via diretta, o in via indiretta, agendo sul terreno dell’appello in guisa tale da avviare un percorso che, pur a fronte della ineludibile ricorribilità di tutte le sentenze per violazione di legge ex art. 111, co. 7, Cost., restituisca alla Corte di cassazione il ruolo nomofilattico da troppo tempo offuscato.
Le modifiche apportate direttamente al ricorso per cassazione dalla novella in esame (qui, dunque, non considerandosi le modifiche che, riguardando le disposizioni generali del titolo I del libro IX del codice, incidono indirettamente, per ciò stesso, anche sul ricorso per cassazione) si sono mosse lungo una duplice direttrice: da un lato vanno infatti considerate le norme che hanno, in radice, sottratto alla Corte di cassazione la valutazione dell’impugnazione stessa e, dall’altro, le disposizioni che, invece, mantenendo alla Corte la attribuzione del mezzo gravatorio, hanno tuttavia modificato o le modalità di presentazione del ricorso, selezionando in particolare la legittimazione all’impugnazione, ovvero, in determinate ipotesi, il novero dei motivi deducibili o, infine, in altre ipotesi ancora, le modalità di trattazione. Collegata alla finalità di dissuasione alla presentazione di ricorsi inammissibili è poi la previsione in ordine alla possibilità, per la Corte, di aumentare fino al triplo l’importo, peraltro oggetto di previsto adeguamento biennale mediante decreto del Ministro della giustizia, da pagarsi dal ricorrente a norma dell’art. 616 c.p.p. Infine, con la modifica della lett. l) dell’art. 620 c.p.p., si è semplicemente specificato, dettagliando in parte le ipotesi nelle quali la Corte, annullando la sentenza impugnata, può ritenere superfluo il rinvio al giudice del merito, e recependo sul punto la lettura della norma operata dalla giurisprudenza, ciò che già era in realtà implicitamente contenuto nella precedente previsione. A sé stante, seppure ascrivibile con evidenza alla finalità di rafforzamento del ruolo di uniforme interpretazione della legge proprio della Corte di cassazione specie nella sua più autorevole composizione e di limitazione dell’insorgenza di contrasti (che però, evidentemente, restano “fisiologici” ove intercorrenti tra sezioni semplici) appare anche la modifica che, sostanzialmente ricalcando quanto analogamente previsto per il processo civile (art. 374, co. 3, c.p.c.), ha imposto alle sezioni semplici, ove intendano discostarsi dal principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, la rimessione del ricorso a queste ultime nonché la possibilità, per le stesse Sezioni Unite, di enunciare, anche in tal caso mutuando l’analoga disposizione processualcivilistica dell’art. 363, co. 3, il principio di diritto pur a fronte di ricorso inammissibile per causa sopravvenuta. Vanno infine segnalate le modifiche concernenti il procedimento di correzione dell’errore materiale, adottabile dalla Corte anche de plano, e quelle riguardanti l’errore di fatto, di cui si è prevista la rilevabilità anche d’ufficio.
È necessario, dunque, procedere ad esaminare con maggiore attenzione, nell’ambito delle linee generali già anticipate, le modifiche operate dalla novella.
Le modifiche sul punto intervenute hanno, sotto un primo profilo, modificando l’art. 428 c.p.p. riattribuito (secondo quanto era già previsto prima della l. 20.2.2006, n. 46) alle Corti d’appello l’impugnazione, in precedenza devoluta alla Corte di legittimità, avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata all’esito dell’udienza preliminare e, sotto un secondo, attribuito sempre alle Corti d’appello la cognizione della richiesta di rescissione del giudicato, attraverso la previsione, in luogo del precedente art. 625 ter, introdotto appena tre anni orsono, dell’inedito art. 629 bis sorprendentemente inserito, pur a fronte della evidente differenza strutturale dei due mezzi, all’interno del titolo riguardante la revisione.
Entrambe le modifiche, la seconda in particolare già auspicata in dottrina all’indomani dell’introduzione dello strumento rescissorio, discendono dalla necessità che valutazioni in fatto, inevitabilmente coinvolte (in maniera persino eclatante nel caso della rescissione del giudicato) dall’esame delle questioni intrinseche ai mezzi di impugnazioni in oggetto, siano attribuite al giudice di merito, senza che peraltro ciò significhi (in necessaria discendenza, del resto, per quanto riguardante le modifiche all’art. 428, dal principio di cui all’art.111, co. 7) l’esclusione, in tutto, del ruolo della Corte di legittimità.
È stata infatti configurata, quanto al primo punto, l’impugnabilità dinanzi alla Corte di cassazione, con ricorso proponibile tuttavia, da imputato e Procuratore generale, solo per motivi legati all’indebito esercizio da parte del giudice di potestà riservate a organi legislativi o amministrativi o non consentite ai pubblici poteri e a violazione di legge sostanziale e processuale, della sentenza di non luogo a procedere che la Corte d’appello, secondo quanto previsto dal novellato comma 3 dell’art. 428, abbia a pronunciare all’esito dell’impugnazione avverso la sentenza di cui all’art. 425. Quanto al secondo punto, poi, si è prevista, mediante il richiamo all’art. 640, la ricorribilità della decisione adottata dalla Corte d’appello sulla richiesta di rescissione del giudicato.
Ulteriore sottrazione di attribuzioni è intervenuta per il tramite della abrogazione del comma 6 dell’art. 409, che prevedeva la ricorribilità per cassazione delle ordinanze di archiviazione nei casi di nullità di cui all’art. 127, co. 5, e della introduzione del nuovo art. 410 bis che ha configurato invece la sottoposizione del provvedimento a reclamo dinanzi al tribunale in composizione monocratica.
Attraverso la modifica dell’art. 613, co. 1, si è esclusa, la possibilità, da sempre valutata come dissonante rispetto alla peculiarità del mezzo di impugnazione, avulso dal fatto e connotato da pregnanti aspetti di tecnicismo giuridico, di proposizione del ricorso direttamente da parte dell’imputato. L’esclusione, pur ovviamente condivisibile dal punto di vista sistematico giacché anche la presentazione personale era, per le ragioni appena sopra ricordate, comunque fattore incidente sulla fisiologia delle funzioni della Corte oltre che mezzo latente di elusione della legittimazione al ricorso del solo difensore iscritto all’albo degli avvocati cassazionisti, si segnala tuttavia per la sua scarsa incidenza sul piano della deflazione attesa la notoriamente minima percentuale di ricorsi redatti personalmente.
Intervenendo sull’art. 448 attraverso l’inserimento del nuovo comma 2-bis, la novella ha ridotto l’area di ricorribilità della sentenza di applicazione della pena circoscrivendola ai soli motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza. La riduzione, minuziosamente tesa a ritagliare il legittimo contenuto dei motivi di ricorso, si correla, in conformità alla interpretazione già da tempo data dalla giurisprudenza, alla particolare natura della pronuncia, fondata sulla richiesta o sul consenso dell’imputato in maniera tale da inibire la possibilità che quest’ultimo, mediante l’impugnazione, chieda, in definitiva, di porre nel nulla gli effetti di quanto da lui stesso voluto (tanto che la maggior parte dei ricorsi è da sempre incappata nelle maglie dell’inammissibilità) e lascia invece impregiudicate le possibilità di censura sui punti nei quali proprio il legame tra decisione e volontà dell’imputato difetti o nei casi di violazione di legge particolarmente rilavate perché incidente su qualificazione giuridica e su legalità della pena o della misura di sicurezza. Che, poi, i ridotti motivi di impugnazione finiscano per connotare peculiarmente lo stesso procedimento di applicazione della pena, appare testimoniato dalla disposizione transitoria (l’unica di tutta la legge in tema di impugnazioni) contenuta nel comma 51 secondo cui le nuove previsioni sul punto non si applicano ai procedimenti in cui la richiesta di patteggiamento sia stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della novella e, dunque, quando nessun limite vi era, al momento della richiesta, alla proponibilità del ricorso. Analogamente selettiva dei motivi di ricorso è poi la disposizione (art. 608, co. 1-bis, c.p.p.) che, secondo il modello già visto sopra con riguardo alla impugnazione della sentenza di non luogo a procedere in sede di appello, ha limitato la proponibilità del ricorso del p.m. avverso la sentenza di conferma della pronuncia assolutoria di primo grado ai soli motivi di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 606, co. 1.
Quanto infine alle modalità di trattazione del procedimento, inalterata la disposizione di carattere sostanzialmente generale dell’art. 611, la novella ha operato in due direzioni.
Sotto un primo versante, con l’introduzione del comma 5-bis dell’art. 610, è stato previsto che il procedimento venga dichiarato inammissibile addirittura de plano (ovvero, come testualmente statuito dalla norma, «senza formalità di procedura»), sì che della questione non parrebbe dover essere investita neppure l’apposita settima sezione (l’opzione contraria condurrebbe, tra l’altro, irragionevolmente, ad un inutile passaggio di carte), nei casi in cui si tratti, semplicemente, e senza valutazioni di sorta, di constatare l’oggettività delle situazioni emergenti (segnatamente ciò ricorrendo nelle ipotesi previste dall’art. 591, co. 1, lett. a), limitatamente al difetto di legittimazione, b), c), esclusa l’inosservanza delle disposizioni dell’art. 581, e d), nonché in caso di inammissibilità dei ricorsi proposti avverso le sentenze di patteggiamento o di concordato sui motivi di appello). Si è poi prevista la assoggettabilità della sentenza di inammissibilità al ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis, non essendo tuttavia chiara, posto che già la stessa odierna formulazione di tale ultima norma renderebbe praticabile il mezzo, l’utilità della specificazione; per non rendere superfluo il richiamo, ed escluso che nella specie si possa ipotizzare la volontà del legislatore di legittimare anche il pubblico ministero al rimedio straordinario (il richiamo all’art. 625 bis vale anche, evidentemente, ad “importare” la sola praticabilità del mezzo a favore del condannato), si è ritenuto che, in tal modo, si sia inteso applicarlo anche ai procedimenti cautelari ed incidentali in genere1, ma anche una tale conclusione parrebbe comunque collidere con la mancanza, in tal caso, di “condanna” alcuna.
Sotto un secondo versante, e con riferimento, deve ritenersi, ai restanti ricorsi valutati inammissibili ed assegnati alla settima sezione, in direzione volta a recuperare margini di contraddittorio cartolare al procedimento camerale non partecipato è stata posta la modifica del comma 1 dell’art. 610 nel senso della necessità che l’avviso di fissazione della udienza camerale contenga l’enunciazione della causa di inammissibilità rilevata “con riferimento al contenuto dei motivi di ricorso”, così offrendosi, attraverso una più specifica indicazione, maggiore spazio alle argomentazioni del ricorrente da esporre con le eventuali memorie sempre presentabili.
In posizione, infine, eterogenea rispetto alle finalità di semplificazione fondamentalmente poste alla base della novella, altra modifica ha riguardato specificamente il ricorso in tema di misure cautelari reali laddove, attraverso il richiamo dell’art. 325, co. 3, all’applicabilità non solo delle disposizioni di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 311, ma anche della disposizione del comma 5, si è previsto che, analogamente a quanto già disposto per la decisione della Corte sui ricorsi in tema di misure cautelari personali, anche quella avente ad oggetto i ricorsi riguardanti le misure cautelari reali debba intervenire nel termine di trenta giorni a decorrere dalla ricezione degli atti con osservanza delle forme previste dall’art. 127. Il senso della modifica, di natura chiaramente “reattiva”, è evidente ove si consideri che, con recente decisione, le sezioni unite della Corte di cassazione avevano, modificando un precedente indirizzo a suo tempo espresso sempre dal massimo consesso della giurisdizione di legittimità, affermato appunto lo svolgimento nelle forme del rito “non partecipato” previsto dall’art. 611 e non in quelle di cui all’art. 127, dei procedimenti riguardanti i ricorsi in materia cautelare reale2. Di qui, dunque, la “revisione”, per via normativa, di un indirizzo evidentemente non condiviso dal legislatore che, in luogo della modalità di trattazione camerale “non partecipata”, ha ripristinato la forma camerale partecipata dell’art. 127.
Una prima riflessione riguarda la effettiva idoneità delle modifiche adottate a semplificare e deflazionare, a garanzie difensive invariate, il giudizio di legittimità, ove si consideri, da un lato, la sostanziale “residualità” delle situazioni considerate dalla novella (ovvero, tra le altre, in particolare, la proposizione personale dei ricorsi, le impugnazioni della parte pubblica avverso le sentenze assolutorie doppie conformi, e le impugnazioni delle sentenze di non luogo a procedere ex art. 428), rappresentanti un campione davvero poco significativo della annuale massa alluvionale dei ricorsi, e, dall’altro, il recepimento, alla base di altre modifiche, di principi in realtà già enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, come nel caso della possibile affermazione, da parte delle Sezioni Unite, del principio di diritto anche in caso di ricorso inammissibile, addirittura anche ab origine3.
Ciò, tanto più tenendo conto del fatto che non tutte le nuove disposizioni sembrano coerenti con le finalità appena ricordate; sul punto, proprio l’ultima modifica appena ricordata sopra in materia di procedimenti cautelari reali, sia pure apparentemente tesa ad allineare la trattazione dei procedimenti cautelari reali a quella dei procedimenti cautelari personali (ciò che dovrebbe, però, implicare, una pari rilevanza degli interessi coinvolti), poco si giustifica, a ben vedere, non solo con i criteri ispiratori della novella, ma anche, in generale, con le caratteristiche stesse del giudizio di legittimità che, quale giudizio strettamente tecnico, renderebbe di per sé adeguata, anche sul piano dei principi costituzionali e della CEDU4, salve questioni e casi di particolare rilevanza, la mera esposizione scritta dei motivi di ricorso senza necessità di replicarne il contenuto in via orale e fatta salva, naturalmente, la possibilità della presentazione di memorie. In ogni caso, proprio la modifica dell’art. 325 dovrebbe rappresentare l’occasione perché si avvii, seriamente, e finalmente, una riflessione sul modello di giurisdizione di legittimità che si vorrebbe : se, cioè, una giurisdizione effettivamente volta ad esprimere la funzione nomofilattica rispetto alla quale le occasioni di partecipazione “fisica” delle parti dovrebbero restare indifferenti o se, invece, una giurisdizione nella quale la necessità di garantire alle parti una occasione di proposizione orale dei propri argomenti, già naturalmente esposti per iscritto in ricorso, rischia di “saturare” il giudizio di legittimità e, paradossalmente, nonostante la formale previsione della necessità di decisione nel termine di trenta giorni, di imporre, per la necessità della audizione orale, una fisiologica rarefazione delle fissazioni dei ricorsi stessi, con una singolare eterogenesi dei fini. Deve inoltre constatarsi come non si sia colta l’occasione, che il disegno di legge pur offriva, per richiedere, nella redazione dei ricorsi proposti dinanzi al giudice di legittimità, l’utilizzo di criteri, anche formali, e di modalità, anche sotto il profilo della dimensione espositiva, coerenti con la peculiare natura di un siffatto giudizio (presupponendo, del resto, la “concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” della sentenza di cui all’art. 546, lett. e) una necessaria correlativa sinteticità degli atti di parte), pena, diversamente, già sotto tale profilo, l’inammissibilità dell’impugnazione secondo modelli già sperimentati presso altre sedi giurisdizionali per effetto di apposite norme5 e frutto invece, nella giurisprudenza della Corte, di sola eventuale attività esegetica6.
Con riguardo poi a singole norme, solo la interpretazione giurisprudenziale ne chiarirà il reale significato: così è a dire per l’apparente impossibilità di ricorrere avverso la sentenza di applicazione della pena invocando nullità assolute o inutilizzabilità patologiche attesi gli espressi limiti posti dal nuovo art. 448, co. 2-bis, c.p.p., nonché per l’esatta perimetrazione della riduzione della possibilità di impugnare le sentenze di proscioglimento cd. doppie conformi: la nuova disposizione dell’art. 608, co. 1-bis, giustificata dalla presunzione, non contrastabile dal p.m., di una idonea motivazione, di per sé, dunque, non più sindacabile (e la cui tenuta costituzionale è tuttavia dubbia, attesa, a parti invertite, la mancanza di limitazione dei poteri di impugnazione dell’imputato), lascia tuttavia inevaso il quesito circa la esatta nozione di “conferma” della sentenza di proscioglimento in particolare laddove, inalterato l’esito, le formule assolutorie siano però diverse tra loro.
Analoga operazione interpretativa sarà, infine, necessaria con riguardo al momento di operatività delle nuove norme in relazione ai ricorsi già proposti attesa la assenza, ormai consueta (fatta eccezione, come visto, unicamente per il ricorso avverso le sentenze di applicazione della pena), di norme di natura transitoria potendosi prospettare, nel silenzio del legislatore, e pur a fronte del generale principio tempus regit actum, ai fini dell’individuazione del momento determinante per l’applicazione delle nuove norme, la sostanziale triplice alternativa dell’adozione del provvedimento impugnato, della presentazione della impugnazione o, infine, della fissazione dell’udienza di trattazione del ricorso. Va però ricordato che, secondo quanto già a suo tempo chiarito in più occasioni dalle sezioni unite della Corte, laddove il passaggio da uno ad altro regime in materia di impugnazioni non sia stato espressamente regolato, come nella specie, con disposizioni transitorie, proprio l’applicazione del principio tempus regit actum imporrebbe di far riferimento al momento di definizione dell’iter formativo del provvedimento impugnabile e non già a quello della proposizione dell’impugnazione7. Da ultimo, va segnalata la configurata attivazione anche ex officio della correzione dell’errore di fatto presente nei provvedimenti della Corte ex art. 625 bis difficilmente conciliabile, peraltro, con la natura di mezzo di impugnazione straordinario dello strumento.
1 Gialuz, M.Cabiale, A.Della Torre, J., Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in www.penalecontemporaneo.it, 20.6.2017.
2 Cass.pen.,S.U.,17.12.2015,n.51207,in CED rv.n.265112.
3 Si veda, esemplificativamente, da ultimo, Cass. pen., S.U., 31.3.2016, n. 36272, in CED rv. n. 267238.
4 C. cost., 11.3.2011, n. 80; si vedano, inoltre, C. eur. dir. uomo, 21.7.2009, Seliwiak c. Polonia; Grande Camera, 18.10.2006,Hermi c. Italia;8.2.2005,Miller c. Svezia;25.7.2000, Tierce e altri c. San Marino; 27.3.1998, K.D.B. c. Paesi Bassi; 29.10.1991, Helmers c. Svezia; 26.5.1988, Ekbatani c. Svezia.
5 Si vedano il decreto del 25.5.2015 del Presidente del Consiglio di Stato adottato in attuazione della previsione dell’art. 120 dell’allegato I al d.lgs. 2.7.2010, n. 104, nonché il § 47.2, lett. b), del Regolamento del 1.7.2014 della C. eur. dir. uomo.
6 Si veda Cass., sez. lav., 30.9.2014, n. 20589, inedita, ove il “dovere di sinteticità espositiva”, è stato mutuato dai principi del “giusto processo” di cui all’art. 6 CEDU.
7 Si vedano Cass. pen, S.U., 27.3.2002, n. 16101, in CED rv. n. 221278 e Cass. pen., S.U., 29.3.2007, n. 27614, in CED rv. n. 236537.