Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento gli Stati, che tendono ormai a qualificarsi sempre più come nazionali, intraprendono un significativo sforzo per definire la collocazione di quei singoli o di quelle comunità che, pur vivendo all’interno dei confini, appaiono diverse per origine, lingua, etnia o religione. Ciò nonostante, l’identità degli individui che appartengono ai numerosi gruppi minoritari rimane fluida, così come il loro rapporto con la società che gli accoglie. La dimensione sociale e professionale da un lato, religiosa dall’altro, continuano a contare di più delle appartenenze linguistiche e nazionali nel plasmare le relazioni fra maggioranza e minoranza, fra autoctoni e nuovi arrivati. Solo nell’ultima parte del secolo, soprattutto come conseguenza delle politiche di nazionalizzazione attuate dagli Stati, i confini identitari si fanno più rigidi e meno permeabili.
L’invenzione delle minoranze
La compresenza di soggetti indigeni e allogeni sul medesimo territorio è una condizione pressoché strutturale nell’Europa ottocentesca, non solo nelle grandi città e nei maggiori centri portuali, ma anche in diverse aree interne, caratterizzate da una modesta densità abitativa. Molti degli stranieri rappresentano figure ormai familiari ai locali perché sono membri di comunità da lungo tempo stanziate in quei territori o sono quei migranti stagionali che alimentano i tradizionali sistemi migratori inter-regionali e inter-nazionali. Altri, invece, vengono da più lontano e la loro presenza in ambienti diversi sul piano linguistico, culturale e a volte anche religioso rappresenta una delle conseguenze più evidenti del crescente aumento e ampliamento della mobilità umana registrato nel corso del XIX secolo.
Mentre nella quotidiana interazione interpersonale ognuno di questi individui può dunque risultare appartenente oppure estraneo alla società ospite secondo la consuetudine e i rapporti che egli ha con i locali, agli Stati che accolgono immigrati e gruppi minoritari di più remoto stanziamento questi pongono il non facile problema di definire in maniera inequivocabile il loro statuto giuridico, la legittimità della loro esistenza in quanto collettività a sé stanti e la loro posizione all’interno della comunità che il potere politico sovraintende. Se lo “straniero” è infatti stato per tutta l’età moderna una figura tratteggiata con contorni vaghi e sfumati, proprio nell’Ottocento esso diviene l’oggetto di un serrato sforzo identificatorio e classificatorio che ne fa in primo luogo “un oggetto di amministrazione” (Brubaker, 1997), non solo in quei Paesi che hanno ormai da tempo trasformato la delimitazione del loro suolo in un efficace “strumento di controllo delle persone, dei processi e delle relazioni sociali” (Badie, 1995), ma anche in quelli che ancora stentano a farlo. Già nei primi decenni del secolo, infatti, la gran parte dei governi europei inizia a considerare la propria capacità di classificare la popolazione, distinguendo gli stranieri dai nazionali in base a criteri certi e uniformi, la più attendibile cartina al tornasole dell’effettiva affermazione del progetto centralista proprio della moderna statualità e la dimensione fondante dello Stato amministrativo di matrice napoleonica che essi aspirano a perfezionare.
Ciononostante, la pochezza dei mezzi concettuali e soprattutto tecnici a disposizione delle autorità pubbliche per identificare le persone e fissare identità soggettive e collettive fa sì che, per una lunga fase di quello che viene definito il nuovo regime, la linea di confine tra indigeni e stranieri continui ad apparire non meno incerta di quella che segna i confini tra gli Stati. A dispetto di un’idea di cittadinanza che con la Rivoluzione francese si è ormai connotata in chiave esplicitamente nazionale, e già a inizio Ottocento ha trovato precise codificazioni giuridiche in tanti Stati europei, ciò che continua a distinguere un cittadino da un non-cittadino è “il suo senso del dovere e di obbedienza, offerto in cambio della protezione del re”(Sahlins, 2004), ossia un rapporto interpersonale di natura sostanzialmente feudale, indipendente dall’appartenenza in termini etno-culturali a una qualsivoglia famiglia nazionale, e in questo per nulla dissimile al legame che univa sudditi e sovrani nei secoli precedenti.
Minoranze avvantaggiate
Se dunque per buona parte del XIX secolo “la distinzione tra il ‘cittadino’ e il ‘nazionale’ non è ancora chiaramente stabilita […] dal momento che le istituzioni statali non hanno ancora penetrato in profondità il mondo sociale e codificato l’esistenza quotidiana degli individui” (Noiriel, 2001), la linea di demarcazione tra maggioranze e minoranze non può che correre lungo altri assi, e in particolare su quello cetual-professionale e quello dell’appartenenza confessionale. In un mondo dove le lingue nazionali sono ancora largamente ignote alle masse popolari, dove le piccole patrie conservano un posto privilegiato nella costruzione identitaria degli individui e dove la religione pervade la quotidianità delle persone e ne permea profondamente l’orizzonte valoriale, non stupisce che più della comunanza linguistica e di un condiviso background culturale nella percezione e nell’auto-percezione identitaria degli attori sociali contino altri fattori, a cominciare dal professare lo stesso credo e dall’afferire a un determinato gruppo sociale o corporazione professionale.
La presenza di comunità imprenditoriali e mercantili straniere definite su base modernamente nazionale è certo attestata in diverse regioni europee, tanto nella prima quanto nella seconda metà dell’Ottocento. Tuttavia, la storiografia più recente sembra sempre più smentire l’immagine di questi gruppi come di coesi insiemi di compatrioti fedeli alla loro bandiera e restii ad “annacquare” la loro identità nazionale integrandosi nelle società ospiti, sottolineando invece il ruolo centrale che la comunanza religiosa continua a giocare quale fattore coagulante dei gruppi minoritari almeno sino agli ultimi decenni del cosiddetto secolo delle nazioni e dei nazionalismi (Hobsbawm, 2002).
Se è ormai da tempo noto il ruolo rilevante di diverse minoranze religiose e della cosiddetta “imprenditoria etnica” (Ward-Jenkins, 1984) nello sviluppo dell’economia mondializzata fra tarda età moderna e prima età contemporanea (si pensi ai quaccheri in Inghilterra o agli ugonotti in Francia, senza dimenticare il peculiare caso degli ebrei), le indagini compiute sulle diverse business communities allogene che nell’Ottocento popolano la City di Londra e i boulevard parigini, i porti anseatici e quelli atlantici, le città dell’Europa orientale e quelle dell’Italia pre e postunitaria, hanno evidenziato come esse siano caratterizzate non solo da una dimensione spiccatamente multinazionale e multilinguistica, ma anche da grande flessibilità e disponibilità a giocare con le loro identità (Smyrnelis, 2000), sempre pronte cioè a ridefinirsi per rispondere nel modo più efficace possibile al mutare del quadro politico-economico circostante (cambi di regime, guerre ecc.).
In altre parole, condividere assai spesso le limitazioni imposte ai fedeli di culti diversi da quello prevalente nella società ospite e partecipare dei vantaggi connessi all’essere membri di un gruppo di status “crea” molte delle minoranze elitarie che si ritrovano nelle principali piazze euro-mediterranee.
Soggetti di nazionalità diverse si coagulano attorno a istituzioni – perlopiù consolati – disposte a offrire loro quella qualifica di membro della natio mercantile e quella protezione di cui essi necessitano per portare avanti i loro proficui affari e contrastare lo sforzo di erosione dei privilegi giurisdizionali e corporativi degli immigrati posto in essere da molti stati ospiti. Il carattere minoritario di questi insiemi è dunque primariamente basato su una comunanza di interessi ben più che su tratti etno-culturali condivisi che, quando pure sussistono, vanno però identificati nella comune adesione ad un codice valorial-comportamentale di matrice mercantile e nella poliglossia tipica dei professionisti del commercio internazionale piuttosto che nella disponibilità ad immaginarsi parte di una stessa comunità di discendenti assieme ai loro compatrioti meno abbienti.
Da “non-minoranze” …
Se dunque le “minoranze avvantaggiate” di credo diverso da quello delle rispettive maggioranze – ossia composte da fedeli di altre chiese/religioni in possesso di significative risorse materiali e immateriali che consentono loro di configurarsi come parte dell’élite socio-economica del luogo di residenza – costituiscono insiemi relativamente facili da identificare e delimitare in un rapporto dialettico con gli indigeni grazie al loro condividere comportamenti, atteggiamenti e un modo peculiare di costruire la propria socialità e di collocarsi nel tessuto urbano (matrimoni endogamici, quartieri “etnici”, etc.), distinguere tra maggioranze e minoranze a livelli più bassi della piramide sociale è senza dubbio più difficile, a maggior ragione quando gli stranieri condividono con i locali la fede religiosa.
In un periodo – soprattutto la prima metà del secolo – in cui “l’identità è un privilegio dei ricchi” (Farge, 1979), la maggioranza degli stranieri non ne gode, sia nel senso che le sue generalità anagrafiche e la sua appartenenza nazionale costituiscono spesso un dato vago e privo di elementi di riscontro, sia nel senso che essi percepiscono a stento quel senso di appartenenza al popolo-nazione che i processi di nation-building stanno lentamente tentando d’instillare nelle masse.
Rispetto al cosmopolitismo e all’approccio negoziale alla propria identità nazionale che fanno dei membri delle élite allogene dei soggetti dalle molteplici e carsiche afferenze nazionali ma pur sempre con un profilo distinto dai locali, la gente comune tende a una maggior integrazione nelle società d’accoglienza, dovuta in parte alla mancata autosufficienza economica e alla più urgente necessità d’interagire con i locali in ambito lavorativo, e in parte alla minor ampiezza delle loro reti di relazioni e al peso relativamente più forte che in esse giocano i rapporti di vicinato. Quando non ci sono barriere confessionali molto difficili da superare, come accade invece nel caso dei cristiani nei territori a maggioranza mussulmana (il Levante, il Maghreb ecc.), spesso si registra un’integrazione tanto profonda delle minoranze nelle comunità ospiti da ridurre al minimo la polarizzazione e anche la formalizzazione della dicotomia nativo/straniero, consentendo ai membri di questi gruppi di “sciogliersi” nelle società che li hanno accolti e di vivere come al di sotto della soglia di nazionalità, in una condizione in cui deve apparire loro persino privo di senso tanto l’atto di reclamare il riconoscimento formale dell’avvenuta assimilazione attraverso la richiesta naturalizzazione o di equiparazione agli indigeni in termini di diritti, quanto, in alternativa, quello di rivendicare la loro perdurante alterità sul piano giuridico attraverso l’appello alle istituzioni locali o a quelle del Paese d’origine.
Certo, casi di relazioni conflittuali tra maggioranze e minoranze nell’Europa ottocentesca non mancano, sia nei grandi imperi multietnici (i Greci e gli Armeni nell’Impero ottomano, i mussulmani turcofoni in quello zarista ecc.), sia in Stati nazionali o subnazionali di più modeste dimensioni (i Polacchi nei territori orientali della Prussia, i Francesi nell’Alsazia-Lorena conquistata dai Tedeschi nel 1870 ecc.). Tuttavia, bisogna attendere che il processo di creazione delle identità nazionali giunga a compimento e che i discorsi nazionalisti arrivino a informare il sentire della gente e le politiche dei governi per registrare su scala globale la trasformazione di molte “non-minoranze” in gruppi minoritari chiaramente e univocamente definiti su base nazionale a tutti i livelli della scala sociale.
…ad enemy aliens
È dunque a partire dalla seconda metà del XIX secolo che molte delle minoranze nazionali che hanno condiviso per decenni gli stessi spazi con altri gruppi linguistici senza di fatto sentirsi né minoranze né, tanto meno, nazionali, si vengono configurando come insiemi definiti su base ascrittiva, da cui diventa sempre più difficile entrare e uscire come in passato perché sono ora percepiti e formalmente etichettati come altri rispetto alle corrispondenti maggioranze. E se questo nuovo marcare il confine tra maggioranze e minoranze tocca persone già da tempo residenti in determinati territori, parimenti esso riguarda quanti giungono da migranti in Paesi stranieri. È infatti solo a seguito delle grandi ondate migratorie internazionali di fine secolo che l’affollarsi in singoli luoghi d’arrivo di migliaia di individui provenienti dalle stesse aree, i primi effetti visibili del processo di nazionalizzazione e la più coerente classificazione degli stranieri su base nazionale da parte degli Stati d’accoglienza (si pensi all’istituzione delle quote nazionali d’immigrati fissate dagli Stati Uniti) producono da una parte un atteggiamento più marcatamente etnocentrico tra i migranti, dall’altra forme inedite di xenofobia più esplicitamente orientate in chiave nazionale nelle popolazioni locali; fenomeni dei quali sono espressione concreta – per rimanere al caso italiano – quartieri come le Little Italy di molte città americane o le discriminazioni e le violenze patite dai lavoratori d’origine ligure, piemontese e campana trapiantati nella Francia meridionale (si pensi al massacro di Aigues-Mortes dell’agosto 1893).
Sono d’altronde gli ultimi scampoli del “Lungo Ottocento” (Hobsbawm, 1994) e si è ormai alla vigilia di un conflitto – la Grande Guerra – che segna sul piano del lessico e delle categorie politiche una netta cesura nella configurazione di quel rapporto tra cittadino e straniero che, se già negli anni immediatamente prebellici assume un po’ ovunque il profilo di una manichea dicotomia tra quanti sono ammessi a godere delle sempre maggiori risorse giuridiche, economiche e politiche connesse alla cittadinanza su base nazionale e quanti ne sono esclusi, a partire dal 1914 trova nelle politiche restrittive e discriminatorie adottate da tutti gli Stati belligeranti nei confronti dei cittadini di nazionalità nemica, nelle espulsioni di massa, nei genocidi e nelle vere e proprie pulizie etniche, le sue più evidenti e drammatiche applicazioni.