Le invasioni barbariche
Con la nozione di invasioni barbariche si designa l’ingresso di popoli provenienti dalla Germania e dall’Europa centro-orientale all’interno dei territori dell’impero romano, seguito dal loro insediamento durevole nelle province occupate. Il fenomeno si svolse in due fasi, la prima delle quali, tra l’ultimo quarto del sec. 4° e la prima metà del 5°, investì tutti i territori occidentali dell’impero e l’Africa, mentre una seconda ebbe luogo nella seconda metà del sec. 6° e riguardò l’Italia (longobardi) e la Penisola Balcanica (slavi, avari e bulgari).
Il movimento cominciò verso il 376, quando tribù gotiche, spinte dall’espansione dei mongolici unni nella pianura euroasiatica, patteggiarono l’autorizzazione a passare il Danubio, che segnava il confine (limes) dell’impero nella Penisola Balcanica, e si insediarono nei territori romani, dove peraltro presto si rivoltarono e, dopo aver sconfitto nel 378 l’esercito imperiale in una memorabile battaglia presso Adrianopoli (od. Edirne, nella Turchia europea), si diffusero in varie province, dividendosi in gruppi diversi, alcuni dei quali, riuniti sotto il nome di Visigoti, nei decenni successivi si spostarono verso Occidente, raggiungendo l’Italia e successivamente la Gallia meridionale. Una seconda ondata di invasioni avvenne a partire dall’inverno del 406, quando gruppi di svevi, burgundi, vandali e alani, già insediati lungo il limes del Reno, traversarono il fiume ghiacciato e si diffusero nella Gallia centrale e successivamente in Spagna e in Africa. Contemporaneamente gruppi di sassoni, angli e iuti, provenienti dalla Germania settentrionale, occuparono la Britannia, mentre tribù franche si espandevano nella Gallia settentrionale e risalivano il corso del Reno fino a Colonia.
Mentre la parte orientale dell’impero rimase sostanzialmente indenne dalla presenza barbarica e mantenne l’ordinamento sociale e istituzionale romano, in Occidente le invasioni ebbero conseguenze profonde e modificarono durevolmente l’organizzazione sociale, il regime politico e la vita culturale delle province occupate. La presenza dei nuovi venuti non determinò l’eliminazione o l’assoggettamento sistematico delle popolazioni di tradizione romana nelle province invase. Dopo i disordini e le violenze che segnarono le prime fasi dell’espansione, i ceti dirigenti locali e i capi delle popolazioni barbariche cercarono accomodamenti per rendere possibile una convivenza quanto più possibile pacifica. L’acquisto di terre e rendite, che costituiva un obiettivo fondamentale dei barbari, venne impostato secondo principi che dovevano assicurare ai romani il mantenimento di quote importanti della proprietà fondiaria; più in generale venne regolamentata la coesistenza dei diversissimi regimi giuridici dei romani e dei barbari. Lo stesso governo imperiale, dopo i primi, inefficaci tentativi di contrasto militare, cercò di normalizzare e legittimare la presenza degli invasori, stipulando con i loro capi patti di alleanza (foedera) che presentavano l’insediamento nelle province come contropartita di servizio militare a vantaggio dell’impero, salvando, almeno formalmente, la sovranità imperiale. Tuttavia gli accomodamenti non modificarono la fondamentale novità politica, consistente nel fatto che il potere effettivo nelle province invase passò completamente nelle mani dei barbari, che detenevano il monopolio delle armi e condizionavano perciò il funzionamento delle istituzioni e l’ordinamento sociale, non rinunziando al sopruso e alla violenza per ribadire la loro superiorità politica. La stessa sovranità eminente dell’impero, riconosciuta nelle trattative diplomatiche in cambio di diritti e tributi, venne ignorata quando ambizioni e bisogni indussero a estendere le conquiste. In queste condizioni i provinciali romani abbandonarono presto l’aspettativa di un ristabilimento della sovranità imperiale e aderirono ai capi delle popolazioni barbariche, nell’intento di costruire nuove strutture politiche, di dimensione provinciale, in grado di governare la società mista posta in essere dalle invasioni. Presero così forma i regni romano-barbarici, così chiamati proprio perché in essi si svolsero originali processi di integrazione fra le tradizioni romane e quelle barbariche. La sovranità era esercitata dal re barbaro, col sostegno dell’esercito costituito dagli uomini liberi del suo popolo e il concorso di amministratori provenienti dalla società romana, che misero a disposizione dei nuovi governanti la loro esperienza delle fondamentali tecniche di governo di una società sedentaria quale era quella romana e quale si avviava a diventare quella barbarica: legge scritta, fiscalità pubblica, economia monetaria, amministrazione civile. Tuttavia l’efficacia di queste tecniche venne progressivamente erosa dalla distinzione etnica e giuridica tra barbari e romani, mantenuta viva all’interno dei regni dal perdurare dei costumi militari barbarici e dalla sostanziale incapacità, o riluttanza, dei ceti egemoni barbarici a incanalare il loro potere di fatto in forme romanizzate, mentre nuove cause di insicurezza e disordine erano determinate dai conflitti tra i regni e dalle rivalità tra le aristocrazie delle stesse popolazioni barbariche.
Nonostante questi fattori di debolezza, l’instaurazione dei regni in poco tempo sottrasse definitivamente la maggior parte delle province occidentali alla sovranità dell’impero. Già alla metà del sec. 5° questa si era ridotta alla sola Penisola Italiana, con esclusione delle isole. Anche quest’ultimo caposaldo venne meno nel 476, quando un capo di milizie barbariche stanziate in Italia depose un imperatore già esautorato, ponendo definitivamente fine all’impero romano d’Occidente.
Le invasioni barbariche costituiscono un evento capitale della storia europea non soltanto perché diedero l’avvio nei territori già romani a formazioni statali a fondamento etnico e militare, con strutture di governo monarchico-nobiliari che avrebbero caratterizzato l’esperienza politica europea per lunghi secoli a venire; esse imposero, anche, originali concezioni dell’individuo e dell’organismo sociale, che sostituirono quelle proprie della tradizione romana e resero possibile l’integrazione delle popolazioni già separate dal limes nel cuore del continente europeo, ponendo fine alla gravitazione economica e culturale verso il bacino del Mediterraneo che l’organizzazione romana aveva imposto alle province settentrionali. Esse sono state perciò oggetto di meditazione storiografica fin dai tempi stessi in cui avvennero: subito furono viste come fattore di discontinuità nello sviluppo storico e ci si domandò se l’irruzione delle nuove gentes nel territorio imperiale fosse un castigo divino per i peccati della società romana o, al contrario, una disposizione provvidenziale per l’acquisto di nuovi popoli al cristianesimo. La questione storiografica delle invasioni barbariche nasce però in età moderna, con la riscoperta, a opera degli umanisti italiani, dell’antichità come maestra e metro di valori morali ed estetici, i cui canoni erano andati persi nei lunghi secoli precedenti, quando letteratura e arte avevano prodotto opere che nel nuovo orientamento culturale venivano considerate deformi e bizzarre. Gli umanisti italiani spiegarono la crisi della civiltà classica appunto con le invasioni barbariche che, imponendo nei territori romani il dominio di popoli privi di educazione intellettuale e di governi civili, avrebbero determinato l’estinzione della civiltà antica e dato origine alla lunga età oscura, che da allora cominciò a essere denominata Medioevo.
Tuttavia fuori d’Italia, e soprattutto in Germania, in ambienti anch’essi animati dal rinnovamento umanistico, ma che al recupero della cultura antica univano l’attenzione per tradizioni nazionali diverse da quelle italiane, i barbari vennero considerati come antenati dei popoli tedeschi, e il loro ruolo storico fu visto non tanto nella distruzione dell’impero e della civiltà romana, quanto nella fondazione di una società caratterizzata dalla libertà popolare, dalla moralità individuale e collettiva, e dall’affermazione dell’onore e della sovranità germanica fra le nazioni.
La storiografia dell’Illuminismo, ispirata da interessi generali di filosofia politica, puntò la sua attenzione piuttosto sulla crisi dell’impero romano, che fu vista come esempio e monito del disfacimento di un ordinamento statale evoluto e complesso, causato da fattori interni, ancor prima che dall’aggressione esterna. Furono messi in evidenza il venir meno delle virtù civiche, l’abbandono della pratica militare, la corruzione e l’incapacità dei governi, l’influenza negativa delle tendenze ascetiche del cristianesimo. Le invasioni barbariche furono considerate conseguenza, piuttosto che causa, di una decadenza morale e politica che privava l’impero della capacità di resistere all’urto di popolazioni animate da costumi bellicosi, ma anche spinte da bisogni essenziali a varcare i suoi confini. A tali bisogni e costumi venne prestata un’attenzione nuova, interessata alla comprensione di sistemi sociali primitivi ma organici e funzionali, che vennero descritti sulla base delle testimonianze antiche, rilette anche alla luce delle conoscenze etnografiche moderne. Pur nella deprecazione del collasso della civiltà antica, il nuovo atteggiamento culturale consentiva anche di provare un ammirato interesse per alcune personalità di capi barbarici in cui si ravvisavano singolari modelli di un’umanità eroica. All’opposizione «civiltà-barbarie» venne così sostituendosi gradatamente quella «decadenza romana-vitalità barbarica», che avrebbe avuto grande sviluppo nella riflessione storica dell’Ottocento, quando le aspirazioni di riscossa nazionale, particolarmente in Germania, orientarono le scienze filologiche e archeologiche alla costruzione dell’identità germanica dei barbari. I caratteri fondamentali del «germanesimo» (Germanentum), condivisi da tutte le popolazioni barbariche, pur con specificità proprie di ciascuna, vennero individuati nella lingua, nella religione, nelle istituzioni giuridiche e sociali, nelle pratiche culturali di cui restava traccia archeologica: armamento, vestiario, insediamento, rituali funerari. Di ciascuna popolazione documentata dalle fonti antiche si cercò di ricostruire la storia, a partire dalle origini più remote fino alla costituzione di un regno in territorio romano. Si costruì così, con le risorse della raffinata scienza storica messa a punto nelle università tedesche, il modello di una civiltà germanica contrapposta a quella romana (Römertum), ma pari a essa per valore e importanza. Le invasioni – concetto cui venne volentieri sostituito quello di «migrazioni di popoli» (Völkerwanderungen) – assunsero un significato storico positivo, in quanto grazie a esse si sarebbe realizzato quell’innesto dei caratteri fondamentali della germanicità sul sostrato delle esperienze culturali romane, mediato dalla diffusione del cristianesimo nelle società barbariche, da cui, attraverso la lunga elaborazione medievale, sarebbe scaturita la civiltà dell’Europa moderna, definita appunto romana, germanica e cristiana.
La rivalutazione della civiltà germanica portata dai barbari ebbe accoglienza diversa nelle storiografie degli altri Paesi europei, anch’esse influenzate nell’Ottocento da preoccupazioni di identità nazionale. In Inghilterra il dominio dei sassoni e degli angli fu posto all’origine delle istituzioni assembleari ritenute caratteristiche della storia costituzionale inglese, ma in Paesi che preferivano richiamarsi all’eredità romana, come la Francia e l’Italia, venne ribadito il carattere eversivo e violento delle dominazioni barbariche. In Italia l’invasione longobarda fu considerata la prima delle dominazioni straniere che ancora privavano gli italiani della libertà politica. Nella seconda metà dell’Ottocento l’indagine sul germanesimo accentuò in Germania il carattere nazionalistico e poté sfociare anche in mitologie etniche, che divennero elemento di propaganda dei regimi autoritari del Novecento.
Dopo la Seconda guerra mondiale si avviò dunque, a opera proprio di studiosi tedeschi, una revisione critica degli assiomi su cui si fondava la caratterizzazione germanica del mondo barbarico. Venne messo in rilevo che le popolazioni barbariche non erano comunità biologiche originarie portatrici di ancestrali concezioni politiche e sociali, ma, al contrario, formazioni relativamente recenti, nate dall’aggregazione di gruppi etnici e culturali eterogenei attraverso processi di migrazione e conflitto avvenuti ben prima dell’ingresso nell’impero romano («etnogenesi»). Anche i loro riferimenti identitari si erano formati nel corso delle migrazioni ed erano piuttosto costruzioni intenzionali promosse da gruppi politici egemoni che patrimonio tradizionale di ciascuna popolazione. Si sottomise a una critica serrata la stessa idea di una germanicità comune alle popolazioni barbariche, constatando che i loro caratteri culturali, a cominciare dalla lingua, erano tutt’altro che omogenei e che gran parte dell’ideale universo germanico riferito all’età delle invasioni era stato costruito da storici e filologi accostando testimonianze di epoche e ambienti molto diversi. In seguito si evidenziò anche l’influenza che i contatti militari, politici ed economici col mondo romano, già intensi prima delle invasioni, avevano esercitato sulle trasformazioni sociali e istituzionali delle popolazioni barbariche. Il limes imperiale venne considerato non più barriera, ma area di comunicazione e di scambio. L’idea della organicità etnica e culturale delle stirpi barbariche venne così messa seriamente in discussione.
D’altra parte anche i rapporti col mondo romano durante e dopo le invasioni sono stati oggetto di revisioni radicali. In particolare sono state riesaminate le modalità dell’insediamento barbarico in territorio romano, ipotizzando che esso non creasse traumi nella società romana, in quanto i barbari non si sarebbero impadroniti delle terre, ma avrebbero ricevuto quote predefinite della tassazione pubblica regolarmente pagata dai contribuenti romani. La cultura barbarica è stata presentata come fortemente romanizzata già prima delle invasioni, e quella romana tanto trasformata rispetto al modello classico da essere compatibile con essa. La stessa denuncia della violenza tradizionalmente associata alle invasioni è stata considerata in gran parte frutto dell’esagerazione propagandistica di particolari ambienti romani.
All’idea del confronto militare, politico e culturale tra germanesimo e romanità si è così sostituita quella della integrazione delle nuove popolazioni nel corpo dell’impero, perseguita concordemente dalle autorità imperiali e dai gruppi barbarici, il cui interesse politico sarebbe stato quello non di abbattere l’impero, ma di conservarlo per godere i vantaggi della complessa organizzazione dello Stato romano. In questi nuovi orientamenti del pensiero storico è possibile scorgere il riflesso di preoccupazioni dominanti nelle società occidentali a cavallo tra il 20° e il 21° secolo: l’esorcizzazione dei fantasmi dei nazionalismi europei e i timori per i conflitti di civiltà che le nuove migrazioni fanno temere. Gli orientamenti con cui il pensiero politico e sociologico affronta questi problemi dell’oggi influenzano la trattazione delle invasioni barbariche, in cui si vede un modello storico di grandi trasformazioni per molti aspetti confrontabili con quelle che agitano il mondo contemporaneo. Ciò spiega anche l’estremismo di alcune ricostruzioni, nei confronti del quale comincia a manifestarsi l’esigenza di un ripensamento. Tuttavia proprio la vivacità del dibattito in corso è testimonianza del rilievo problematico che le invasioni barbariche continuano ad avere per la coscienza storica dell’Occidente.
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