Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il policentrismo politico, tipico del pieno e basso Medioevo, riflette l’articolato pluralismo giuridico del momento. Le istituzioni che si collocano in questo quadro – i poteri monarchici, le nuove realtà comunali e i regimi universali, dell’Impero e del papato – si inseriscono nella fitta trama del vecchio sistema feudale, che ancora permea le dinamiche politiche e sociali dell’epoca.
In linea con una consolidata tradizione pubblicistica, giuridica e politologica, il termine “istituzioni” è qui inteso ricomprendere quegli enti artificiali, costituiti per una qualche finalità politica, che occupano una posizione specifica e non effimera nel quadro dei rapporti giuridici definiti dal sistema normativo in cui tali enti sono collocati ed entro il sistema dei rapporti di forza in cui essi sono inseriti.
Ben si comprende come, in un contesto storico dominato da un esasperato pluralismo giuridico, il quadro delle istituzioni si presenti inevitabilmente assai articolato. D’altronde, il pieno e basso Medioevo sono caratterizzati da uno stabile policentrismo politico che riflette la coesistenza di una pluralità di ordinamenti gerarchicamente non ordinati e perciò tra loro concorrenti.
I conflitti tra questi differenziati sistemi di diritti rimandano, nella loro espressione sociale, alla competizione tra i poteri che trovano collocazione al loro interno: una conflittualità rivelatrice dei rapporti di potere vigenti e del complesso delle istituzioni che si contendono la scena politica. Ne risulta un panorama multiforme delle istituzioni medievali, alla cui organizzazione fa da sfondo una cornice sociale e culturale che, in misura maggiore o minore, tutte compenetra: il sistema del diritto feudale nelle sue più diverse espressioni. Modello vincente del momento, l’ordinamento feudale permea la vita civile e amministrativa dell’epoca, penetrando nei gangli delle istituzioni, dimostrandosi un duttile strumento di governo, misura della saldezza di vecchi e nuovi poteri.
La pervasività dell’elemento feudale impone come condizione ineludibile per l’esercizio del potere politico a livello territoriale il possesso di un patrimonio signorile.
Cosicché, in una società ancora strutturalmente agraria, l’affermazione dei nascenti poteri sovrani è legata in modo indissolubile alla proprietà fondiaria e al controllo della terra. Davanti a un imperante particolarismo feudale, che si presenta intricato e inamovibile, i nuovi monarchi piegano il vassallaggio ai propri fini, facendone uno strumento di controllo sociale che agisce da mezzo di coordinamento tra il sovrano e i poteri feudali, in modo che già agli inizi del XIII secolo questi appaiano irreggimentati in una rete di vincoli al cui vertice è il re.
Il sovrano rivendica la propria supremazia in materia feudale, di fatto depotenziando la minaccia che altrimenti i legami posti dal feudo avrebbero potuto costituire per il potere regio. Facendo della gerarchia feudale parte fondamentale dell’organizzazione sociale del regno, il monarca ne fa un efficace strumento di governo, che sostanzia il suo potere su uno specifico ambito territoriale, di cui egli si considera il legittimo proprietario, quale dominus regio cui i suoi vassi devono prestare fedeltà. È dunque nel quadro di questo sistema di rapporti asimmetrici e diseguali che le monarchie feudali impongono il proprio potere: estendendo il territorio sottoposto al loro controllo; costruendo un apparato amministrativo efficiente; e soprattutto rendendo capillari le istituzioni regie in materia fiscale e nella sfera giurisdizionale.
È quanto avviene nella Francia capetingia già nel corso del XII secolo, ove a un’accentuata politica di espansione territoriale si affianca una legislazione di carattere generale intesa a disciplinare i poteri signorili all’interno del regno. Ma per il consolidamento delle strutture pubbliche, decisiva è la reggenza di Filippo Augusto. Egli contribuisce a sviluppare un complesso apparato amministrativo e burocratico, dotando il regno di ufficiali regi e riservando alla corona esclusivi poteri giurisdizionali e fiscali, senza tuttavia pretendere di rimuovere la radicata struttura feudale, che anzi viene ancor più integrata nelle istituzioni monarchiche con la definizione scritta degli obblighi dei vassalli. L’ossatura ormai accentrata del regno è poi ulteriormente articolata da Luigi IX che procede a una radicale razionalizzazione dell’ordinamento giuridico e a una più compiuta centralizzazione dell’impianto amministrativo, introducendo il sistema delle inchieste per la verifica dell’attività degli ufficiali regi e imponendo il giuramento ai vassalli del regno.
A differenza dell’esperienza continentale, dove il rapporto tra il potere regio e la costellazione dei legami feudali perdura in un delicato ma costante equilibrio, nell’Inghilterra normanna la soggezione dei poteri feudali alla corona è assai più accentuata. Il sovrano si pone, sin dal momento della conquista dell’isola, come dominus delle terre occupate, facendo redigere tra il 1085 e il 1086 il Domesday book, formidabile inventario di beni e persone, oggetto del patrimonio acquisito dalla corona.
Si apre così un lungo e ambivalente confronto tra i vassalli del regno e il monarca: se da un lato il sovrano si erge a garante dei vecchi diritti particolari, nella sua azione rinnovatrice, pure mina alle fondamenta la continuità degli ordinamenti tradizionali, derogando apertamente alle consuetudini del diritto feudale, così suscitando la tenace resistenza dei suoi vassalli. Il tentativo di Giovanni Senzaterra (1167-1216) di ricorrere alla contribuzione straordinaria fallisce clamorosamente e il monarca è costretto a riconoscere ampie concessioni, raccolte nella notissima Magna charta libertatum, che conferma gli ordinamenti particolari sviluppati dalla tradizione limitando di fatto i poteri del re.
Finalmente nella seconda metà del XIII secolo viene articolata la struttura burocratica del regno, attraverso un riordino della materia fiscale e mediante una più chiara definizione dei rapporti dei vassalli con la corona. I vassalli diretti del sovrano entrano a far parte della curia regis, massimo organo giurisdizionale e insieme legislativo del regno. La loro partecipazione a quella che si presenta come la prima corte di giustizia inglese dalla veste parlamentare è poi confermata all’inizio del secolo successivo dalle ordinanze di Oxford, che rafforzano ulteriormente il ruolo già rilevante dei vassalli regi.
Benché il Comune cittadino costituisca certamente la novità più significativa nel panorama politico del pieno e del basso Medioevo, aprendo, soprattutto in Italia, una lunga fase di sperimentazione istituzionale, altrettanto ragguardevole è il rapporto originario che lega la volontà di autogoverno delle città ai rapporti di forza coagulatisi nel feudo. Almeno inizialmente, infatti, il Comune si presenta come un luogo istituzionale in cui i gruppi e i ceti più vicini alla matrice feudale esercitano i propri privilegi e i propri poteri mediante strutture e funzioni pubbliche che definiscono sostanzialmente una nuova organizzazione del vigente sistema feudale.
L’elemento innovativo consiste nel carattere rappresentativo e collegiale degli organi istituzionali, la cui struttura virtualmente democratica influenza la sua complicata parabola politica. Si pone infatti subito il problema dell’estensione della compagine soggettiva del Comune, ulteriormente aggravato dall’insorgenza di nuove contrapposizioni tra interessi divergenti, inesistenti all’origine e germinati dallo sviluppo delle città, protagoniste di un’impressionante espansione economica, culturale e sociale.
Al Comune del podestà, che per qualche tempo agisce da garanzia degli equilibri della vita cittadina favorendo un raffreddamento delle tensioni che dividono i ceti dirigenti e che oppongono questi ai nuovi gruppi emergenti (i mercanti e gli artigiani), si contrappone presto il Comune del popolo, la cui organizzazione è in tutto simile alla struttura istituzionale podestarile. Anch’esso è infatti connotato dalla sussistenza di elementi contrastanti, che compromettono rapidamente l’efficienza dell’organizzazione delle funzioni pubbliche. La supremazia degli organi di governo è di fatto erosa dalla volontà di autonomia delle corporazioni che costituiscono la base insostituibile del loro funzionamento.
La compresenza di questi poteri, ciascuno in competizione con gli altri, infiamma la vita cittadina, ormai terreno di una lotta cronica e selvaggia. Si rende così manifesta la contraddizione strutturale che agita le sorti del Comune. Se, da un lato, le istituzioni comunali si prefiggono l’obiettivo di operare una mediazione tra gli interessi affioranti dall’articolato mosaico che compone la società cittadina, secondo uno spirito unitario apparentemente incompatibile con la mentalità privatistica tipica del regime feudale, dall’altro, gli organi maggiori delle due contrapposte strutture comunali finiscono per essere espressione della volontà politica delle forze dominanti, favorendo così inevitabilmente l’affermazione di una parte sull’altra, di un potere, con i propri privilegi, su un altro potere ad esso concorrente.
È così che la nuova stabilità politica si realizza in un assetto del potere gerarchizzato e tendenzialmente oligarchico, che si concentra nella figura del signore, espressione di un potere di fatto che si atteggia a garante di pace e di imparzialità, cui la società cittadina si affida esausta delle violenze e delle confische subite. Le istituzioni comunali formalmente permangono, ma sono ben presto esautorate dal signore, che si appropria di un potere smisurato, clamorosamente eccedente i normali poteri assegnati ai massimi organi comunali.
Proprio la novità istituzionale costituita dal Comune cittadino rende ancor più visibile la già debole posizione dei poteri universali nelle proprie aree di influenza. L’emergenza di autonomi poteri locali, organizzati nelle nuove strutture comunali, insidia soprattutto l’autorità imperiale, ma pure minaccia il potere temporale della Chiesa sulle terre poste sotto il controllo papale, già assai effimero per la costante assenza del pontefice, impegnato nella realizzazione delle proprie aspirazioni politiche fuori dai confini del suo Stato.
A questa comune sfida, entrambi contrappongono gli strumenti del regime feudale piegandoli ai propri specifici fini. L’impero, piuttosto che tentare un’impossibile risistemazione generale dei diritti pubblici, che avrebbe comportato il massiccio impiego di ufficiali, procede alla concessione di diplomi feudali, con il proposito di legare a sé i poteri locali, costruendo un concreto rapporto di fedeltà in una condizione di larga autonomia amministrativa. La Chiesa riordina il proprio governo temporale, ristrutturando, con Innocenzo III, l’organizzazione del territorio sotto il suo controllo. La riforma, stabilendo criteri funzionali alla ricognizione dei diritti papali sul territorio, migliora in effetti la gestione demaniale e il sistema della riscossione delle entrate, pur ottenendo risultati ben poco durevoli.
Ancora meno efficace risulta la strategia imperiale nei confronti dei Comuni. Per le città i diplomi feudali, con cui l’impero tenta di vincolarne la fedeltà, appaiono superflui essendo in essi previsti diritti e poteri che gli organi comunali avevano già di fatto acquisito. Dopo la resa dell’imperatore alle pretese dei Comuni, sanzionata dalla pace di Costanza, in seguito alla morte di Federico II il potere dell’impero entra in una fase declinante che coinvolge, come si è detto, anche la Chiesa. Entrambi i poteri universali sono quindi costretti ad accettare i processi istituzionali percorsi dalle città dei loro territori, finendo, con la concessione dei vicariati (imperiali o apostolici), per ratificare passivamente l’ascesa del potere signorile nei Comuni e nelle terre a essi circostanti, che prelude alla costituzione dei principati nell’Italia centro-settentrionale.