Le immagini endoscopiche
(a cura di Paolo Ricci)
L'endoscopia è una tecnica di indagine che viene impiegata a scopi sia diagnostici sia terapeutici. Essa consente l'ispezione della superficie interna di condotti naturali (per es. l'esofago e il colon), di organi cavi (per es. lo stomaco) e di cavità sierose, allo scopo di rilevarne le eventuali alterazioni e di procedere a interventi locali. Nonostante ciascuna sede di indagine richieda strumenti appropriati e si siano sviluppate quindi molte modalità tecniche differenti, i principi base dell'endoscopia rimangono invariati. Lo strumento fondamentale usato in ogni tipo di endoscopia è l'endoscopio che è uno strumento ottico tubulare di diametro variabile, fornito di un sistema di luci e lenti che consente la visualizzazione diretta del lume viscerale. Esistono endoscopi rigidi ed endoscopi flessibili, dotati di sistemi a fibre ottiche. Le proprietà delle fibre ottiche flessibili furono illustrate da J. Tyndall nel 1870, ma la loro utilizzazione pratica non avvenne prima del 1927, a opera di J.L. Baird e di C.W. Hansell. Nel 1930 le fibre ottiche furono impiegate per la costruzione di un gastroscopio flessibile.
Nella strumentazione endoscopica viene sfruttato il fenomeno della riflessione totale interna in fibre ottiche per trasmettere luce e immagini attraverso cammini curvilinei. Ciò avviene utilizzando fibre di vetro ad alto indice di rifrazione, rivestite da una guaina a minor indice di rifrazione. Per ottenere un'immagine definita si devono accostare 104-105 fibre (del diametro di 5-12 μm) per costituire un fascio coerente, in cui cioè ciascuna fibra assume la stessa posizione rispetto alle altre in entrambe le estremità. La percentuale di luce trasmessa dipende dalla lunghezza della fibra e dalla lunghezza d'onda della luce, oltre che ovviamente dalla trasparenza del materiale della fibra alla radiazione trasmessa; la luce infatti è attenuata sia a causa dell'assorbimento della radiazione nel vetro, sia per la dispersione di energia attraverso le pareti di rivestimento, sempre presente anche nelle fibre di alta qualità. La risoluzione dell'immagine è limitata teoricamente dalle dimensioni della fibra: tuttavia per diametri della fibra minori di 5 μm non è possibile migliorare ulteriormente la risoluzione a causa della diffrazione, che comporta perdite di luce e di definizione dell'immagine. La grande flessibilità delle fibre ottiche le rende particolarmente adatte a trasmettere immagini lungo percorsi tortuosi, per es. quelli del tratto gastrointestinale Utilizzando fasci di fibre ottiche per trasmettere la luce, l'oggetto da osservare deve essere posizionato con precisione all'estremità di osservazione (estremità distale) per produrre un'immagine definita all'estremità di visualizzazione (estremità prossimale, o impugnatura); sono necessari quindi un obiettivo all'estremità distale e un oculare ingranditore a quella prossimale. Per aumentare la trasmissione di luce, l'obiettivo è costituito da lenti cilindriche tali da formare lenti sottili costituite da strati d'aria; nella maggior parte degli strumenti la sua distanza focale è fissa e inferiore a 1 cm; alcuni endoscopi hanno un obiettivo con fuoco regolabile, che permette una più dettagliata visione delle mucose. Le fibre ottiche sono scarsamente resistenti a sforzi meccanici, che ne possono limitare la trasmissione di luce fino alla completa opacità in caso di frattura. Il fascio di fibre ottiche si deteriora quindi nel giro di pochi anni di intenso sfruttamento, con conseguente necessità di sostituzione. Inoltre le fibre ottiche sono danneggiate dalla radiazione X, spesso usata per poter seguire radiologicamente il procedere dell'esame endoscopico. In generale un endoscopio a fibre ottiche è costituito da varie parti (fig. 4.247): a) un sistema ottico, di solito di grande apertura angolare (circa 70°), grazie alla flessibilità delle fibre ottiche orientabile in tutte le direzioni fino a formare angoli di oltre 180° con l'asse dello strumento; in alcuni strumenti la visione è frontale, in altri laterale; b) una guida di luce, costituita da fibre ottiche, per illuminare dall'esterno la cavità; c) canali di servizio per l'aspirazione oppure l'immissione di aria e di liquidi di lavaggio; d) canali per l'immissione di strumenti di misura e operatori, quali pinze bioptiche di vario tipo, spazzole per la citologia, anse diatermiche, cateteri, elettrodi e sonde di misura (per es. per la misurazione del pH); e) tiranti d'acciaio che consentono i movimenti della parte terminale. La sonda flessibile è collegata all'impugnatura, dotata di comandi di messa a fuoco, di comandi per i movimenti di direzione e di comandi e ingressi dei canali di servizio e operatori. Un raccordo flessibile, contenente anche fibre ottiche, collega la sonda alla sorgente di luce e agli apparati ausiliari (pompa per aria e liquidi, aspiratore ecc.), sistemati in un apposito contenitore. La sorgente di luce è generalmente costituita da una lampada ad arco o alogena, che mediante uno specchio paraboloidico è concentrata sul fascio di fibre ottiche. È possibile applicare all'impugnatura dispositivi ottici per la visione secondaria oppure per la registrazione di immagini con macchine fotografiche oppure telecamere. In questi ultimi casi è necessario usare sorgenti di luce più intense rispetto alla semplice visione oculare. Le caratteristiche geometriche, il sistema ottico, la posizione dell'obiettivo, i sistemi di servizio, quelli operatori e gli accessori vengono ottimizzati a seconda delle finalità dello strumento. In particolare il diametro della parte terminale e del tubo flessibile può variare, a seconda della utilizzazione, tra 4 mm e 15 mm, mentre la sua lunghezza può variare tra 40 cm e 180 cm. Questo tipo di strumentazione offre il vantaggio di studiare le cavità del corpo umano in modo non invasivo o limitatamente invasivo (nel caso di strumenti rigidi), con complicazioni per i pazienti praticamente assenti o assai limitate.
La laringoscopia è il metodo che permette l'ispezione della laringe in tutta la sua estensione. Si può distinguere una forma indiretta, in cui la fonte della luce rimane esterna al soggetto, e una diretta, che rappresenta la forma endoscopica propriamente detta, se eseguita mediante fibroscopi.
La laringoscopia rappresenta il momento conclusivo dell'esame obiettivo della laringe. Al paziente seduto, con la lingua protrusa, viene introdotto nella bocca uno specchietto laringeo, adeguatamente riscaldato, che si appoggia sul velo palatino. L'illuminazione della laringe si ottiene mediante un fotoforo, i cui raggi luminosi vengono riflessi dallo specchietto ruotato di 40-50°. Facendo pronunciare al paziente la vocale 'e', o 'i', si ottiene un ulteriore innalzamento della laringe, che viene così riflessa sullo specchio. Quadro obiettivo Sulla sinistra del campo visivo si osserva la parte destra della laringe; in alto l'epiglottide, sormontata dalla base della lingua; tra queste due ultime formazioni si apprezzano le vallecole, delimitate all'esterno dai legamenti glossoepiglottici laterali. Dalla base dell'epiglottide si diparte da ciascun lato la plica ariepiglottica, che delimita l'interno della laringe dal corrispondente seno piriforme (doccia faringolaringea) e presenta nel tratto posteriore due rilievi determinati dalle cartilagini accessorie: anteriormente la cartilagine cuneiforme e posteriormente la cartilagine corniculata, che fa corpo con la cartilagine aritenoide. Tra le due aritenoidi, a laringe in posizione respiratoria, si osserva la regione interaritenoidea rivestita da una mucosa pallida. All'interno delle pliche ariepiglottiche, l'immagine laringoscopica mostra le corde false, che rispetto alle corde vere sono più ampie e di colorito rosaceo. A seguire si hanno l'apertura del ventricolo di Morgagni e le corde vocali vere, di colorito bianco avorio, che delimitano uno spazio respiratorio (spazio glottico) di forma triangolare e con base posteriore. Anteriormente le corde vocali si uniscono a formare la commissura anteriore. Al di sotto della glottide è appena visibile la regione sottoglottica, e talora anche i primi anelli tracheali. Facendo pronunciare al paziente le vocali 'i' ed 'e', le corde vocali si avvicinano sulla linea mediana, riducendo quasi totalmente lo spazio respiratorio. Mediante la laringoscopia si valutano la morfologia (variazione di colore delle mucose, presenza di essudati, di edemi flogistici, di processi produttivi o infiltrativi) e la motilità delle corde vocali (paralisi adduttorie o abduttorie, insufficienze funzionali cordali uni- o bilaterali). Per es., nella paralisi del nervo laringeo inferiore o ricorrente (paralisi ricorrenziale) unilaterale, la corda vocale assume spesso una posizione 'paramediana' o cadaverica, intermedia tra adduzione e abduzione, mentre la corda vocale sana in fonazione, nel tentativo di compenso funzionale, tende a superare la linea mediana per avvicinarsi alla corda ipomobile.
La laringoscopia diretta si esegue mediante fibroscopi a fibre ottiche, flessibili o rigidi. I fibroscopi sono composti da un sistema di lenti e da un fascio di fibre ottiche con estremità distale angolabile a piacere (100° inferiormente, 130° superiormente); consentono di esplorare le regioni nasale, rinofaringea e laringea senza la necessità di ricorrere all'anestesia generale, permettendo così di valutare la laringe anche durante la fonazione, il canto, o la deglutizione. L'indagine fibroendoscopica si effettua introducendo l'estremità dello strumento in una narice e facendola scorrere lungo la fossa nasale e la cavità rinofaringea, per poi spingerla in basso sino a ottenere una chiara visione del lume laringeo. La manovra, in genere assai ben tollerata anche dai bambini, rende possibile esaminare anche i pazienti che non è possibile osservare con la laringoscopia indiretta. A volte può essere utile, in via preliminare, instillare alcune gocce di vasocostrittore nella fossa nasale prescelta, per aumentarne la pervietà. All'ottica prossimale dello strumento si può agevolmente collegare una telecamera, così da disporre di una documentazione iconografica che faciliti la diagnosi. Poiché il paziente può osservare la sua immagine laringea sullo schermo TV, a mano a mano che l'esame procede, e poi in replay, e in tal modo vedere la propria laringe sia a riposo sia in fonazione, ci si può avvalere di questa metodica anche per effettuare una rieducazione vocale autocontrollata. Per la laringoscopia diretta ci si serve anche di laringoscopi rigidi a fibre ottiche, dotati di un sistema di lenti posto all'estremità. Lo strumento viene introdotto attraverso la bocca, portandone l'estremità in prossimità della parete posteriore faringea. I fastidi per il paziente sono molto ridotti e l'esame è praticabile anche nei soggetti con riflessi vivaci.
L'avvento del microscopio operatorio e di raffinate tecniche anestesiologiche ha reso possibile lo sviluppo della microlaringoscopia diretta in sospensione, che permette di effettuare diagnosi assai accurate e micromanipolazioni chirurgiche, nel rispetto delle funzioni dell'organo (fig. 4.248). Tale analisi viene effettuata con il paziente in anestesia generale, a capo iperesteso; il laringoscopio (di varia taglia a seconda dell'età del soggetto), introdotto dalla bocca, segue il tubo anestesiologico fino a raggiungere l'epiglottide, per penetrare poi nella laringe. Il medico controlla la progressione del tubo laringoscopico con l'ausilio di un fotoforo a luce fredda. L'estremità del laringoscopio viene portata fino a 2 mm dal piano glottico e lo strumento viene bloccato mediante un sospensore autostatico poggiante sul torace del paziente. Si posiziona quindi il microscopio operatorio con lente focale di 400 mm. Con questa metodica si ha una visione statica di tutta la laringe, ivi compresa la regione sottoglottica. A volte, per facilitare la visione della regione posteriore, al posto del tubo endotracheale viene inserito sotto la glottide, attraverso il laringoscopio, un tubicino di 1 mm di calibro, che garantisce una adeguata assistenza respiratoria grazie a una miscela di ossigeno e protossido di azoto, erogata con una frequenza ventilatoria di 120-150 atti al minuto e alla pressione di 2,5-3 atm (jet ventilation). La diagnostica e la chirurgia laringea in microlaringoscopia presenta alcuni vantaggi, quali la possibilità di lavorare con entrambe le mani, la visione stereoscopica del campo operatorio e la possibilità di ingrandire la zona in cui si opera, e quindi di eseguire con estrema precisione le procedure chirurgiche. A ciò si aggiunga che, mediante ottiche supplementari connesse al microscopio, è possibile documentare con fotografie, film o videocassette il reperto obiettivo e l'intervento eseguito. Oltre all'impiego nella diagnostica, la microlaringoscopia ben si presta al trattamento chirurgico di lesioni endolaringee di natura flogistica (laringiti croniche iperplastiche) o traumatica (noduli), alla asportazione di neoformazioni benigne (polipi, papillomi; fig. 4.249), nonché alla diagnosi precoce di lesioni precancerose.
La broncoscopia consente lo studio dei bronchi mediante l'uso di fibre ottiche flessibili. La tollerabilità dell'indagine da parte del paziente, l'esecuzione in regime ambulatoriale, le ridotte controindicazioni e complicanze, fanno della fibrobroncoscopia un momento fondamentale del protocollo diagnostico delle patologie neoplastiche, infettive e infiammatorie del polmone.
I primi tentativi di esplorazione diretta delle vie aeree risalgono alla seconda metà dell'Ottocento, quando J. O'Dwyer propose l'intubazione tracheale per risolvere le gravi insufficienze respiratorie da stenosi laringee difteriche o per facilitare la rimozione di corpi estranei. Una vera e propria esplorazione dell'albero tracheobronchiale risultava tuttavia di difficile realizzazione, soprattutto per la carenza di strumenti adatti allo scopo. F.E.R. Voltolini, nel 1875, esaminò la trachea e gli orifizi di imbocco dei bronchi principali utilizzando uno speculum auricolare introdotto in trachea attraverso un taglio praticato sulla faccia anteriore del collo (tracheostomia). La prima descrizione della tecnica broncoscopica per via orale, messa a punto nel cadavere (1880) e successivamente applicata in medicina (1897), si deve a G. Killian: per estrarre un osso di maiale inalato dal paziente, Killian impiegò un esofagoscopio introdotto nella via aerea, praticando l'anestesia locale mediante cocaina. Il limite tecnico maggiore per un impiego diagnostico della broncoscopia consisteva soprattutto nella difficoltà di ottenere una sufficiente illuminazione del campo di esplorazione. Un apporto di fondamentale importanza venne da Chevalier-Jackson, che nel 1904 ideò e realizzò il primo broncoscopio rigido con tubo di aspirazione incorporato e illuminazione elettrica distale. A ragione, quindi, Chevalier-Jackson può essere considerato il padre dell'endoscopia bronchiale; questa tecnica ha segnato l'inizio della moderna pneumologia, in quanto ha consentito il passaggio dalle esigenze di ordine prevalentemente chirurgico e terapeutico di emergenza a quelle di natura diagnostica e ha contribuito con una precisa indicazione operatoria alla nascente chirurgia toracica. L'epoca della broncoscopia con lo strumento rigido, che va dagli inizi del secolo 20° alla metà degli anni Sessanta, ha rappresentato un periodo di acquisizione di informazioni morfologiche e funzionali di enorme importanza. L'ideazione di nuovi strumenti da parte dello stesso Chevalier-Jackson ne ha inoltre consentito l'impiego per l'estrazione di corpi estranei endobronchiali, il drenaggio attraverso la via aerea di ascessi polmonari e la broncoaspirazione. Tuttavia, lo strumento rigido può risultare tecnicamente difficile da impiegare e fastidioso per il paziente; inoltre, la necessità di ricorrere a una anestesia profonda ne ha in qualche modo limitato l'applicazione clinica. Per questi motivi, il broncoscopio rigido ha successivamente ceduto il passo al fibrobroncoscopio (fig. 4.250), uno strumento flessibile a fibre ottiche introdotto nella pratica clinica da H. Ikeda nel 1968. L'impiego di questo strumento, grazie al suo ridotto calibro e alla flessibilità dell'estremità distale, ha contribuito a ridurre il traumatismo dell'esame, che viene comunque eseguito generalmente in anestesia locale, e ad ampliare il territorio di esplorazione fino ai bronchi di V e VI ordine, prima non raggiungibili con lo strumento rigido; è stato quindi possibile valutare, mediante lavaggio bronchioloalveolare e biopsie transbronchiali, anche patologie a carico del solo mantello polmonare. Si può dire, così, che questa innovazione ha realmente incrementato il potenziale diagnostico endoscopico delle affezioni broncopolmonari, consentendo, specialmente in ambito oncologico, una diagnosi più precoce, una tipizzazione istologica del tumore in una percentuale maggiore di pazienti e una più accurata valutazione della reale estensione della malattia.
La fibrobroncoscopia presenta indicazioni cliniche, radiologiche e citologiche. Le prime si identificano in quel corredo di sintomi o quadri sindromici che, anche in assenza di aspetti radiologici significativi, pongono il sospetto di una patologia polmonare. La presenza di opacità polmonari singole o multiple, l'ingrandimento delle ombre ilari o del mediastino, l'esistenza di un versamento pleurico o di cellule atipiche nell'espettorato sono tutti segnali che costituiscono, anche in assenza di una sintomatologia clinica evidente, un'indicazione alla fibrobroncoscopia. Negli ultimi anni, è progressivamente ritornato in auge anche il broncoscopio rigido (fig. 4.252), utilizzato nel campo dell'endoscopia operativa. L'impiego del laser nella chirurgia endobronchiale e più ampie indicazioni alla crioterapia e brachiterapia endobronchiale hanno infatti spinto alcuni autori a mettere a punto un nuovo strumento rigido, che consente contemporaneamente la ventilazione del paziente e l'introduzione della fibra laser, di due sonde di aspirazione e del telescopio; questo strumento è inoltre fornito di tubi rigidi intercambiabili di diversi lunghezza e calibro, per l'impiego anche in pediatria e in caso di lesioni localizzate nei piccoli bronchi. È inoltre possibile connettere lo strumento a una telecamera, per la registrazione o la trasmissione in tempo reale dell'immagine (fig. 4.253). L'uso di questo strumento, sempre in anestesia generale, ha consentito di estendere le indicazioni della chirurgia endobronchiale anche a pazienti in condizioni generali non ottimali, per il trattamento delle ostruzioni delle vie aeree alte e medie di natura neoplastica (tumori primitivi o metastatici) e infiammatoria (stenosi tracheobronchiali postintubazione o postchirurgiche). L'impiego di introduttori appositamente disegnati consente inoltre il posizionamento di protesi in silicone o metalliche, di supporto interno della via aerea. L'utilizzazione di protesi endobronchiali ha pertanto aggiunto un ulteriore sostegno a corollario del trattamento con laser, soprattutto nei casi in cui la trachea e i bronchi principali presentino la tendenza a richiudersi rapidamente per la presenza di una alterazione della parete o per il rapido ritmo di crescita del tessuto neoplastico. Alla broncoscopia va quindi il merito di consentire manovre diagnostiche invasive e veri e propri interventi di chirurgia endobronchiale con una buona tollerabilità da parte del paziente e risultati a distanza soddisfacenti.
La mediastinoscopia, introdotta nel 1959, è un'indagine diagnostica invasiva messa a punto per consentire la biopsia di lesioni mediastiniche di origine linfonodale o di altra natura, localizzate in corrispondenza dello spazio circostante la trachea. Più che di un esame endoscopico, si tratta quindi di un vero e proprio intervento chirurgico, da effettuarsi in anestesia generale e in un complesso operatorio attrezzato per la chirurgia toracica maggiore. Infatti, nonostante questa indagine comporti un trauma chirurgico limitato, tempi operatori brevi e una accuratezza diagnostica elevata, le possibili complicanze, seppure rare, possono essere di importanza tale da richiedere immediatamente, per il loro controllo, una via di accesso più ampia. La mediastinoscopia si è progressivamente diffusa, fino a costituire attualmente una delle indagini fondamentali nella valutazione dei pazienti affetti da carcinoma broncogeno o da linfoadenopatie mediastiniche di natura da determinare.
Lo strumentario, estremamente semplice, è costituito dal mediastinoscopio (fig. 4.255), un tubo che ricorda il laringoscopio diretto, da un aspiratore-dissettore, da pinze portatamponi e da biopsia, e da uno o più aghi lunghi per la puntura esplorativa delle strutture da bioptizzare. È attualmente in uso un videomediastinoscopio, che consente la registrazione delle immagini, che vengono proiettate in tempo reale su un monitor, con notevoli vantaggi soprattutto dal punto di vista didattico. Attraverso un taglio praticato sul collo, in zona sopragiugulare, si introduce il mediastinoscopio nel torace, oltre il tronco anonimo e fino ad arrivare alla carena e all'angolo tracheobronchiale (fig. 4.256). La dissezione può essere spinta a destra fino al bronco principale, al di sotto dell'arco della vena azygos, e a sinistra fino all'arco dell'aorta. La tecnica detta mediastinoscopia allargata consente di scavalcare l'arco dell'aorta fino a prelevare anche i linfonodi della finestra aortopolmonare. I linfonodi sono solitamente visibili attraverso la fascia pretracheale; tuttavia, prima di effettuare la biopsia è opportuno praticare una puntura esplorativa con ago, per accertarsi della natura non vascolare del tessuto. Particolare attenzione deve essere posta nella biopsia dei linfonodi paratracheali di sinistra, per la presenza del nervo ricorrente, e di quelli pretracheali e della carena, per la presenza del tronco anonimo e dell'arteria polmonare di destra. L'esame istologico estemporaneo è sempre necessario, per avere la sicurezza di un prelievo istologico diagnostico.
L'indicazione più frequente alla mediastinoscopia è rappresentata dalla biopsia dei linfonodi mediastinici per la stadiazione del cancro del polmone. Infatti, la diffusione metastatica ai linfonodi mediastinici costituisce, generalmente, una controindicazione all'intervento chirurgico, che viene generalmente effettuato solo dopo alcuni cicli di chemioterapia coadiuvante. È pertanto opportuno effettuare una biopsia in tutti i casi di reperto radiologico dubbio, per indirizzare all'intervento chirurgico di exeresi solo pazienti in cui non vi sia un coinvolgimento linfonodale mediastinico. Altre indicazioni sono costituite da tutte le linfoadenopatie peritracheali di natura da determinare, sia infettiva sia neoplastica. Le indicazioni alla mediastinoscopia hanno subito una notevole evoluzione nel corso degli ultimi anni, dopo l'introduzione nella pratica clinica della toracoscopia videoassistita (v. oltre), che consente di raggiungere in pratica tutti i distretti mediastinici. La mediastinoscopia è pertanto indicata elettivamente in tutti i pazienti con lesioni peritracheali che non raggiungono la pleura mediastinica; la biopsia di lesioni mediastiniche con maggiore sviluppo verso il cavo pleurico e in contatto con la pleura mediastinica viene attualmente effettuata mediante toracoscopia videoassistita.
Le complicanze più frequenti della mediastinoscopia si individuano nello pneumotorace, consistente nella penetrazione di aria nello spazio pleurico, dovuto alla apertura della pleura mediastinica durante la biopsia dei linfonodi laterotracheali, oppure in un sanguinamento. Emorragie modeste, generalmente dovute alla lesione di piccoli vasi venosi o di arteriole linfonodali, e sanguinamenti più cospicui, dovuti a lesioni delle arterie bronchiali, il cui circolo è particolarmente esuberante in caso di patologie infiammatorie, sono di solito risolti mediante coagulazione o apposizione di clip metalliche. La lesione di uno dei grossi tronchi epiaortici o dell'arteria polmonare di destra causa invece sanguinamenti importanti, non arrestabili con le sole compressione o coagulazione; in questi casi per dominare la lesione vascolare è generalmente necessario eseguire una sternotomia, cioè un intervento chirurgico che preveda l'apertura del torace.
La toracoscopia videoassistita è una moderna tecnica endoscopica usata in chirurgia toracica. Si avvale di un sistema di amplificazione dell'immagine, che viene proiettata ingrandita su un monitor a colori a elevata definizione, consentendo una visualizzazione ottimale delle strutture anatomiche, e facilitando notevolmente, in tal modo, la manipolazione dei tessuti. La tecnica rende possibile l'esecuzione di procedure chirurgiche che un tempo richiedevano interventi molto più invasivi e rischiosi per il paziente. Evoluzione storica La toracoscopia rappresenta una delle più antiche procedure chirurgiche nell'ambito della chirurgia toracica. Venne introdotta nella pratica clinica all'inizio del 20° secolo, quasi contemporaneamente ai primi tentativi di toracotomia. Le prime esperienze toracoscopiche furono descritte nel 1910 da H. C. Jacobeus, nella diagnosi delle malattie polmonari e pleuriche e nella pneumolisi, come adiuvante alla collassoterapia, introdotta nel 1899 da C. Forlanini per il trattamento della tubercolosi cavitaria. Per alcuni decenni, la toracoscopia venne impiegata prevalentemente a scopo diagnostico; le sue potenzialità erano infatti notevolmente limitate dalla strumentazione insoddisfacente e dalla visione monoculare, permessa solo all'operatore. Soltanto con la messa a punto di strumenti più sofisticati, e in particolare con l'introduzione nella pratica clinica di videocamere a elevata risoluzione e di piccole dimensioni, adattabili alle ottiche degli endoscopi, si è avuto un notevole ampliamento delle indicazioni. Le prime esperienze di toracoscopia videoassistita sono state descritte da Wakabajashy e da Lewis nel 1991. Sotto la spinta dei primi successi, e soprattutto grazie al notevole sviluppo tecnologico che ha reso possibile la messa a punto di strumenti endoscopici sofisticati, la toracoscopia videoassistita consente attualmente l'esecuzione di procedure diagnostiche e terapeutiche che in passato avrebbero richiesto un approccio toracotomico decisamente più invasivo, con notevoli vantaggi per il paziente in termini di minore trauma chirurgico, minore dolore postoperatorio, minore degenza ospedaliera. Inoltre, la bassa incidenza di complicanze e i buoni risultati, per lo più sovrapponibili a quelli ottenuti con gli interventi 'a cielo aperto', rendono la videotoracoscopia una procedura sicura.
L'équipe chirurgica che realizza una toracoscopia videoassistita si avvale di una serie di strumenti sofisticati, quali un sistema videotelevisivo ad alta definizione, il toracoscopio, i trocar e vari strumenti chirurgici. Il sistema videotelevisivo comprende un monitor a colori a elevata definizione, sul quale vengono proiettate le immagini raccolte da una videocamera di piccole dimensioni adattabile all'ottica del toracoscopio. Il sistema video può essere connesso a un videoregistratore o a un videoprinter che consente la registrazione delle immagini endoscopiche. Per quanto riguarda il toracoscopio, sono disponibili diversi tipi di ottiche toracoscopiche, che differiscono essenzialmente nelle dimensioni, nella visione diretta o angolata (30°, 45°, 90°) e nella presenza o meno di un canale operativo attraverso il quale introdurre strumenti chirurgici endoscopici o una fibra laser (fig. 4.257). Il toracoscopio viene connesso alla videocamera e a una fonte di luce allo xenon o alogena (250-400 W) mediante un cavo a fibre ottiche. L'illuminazione viene trasmessa all'estremità dello strumento per illuminare adeguatamente il cavo pleurico. Recentemente sono stati introdotti alcuni toracoscopi a fibre ottiche, simili ai comuni fibroscopi, muniti di una estremità flessibile comandata da una manopola sull'impugnatura, ma il loro impiego presenta limitate indicazioni. I trocar sono essenzialmente delle cannule costruite in metallo o in materiale plastico monouso, munite di un introduttore a punta smussa, disponibili in misure differenti (da 5 a 15 mm di diametro). Vengono inseriti attraverso piccole incisioni operate nella parete toracica e consentono l'introduzione del toracoscopio e degli strumenti operativi. Lo strumentario chirurgico per endoscopia riproduce essenzialmente gli strumenti impiegati in chirurgia tradizionale, di solito muniti di un elettrodo per la cauterizzazione. Di grande valore nella chirurgia toracoscopica sono le suturatrici meccaniche, che consentono l'esecuzione di procedure chirurgiche complesse. Si tratta di strumenti monouso che presentano la caratteristica di suturare il tessuto tra due file di punti metallici, assicurando una buona emostasi e, quando impiegati sul parenchima polmonare, la tenuta aerea. Sono disponibili in varie dimensioni (30, 35 e 60 mm), e anche la grandezza del punto è variabile a seconda dello spessore del tessuto da sezionare. Il laser, per le sue proprietà resettive e coagulative, è particolarmente adatto all'impiego toracoscopico. La fibra laser può essere introdotta attraverso il canale operativo del toracoscopio o attraverso uno dei trocar di servizio. I vantaggi offerti dal laser sono numerosi, specialmente nel trattamento di alcune patologie del polmone e della pleura. Le procedure toracoscopiche richiedono una camera operatoria adeguatamente attrezzata che, in caso di complicanze intraoperatorie, consenta la immediata conversione della toracoscopia in toracotomia. Dal punto di vista anestesiologico, la videotoracoscopia può essere eseguita sia in sedazione profonda, associata ad anestesia locale nella sede di inserzione dei trocar e con il paziente che respira spontaneamente, sia in anestesia generale, con intubazione orotracheale mediante tubo a doppio lume, che consente di ventilare selettivamente il polmone e permette di escludere dalla ventilazione il polmone in cui si effettua la procedura. Con tale sistema si ottiene il risultato di provocare il completo collasso del polmone su cui si opera, esponendo in maniera ottimale le strutture endotoraciche e facilitando in tal modo le procedure chirurgiche. Per procedure di breve durata, essenzialmente di tipo diagnostico, o in quei casi in cui le condizioni generali del paziente rendano ad alto rischio l'anestesia generale, può essere preferibile eseguire la toracoscopia in respiro spontaneo e in sedazione. Di fondamentale importanza ai fini del successo delle procedure toracoscopiche è il corretto posizionamento dei trocar, per ottenere la migliore esposizione delle strutture endotoraciche e facilitare quindi la manipolazione dei tessuti. La scelta dei punti di accesso al cavo pleurico è funzione sia della sede della lesione sia del tipo di procedura programmata. Il VI o VII spazio intercostale, nell'area compresa tra le linee ascellari media e posteriore, rappresenta di solito uno dei punti principali per l'introduzione del toracoscopio, poiché permette un'ottima esposizione di tutte le strutture endotoraciche e il mantenimento di un costante corretto orientamento all'interno del torace. Il posizionamento dei trocar di servizio per gli strumenti operativi viene deciso successivamente, in base al tipo di procedura da eseguire (fig. 4.258). Al termine dell'intervento si posiziona, attraverso una delle incisioni dei trocar, un tubo di drenaggio, che di solito viene rimosso dopo 24-48 ore.
La toracoscopia rappresenta oggi la procedura di scelta nella diagnosi delle malattie della pleura, compresa l'asportazione di piccole neoformazioni benigne. Nei casi di versamento pleurico recidivante, è possibile non soltanto eseguire una diagnosi della sua natura, ma anche drenare completamente il cavo pleurico ed effettuare una manovra (pleurodesi), di natura chimica o meccanica, che ostacoli la riformazione del versamento. La toracoscopia trova indicazione ideale anche nel trattamento dello pneumotorace e delle bolle di enfisema (fig. 4.259). Per via toracoscopica è possibile asportare i noduli polmonari periferici, eseguire ampie biopsie polmonari e anche praticare resezioni polmonari maggiori (lobectomia, pneumonectomia), associando alle incisioni per i trocar anche una piccola toracotomia di 5-7 cm, che consente un adeguato controllo delle strutture vascolari e una più agevole estrazione del pezzo operatorio. Nell'ambito della patologia del mediastino, la videotoracoscopia si è dimostrata di notevole utilità diagnostica, permettendo di eseguire ampie biopsie di tumori mediastinici e di linfoadenopatie altrimenti accessibili solo con interventi chirurgici molto più invasivi. Piccole neoformazioni benigne e lesioni cistiche possono essere resecate abbastanza agevolmente. Anche il pericardio è facilmente aggredibile per via toracoscopica e la toracoscopia può trovare indicazione nei versamenti pericardici recidivanti. Nell'ambito della patologia dell'esofago, la toracoscopia permette di resecare alcune neoformazioni benigne, cisti o diverticoli e può essere impiegata anche nel trattamento di alcune patologie funzionali. L'elevata qualità delle immagini endoscopiche e il loro ingrandimento rendono possibile l'esecuzione per via toracoscopica di delicati interventi sul sistema nervoso autonomo (simpaticectomia, splancnicectomia) per il trattamento di alcuni disordini neurovascolari e neurovegetativi.
Prima dell'avvento dell'endoscopia, la radiologia costituiva l'unico mezzo diagnostico per esaminare il tratto gastrointestinale e solo l'esplorazione chirurgica consentiva un eventuale intervento terapeutico risolutivo. Il perfezionamento degli endoscopi, con l'introduzione della trasmissione dell'immagine a fibre ottiche, consente attualmente di esplorare con maggiore accuratezza diagnostica l'intero tratto gastrointestinale e in modo particolare quelle regioni precedentemente inaccessibili direttamente per ragioni legate alla loro particolare anatomia, come per es. il sistema biliare, il cui ridotto calibro rendeva impossibile l'utilizzo degli endoscopi tradizionali. Oggi, l'endoscopia è sempre più diffusa per la diagnosi e l'eventuale trattamento di numerose patologie digestive, e la sua efficacia clinica è ormai ampiamente riconosciuta.
L'inizio dell'era endoscopica risale al 1868, quando Kussmaul ideò e mise a punto il primo gastroscopio ed eseguì la prima gastroscopia. Il primo strumento adoperato era rigido, tanto che l'esame venne condotto su un ingoiatore di spade. Il gastroscopio, seppur migliorato tecnologicamente da altri autori, ha mantenuto la caratteristica rigidità per lungo tempo, con risultati apprezzabili dal punto di vista diagnostico, ma anche con grande intolleranza dei pazienti e con complicanze tutt'altro che irrilevanti. Sebbene Wolf e Schindler avessero messo a punto il primo gastroscopio semirigido fin dal 1932, il primo strumento flessibile fu elaborato da Hirschowitz solo nel 1958. L'utilizzo delle fibre ottiche, oltre a comportare un evidente incremento del potere di trasmissione delle immagini e di quello di risoluzione, ha reso possibile diminuire il calibro dello strumento, rendendo l'indagine più tollerabile. L'endoscopia elettronica rappresenta attualmente la metodica tecnologicamente più avanzata.
Nella endoscopia elettronica, l'immagine si forma grazie a un sensore costituito non da fibre ottiche, ma da un sistema elettronico, il chip CCD (Charge coupled device), che trasforma l'energia luminosa in un segnale elettrico sequenziale; questo, attraverso sofisticati processi, viene poi trasferito a un elaboratore video, e quindi ricostruito come immagine televisiva. Ne risultano immagini di qualità eccellente. Inoltre, contrariamente all'endoscopia a fibre ottiche, che ha ormai raggiunto il suo massimo grado di evoluzione, non essendo possibile ipotizzare un'ulteriore diminuzione del calibro delle fibre, l'endoscopia elettronica possiede grandi margini di sviluppo futuro, proprio grazie al principio fisico sul quale si basa. L'utilizzo di dispositivi quali videoregistratori o macchine fotografiche rende possibile l'archiviazione di immagini, che completano il referto endoscopico, risultano di grande utilità per il controllo a distanza dei pazienti e hanno altresì un importante valore didattico nell'ambito delle strutture impegnate nella ricerca scientifica.
Per rispettare un iter diagnostico scientificamente rigoroso, che garantisca risultati attendibili e tenga altresì conto del rapporto costo-beneficio, è indispensabile che l'esame endoscopico venga eseguito in presenza di precise indicazioni. Facendo riferimento a quanto stabilito dall'ASGE (American society for gastrointestinal endoscopy), l'utilizzo dell'endoscopia a fini diagnostici e terapeutici è indicato nei seguenti casi: a) quando i risultati dell'esame potrebbero modificare il trattamento; b) in caso di insuccesso del trattamento empirico di patologie benigne, o supposte tali; c) come prima indagine diagnostica in alternativa a metodiche di tipo radiologico; d) quando è ipotizzabile una terapia per via endoscopica. Le procedure endoscopiche, per quanto accurate in termini diagnostici e valide dal punto di vista terapeutico, presentano comunque dei rischi intrinseci di complicanze, la cui prevenzione si fonda in primo luogo su una corretta indicazione all'esame. Pertanto, esistono controindicazioni quando i maggiori benefici ipotizzabili non valgono il rischio per la vita o la salute del paziente, quando non è possibile ottenere un'adeguata collaborazione da parte del paziente e in caso di perforazione viscerale nota o sospetta.
Esistono gastroscopi di varie marche, che differiscono l'uno dall'altro per alcune caratteristiche tecniche (fig. 4.260). In linea generale viene comunque utilizzato uno strumento a visione frontale con obiettivo grandangolare, della lunghezza di 1 m e del diametro di 0,8-1,1 cm. Per l'esecuzione dell'esofagogastroduodenoscopia (EGDS), tranne che nel caso di indicazione urgente, il paziente deve essere digiuno da almeno cinque ore, onde evitare la presenza, nella parte alta del tubo digerente, di residui alimentari che potrebbero nascondere eventuali patologie. Prima dell'esame viene preferibilmente effettuata una premedicazione, consistente nella somministrazione endovenosa di farmaci sedativi e antispastici. La sedazione, ottenuta generalmente con benzodiazepine, permette di operare con maggior sicurezza e di rendere l'esame meglio tollerato dal paziente. Per deprimere il riflesso del vomito e ridurre il fastidio legato al passaggio dello strumento, viene spruzzato nella faringe un anestetico locale. Il paziente viene posizionato sul fianco sinistro, dopodiché si procede all'introduzione dello strumento, che può avvenire 'alla cieca', ossia guidando manualmente lo strumento verso l'ipofaringe, oppure sotto visione diretta, cioè guardando nell'oculare dello strumento o nel monitor televisivo, a seconda del tipo di strumento utilizzato (fig. 4.261 A, B). A partire da circa 20 cm dall'arcata dentale si visualizza l'esofago, compreso tra l'ipofaringe e lo stomaco. Superata la giunzione esofagogastrica, viene visualizzato lo stomaco, di varia grandezza e conformazione a seconda degli individui, diviso anatomicamente nelle regioni cardias, del fondo, del corpo e dell'antro. Si identificano inoltre la grande e la piccola curva, e le pareti anteriore e posteriore. Lo stomaco termina con il canale pilorico, attraverso cui si accede al lume duodenale. Lo scopo principale dell'esame endoscopico è visualizzare tutta la superficie mucosa, avanzando e retraendo il gastroscopio mediante movimenti di flessione e lateralità imposti alla sua punta. L'analisi visiva viene quindi integrata dal riscontro obiettivo che si ottiene mediante l'esame bioptico di eventuali lesioni. Introdotta la pinza da biopsia attraverso il canale endoscopico dello strumento, si prelevano infatti frammenti di tessuto, che verranno quindi inviati all'anatomopatologo per la diagnosi istologica.
Le indicazioni a scopo diagnostico della EGDS sono molto numerose, e al riguardo si farà riferimento a quanto indicato dall'ASGE: a) persistenza di disturbi addominali di varia natura, nonostante un adeguato trattamento; b) disturbi localizzati all'addome superiore e associati a segni o sintomi suggestivi di malattia importante (per es., calo ponderale, anoressia ecc.); c) deglutizione difficoltosa o dolorosa; d) sintomi di esofagite da reflusso che persistono anche dopo opportuna terapia; e) vomito di cui si debba determinare l'origine; f) coesistenza di altre patologie per le quali la presenza di una lesione del tratto superiore dell'apparato digerente potrebbe modificare la terapia prevista (per es. ulcera gastrica o duodenale in pazienti affetti da artropatie e necessitanti di trattamento antiinfiammatorio ecc.); g) poliposi adenomatosa familiare; h) conferma e diagnosi istologica di lesioni identificate radiologicamente (per es., ulcere, stenosi, sospette lesioni neoplastiche ecc; figg. 4.262, 4.263); i) presenza di emorragia delle vie digestive superiori, della quale si debba diagnosticare la causa ed eventualmente procedere al trattamento; l) necessità di ottenere un campione di fluido o di tessuto duodenale o digiunale; m) valutazione della terapia profilattica delle varici esofagee nei pazienti affetti da cirrosi epatica (fig. 4.264); n) valutazione della gravità delle lesioni secondarie all'ingestione di sostanze caustiche. Non sono invece ritenute indicazioni valide altre condizioni, come, per es., la diagnosi radiologica di ernia iatale da scivolamento non complicata o asintomatica, oppure di ulcera duodenale o di deformazione bulbare non complicate e ben rispondenti alla terapia. La EGDS non risulta inoltre indicata in caso di disturbi di tipo cronico, non progressivi e con caratteristiche di tipo funzionale, anche se occasionalmente, e soprattutto in caso di mancata risposta terapeutica, potrebbe risultare utile per escludere patologie di tipo organico. È necessario che i pazienti in cui siano state diagnosticate determinate patologie a rischio (esofago di Barrett; poliposi adenomatosa familiare; polipi gastrici di tipo adenomatoso; casi selezionati di ulcere esofagee, gastriche o anastomotiche, al fine di accertarne la guarigione; varici esofagee già sottoposte a trattamenti quali la scleroterapia o la legatura) vengano sottoposti periodicamente a esame endoscopico. La EGDS non viene invece praticata, almeno non in termini di assolutezza, nel caso di guarigione di patologie di tipo benigno quali ulcere gastriche o duodenali, esofagiti o stenosi benigne, a meno che non intervengano modificazioni cliniche tali da consigliarne l'esecuzione. Indicazioni terapeutiche L'endoscopia esofagogastroduodenoscopica, oltre a costituire una metodica diagnostica molto accurata, rappresenta anche un eccezionale strumento terapeutico, utilizzabile nel trattamento di numerose condizioni patologiche che possono presentarsi anche con carattere di urgenza (tab. 4.20). I progressi della tecnica endoscopica in termini terapeutici permettono di evitare l'intervento chirurgico in molteplici situazioni. È possibile rimuovere corpi estranei ingeriti accidentalmente o volontariamente e localizzati dall'esofago alla giunzione duodenodigiunale. Sono da includere tra i corpi estranei anche i bezoar, ossia masse di cibo solidificate che ristagnano nello stomaco, e i fili di sutura in materiale non riassorbibile, residuati da pregressi interventi chirurgici. Si può intervenire in caso di emorragia acuta in un paziente cirrotico, se questa è causata da varici esofagee. In questo caso occorre procedere immediatamente al trattamento endoscopico, dal momento che i risultati ottenibili in urgenza immediata, ossia durante il sanguinamento, sono migliori rispetto a quelli che si hanno in urgenza differita. Come terapia endoscopica d'urgenza dell'emorragia si pratica la scleroterapia, che, mediante iniezione di sostanze ad azione sclerosante e la conseguente ostruzione delle varici, arresta l'emorragia nel 90-95% dei casi, anche se è possibile attendersi risanguinamento precoce e mortalità ospedaliera rispettivamente nel 30-40% e nel 28% dei casi. Una valida alternativa tecnica alla scleroterapia è la legatura delle varici esofagee, che si ottiene endoscopicamente stringendo il gavocciolo varicoso alla sua base con appositi anelli di gomma. Risolta l'urgenza, il ruolo dell'endoscopia non è esaurito, in quanto sono necessarie delle sedute suppletive per ottenere l'eradicazione delle varici esofagee, il che avviene nel 60-95% dei casi. Il paziente verrà quindi controllato periodicamente, perché le recidive sono frequenti e vanno prontamente riconosciute. L'endoscopia svolge un ruolo fondamentale anche nel caso di emorragie provenienti dalle vie digestive alte e di origine non varicosa, portando a riconoscere con un'accuratezza del 93-97% la lesione sanguinante, che sarà identificabile nella maggior parte dei pazienti in ulcere peptiche (36%), e quindi in erosioni gastriche (6,9%), esofagiti (4,1%), neoplasie maligne (2,6%), e altre svariate condizioni patologiche. L'emostasi endoscopica, facendo ricorso a varie opzioni tecniche, quali la scleroterapia iniettiva e l'emostasi termica, topica o meccanica, permette di controllare tali emorragie nel 90-95% dei casi. La rimozione endoscopica dei polipi, o polipectomia, è possibile a livello gastrico per tutti i papillomi di origine epiteliale dotati di un peduncolo, mentre non è consigliabile per quelli sessili, cioè ad ampia base di impianto, di dimensioni superiori ai 25-30 mm, che andranno eventualmente trattati praticandone la frammentazione. La polipectomia endoscopica è attuata introducendo nel canale operatore del gastroscopio un'ansa diatermica, che viene fatta passare intorno alla base del polipo; questo viene rimosso con l'impiego della corrente elettrica. Tale tecnica comporta raramente il rischio di complicanze, quali l'emorragia (3,4%), che richiede peraltro l'intervento chirurgico solo nel 12% dei casi, e la perforazione (0,03%). Eseguita la polipectomia, il polipo escisso viene inviato all'anatomopatologo per la diagnosi istologica di natura, dalla quale può derivare l'esigenza di un intervento chirurgico, come nelle forme maligne non integralmente rimosse, o semplicemente di un follow-up endoscopico a distanza, in caso di diagnosi di polipo neoplastico benigno o di polipo non neoplastico. La resezione endoscopica di lesioni tumorali maligne è una valida alternativa all'intervento chirurgico, e va eseguita in presenza di precise indicazioni. L'early gastric cancer è un cancro in fase precoce che interessa la mucosa e la sottomucosa senza infiltrare il tessuto muscolare della parete gastrica, e la sua rimozione garantisce un tasso di sopravvivenza del 90% a 5 anni; nelle neoplasie più estese, quest'ultimo è superiore al 10-20%. Il trattamento endoscopico è indicato in caso di lesioni di diametro inferiore 1,5-2 cm, e consiste nell'infiltrare la mucosa con una soluzione salina per sollevarla, procedendo poi alla sua rimozione con ansa diatermica. L'analisi istologica definisce quindi se l'asportazione è stata completa o se è invece necessario ricorrere all'intervento chirurgico, come si verifica nel 30% dei casi. Un altro campo di applicazione dell'endoscopia, in termini sia diagnostici che terapeutici, è quello delle stenosi esofagee benigne, ossia di quelle restrizioni del calibro di natura non maligna che sono causa di vari gradi di disfagia, cioè di difficoltosa deglutizione. Esse sono di varia natura: peptica, da caustici, da radiazioni, cicatriziale o postchirurgica, congenita, da farmaci, secondaria a patologia di tipo infettivo o traumatico ecc. Il tipo e il grado di stenosi indirizzano l'endoscopista nella scelta tanto della tecnica di dilatazione che della frequenza delle sedute necessaria per ottenere un calibro ottimale. Con le attuali tecniche si ottiene il miglioramento o la guarigione della disfagia nell'80-90% dei pazienti, con esiti definitivi nel caso di anelli o diaframmi esofagei. In altri pazienti, come quelli affetti da reflusso gastroesofageo grave, il successo è invece subordinato al controllo della malattia di base. Nelle stenosi maligne il ruolo dell'endoscopia ha un valore esclusivamente palliativo, dal momento che la disfagia interviene quando la malattia è ormai molto avanzata e un trattamento chirurgico radicale non è più possibile. Il suo scopo è quindi quello di permettere al paziente di alimentarsi, e pertanto deve essere ottenuto con una terapia di effetto immediato e di sufficiente durata nel tempo, non eccessivamente traumatica e di rapida esecuzione. L'endoscopia possiede tali requisiti e interviene con varie modalità tecniche: dilatazione meccanica o pneumatica, posizionamento di protesi, fotocoagulazione laser, elettroresezione e coagulazione mono- o bipolare, scleroterapia, radioterapia endoluminale. Tali procedure possono anche avere un ruolo complementare, e assolvono con buoni risultati la loro funzione palliativa, migliorando la qualità di vita di pazienti per i quali l'aspettativa di vita è bassa (2-6 mesi).
Come si è detto l'endoscopia è una metodica estremamente accurata dal punto di vista diagnostico e in grado di svolgere, con finalità curative o palliative, un ruolo terapeutico in numerose patologie. La sua esecuzione non è comunque scevra dalla possibile insorgenza di complicanze, che solo parzialmente possono essere evitate dall'endoscopista. Tali complicanze possono essere di vario tipo: quelle infettive sono dovute a insufficiente disinfezione degli strumenti e degli accessori o alla patologia di base e hanno un'incidenza pari allo 0,006%; quelle cardiovascolari ‒ alterazioni elettrocardiografiche, ipotensione acuta, turbe del ritmo, infarto, arresto cardiaco ‒ si manifestano con una frequenza dello 0,046% e comportano una mortalità dello 0,003%; quelle respiratorie, che sembrano essere in relazione alla premedicazione utilizzata per la sedazione e comportano una ridotta ossigenazione, sono assai frequenti, per cui il monitoraggio dei parametri respiratori diviene fondamentale, soprattutto nei pazienti anziani; la perforazione si verifica con maggiore incidenza nelle EGDS operative che in quelle diagnostiche (rispettivamente 0,01% e 1,1%) e tale tendenza compare anche nel caso di complicanze emorragiche (0,06% e 1,3%). Complessivamente, le complicanze compaiono nello 0,13% delle EGDS diagnostiche e nel 2,4% di quelle operative, con mortalità pari rispettivamente allo 0,04% e allo 0,4%.
L'indagine per via endoscopica delle vie biliari (colangioscopia) rappresenta attualmente una delle principali metodiche diagnostiche e terapeutiche nel trattamento della patologia a carico di tale distretto.
Nel 1973 H.J. Burhenne introdusse una procedura percutanea sotto guida radiologica per la rimozione dei calcoli biliari attraverso il tubo di Kehr (tubo a T disposto tra la cute e il coledoco) precedentemente posizionato. La colangioscopia intraoperatoria con uno strumento flessibile fu introdotta nel 1976 da Yamakawa. Nei modelli più recenti è stato aggiunto un canale accessorio che consente il passaggio di piccoli strumenti (cestelli, anse, palloncini da dilatazione e sonde per litotrissia). Tale innovazione ha consentito di ampliare le indicazioni interventistiche della metodica. Attualmente la papillotomia endoscopica (incisione dello sfintere coledocoduodenale o papilla di Vater), l'estrazione diretta di calcoli biliari, la dilatazione di stenosi neoplastiche o infiammatorie con posizionamento di protesi, e le biopsie biliari sono tecniche ormai standardizzate. L'interesse scientifico attuale è volto soprattutto alla litotrissia a onde d'urto (frantumazione del calcolo con sonda a contatto) e alla colecistotomia (incisione della colecisti) endoscopica per la rimozione dei calcoli biliari. Questa, prima del perfezionamento della colangioscopia, veniva effettuata per via percutanea transepatica sotto guida radiologica, con sedute operatorie lunghe e prolungata esposizione del paziente e del radiologo alle radiazioni. Nel 1981 Nimura utilizzò per la prima volta la colangioscopia per via percutanea transepatica, tecnica utile soprattutto nei pazienti anziani, in quelli sottoposti a più interventi chirurgici e in quelli a elevato rischio in caso di anestesia generale. Come ulteriore progresso nel campo dell'endoscopia, è stata proposta l'associazione della colangioscopia all'ecografia endocavitaria. Una sonda ecografica posizionata sull'endoscopio permette infatti lo studio endoluminale delle vie biliari e del coledoco, con particolare riferimento alle strutture parietali e all'identificazione di piccoli calcoli. Per ora, le applicazioni della ecoendoscopia sono limitate a studi sperimentali per la valutazione delle reali possibilità diagnostiche.
Dopo anestesia locale, o epidurale nei casi in cui il paziente lamenta forti dolori, attraverso il tramite cutaneo di un tubo di Kehr o di un catetere di drenaggio posizionato per via transepatica percutanea si introduce il colangioscopio che consente, oltre alla visualizzazione diretta dei dotti biliari, la litotrissia (fig. 4.265, 4.267-4.269), l'eventuale biopsia in caso di sospetta neoplasia (fig. 4.266), la dilatazione o il posizionamento di endoprotesi. La rimozione di calcoli sotto guida radiologica è gravata da una percentuale di complicanze del 5% circa, con raccolte biliari, ascessi sottodiaframmatici, febbre, sepsi, pancreatite e reazioni vagali. Le rare complicanze della procedura colangioscopica sono rappresentate da episodi febbrili, dolori addominali, nausea e vomito.
Descritta per la prima volta nel 1968 da Oi e da McCune, la colangiopancreatografia retrograda per via endoscopica (CPRE) è la più sofisticata tecnica endoscopica, il cui impiego avviene innanzitutto a fini diagnostici, offrendo una precisa valutazione del duodeno e della papilla di Vater e fornendo quindi ulteriori informazioni di tipo radiologico sui dotti biliare e pancreatico, che appunto a livello della papilla riversano nel duodeno le loro secrezioni. Nell'ambito dello stesso esame è inoltre possibile procedere al trattamento endoscopico di numerose patologie biliopancreatiche.
A differenza delle altre indagini endoscopiche, la CPRE viene eseguita nelle sale di radiologia. Lo strumento si differenzia dal gastroscopio e dal colonscopio per il fatto di possedere la visione laterale anziché frontale, per potere visualizzare la papilla di Vater nella seconda porzione duodenale e lavorare quindi in posizione frontale rispetto a essa. Il paziente è posizionato prono sul tavolo radiologico. La premedicazione consiste generalmente nella somministrazione endovenosa di farmaci sedativi e antispastici. L'esame comincia con l'introduzione attraverso la bocca del duodenoscopio, che viene fatto avanzare lungo l'esofago e quindi nello stomaco. Idenficato il piloro, lo strumento è spinto all'interno del duodeno, ove, sulla parete mediale della seconda porzione, viene visualizzata la papilla di Vater (fig. 4.270). Attraverso il canale del duodenoscopio viene poi inserito nella papilla un catetere ripieno di mezzo di contrasto, che sotto controllo fluoroscopico viene iniettato all'interno dei dotti e ne riempie il lume, la cui conformazione risulterà pertanto chiara nelle radiografie (fig. 4.271). In tal modo si ottiene l'esatta definizione dell'anatomia della via biliare e di quella pancreatica, nonché l'osservazione della sede e della natura di eventuali patologie. Sebbene questo risultato possa essere raggiunto con metodiche di tipo radiologico (colangiografia percutanea transepatica), solo la CPRE permette di ottenere informazioni anche sul dotto pancreatico, nonché sull'aspetto endoscopico della papilla e della zona circostante.
La CPRE risulta indicata nelle seguenti condizioni: a) nel paziente itterico, quando si sospetti un'ostruzione delle vie biliari; b) in assenza di ittero, quando i dati clinici, di laboratorio o di diagnostica per immagini suggeriscano l'ipotesi di patologie biliopancreatiche (fig. 4.272); c) quando altre tecniche diagnostiche (ecografia, TAC, RMN) abbiano dato responso negativo o dubbio; d) per la valutazione della pancreatite recidivante di grado da moderato a severo; e) nello studio preoperatorio di pazienti con pancreatite cronica o pseudocisti (fig. 4.273); f) per misurare la pressione dello sfintere di Oddi. La CPRE non risulta invece generalmente indicata: nello studio di dolore addominale di natura da determinare, in mancanza di riscontri obiettivi che facciano pensare a patologie biliopancreatiche; in caso di calcolosi della colecisti, in assenza di fattori predittivi di calcolosi della via biliare; per la diagnosi di tumore del pancreas, se non quando sia ipotizzabile una modificazione del trattamento. Indicazioni terapeutiche La CPRE ha praticamente rivoluzionato l'approccio alla patologia delle vie biliari, sia in fase diagnostica sia in fase terapeutica, grazie alla sua estensione interventistica, rappresentata dalla sfinterotomia endoscopica, la cui tecnica, dai primi casi trattati da S. Kawai e da M. Classen nel 1976, appare ormai standardizzata (tab. 4.21). Eseguita la fase diagnostica con l'identificazione della patologia in atto, si introduce all'interno della papilla un apposito catetere, denominato papillotomo, che, opportunamente alimentato da corrente elettrica, seziona la papilla. Tale manovra, detta papillotomia o sfinterotomia endoscopica, risulta essere il trattamento definitivo per patologie quali la stenosi o la disfunzione papillare, o anche per i calcoli del coledoco di dimensione minore, che possono così facilmente passare in duodeno attraverso la papillotomia. In caso di calcolosi del coledoco, il trattamento endoscopico prosegue con l'inserzione nella via biliare di ulteriori cateteri, forgiati a palloncino (tipo Fogarty) o a cestello (tipo Dormia), mediante i quali è possibile estrarre i calcoli. Osservando sul monitor radiologico, i cateteri vengono manovrati e i calcoli rimossi dalla via biliare (fig. 4.274). Grazie alla papillotomia l'ampiezza dello sbocco della via biliare in duodeno aumenta e ciò protegge dallo sviluppo di ulteriori calcoli, dal momento che viene evitata la stasi che costituisce il primo meccanismo della loro formazione. Il trattamento endoscopico ha successo nel 90-95% dei casi, con complicanze di ordine generale nel 7,1%, le principali delle quali (3,8%) sono l'emorragia (trattabile con tecniche di emostasi endoscopica nel 90% dei casi), la pancreatite acuta, la colangite acuta e la perforazione retroduodenale. Tra le varie situazioni alla quali deve essere imputato il 5-10% degli insuccessi nel trattamento della calcolosi del coledoco prevale la presenza di calcoli di dimensioni superiori ai 2 cm, in quanto viene superato il diametro massimo della via biliare e della sfinterotomia. In tali casi si fa quindi ricorso a tecniche di litotrissia, cioè di frantumazione dei calcoli. La litotrissia meccanica, disponibile in quasi tutti i centri endoscopici, consiste nell'utilizzo di un cestello di Dormia modificato e in grado di fornire l'energia meccanica necessaria alla frantumazione del calcolo, permettendone così l'estrazione con percentuali di successo variabili tra il 68% e il 95%, a seconda del diametro del calcolo. Più sofisticate ed efficienti, ma anche più costose e disponibili solo nei centri più attrezzati, sono la litotrissia elettroidraulica e la litotrissia con il laser, tecniche cui si ricorre in caso di fallimento della litotrissia meccanica: la prima utilizza particolari sonde in grado di generare onde d'urto elettroidrauliche che frantumano il calcolo con grande facilità, mentre la litotrissia con il laser utilizza l'energia luminosa del laser per la produzione di onde d'urto. Entrambe le tecniche necessitano di un puntamento sotto visione della sonda, per evitare lesioni alla parete dei dotti biliari; esse vengono quindi eseguite con il sistema del doppio endoscopio, detto mother-baby, consistente in un piccolo coledocoscopio da 4 mm che, alloggiato all'interno dell'endoscopio mother, viene inserito all'interno della via biliare. Sotto il suo controllo, la sonda da litotrissia elettroidraulica o laser è posizionata a contatto con il calcolo. La litotrissia più frequentemente attuata rimane comunque quella per via percutanea transepatica. Dal momento che il sistema mother-baby è disponibile solo in pochi centri, la litotrissia per via percutanea viene eseguita da radiologi interventisti, i quali penetrano nella via biliare attraverso la cute e il fegato. Quando la colangiografia o la pancreatografia, o entrambe, consentono di diagnosticare la presenza di patologie quali stenosi benigne o neoplastiche, fistole, spandimenti postoperatori o grossi calcoli biliari in pazienti ad alto rischio operatorio, il trattamento endoscopico prevede l'inserzione nella via biliare di una protesi, spesso preceduta dall'esecuzione della sfinterotomia. Tali protesi sono costituite di polietilene, hanno conformazione tubulare e si presentano cave all'interno e con due alette estreme che ne permettono un migliore ancoraggio, impedendone il dislocamento. La funzione delle protesi è di mantenere il flusso biliare in condizioni di ostacolo parziale o totale, per prevenire l'insorgenza dell'ittero. In presenza di tumori delle vie biliari, della papilla o della testa pancreatica, di pancreatite cronica, di stenosi secondarie a interventi chirurgici, di calcoli di grosse dimensioni non trattabili chirurgicamente per i rischi legati alle condizioni del paziente, la terapia endoscopica risulta di scelta. Le protesi vengono inserite con una delle due estremità a monte dell'ostacolo, così da permettere il ripristino e il mantenimento del flusso biliare al loro interno verso l'altra estremità. Il posizionamento della protesi è manovra tecnicamente impegnativa, ma in mani esperte è seguita da successo nell'80-90% dei casi, anche se l'ostruzione delle vie biliari è di origine neoplastica; in tali situazioni, la chirurgia solo di rado può assolvere una funzione curativa, mentre più frequentemente ha lo scopo palliativo di risolvere l'ostruzione e di evitare l'ittero per mezzo di interventi di derivazione del flusso biliare ben più impegnativi per il paziente rispetto all'inserimento di protesi per via endoscopica. Quando si associa alla presenza di una significativa carica batterica nella bile, l'ostruzione è responsabile dell'insorgenza di un quadro clinico denominato colangite acuta, che consiste in un'infiammazione delle vie biliari di vario grado, ma potenzialmente letale se, una volta instauratasi una compromissione dello stato generale, non si procede immediatamente al drenaggio. In tali condizioni, il trattamento chirurgico è gravato da un'altissima mortalità (30-40%). Endoscopicamente è invece possibile, nell'ambito della stessa seduta, effettuare sia la diagnosi del tipo di ostruzione biliare presente sia procedere al suo trattamento. La litiasi del coledoco rappresenta la causa più comune di ostruzione (40-75%); in questi casi viene quindi eseguita la sfinterotomia endoscopica, che con la successiva rimozione dei calcoli permette la decompressione della via biliare, portando così alla remissione del quadro colangitico. Se però l'estrazione dei calcoli non è completa, o se, anche nel caso di estrazione completa, si ha la presenza di intensa infiammazione, è necessario posizionare un sondino nasobiliare, attraverso il quale operare la perfusione continua dell'albero biliare. Un altro campo di applicazione dell'endoscopia operativa è quello delle lesioni biliari postoperatorie, che nella maggior parte dei casi si sviluppano in corso di colecistectomia, cioè durante l'intervento mediante il quale si procede alla rimozione della colecisti. In presenza di una lesione dei dotti biliari, la bile fuoriesce da questi e penetra nella cavità peritoneale, dove, con il suo potere corrosivo, può generare gravi quadri patologici. In tali casi, il posizionamento di un sondino nasobiliare o di una protesi, generalmente ma non necessariamente preceduto dalla sfinterotomia, servirà ad abbassare la pressione della bile all'interno dell'albero biliare e a privilegiare la via offerta dal sondino, dalla protesi e dalla sfinterotomia, consentendo pertanto la riparazione della lesione del dotto. La pancreatite acuta è una malattia che presenta un ampio spettro di gravità, ma che diviene spesso letale nelle sue manifestazioni più severe. La sua insorgenza è frequentemente legata alla presenza di calcolosi biliare. L'insorgenza della pancreatite acuta biliare si ha quando un calcolo forma un'ostruzione a livello della papilla, ostacolando il deflusso del secreto pancreatico o provocando, come avviene quando i dotti biliare e pancreatico terminano con un breve tratto comune, un reflusso di bile all'interno del pancreas, innescando in tal modo il processo di autodigestione che è alla base della malattia. La CPRE va eseguita per confermare la diagnosi di pancreatite di origine biliare e quindi per procedere al trattamento endoscopico, rappresentato dalla sfinterotomia e dalla bonifica del coledoco, che è eseguito con successo nella maggioranza dei casi (91-97%). La pancreatite cronica, grave patologia in cui è coinvolta la ghiandola pancreatica, è caratterizzata da un progressivo aggravamento delle condizioni cliniche ed anatomopatologiche, il cui esito consiste nella soppressione delle secrezioni endocrine ed esocrine cui essa è deputata. La sintomatologia è caratterizzata da dolore, dimagrimento, malassorbimento, diabete, che evolvono diversamente nel corso della malattia. Nel suo passaggio all'interno della testa del pancreas, prima di sboccare nelle papilla, la via biliare principale viene frequentemente interessata dal processo infiammatorio e dalle sue complicanze come cisti o pseudocisti pancreatiche, con comparsa di un'ostruzione biliare. La CPRE è indicata in corso di pancreatite cronica, tanto per la conferma diagnostica delle lesioni, che si ottiene opacizzando il dotto pancreatico di Wirsung, quanto per il loro eventuale trattamento. Il dolore, che condiziona pesantemente la qualità di vita dei pazienti, si ritiene sia dovuto soprattutto all'aumento di pressione all'interno dei dotti pancreatici, causato dall'ostruzione al deflusso della secrezione. L'endoscopia agisce migliorando tale deflusso attraverso l'esecuzione della sfinterotomia pancreatica, l'estrazione dei calcoli e il posizionamento di protesi pancreatiche. Questi momenti terapeutici possono essere variamente associati e sono tecnicamente eseguiti con successo nel 70-100% dei casi. Il dolore risponde positivamente a tali trattamenti nell'80-90% dei pazienti. Le complicanze maggiori si registrano con una frequenza inferiore al 10%, e la mortalità non arriva al 2% dei casi trattati. Nell'evoluzione della malattia si formano delle raccolte fluide pancreatiche, cisti o pseudocisti, il cui trattamento consiste nel drenaggio. Endoscopicamente, questo è possibile attraverso la puntura diatermica delle pareti dello stomaco o del duodeno, organi situati in stretto contatto con il pancreas. Vengono quindi inseriti un catetere o una protesi, che provvederanno all'evacuazione delle raccolte sino alla loro risoluzione. In caso di colestasi, od ostruzione biliare, si procederà invece al posizionamento di protesi biliari, per scongiurare la comparsa dell'ittero, o per il trattamento dello stesso o dell'eventuale colangite. Il trattamento endoscopico della pancreatite cronica è eseguito con successo e con complicanze minori rispetto alla chirurgia, cui si può ricorrere in caso di fallimento. La terapia endoscopica è comunque di scelta nei pazienti ad alto rischio operatorio o già sottoposti a intervento chirurgico per pancreatite cronica. Si può affermare che l'approccio diagnostico e terapeutico alle patologie biliopancreatiche è stato rivoluzionato dalla comparsa della CPRE e della sfinterotomia endoscopica. Tali metodiche, eseguite nei primi anni solo nei centri più avanzati, si sono ormai diffuse e il ricorso a esse è sempre più frequente. Il trattamento endoscopico ha quindi sostituito la chirurgia in numerose patologie e l'esperienza acquisita ha permesso di identificare con precisione le esatte indicazioni per la sua esecuzione, con conseguente miglioramento dei risultati ottenuti.
Per l'esecuzione della rettosigmoidocolonscopia (RSCS) viene utilizzato uno strumento a visione frontale, in genere della lunghezza di 160 cm e del diametro di 11 mm, con variazioni possibili a seconda del modello. A causa della caratteristica conformazione del colon, lungo e curvilineo, e per la necessità di insufflare aria per distendere le pareti per osservare con cura tutta la superficie mucosa, la colonscopia risulta indagine più complessa per l'operatore e più dolorosa per il paziente, e comporta inoltre più lunghi tempi di esecuzione rispetto all'esofagogastroduodenoscopia. È pertanto generalmente opportuna la somministrazione endovenosa di farmaci sedativi e antispastici, ed eventualmente di narcotici. Per potere eseguire l'esame è necessario far precedere un'adeguata pulizia intestinale, al fine di allontanare non solo le feci, ma anche i gas intestinali; questi, infatti, essendo potenzialmente esplosivi, renderebbero altamente pericolose quelle procedure, come la polipectomia, in cui viene utilizzata la corrente elettrica. L'esame viene eseguito con il paziente sdraiato sul fianco sinistro, con le ginocchia portate al petto. Avanzando delicatamente con il colonscopio e cercando di mantenere sempre la visione diretta del lume intestinale, si procede quindi all'ispezione di tutti i segmenti del colon. Dopo il retto si visualizzano infatti il sigma, il colon discendente, la flessura splenica, il colon trasverso, la flessura epatica, il colon ascendente e, infine, il cieco, con la caratteristica presenza dell'orifizio dell'appendice e della valvola ileocecale, che segna il confine tra il colon e l'ileo, ultima parte del piccolo intestino. Nei casi in cui riesce possibile imboccare la valvola ileocecale si esamina per alcuni centimetri anche l'ultima ansa dell'intestino tenue. Durante l'esame è spesso necessario avanzare e ritirare lo strumento e imprimergli delle rotazioni, per evitare che esso formi delle anse, come spesso accade nel sigma, che ne impediscono la progressione. Con tali manovre e con il cambiamento di posizione del paziente, che viene fatto giacere sul fianco destro, oppure in posizione prona o supina, in circa l'80-90% dei casi è possibile eseguire una colonscopia totale in 15-30 minuti. In fase di uscita, si controllerà nuovamente ogni segmento del colon, per identificare eventuali lesioni non diagnosticate precedentemente, e si procederà inoltre alla aspirazione dell'aria residua.
La RSCS è indicata, a scopo diagnostico, nelle seguenti condizioni: a) riscontro di reperti anomali, quali per es. difetti di riempimento o stenosi, nel corso di esami radiologici (clisma opaco o a doppio contrasto); b) sanguinamenti digestivi da causa sconosciuta: rettorragia (emissione di sangue rosso vivo dall'ano), dopo che siano state escluse fonti a livello anorettale; melena (emissione di feci semiliquide, di colore nerastro), quando sia stata esclusa l'origine dal tratto digestivo superiore; positività del test del sangue occulto nelle feci; c) anemia sideropenica, per identificare eventuali fonti di sanguinamento; d) neoplasie del colon, quale metodo di sorveglianza endoscopica nei seguenti casi: pazienti con carcinoma colonrettale o polipi di tipo neoplastico, per ricercare la eventuale presenza, nell'intero colon, di carcinomi sincroni o di polipi neoplastici; pazienti già sottoposti a resezione di carcinomi colonrettali o di polipi neoplastici, quale metodo di follow-up; pazienti con parenti di primo grado affetti da tumore colonrettale, o comunque con marcata familiarità per questo tipo di neoplasia; pazienti affetti da retto-colite ulcerosa, per controllare l'eventuale insorgenza di carcinoma, mediante l'ausilio di prelievi bioptici multipli a intervalli di tempo variabili in rapporto all'estensione e alla durata della malattia (fig. 4.275); e) malattie infiammatorie croniche (morbo di Crohn, colite ulcerosa), ove si ritenga che una diagnosi più accurata di natura e di estensione della malattia possa modificare il trattamento; f) diarrea importante di origine sconosciuta; g) nel corso di interventi chirurgici, come ausilio nella localizzazione di lesioni, quali polipi, o fonti di sanguinamento. La colonscopia risulta invece generalmente controindicata quando l'eventuale diagnosi non modificherebbe comunque il trattamento di una diarrea acuta; nei casi di dolore cronico o nella sindrome da intestino irritabile, a meno che l'occasionale esame non si renda necessario per escludere altre patologie di tipo organico; metastasi di origine sconosciuta, in mancanza di segni o sintomi di tipo intestinale; emorragia digestiva alta o melena, quando sia già stata identificata la fonte del sanguinamento. L'esecuzione della colonscopia va inoltre assolutamente evitata in caso di colite fulminante o diverticolite acuta grave e di diagnosi o sospetto di perforazione, quando i rischi per il paziente non siano controbilanciati dai maggiori benefici ottenibili con la procedura endoscopica.
Come già sottolineato a proposito dell'esofagogastroduodenoscopia, anche per la colonscopia è possibile affermare l'importanza del ruolo terapeutico, che può esprimersi in svariate condizioni patologiche (tab. 4.22). I polipi del colon vengono correntemente classificati in non epiteliali ed epiteliali. I primi sono di origine sottomucosa e sono di minore importanza per l'endoscopista, se non a fini diagnostici. I polipi epiteliali, e in particolar modo i polipi neoplastici, sono invece di frequente riscontro in corso di esame endoscopico del colon e il loro trattamento è endoscopico nella quasi totalità dei casi (fig. 4.276). La necessità di rimuoverli nasce dal rischio di complicanze legate alla loro presenza, come emorragie, occlusioni intestinali e, soprattutto, degenerazione maligna. La prevalenza del carcinoma su polipi escissi è stata calcolata pari al 5%; essa è dell'1% quando le sue dimensioni non oltrepassano 1 cm, ma sale al 30% se superano i 3 cm. Il rischio di degenerazione è anche legato alla natura istologica del polipo, dal momento che si verifica molto più frequentemente nei polipi di tipo villoso (4%) che in quelli tubulari. L'endoscopia operativa provvede con successo alla loro rimozione nel 95-98% dei casi. La polipectomia endoscopica viene eseguita dopo che è stato esaminato l'intero colon, dal momento che la possibilità di localizzare ulteriori polipi è del 50%. La tecnica consiste nell'introdurre nel canale operatore del colonscopio un'ansa diatermica che, opportunamente alimentata da corrente elettrica, viene fatta passare intorno al peduncolo nei polipi di tipo peduncolato. Il passaggio della corrente seziona il polipo, che viene quindi recuperato per l'esame istologico (fig. 4.277). I polipi di dimensioni inferiori ai 5 mm e di tipo sessile, ossia a larga base di impianto, vengono invece rimossi con la tecnica della hot-biopsy, che utilizza particolari pinze percorse da corrente. I polipi sessili di dimensioni comprese tra 5 e 15 mm vengono escissi con l'ansa diatermica passata intorno allo pseudopeduncolo originato dalla trazione esercitata su di essi. Per dimensioni superiori ai 15 mm, la rimozione endoscopica è ancora possibile ma più impegnativa, e viene attuata con la tecnica cosiddetta della piece-meal resection, con sezione di vari frammenti, da effettuare in varie sedute distanziate nel tempo. I caratteri istologici del polipo asportato rappresentano i criteri da seguire per la scelta della terapia definitiva in caso di presenza di carcinoma. La terapia endoscopica può considerarsi definitiva. Non lo è quando la differenziazione citologica è scarsa, se esiste infiltrazione dell'asse vascolare-linfatico e se il margine di sezione cade su tessuto neoplastico. In tali condizioni è necessario l'intervento chirurgico. Le stenosi benigne consistono in riduzione del calibro del colon, e possono svilupparsi a seguito di malattia diverticolare, terapia radiante o interventi chirurgici. Queste stenosi impediscono il regolare transito del materiale fecale all'interno dei segmenti colici e causano sintomi di varia gravità, dalla stitichezza sino all'occlusione intestinale. In tali situazioni, l'endoscopia è utile in prima istanza a fini diagnostici e quindi come valida alternativa terapeutica all'intervento chirurgico. Il trattamento può avvenire con varie metodiche. La dilatazione delle stenosi può essere eseguita con dilatatori meccanici come le sonde di Celestin o di Savary, che agiscono forzando in senso assiale e radiale, oppure con dilatatori pneumatici a palloncino ad azione radiale. In presenza di anelli fibrotici o di membrane, è anche possibile ricorrere alla elettroresezione, eseguendo alcune incisioni che aumentano nuovamente il calibro del colon. Un'ulteriore opzione terapeutica è infine offerta dal laser, che trova il suo impiego soprattutto nelle stenosi anulari, ma che, oltre a essere metodica assai costosa, richiede notevole esperienza per il rischio di perforazione. I risultati sembrano privilegiare, rispetto alle altre procedure, l'utilizzo della dilatazione pneumatica. Le stenosi secondarie a intervento chirurgico, che si formano a livello dell'anastomosi, ossia del punto in cui vengono riuniti i due capi intestinali dopo la resezione del tratto interposto, sono quelle che rispondono meglio. Altro campo di impiego dell'endoscopia è quello delle stenosi neoplastiche. Nei pazienti in cui la rimozione chirurgica del tumore non è possibile, a causa delle condizioni generali del paziente o dell'avanzato stato della patologia, si rende comunque necessario un trattamento di tipo palliativo, che eviti complicanze quali l'occlusione intestinale e l'emorragia. Le metodiche utilizzabili a questo scopo sono la dilatazione, la laserterapia, l'elettrocoagulazione e il posizionamento di protesi. La dilatazione endoscopica, a differenza di quanto avviene nelle stenosi benigne, non ha in questi casi grande valore come trattamento unico, ma svolge piuttosto un ruolo ancillare alla laserterapia o alla protesizzazione, che risultano di più facile esecuzione quando si sia provveduto ad aumentare il calibro del viscere. La laserterapia agisce trasformando l'energia radiativa del laser in energia termica, che si sviluppa sul tessuto neoplastico portandolo alla carbonizzazione e all'evaporazione. Il trattamento va ripetuto fino alla ricanalizzazione della stenosi e, in seguito, a intervalli in media di otto settimane. Con tale metodica si ottiene un miglioramento nell'80-90% dei casi, in particolar modo nelle neoplasie vegetanti, che sono meglio aggredibili; l'incidenza di complicanze maggiori, quali la perforazione e l'emorragia, è invece inferiore al 2%. Allo stesso fine viene usata l'elettrocoagulazione, a costi decisamente inferiori ma anche con complicanze emorragiche maggiori. In caso di stenosi a manicotto, in cui la laserterapia offre scarsi risultati, è invece indicato l'impiego di protesi, eventualmente ricorrendo prima a sedute dilatative. Le moderne protesi autoespansibili, costituite da una maglia di fili di acciaio, agiscono imprimendo una forza radiale sulla stenosi e il loro uso si sta rivelando molto efficace. Dai dati relativi alle complicanze relative della RSCS (tab. 4.23) risulta confermata la loro maggiore frequenza in seguito alle procedure operative rispetto a quelle diagnostiche. Numerosi autori hanno sottolineato l'importanza dell'esperienza dell'endoscopista, riportando incidenza di complicanze nel 10-28% delle prime 500 RSCS eseguite, che scende allo 0,4% oltre le 4000 procedure.
La laparoscopia è la tecnica di visualizzazione diretta degli organi contenuti nella cavità peritoneale a scopo diagnostico o terapeutico. Essa viene eseguita mediante l'introduzione nell'addome, attraverso un piccolo taglio (definito 'asola'), di un endoscopio a fibre ottiche, detto laparoscopio. La laparoscopia, nata come tecnica diagnostica, attualmente, oltre a costituire un prezioso strumento di indagine in caso di dolori addominali di natura non determinabile con altre tecniche, si è trasformata in metodica principe nel trattamento di un sempre maggior numero di patologie degli apparati digerente e genitale femminile, con innegabili vantaggi, a causa della sua scarsa invasività rispetto agli analoghi interventi condotti con le tecniche convenzionali di chirurgia generale (fig. 4.278).
Nel 1879 M. Nitze, combinando un endoscopio con la lampada a incandescenza da poco inventata da T.A. Edison, riuscì a illuminare le cavità del corpo con una sorgente luminosa posta all'interno di questo. Nel 1901 G. Kelling, modificando un cistoscopio, riuscì a esplorare la cavità peritoneale: era nata la celioscopia o, più modernamente, la laparoscopia. Nel 1910, H.C. Jacobeus effettuò la prima laparoscopia con l'uso del pneumoperitoneo, cioè con l'insufflazione di CO₂ nella cavità addominale allo scopo di dilatarla e facilitare l'accesso degli strumenti, la visione e la manipolazione degli organi. Negli anni successivi si assistette a un costante sviluppo degli strumenti per l'esplorazione della cavità peritoneale, eseguita esclusivamente a scopi diagnostici. Ma si deve aspettare il 1933 per potere assistere al primo intervento chirurgico laparoscopico. La laparoscopia è stata a lungo appannaggio pressoché esclusivo degli epatologi e dei ginecologi, e si deve appunto a questi ultimi il continuo perfezionamento dello strumentario, con l'introduzione delle fibre ottiche (Hirschowitz, 1958), di un apparecchio controllato elettronicamente per lo pneumoperitoneo (K.K.S. Semm, 1980) e dell'endocoagulazione. Fu altresì un ginecologo a effettuare la prima appendicectomia laparoscopica (Semm, 1982). I chirurghi generali ritenevano poco affidabile e sicura la cosiddetta 'chirurgia dell'asola', considerata troppo spettacolare e non chirurgica. Inoltre, la pratica della laparoscopia diagnostica era caduta in disuso per l'affermarsi delle metodiche diagnostiche di imaging, sofisticate e attendibili (in modo particolare TAC ed ecografia). Successivamente, in seguito al primo intervento di colecistectomia laparoscopica, eseguito da un ginecologo di Lione, Mouret, nel 1987, si è assistito a un profondo rinnovamento della chirurgia generale e della tecnologia applicata. Dal punto di vista del paziente, i vantaggi della chirurgia mini-invasiva sono rappresentati principalmente dall'esiguità della ferita chirurgica, che comporta una diminuzione del dolore postoperatorio e migliori risultati estetici, dalla più rapida dimissione dopo l'intervento (in media 1-2 giorni) e dalla più pronta ripresa funzionale, con abbattimento dei costi di degenza. La laparoscopia dunque si affianca alla chirurgia tradizionale, imponendosi come una tecnica che utilizza piccoli tagli, nella quale si ha una rappresentazione anatomica più precisa, perché ingrandita e proiettata su un teleschermo (figg. 4.279-280-281).
Dalla prima colecistectomia laparoscopica a oggi la chirurgia laparoscopica ha visto ampliare notevolmente i suoi campi di applicazione. Inoltre, il suo impiego quale mezzo diagnostico si è rafforzato, per la possibilità di compiere nello stesso tempo un atto operatorio e un atto terapeutico. La colecistectomia resta l'intervento più frequentemente eseguito e la sua tecnica è ormai standardizzata (v. oltre). Le indicazioni all'intervento restano quelle della chirurgia tradizionale, mentre si sono ridotte, con l'aumentare dell'esperienza, le controindicazioni, tanto che si può oggi affermare che non c'è patologia della colecisti e delle vie biliari che non possa essere trattata con approccio mini-invasivo, avvalendosi della collaborazione dei radiologi e degli endoscopisti per il trattamento dei casi più complessi. Un ambito in cui la laparoscopia ha grande importanza è quello dei dolori addominali di origine ignota, ove anche le più sofisticate indagini diagnostiche non hanno fornito risultati soddisfacenti. L'esplorazione laparoscopica dell'addome permette infatti di chiarire la genesi di questi dolori, con minimo trauma per gli organi addominali e per il paziente. Le patologie più frequentemente in causa sono quelle che provocano dolori pelvici, come la sindrome da aderenze, le cisti ovariche, l'endometriosi, e l'appendicite (fig. 4.282-283). In tali casi, l'accuratezza diagnostica della laparoscopia supera il 90%. La possibilità di eseguire il contemporaneo trattamento di tali patologie accresce il valore della laparoscopia. Altro settore nel quale la laparoscopia va assumendo un ruolo sempre più rilevante è quello della terapia di malattie come l'ernia iatale o un grave reflusso gastroesofageo. Il campo di applicazione della laparoscopia comprende inoltre la possibilità di eseguire una corretta stadiazione di patologie oncologiche, ottenendo campioni di tessuti di organi addominali e fornendo utili informazioni sulla operabilità o sulla risposta terapeutica di un paziente, e ciò grazie anche alla disponibilità di sonde ecografiche laparoscopiche, che permettono l'esecuzione di ecotomografie a diretto contatto con l'organo interessato (fig. 4.284). Nella chirurgia oncologica si sta assistendo al progressivo ampliarsi delle indicazioni, con la possibilità di eseguire interventi per via laparoscopica sia curativi sia palliativi. Oggi con tale tecnica si effettuano correntemente, con risultati positivi, interventi di resezione del colon, dello stomaco e di altri organi addominali.
La colecistectomia rappresenta, come si è detto, l'intervento laparoscopico di chirurgia generale più frequentemente eseguito, con tecnica sufficientemente standardizzata. L'intervento viene eseguito in anestesia generale, con il paziente monitorizzato in tutti i parametri. Si pratica una piccola incisione cutanea di circa 1 cm a livello della cicatrice ombelicale, attraverso la quale viene inserito in addome l'ago di Veress, per permettere l'insufflazione di CO₂ nell'addome e causare così lo pneumoperitoneo. L'insufflazione avviene a basso flusso, fino a raggiungere la pressione di 10-13 mmHg, che viene poi mantenuta costante da insufflatori elettronici. Attraverso l'incisione ombelicale viene introdotto un trocar del diametro di 10-12 mm e una guida (camicia). Una volta posizionata la guida, il trocar può essere ritirato, lasciando posizionata attraverso la parete addominale la camicia, in modo da poterla utilizzare per l'introduzione dell'ottica. Sono disponibili camicie di varie misure, atte a utilizzare sia le ottiche sia tutta una serie di strumenti quali forbici, pinze atraumatiche di varie forme, punte da taglio e da coagulo, e altri ancora. Quali fonti luminose vengono usate lampade di diverso tipo (alogene, xenon) e la luce viene condotta dalla fonte all'ottica visiva stessa, e quindi nella cavità addominale, attraverso cavi flessibili a fibre ottiche. Per la visione della cavità addominale vengono usate telecamere miniaturizzate collegate con l'ottica, che permettono il trasferimento delle immagini su monitor. Si esplora quindi la cavità addominale, per un giudizio di operabilità e per ricercare eventuali altre patologie. Vengono quindi inseriti, sotto controllo video, gli altri trocar, due da 5 mm e uno da 10 mm di diametro. L'intervento prosegue con l'incisione del legamento epatoduodenale e l'isolamento del dotto cistico e dell'arteria cistica, che vengono poi sezionati tra clip metalliche. Si distacca quindi la colecisti dal suo letto. Si effettua poi il lavaggio della cavità peritoneale con soluzione fisiologica, che viene successivamente aspirata. La colecisti viene infine estratta dall'incisione ombelicale. L'intervento si conclude con la sutura delle piccole ferite cutanee (figg. 4.285-286-287-288-289). Il paziente viene in genere dimesso dopo un solo giorno di degenza, con ripristino delle normali funzioni intestinali e scarso o nullo dolore, e può riprendere la sua normale attività entro una settimana.
Tale metodologia chirurgica viene impiegata in anestesia generale con la paziente inizialmente posta in posizione supina. Viene introdotto nella cavità addominale un ago provvisto di sistema di sicurezza, atto a evitare danni intestinali e destinato all'insufflazione di circa 2 l di CO₂ per lo pneumoperitoneo. Dopo aver posizionato la paziente con una inclinazione di 30° e la testa verso il basso (posizione di Trendelenburg), si pratica un'incisione cutanea periombelicale, attraverso la quale si introduce un trocar provvisto di guida (fig. 4.290). In genere vengono inseriti da uno a tre trocar ancillari in posizione sovrapubica (fig. 4.291). Una volta posizionata l'ottica con la telecamera nel trocar periombelicale e gli strumenti operativi in quelli ancillari sovrapubici, si è in grado di iniziare la manipolazione dei visceri pelvici e l'eventuale intervento chirurgico (fig. 4.292-293). L'impiego di particolari bisturi elettrici unipolari, di pinze coagulanti di tipo bipolare di sicurezza, onde evitare danni agli organi vicini a quello direttamente interessato, nonché di diversi tipi di laser, ha ampliato enormemente le possibilità operative e, di conseguenza, il numero delle patologie trattabili. Attualmente, è possibile operare per via endoscopica tutta la patologia ovarica benigna (cisti; fig. 4.294), l'endometriosi, la gravidanza tubarica, la presenza di aderenze pelviche anche complesse, la maggior parte dei fibromi uterini, fino a eseguire la totale asportazione del viscere uterino, che viene comunque estratto per via vaginale.
La visualizzazione diretta della cavità uterina offerta dall'isteroscopia presenta dei significativi vantaggi rispetto alle metodiche disponibili fino agli anni Ottanta. Infatti, la biopsia endometriale, il curettage, l'istero-salpingografia e l'ecografia permettono una visualizzazione indiretta degli organi e dei tessuti dell'apparato genitale femminile. Con l'isteroscopia diagnostica si ottiene una visione panoramica della cavità uterina, del canale cervicale e degli orifizi tubarici, con possibilità di accertarne accuratamente le caratteristiche (figg. 4.295-296). È inoltre possibile definire la mappa topografica della lesione intracavitaria, e codificare parametri morfologici di patologia endometriale a differente rischio. Questa metodica consente anche di ottenere, sotto diretto controllo visivo, biopsie mirate di tali lesioni.
L'isteroscopia è la tecnica diagnostica di elezione nei sanguinamenti uterini anomali e in altre situazioni quali infertilità, casi di reperto ecografico dubbio, pregressi polipi del canale cervicale, problemi attinenti l'impianto di spirali (lost IUD). Si tratta di una metodica ambulatoriale, affidabile, non traumatica, ripetibile nel tempo, ben tollerata dalle pazienti e di basso costo. Nata come metodica diagnostica, l'isteroscopia, costituisce oggi una valida alternativa operatoria anche in casi selezionati di patologia intrauterina. Le principali possibilità terapeutiche per via isteroscopica sono: a) resezione di aderenze (adesiolisi); b) resezione di polipi (fig. 4.297); c) asportazione di miomi (fig. 4.298); d) resezione di setti uterini; e) ablazione endometriale. Condizione primaria di questo tipo di chirurgia è l'esatta valutazione della lesione da sottoporre a intervento (dimensione, origine, sede di impianto, rapporto con gli osti tubarici e il miometrio), correlata a un'attenta valutazione clinica della paziente stessa. L'isteroscopia operativa offre numerosi vantaggi sia alla paziente, per il positivo impatto psicologico (migliore approccio rispetto alla chirurgia tradizionale), sia per la riduzione dei tempi operatori e dei tempi di degenza ospedaliera. È importante sottolineare, comunque, che tale metodica terapeutica è un vero e proprio atto chirurgico, con tutte le implicazioni che ne conseguono, di carattere sia tecnico sia organizzativo.
La cistoscopia è una metodica diagnostica che permette di visualizzare direttamente l'interno della vescica. Rappresenta un fondamentale complemento diagnostico di altre metodologie (diagnostica per immmagini e diagnostica citologica) e consente importanti applicazioni chirurgiche.
L'indagine cistoscopica richiede l'uso di un particolare endoscopio, chiamato cistoscopio, che può essere rigido o flessibile, e la completa distensione della vescica, ottenuta mediante irrigazione. Durante l'indagine endoscopica possono essere di aiuto l'esplorazione rettale, specialmente quando devono essere valutate le dimensioni e la lunghezza dell'uretra prostatica, o la compressione della regione sovrapubica, che permette l'ispezione della cupola vescicale. Il liquido usato per l'irrigazione non deve contrastare la visione, bensì migliorarla. Allo scopo sono adatti i liquidi conducibili, che comprendono la soluzione fisiologica e quella di Ringer, che possono essere utilizzati sia con il cistoscopio rigido sia con quello flessibile e che riducono i fastidi per il paziente, permettendo manovre in posizione supina.
Con l'uretroscopia, che viene spesso indicata per verificare il sospetto dell'esistenza di stenosi lungo il decorso dell'uretra, viene controllata tutta l'uretra tramite l'introduzione del cistoscopio. La cistoscopia ha invece il compito di controllare che gli sbocchi degli ureteri di sinistra e di destra siano entrambi presenti, in sede e simmetrici, in quanto l'assenza di uno può costituire il segno indiretto di un paziente portatore di monorene congenito (fig. 4.300). La vescica in genere si presenta all'esame cistoscopico con una mucosa rosa-pallida, pareti facilmente estensibili sotto il flusso della soluzione fisiologica e facilmente retraibili durante lo svuotamento. I processi infiammatori della vescica, patologie per cui talvolta viene eseguita la cistoscopia, provocano generalmente un arrossamento della mucosa e depositi di fibrina più o meno espansi in rapporto alla acuzie del processo infettivo e alla sua estensione. La massima importanza della cistoscopia diagnostica è riferita a quelle formazioni carcinomatose della vescica che debbono avere una conferma diagnostica, dopo aver eseguito un esame ecografico e dopo una citologia urinaria. Le formazioni possono essere uniche o multiple, papillari o non, con mucosa circostante sana, con parete rigida o meno. L'esaminatore deve valutare se ci si trova di fronte a neoformazioni con caratteristiche infiltranti o superficiali (fig. 4.303). La diagnosi delle neoformazioni è fondamentale proprio per la strategia terapeutica conseguente. All'evento diagnostico cistoscopico viene fatta seguire una biopsia non solo della forma tumorale per identificarne le caratteristiche di aggressività biologica (grado), ma anche delle biopsie multiple prelevate da zone sospette per vedere se si tratta di una forma unica o se ci sono focolai multipli misconosciuti e non visibili all'ingrandimento indotto dalle lenti del cistoscopio. Particolare attenzione deve essere posta all'identificazione e alla caratterizzazione delle formazioni della parete anteriore della vescica, mediante cistoscopio flessibile. L'indagine endoscopica così condotta riesce infatti a colmare le lacune diagnostiche dell'ecografia sovrapubica, che non permette un rilievo delle patologie della parete anteriore della vescica stessa.
L'artroscopia è una metodica diagnostica microinvasiva che consente lo studio con visione diretta delle varie strutture articolari. L'impiego più frequente riguarda lo studio dell'articolazione del ginocchio e della spalla e la terapia chirurgica di varie patologie insorte in queste sedi. L'artroscopia terapeutica del ginocchio è più diffusa rispetto a quella di altre articolazioni, non solo perché eseguita da più lungo tempo (la prima si deve a Watanabe e risale al 1957), ma anche in considerazione del fatto che tale articolazione, a causa di eventi traumatici, sportivi e non, è la più soggetta a lesioni capsulari, meniscali e legamentose.
L'artroscopia richiede una quantità notevole di strumenti. L'equipaggiamento minimo è costituito dalla camicia del trocar, formata sostanzialmente da un tubo entro il quale il dispositivo a fibre ottiche viene fatto scivolare e al quale esso viene poi agganciato, da un trocar a punta e uno smusso, da una componente ottica, da un generatore di luce fredda, da un cavo di conduzione della luce e infine da un sistema di irrigazione della cavità articolare e un uncino palpatore. La componente ottica è costituita da un sistema di lenti che permettono la trasmissione delle immagini e un angolo di campo di visione (superficie totale visualizzabile) che varia tra 120° e 55°. Attualmente, cadute in disuso le ottiche a visione diretta (0°), le più utilizzate sono quelle a visione obliqua, in particolare l'ottica a 30° per l'esame di routine e quella a 70° per la visualizzazione dei compartimenti posteriori e delle superfici rotulee. L'utilizzo di un'ottica di piccolo calibro consente una maggiore manovrabilità nelle zone di difficile accesso (superfici inferiori dei menischi), ma presenta l'inconveniente di una maggiore fragilità e di una peggiore qualità dell'immagine, per cui nell'artroscopia chirurgica è necessario ricorrere a ottiche di calibro maggiore. L'esame artroscopico viene generalmente eseguito in anestesia generale o periferica (spinale o peridurale), poiché queste consentono di avere il rilasciamento muscolare necessario per ottenere una più accurata e completa indagine dell'articolazione da esaminare e, se necessario, di far seguire immediatamente un intervento chirurgico, per via artroscopica o 'a cielo aperto'. L'artroscopia può essere eseguita anche in anestesia locale, senza ospedalizzazione del paziente, che può riprendere a deambulare dopo poche ore. L'anestesia locale con lidocaina si ottiene producendo un blocco dei nervi cutanei in corrispondenza del punto di introduzione dell'ottica e, successivamente, delle strutture capsulari articolari. Gli inconvenienti dell'anestesia locale sono rappresentati dalla possibilità di provocare dolore nel paziente durante l'utilizzo dell'uncino palpatore, e soprattutto dal fatto che il manicotto pneumatico, utilizzato per produrre una ischemia temporanea nell'articolazione che ne rende più agevole lo studio, non può essere applicato in quanto non tollerato dal paziente. L'articolazione deve essere distesa con instillazione di soluzione fisiologica (distensione liquida) o con insufflazione gassosa di CO₂ (distensione gassosa) attraverso una cannula introdotta nel cavo articolare previa incisione cutanea o attraverso l'ottica stessa. Il deflusso del mezzo di distensione liquido avviene attraverso l'ottica o attraverso la cannula da distensione. La via d'accesso più usata nell'artroscopia del ginocchio è quella rotulea anteriore, anche se, in corso di esame, non è raro cambiare il punto di introduzione dell'ottica, al fine di studiare aree più o meno vaste non esaminabili altrimenti. L'accesso dell'artroscopio alla cavità articolare si prepara, previa incisione cutanea, con il trocar appuntito inserito nella propria camicia fino al superamento della capsula fibrosa; a questo punto il trocar appuntito viene sostituito con quello smusso. Una volta che la camicia con il trocar smusso abbia raggiunto la cavità articolare, quest'ultimo viene sostituito con l'ottica, che consente di accertare la presenza di eventuali alterazioni patologiche. L'asportazione di formazioni patologiche si esegue grazie all'impiego di particolari pinze, forbici e bisturi di varie angolazioni e dimensioni e dell'indispensabile uncino palpatore; oltre a questo materiale, cosiddetto non motorizzato, gli operatori dispongono anche di strumenti motorizzati che vengono utilizzati per aggredire e rimuovere i vari tessuti lesionati. Questa tecnica permette all'ortopedico di eseguire meniscectomie totali, cioè la rimozione totale del menisco o la meniscectomia selettiva, parziale o subtotale. Attualmente si tende a eseguire, quando possibile, la meniscopessi (sutura meniscale) o la meniscectomia selettiva parziale (rimozione della sola parte interrotta e instabile) o subtotale con la rimozione del triangolo di appoggio e la conservazione del paramenisco per garantire integrità del muro meniscale e stabilità capsulare. Oltre che nella terapia delle lesione meniscali la chirurgia artroscopica trova un sempre più diffuso impiego nella ricostruzione dei legamenti del pivot centrale (crociato anteriore e posteriore) e dei legamenti collaterali. Dopo l'intervento, l'arto trattato in artroscopia per meniscectomia non prevede l'immobilizzazione in apparecchio gessato, bensì la mobilizzazione attiva dell'arto tutelato da ginocchiera articolata. Nel caso di una ricostruzione legamentosa, l'articolazione viene tenuta in scarico per alcuni giorni consentendo la riduzione dell'edema periarticolare, finché, sempre con tutore, si consente il carico sfiorante e quindi la graduale ripresa della funzionalità articolare.
L'indicazione all'esecuzione dell'esame artroscopico è posta quando anamnesi, esame obiettivo e radiografia non siano sufficienti a porre diagnosi di certezza in presenza di sintomi quali emartro, cioè versamento ematico nell'articolazione, blocco articolare, idrartro, cioè versamento sieroso, dolori vaghi a carico dell'articolazione. A livello del ginocchio in particolare, l'artroscopia si richiede in caso di sospette lesioni meniscali o della cartilagine e quando si vogliano valutare le condizioni intrarticolari in vista di un possibile intervento chirurgico (figg. 4.304-305).
Sebbene l'artroscopia sia un esame microinvasivo, deve essere considerata una procedura chirurgica a tutti gli effetti e, pertanto, non del tutto scevra da rischi e complicazioni, dovuti per es. alla difficoltà di trovare il punto di repere, cioè il riferimento anatomico per l'ingresso della strumentazione, quando le strutture articolari sono globose e impastate, o alla possibilità che si verifichino lesioni cartilaginee, per altro evitabili con una accurata distensione della cavità articolare, lesioni legamentose, tendinee od ossee e lesioni di vasi venosi interni. Oltre a queste complicanze specifiche, se ne possono presentare altre dipendenti dall'anestesia o da infezioni.