Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo la furia sperimentale delle avanguardie, la seconda metà del Novecento vede il riemergere di una poesia dalla maggiore pregnanza comunicativa, che si misura con le rovine lasciate alle spalle dal secondo conflitto mondiale. Compito del poeta pare quello di incarnare la voce critica della storia e dell’esistenza umana, tra la memoria di tragedie come quella dell’Olocausto e l’invadenza dei linguaggi dei mass-media e della cultura dei consumi.
Necessità della poesia
Vittorio Sereni
Diario d’Algeria
Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.
Ho risposto nel sonno: - È il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta. -
in Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1969
Turbato dagli orrori della seconda guerra mondiale il filosofo tedesco Theodor W. Adorno si domanda se si possa ancora scrivere poesia dopo Auschwitz, mentre il suo connazionale, Martin Heidegger, scrive che solo la poesia ormai può salvare l’umanità dal dominio della violenza tecnologica che il recente conflitto ha palesato in tutta la sua potenza distruttiva. A Novecento cronologicamente concluso pare evidente che la poesia non abbia affatto relegato la sua voce al silenzio né abbia impedito al genere umano di avventurarsi in nuovi massacri fratricidi; tuttavia, proprio le voci di numerosissimi poeti europei che si sono imposti all’attenzione internazionale nella seconda metà del secolo dimostrano come la poesia possa ancora costituire una testimonianza del tentativo di comprensione dell’esistenza umana.
Un limpido esempio di una poesia che dia anche un giudizio etico sul mondo, attraverso una parola che “protesta, chiama, grida”, è rinvenibile nell’opera del poeta lituano Czeslaw Milosz, premio Nobel nel 1980. Nella terza sezione della sua raccolta del 1956, Trattato di poetica (Traktat poetycki), incentrato sulla tragedia dell’occupazione nazista, Milosz crea una forma intermedia tra lirica e prosa caratterizzata da un tono discorsivo, ricco di citazioni, stilisticamente eterogeneo. Dopo gli esordi nel segno di un “catastrofismo” da intendersi come espressione del sentimento di un’imminente apocalisse, è la storia, e in particolare la tragedia della Shoah, a provocare nella sua opera un notevole mutamento di tono che si fa meno allucinato e più discorsivo, modellato da una pungente ironia e da una compita compostezza formale. Le raccolte poetiche degli anni Sessanta, come La città senza nome (Misto bez imienia, 1969), attente al delicato equilibrio tra elementi prosastici e lirici, sono la testimonianza di un soggetto che si espone solo per cercare un rapporto conoscitivo più autentico con la realtà del mondo. In opere successive come Inno alla perla (Hymn o perle, 1982) e Cronache (Kroniki, 1987) si fa invece evidente il valore di partecipazione della poesia alla complessità del reale: essa può infatti salvare dalla caducità ciò che merita di essere testimoniato e sottrarre all’oblio la violenza esercitata in questo secolo, perché non ci si debba più domandare a cosa serva “la poesia che non salva / i popoli né le persone?”. Anche un poeta polacco come Tadeusz Rózewicz riflette, a partire dagli anni Cinquanta, sull’incapacità dell’uomo contemporaneo di costruire un nuovo ordine filosofico e morale dopo il silenzio di Dio ad Auschwitz. La verità dell’oggi, che il poeta ha il compito di far emergere, deve dunque essere rinvenuta nel basso, nella pletora di detriti della cultura di massa, negli stereotipi linguistici veicolati dal sistema dell’informazione globale. In raccolte come Giobbe (1957), Volto terzo (Twarz trzecia, 1968) e Regio (1969) Rózewicz registra con asciuttezza prosastica il farsi caos del reale: la voce che registra gli eventi mimandone la sgraziata cacofonia non può che divenire anonima come il linguaggio mass-mediatico, che testimonia il tramutarsi di ogni bellezza e senso morale in rifiuto, sterco.
Una voce autorevole come quella di Andrea Zanzotto ha notato come anche la poetica di Eugenio Montale, soprattutto a partire dalla raccolta del 1956 La bufera ed altro, incentrata sul senso di tragedia e di rovina del dramma collettivo della seconda guerra mondiale, ruoti intorno a una visione della realtà come rifiuto, escremento. Componimenti straordinari quali Piccolo testamento e Il sogno del prigioniero, nella loro prospettiva di una storia infernale, combinano espressioni preziose con le bassezze del parlato, attualizzano i toni sublimi e comici di Dante, evocato anche grazie alle sole figure salvifiche della raccolta, Volpe e Clizia, la donna angelo intirizzita dal gelo. Dopo anni di silenzio, con la raccolta Satura (1971), sorta di congedo dalla moglie morta, Montale sorprende la critica per il tono profondamente ironico ed elegiaco, anticipato con forza dal testo iniziale, ma centrale, del volume, Botta e risposta I. Qui, con l’introduzione delle mitiche stalle di Augìa, il poeta mostra come la deformazione grottesca del mondo a opera delle nuove ideologie massificate e consumistiche non possa che risolvere ogni escatologia in scatologia: agli “iddi pestilenziali” della Bufera fa ormai specchio solo il “vorticare sopra zattere / di sterco” di un soggetto-topo che vede naufragare ogni testimonianza e ricordo della propria storia personale. Tra le voci dei poeti italiani più attenti ai complessi rapporti tra storia e vissuto, occorre ricordare quella di Vittorio Sereni che, a partire da Diario d’Algeria (1947), traendo ispirazione dalla propria esperienza di prigionia, richiama a una responsabilità etica della parola nei riguardi della storia. Nella raccolta successiva, Gli strumenti umani (1965), conferma della statura di Sereni nel panorama della poesia del Novecento, viene rappresentato – secondo le parole di Montale – “quel dormiveglia che è la vita dell’uomo del nostro tempo”. Il libro, che si struttura in forma dialogica e prende la forma del romanzo lirico, è una acuta analisi della storia in corso, come mostra la sezione Una visita in fabbrica. Prendono piede anche temi cari alla produzione successiva dell’autore, come quello della morte, inserita in una concezione ciclica della vita, contrapposta alla gioia dell’azione sportiva. Straordinario appare poi l’ultimo volume della parabola del poeta, Stella variabile (1982), denso di rimandi a una realtà segnata dalla violenza e dalla distruzione, in cui il poeta non può che constatare la propria impotenza: l’unica cosa che gli appare ancora possibile è una dettagliata “recensione del reale”, condotta attraverso continue sospensioni fenomenologiche che mettono in dubbio nel suo farsi la stessa scrittura, come nel poemetto capolavoro Un posto di vacanza. A condividere con Sereni una ferma diffidenza nei confronti della intangibilità della condizione di poeta e di un’idea alta di poesia è stato anche Giorgio Caproni , autore di una scrittura fisica che si libera dal suo soggetto attraverso un uso continuo di personaggi e controfigure. Raccolte come Passaggio d’Enea (1956) e Il seme del piangere (1959), incentrate su pochi temi essenziali come la madre, la città e il viaggio, si distaccano per una chiusura metrica che rielabora le forme della ballata, del sonetto e della stanza, inceppandosi però in giochi allitterativi e paronomastici, in scarti tra rime e assonanze che minano la leggerezza del canto e rivelano la dimensione del vuoto attorno a cui si struttura la parola. Il nulla, il deserto della storia, l’inconsistenza del soggetto, saranno al centro delle raccolte pubblicate a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e Il muro della terra (1975), segnate da una scrittura articolata su incisi, ripetizioni e da un forte uso delle parentetiche che sfondano la dimensione orizzontale della pagina ma nel contempo sprofondano il “viaggiatore” nell’inferno dell’insensatezza, la cui resa è affidata a forme epigrammatiche, assolutamente antiliriche. I versicoli de Il franco cacciatore (1981) e de Il Conte di Kevenhüller (1986), se da un lato rimandano al puntinismo fisico di un Sandro Penna, grande anomalo del Novecento italiano, non ne condividono l’intensa vitalità, ma sono piuttosto il riflesso di una “parola tagliola” collocata ad arte per eliminare definitivamente un io-bestia sentito come vero nemico interiore.
Nuovi paesaggi
Nel Regno Unito, scelgono di collocarsi lontano dalla prospettiva del mondo desolato di Thomas Stearns Eliot e dal modernismo di Ezra Pound i cosiddetti poeti degli anni Trenta, Wystan Hugh Auden, Cecil Day Lewis, Louis MacNeice e Stephen Spender, animati da un forte spirito di rinnovamento etico e determinati a dare nuovi contenuti sociali alla letteratura. Le novità di questo gruppo, denominato Pylon School (Scuola dei piloni) per l’attenzione all’inedito paesaggio della città industriale, invasa da grattacieli, gru e cantieri, sono sostanzialmente tematiche, ma alcuni di essi sperimentarono anche nuove forme poetiche. Tra loro il più influente resta sicuramente Wystan Hugh Auden, che con il suo Un altro tempo (Another Time, 1940) ma soprattutto con L’età dell’ansia (The Age of Anxiety, 1948), mimando il dialogo di un gruppo di ubriachi e senzatetto newyorkesi, coglie in pieno le inquietudini della propria generazione, privata di ogni possibile catarsi spirituale dalla scelta di opporre il marxismo e il pensiero freudiano all’ideologia conservatrice dell’epoca. In volumi come Lo scudo di Achille (The Shield of Achilles, 1955) e Omaggio a Clio (Homage to Clio, 1960), caratterizzati da un’impeccabile perfezione formale e da un uso raffinatissimo delle figure retoriche, attraverso un tono oggettivo e disincantato, che alterna affondi metafisici a riflessioni e assembla con leggerezza i più disparati riferimenti culturali, Auden persegue l’idea di una poesia che preservi i valori dell’uomo contro ogni forma di ipocrisia. A rinunciare a ogni suggestione metafisica è invece un poeta come Philip Larkin , definito dal premio Nobel Derek Walcott “il maestro dell’ordinario”. La sua è infatti una poesia che si proclama indifferente a ogni formulazione ideologica per concentrarsi sulla registrazione dei minimi dettagli del proprio piccolo mondo personale, rifiutando ogni tipo di sperimentazione modernista per una dizione limpida e scarna, priva di coinvolgimento emotivo. In una carriera poetica racchiusa in sole quattro raccolte, inaugurata da The Less Deceived (1955) e conclusasi con High Windows (1974), Larkin si sofferma a lungo sui temi della malattia e della vecchiaia, indagati con una parola che si vuole netta e definitiva, ma che si scontra con le frequenti interferenze del parlato, in un’articolatissima partitura ritmica. La voce del poeta è consapevole della sua condizione postuma, l’io si presenta come trasversale a se stesso e al reale, ma, nonostante questo, pare non rinunciare al suo meticoloso compito ordinatore. Anche Thom Gunn , inizialmente paragonato a Larkin per la compostezza formale e a Ted Hughes per il vigore e la violenza latente dei suoi versi, è tra i più interessanti poeti inglesi della seconda metà del Novecento. La sua raccolta d’esordio, Fighting Terms (1954), è ancor oggi considerata uno dei più importanti volumi del secondo dopoguerra, per la forza e la concentrazione formale che fondono le forme metriche tradizionali con un linguaggio fortemente contemporaneo. I volumi successivi non incontrano lo stesso unanime favore della critica, soprattutto per il farsi più esplicito di temi come la droga e l’omosessualità: a questa apertura tematica corrisponde però un interessante sviluppo delle forme metriche, orientate a un più libero sperimentalismo di versi sillabici non rimati e versi liberi. Tra le voci più apprezzate della poesia in lingua inglese vi è anche quella del premio Nobel Seamus Heaney , irlandese destinato a scrivere in una lingua che sente propria solo a metà, per le sue profonde radici gaeliche. Fin dalla sua prima raccolta, Morte di un naturalista (1966), Heaney mostra un linguaggio concreto, dalla inconsueta forza ritmica, capace di rendere l’immediato dell’esperienza conoscitiva di fronte al vibrante e misterioso mondo vegetale e animale. Nella sua poesia assume un’importanza particolare non solo la dimensione terrestre del paesaggio irlandese, ma la terra stessa: nella raccolta North (1975), infatti, che si apre significativamente con un componimento intitolato Scavando, a parlare sono i corpi conservati intatti per migliaia di anni nelle torbiere irlandesi. Lo scavare non è solo segno di un viaggio memoriale che arriva sino alla preistoria, ma rimanda alla dantesca discesa negli inferi di un poeta immerso nella materia fisica e verbale. Nel successivo Station Island, che prende il nome dal poemetto centrale della raccolta, attraverso un’accentuata narratività e il ricorso a una pluralità di voci e personaggi, Heaney affronta in maniera diretta la storia d’Irlanda, interrogandosi circa la responsabilità del poeta nel coniugare dimensione pubblica e dimensione privata.
Poesia e conoscenza
Tra i numerosissimi poeti francesi emersi sulla scena nel dopoguerra, occorre ricordare almeno le voci di Yves Bonnefoy e soprattutto René Char , considerato da molti tra i poeti più significativi della seconda metà del secolo. Char esordisce nelle fila del movimento surrealista, colpito profondamente dalla lettura della Capitale del dolore di Paul Éluard, raggiunge una straordinaria notorietà con la raccolta Fogli d’Hypnos (Feuillets d’Hypnos, 1946), sorta di diario di guerra che ricapitola la sua esperienza di partecipazione al movimento della Resistenza. La sua scrittura prosciugata fino all’aforisma, ricca di immagini oscure e illuminanti, assume però toni prevalentemente lirici a partire da volumi quali Ricerca della base e della sommità (Recherche de la base et du sommet, 1955) e Comune presenza (Commune présence, 1964), senza mai evitare di confrontarsi con la difficile condizione della libertà umana, nel tentativo di ripristinare un ruolo morale della poesia all’interno di un mondo disgregato. Autore di una poesia profondamente concettuale, Char si interessa al pensiero di Heidegger e suscita l’interesse di un lettore attento come Maurice Blanchot, che definisce la sua opera “una rivelazione poetica” per l’inedita capacità di rinvenire profonde relazioni tra immaginazione umana e natura, condensando in ogni verso la forza dell’enigma e la pienezza della comunicazione. Anche la poesia di Yves Bonnefoy è caratterizzata da un notevole spessore filosofico, evidente già a partire dalla raccolta del 1953 Del movimento e dell’immobilità di Douve (Du mouvement et de l’immobilité de Douve), la sua prima importante pubblicazione incentrata sulla morte e reincarnazione del personaggio allegorico Douve, che rappresenta al contempo la donna amata, la natura, la mente e la stessa poesia. In Bonnefoy la parola assume spesso una valenza mistica, con un chiaro rimando alla tradizione francese secentesca; immagini semplici appartenenti al mondo della natura – il vento, il deserto, il fuoco, l’acqua, la pietra – rivelano una profonda dimensione spirituale che scavalca la percezione immediata. Anche in un capolavoro come Dans le leurre du seuil (1975), il poeta ritorna sui temi a lui più cari, la natura, l’esistenza, la morte e il ruolo della poesia, affrontati con l’idea di restituire agli esseri e alle cose, attraverso una parola lungamente meditata, la loro più intima essenza. Autore di splendidi saggi sulla letteratura e la pittura, Bonnefoy ha scritto anche numerosi poemi in prosa, definiti récits en rêve, o racconti onirici, che tentano di indagare l’origine inconscia della poesia e di rappresentare l’esistenza in maniera non concettuale.
In Spagna, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, mentre la scena poetica pare ancora dominata dagli strascichi del surrealismo di Vicente Aleixandre e Rafael Alberti e dalla musicalità elegante di Luis Cernuda , che arriverà però a sorprendere la critica con la concettualità e l’asciuttezza di Poesie per un corpo (Poemas para un cuerpo, 1957), si forma una nuova generazione di scrittori, conosciuta come Poeti del Cinquanta, che raggiungerà però i suoi esiti migliori a partire dal decennio successivo. Tra le voci più rappresentative di questa generazione occorre ricordare Carlos Barral, José Agustín Goytisolo, José Ángel Valente, Ángel González e Jaime Gil de Biedma. L’originalità di questo gruppo e il suo aspetto linguisticamente più innovativo risiedono infatti nel rifiuto di ogni concezione strumentale della poesia, sia che il suo fine consista nel cambiare il mondo o nella comunicazione intersoggettiva. L’idea è che la poesia non sia un mezzo di comunicazione ma un tramite di conoscenza, in primo luogo per la persona stessa del poeta, che circoscrive quindi l’area del poetabile all’interno di coordinate molto concrete, quotidiane. Verifica di questa posizione si può trovare nell’opera del maggiore esponente della generazione del Cinquanta, e forse della poesia spagnola del secondo Novecento, Jaime Gil de Biedma. La sua opera, affidata a poche ma intense raccolte è modulata su un’esperienza personale che diventa collettiva. A partire da Según sentencia del tiempo (1953), il poeta intraprende un difficile percorso di autocoscienza per arrivare a scoprire la propria vera identità. Tra i temi privilegiati dell’opera di Biedma ci sono il fuggire irrimediabile del tempo e l’amore omosessuale vissuto con malcelata sofferenza; anche la dimensione morale assume notevole importanza, resa però attraverso una voce ironica dal riconoscibile timbro colloquiale e antiretorico. Con il volume del 1959, Moralidades, il poeta mette per la prima volta in parallelo passato e presente, la dura certezza del regime franchista e l’illusione di un futuro che non pare mai realizzarsi, riuscendo a dare una valenza realista a un discorso che sembra votato all’irrealtà.
In area tedesca è difficile indicare nomi che dopo gli esiti profondissimi di Gottfried Benn e le altezze irrespirabili di Paul Celan abbiano contribuito in maniera significativa al rinnovamento della forma poetica; l’impegno sociale e politico di autori come Hans Magnus Enzensberger o Günter Eich , dopo la riunificazione tedesca, pare ormai lontano non solo nel tempo. Non si è lasciato sopraffare dagli avvenimenti storici, ma anzi ha costruito sulla loro apparente ondata di novità la propria spietata critica all’attuale mondo globalizzato, un poeta come Durs Grünbein, tra i più interessanti esponenti della nuova generazione di scrittori tedeschi, che include nomi come Uwe Kolbe, Sara Kirsch e Kurt Drawert. Grünbein sembra convinto che si possa ormai riflettere sull’uomo solo sulla base di radiografie e continue autopsie; la sua ossessione per il corpo dissezionato corrisponde a uno stile dalla precisione chirurgica, dove il verso costituisce un’unità di suono e di senso autonoma, che procede a scatti violenti, di enjambement in enjambement, come in un moto perpetuo. Scoperto dal genio di Heiner Müller, già con la raccolta del 1988 Zona grigia, mattina (Grauzone morgens, Grünbein dimostra la sua vena sarcastica, che spolpa l’ipocrisia del neoumanesimo consumista, consapevole che in greco sarcasmo ha radici in sarx, carne e in sarkazein, raschiare la carne dalle ossa. Nel successivo volume, Lezione sulla base cranica (Schädelbasislektion, 1991), Grünbein mostra come anche la scienza non risulti che patetica nella sua impotenza a sconfiggere la morte: solo la parola, piegata con inesauribile fiducia all’esigenza di una poesia chiamata a misurarsi con il relitto della storia dell’uomo, e la disintegrazione definitiva dell’io, pare ormai poter decifrare il pensiero preservato dalla “scatola nera” del cervello.