Le grandi conquiste oltremare
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il cinquantennio successivo alla guerra annibalica è segnato da un’impressionante attività militare che porta alla conquista o, quanto meno, al controllo di tutti i regni ellenistici, attraverso la seconda e terza guerra macedonica, la guerra contro Antioco III, i conflitti in Spagna e la terza guerra punica, con la distruzione di Cartagine. Sul fronte interno, il profondo contrasto tra atteggiamenti filellenici (Scipioni) e tradizionalisti (Catone) non evita una profonda crisi morale, che prelude alla dissoluzione della repubblica.
Dall’incubo annibalico la repubblica si risveglia piena di sospetti e di paure. La debolezza dei socii e lo strappo nel tessuto di intese e vincoli familiari su cui ha basato la sua forza generano sfiducia verso il mondo. Per gli Italici l’integrazione cessa così prima di esser completa, mentre nel resto del Mediterraneo non inizia neppure. La nobilitas cerca il sostegno delle oligarchie locali anche oltremare, ma tronca i vincoli diretti prima che sorgano e per cinquant’anni circa il senato si chiude alle influenze esterne. Il consolato è adesso prerogativa di poche gentes soltanto: fino al 146 a.C. vi accedono solo quattro homines novi, mentre gli altri consoli appartengono a una ventina di gruppi familiari in tutto. Roma sconterà questa svolta durante le guerre civili: l’inserimento dei popoli appenninici, greci e padani non sarà indolore, passando per il bellum sociale e l’olocausto dei montanari sanniti.
Per dieci anni circa dopo Zama il sospetto e la paura gettano ombre sul panorama mediterraneo, popolandolo di nemici. Roma non vuole il ripetersi di un attacco contro la penisola e, afflitta da una sorta di psicosi dell’aggressione, diffida delle potenze greche e teme l’accerchiamento, sospettosa di ogni coalizione potenzialmente rivolta contro di lei.
In realtà quelli che agitano il mondo greco sono solo eventi interni, lotte per il controllo di settori locali o per l’acquisto di provvisorie egemonie e il loro corso è parte di un ciclo volto a ristabilirne gli equilibri. Ma per il senato è un gioco politico indecifrabile e la paura che incute è reale. Le fonti in lingua latina riconducono la causa delle guerre di inizio secolo al timore di attacchi in Italia e non è solo una giustificazione a posteriori. I teorici romani dell’imperialismo tendono infatti ad accettare il fenomeno senza discuterlo, esentandolo dal bisogno di alibi morali ed elevandolo a sistema; al contrario, la paura influenza per anni l’azione romana. Se davvero la via Emilia, creata da Lepido lungo l’Appennino, confine nord dell’Italia politica, è il primo esempio di limes, di frontiera presidiata, ancora nel 187 a.C., malgrado la vittoria sulla Siria, il timore di attacchi contro la penisola non è scomparso del tutto.
Roma, in realtà, non ha più rivali: la sua stessa struttura la rende invincibile. Solo alcuni tra i nobili, però, lo comprendono, ma, lungi dal calmare il popolo e il senato, sono spesso loro a sfruttarne i timori per fini personali. Roma è spinta al militarismo. Il senato adotta ormai di norma il provvedimento riservato in precedenza alle situazioni di pericolo, arruolando quasi ogni anno le legiones urbanae, la forza strategica in difesa dell’Urbe. Anche la procedura della dichiarazione di guerra, retta finora da severe norme religiose, viene modificata per consentire un rapido avvio delle operazioni.
Vicina un tempo alla cultura ellenica, di fronte al rifiuto degli Italioti di integrarsi, Roma ha rivendicato una sua identità, fattasi – dopo le defezioni con Pirro e Annibale – orgogliosa ed esclusiva. Per regolare i rapporti, fondamentali, con i Greci oltremare il tema propagandistico prescelto insiste sulla tutela dell’autonomia attraverso la koinè eirene, la pace comune assicurata dalla garanzia di potenze esterne; e la polis è il referente ideale. Cercando di guadagnare i favori delle poleis, la res publica sottolinea la sua natura di città-stato e la liberazione decretata da Flaminino dopo la vittoria sulla Macedonia (196 a.C.) è solo il primo e più celebre dei gesti che avvalorano la sua immagine di amica e protettrice dell’eleutherìa.
Il filellenismo di alcuni aristocratici non è però privo di pragmatismo. Se gli stati più grandi, monarchie e leghe, sono indeboliti dalla liberazione delle poleis, la repubblica ottiene per interlocutori un gran numero di monadi isolate e di scarso peso; e guadagna ad un tempo simpatie e appoggi in tutto il mondo greco. Quanto a Scipione, la sua idea è in realtà scevra di idealismo. Tramontata la possibilità di un’osmosi con le aristocrazie greche, al legame paritario di amicitia su cui si erano fondati spesso in Italia i vincoli tra uomini e stati, egli intende sostituire, traendone ancora l’idea da forme del rapporto privato, il vincolo di patrocinium. Più aderente agli equilibrî reali sarà, per gli Elleni, la posizione di "stati clienti", una nozione che prelude a quella, definitiva, di imperialismo.
Quanto al tentativo di dare assetto al panorama politico ellenico per via diplomatica, nuoce l’incapacità di capirne i meccanismi e la diffidenza di Roma cozza con l’aspirazione greca alla piena libertà d’azione. Durante questa prima fase l’Urbe può dunque esser spinta a muoversi non tanto dalla volontà d’impero, ancora latente, né dalla coscienza della sua forza, ancor dubbiosa, ma dalla paura. Se il bisogno di sicurezza è l’aspirazione dei più, autentica benché fraintesa, esso è però anche il velo con cui i più abili coprono di fronte agli altri, e talvolta persino di fronte a se stessi, la loro volontà di potenza (Gaetano De Sanctis).
Esistono altri moventi ancora. Ad attirare l’attenzione della repubblica sulla politica di Filippo V in Egeo e in Oriente contribuiscono, con il conseguente scoppio della seconda guerra macedonica, certo, sia il timore per l’intesa segreta (202 a.C.) tra il Macedone e Antioco III di Siria ai danni dell’Egitto, sia le proteste delle alleate Pergamo e Rodi e la successiva azione degli Acarnani, legati a Filippo, contro Atene, che permette di dichiarare una guerra giusta agli occhi del mondo greco. Vivo e persistente è poi, certo, il rancore per l’aiuto di Filippo ad Annibale. Ma, al di là di questi motivi, efficaci nel condizionare i comizi, spinge allo scontro soprattutto la volontà di un gruppo di pressione, la cosiddetta "eastern lobby" (Ernst Badian). È probabile che per i suoi membri, esperti in questioni orientali, il successo sulla Macedonia rappresenti non il fine, ma il mezzo con cui creare una figura politica alternativa, da contrapporre all’Africano.
Conclude la guerra, dichiarata nel 200, la vittoria di Tito Quinzio Flaminino, che di Scipione è il protetto, a Cinoscefale (197 a.C.). Poco dopo, egli proclama a Corinto, durante i Giochi istmici, la libertà delle città greche. Filippo V deve lasciare i possedimenti esterni in Grecia, in Asia, nell’Egeo; deve pagare un’indennità; deve consegnare tutte le navi da guerra catafratte tranne cinque; deve dare ostaggi, tra cui Demetrio, il figlio minore.
Con Antioco, affrontato poco dopo, l’attrito è causato dall’avanzata del re di Siria verso Occidente. Lo scontro, che nessuna delle parti sembra volere, diviene inevitabile dopo un’escalation di intimidazioni e ripicche. Sono gli Etoli, alleati delusi di Roma, che inducono il re a passare in Grecia, occupando prima Demetriade, poi Calcide a spese di un piccolo contingente romano (192 a.C.). La reazione della repubblica porta Acilio Glabrione, seguace dell’Africano, ad annientare alle Termopili il corpo di spedizione siriaco (191 a.C.); quindi lo stesso Publio e suo fratello Lucio, a capo della campagna, a passare l’Ellesponto, sconfiggendo presso Magnesia sul Sipilo l’armata di Antioco (189 a.C.). Ratificata ad Apamea (188 a.C.) da Cneo Manlio Vulsone, la pace umilia la potenza seleucide: Antioco deve pagare una forte indennità, abbandonare i territori al di qua del Tauro, cedere gli elefanti e la flotta all’infuori di dieci navi, rinunciare a spingersi per mare oltre Capo Sarpedon e a far guerra agli abitanti d’Europa e delle isole.
La caduta di Scipione è causata soprattutto da una delle sue scelte. La civiltà greca, penetrata in tutto il Mediterraneo di ponente, ha imposto ormai i suoi modelli in Italia e dà vita a un dibattito culturale. Ripetendo la scelta fatta da Annibale e dalla sua famiglia, Scipione si colloca tra i più decisi sostenitori dell’ellenismo. Pur se a Roma i tempi non sono maturi e l’Africano è troppo rispettoso delle istituzioni per ambire a un potere paragonabile a quello dei sovrani greci, sente che non tutti gli uomini sono uguali e, in nome di meriti e capacità, punta a essere la figura di riferimento per la repubblica.
Dopo Zama il suo prestigio è altissimo. Acclamato imperator dalle truppe e insignito del soprannome di Africano, diviene, giovanissimo, il princeps senatus; condiziona la dinamica elettorale portando al consolato in dieci anni ben sette componenti della sua gens, e anche homines novi come Manio Acilio Glabrione e addirittura annovera tra i clientes ex consoli come Caio Lelio e Sesto Digitio. È l’uomo che le genti iberiche hanno chiamato re. Più ancora: ha cinto la sua figura di un alone sovrumano e per lui Quinto Ennio concepisce un processo di eroizzazione. Per alcuni autori (Seneca) la sua figura contiene già i germi del cesarismo.
Ogni regime oligarchico presuppone pari dignità per i membri della classe dirigente e non può sopportare la presenza di figure egemoni; quello romano soffre dunque la sua tutela, soprattutto nel campo della politica estera. Per il prestigio e il carisma, ma anche per l’obbligo di correttezza verso di lui che blocca gli aristocratici e per il debito di riconoscenza sentito dall’intera cittadinanza, Publio resta però inattaccabile a lungo. Gli oligarchi cercano allora all’esterno un homo novus che, con il loro tacito sostegno, provveda ad abbatterlo. Comincia così la vera fortuna di Marco Porcio Catone. Al di là dell’antipatia personale verso il patrizio, il coltivatore della Sabina si oppone alla minaccia per le istituzioni. Contro le pretese dei singoli, in nome di meriti o capacità, egli rivendica la superiorità degli ordinamenti, proclamando l’uguaglianza dei magistrati e l’intercambiabilità nelle funzioni di governo. Anche le Origines, l’opera che ne sintetizza il pensiero, muove da questo principio, tacendo i nomi dei protagonisti, ricordati solo per la carica ricoperta e per l’opera prestata a pro della res publica.
L’attacco definitivo parte dalla richiesta ai capi della campagna d’Asia di rispondere dei talenti ricevuti da Antioco come anticipo sull’indennità di guerra. L’atto che apre i "processi degli Scipioni" è però un pretesto: e il vero bersaglio non è Lucio, formalmente responsabile, ma il fratello. Nel resoconto di Livio l’Africano è accusato dai tribuni di aspirare al potere: travolto dallo scandalo e politicamente finito, trascorre in esilio a Literno la poca vita che ancora gli resta.
Nato forse, almeno all’inizio, dalla necessità di contrastare sviluppi pericolosi per la stabilità delle istituzioni, come l’emergente culto della personalità, il misellenismo diviene un indirizzo di vita e Catone, suo primo accanito esponente, si propone come capo e animatore della corrente che respinge nella cultura greca la fonte della corruzione morale all’interno, della crescente ostilità oltremare. Nasce in quest’ambito la reazione che porta nel 186 a.C. al senatus consultum de Bacchanalibus, la delibera contro i culti bacchici diffusi nel sud Italia, pericoloso veicolo di sovversione.
Durante la censura (184 a.C.) Catone procede, nel silenzio della maggioranza senatoria, a epurazioni e riforme tendenti a reprimere le ambizioni di chi punti ad imporsi sulla base del prestigio, della competenza, del talento militare; di chi intenda far valere il peso delle clientele, interne o estere, e delle fortune di famiglia. Anche Flaminino, ultimo personaggio a fruire di una deroga come privato e ad aver prorogato il comando, insignito, come l’Africano, di onori inconciliabili con la prassi romana, ma reo di pericolose ambizioni personali, viene escluso dalla scena politica e segue Scipione nella caduta. D’ora in poi non sono ammesse proroghe alle magistrature e sono vietate sia le deroghe che hanno permesso a privati di raggiungere l’imperium, sia l’iterazione del consolato (151 a.C.?). La lex annalis del tribuno Villio (180 a.C.) fissa l’età per accedere alle cariche e l’intervallo fra esse, mentre ai generali di Roma si affiancano consiglieri che, incaricati di coadiuvarli, devono in realtà controllarne l’azione, rappresentando la voce del senato.
L’attività diplomatica oltremare permette ai legati di sviluppare vincoli di amicitia e di clientela con notabili e dinasti locali, e di acquisire un’esperienza esclusiva. Patrimonio finora di pochi "esperti", la conoscenza nei settori vitali pone chi la possiede in vantaggio rispetto ai colleghi. Onde evitare una situazione che riproporrebbe la preminenza di alcune figure, dalla pace di Apamea in poi il senato conferisce anche gli incarichi delle ambascerie (con poteri sempre più vasti) secondo una rotazione rigorosa, alternandone i membri, trasformandole in organismi collegiali e affiancando i novizi agli esperti perché facciano pratica. L’oligarchia afferma la necessità di una gestione collettiva del potere e cerca anche di disciplinare l’impiego dei patrimoni privati e di ridurne l’ostentazione, in nome di una solidarietà di casta estesa all’immagine.
Destinata allo stato attraverso indennità e tributi, la ricchezza transmarina affluisce in larga parte anche nelle mani dei privati, che ammassano capitali sia leciti, attraverso i rimborsi, sia illeciti, perché ottenuti attraverso forme di peculato e di concussione. Onde limitare le opportunità di arricchimento si promulgano quindi leggi contro la corruzione e contro gli eccessi a danno delle province. Si cerca, ad esempio, di ridurre il potere dei governatori senza intaccarne l’imperium e dal 182 a.C. si disciplina l’esazione dei contributi nei confronti degli alleati e si indennizzano le vittime di abusi. Nasce infine nel 149 a.C., con la lex Calpurnia, la prima quaestio, corte di senatori incaricata di occuparsi de repetundis, della concussione nelle province. L’azione verso i membri più abili e ambiziosi della classe dirigente è conclusa e per alcuni decenni cade la possibilità di affermare posizioni di preminenza individuale.
Un secondo pericolo incombe, però, e scongiurarlo è impossibile. Nei frammenti dell’orazione pro Rhodiensibus, in difesa dei Rodii dopo la vittoria sulla Macedonia (167 a.C.), si avverte in Catone la coscienza della nuova logica che guida la politica romana, e il suo rifiuto. Egli richiama le basi etiche passate, dai principi dello ius gentium al rispetto della fides e dei doveri correlati; elogia la nozione di guerra giusta e ripudia le azioni di conquista, ponendo l’Italia al centro del suo progetto. Solo nel rispetto dell’antico costume Roma manterrà il primato che le sue virtù le hanno concesso.
La sua linea è però perdente. A questa crociata manca il sostegno dell’oligarchia che, libera dalla tutela di Scipione, ne riprende gli schemi, mentre la crisi della società contadina fa apparire superati i modelli cari a Catone. Affascinata dal miraggio dell’Oriente, che promette vittorie e preda, l’aristocrazia sceglie la politica di potenza. A questa Catone cerca invano di opporre il suo misellenismo e una xenofobia non più motivata dalla paura, il sogno di un’autarchia culturale fondata su valori in cui pochi credono e l’isolazionismo politico. In cerca di nuovi spazi, è infine lo stesso Catone a mutare, accostandosi negli ultimi anni alle posizioni dell’imperialismo trionfante e patrocinando la distruzione di Cartagine (146 a.C.).
Il processo non può essere fermato, ma il declino di Scipione lo aggrava, affidandolo a uomini assai meno capaci di lui e provocandone il pervertimento. Secondo Polibio in neppure 53 anni – dal 221 al 168 a.C. – Roma diviene padrona dell’ecumene. In realtà il processo si compie assai più in fretta. Nell’autunno del 190 a.C., dopo la vittoria di Magnesia, non esiste più nel Mediterraneo una forza capace di resisterle. È ora che si fa aperta la sua vocazione egemonica, che si salda alla teoria apocalittica resa celebre dalla profezia di Daniele, secondo cui il mondo è destinato a una successione di imperi universali (l’ultimo dei quali sarà quello di Roma). Paradossalmente, è dopo aver rimosso ogni ostacolo che Roma sperimenta il sorgere di una compiuta mentalità imperialistica: all’indomani di Apamea essa acquista la coscienza piena della sua forza. Ne nascono il disprezzo verso l’altrui debolezza e il crescente impulso a soffocare gli altrui diritti.
Roma nega ora agli interlocutori ogni reale autonomia politica. Questa situazione causa l’ultimo scontro con la Macedonia. La politica di patrocinio si muta in una rigida tutela per esercitare la quale si adotta ogni mezzo.
Frenato nelle sue ambizioni, Filippo V deve affrontare una serie di intrighi intestini e una cupa tragedia familiare che coinvolge i figli Perseo e il giovane Demetrio. Forse davvero colpevole di un complotto contro il fratello su istigazione di Roma, quest’ultimo viene fatto uccidere, sulla base però di prove costruite dallo stesso Perseo. Succeduto al padre, morto di crepacuore, il nuovo sovrano cerca di rafforzare in ogni modo il suo regno, potenziandone finanze ed esercito, intrecciando intese politiche che coinvolgono la Siria e assumendo, infine, in Grecia il patrocinio delle masse contro gli abbienti favorevoli a Roma.
Conscio che la repubblica non tollera più “potenze dalle libere direttive, che trattino con lei da pari a pari” (Gaetano De Sanctis), Perseo giudica inevitabile lo scontro. Il suo rapporto con la Siria, che fa rivivere lo spettro dell’accordo di trent’anni prima, è intollerabile per Roma, ma il sovrano deve rischiare. Ove infatti non si rassegni ad accettare una posizione subordinata, lo scontro sarà inevitabile: tanto vale quindi cercare alleati. A ciò mirano le intese intrecciate con alcuni stati ellenistici.
Comincia ora, per alcuni anni, una sanguinosa guerra segreta: responsabile dell’attentato compiuto a Delfi contro Eumene di Pergamo, il re potrebbe essersi macchiato davvero dei molti delitti di cui viene accusato. Non senza ragione però: volte a colpire informatori e partigiani di Roma in Oriente, le sue azioni mirano a ritardarne le reazioni in modo da potersi preparare al meglio.
Portano dunque alla guerra oltre alla prepotenza della repubblica e alla sete di guadagni e di prestigio dei consoli (172 a.C.), il timore per la rinascita macedone, per il nuovo prestigio di Perseo e per il ruolo da lui assunto in Levante. Dopo anni alterni, è Lucio Emilio Paolo, figlio del caduto a Canne, a ottenere presso Pidna la vittoria decisiva (168 a.C.). Mentre il re, prigioniero, muore in Italia, la Macedonia viene smembrata in quattro distretti, autonomi e separati e la stessa sorte tocca all’alleata Illiria. Un destino atroce subiscono i cantoni interni dell’Epiro, soprattutto i Molossi, che hanno tradito: 70 centri vengono devastati e 150 mila persone – uomini, donne, bambini – vendute e ridotte in schiavitù.
Ancora dopo Magnesia il senato segue per un poco la linea improntata al rifiuto di ogni annessione, ma infine l’indirizzo non regge. Logorata dalle sollecitazioni continue di tutto il mondo greco, Roma deve affrontare una serie infinita di diverbi e contese, spesso senza importanza, che non sa risolvere e che ne erodono popolarità e pazienza. Del legionario che ha sconfitto la Macedonia e la Siria ha fatto il gendarme del Mediterraneo (Yann Le Bohec); quando il sistema fallisce, si impone la conquista, definitiva e brutale.
Prima vittima è la Macedonia, che un avventuriero di nome Andrisco, proclamatosi figlio di Perseo, fa insorgere invano (149-148 a.C.). Tocca poi alla Lega achea: Corinto, la città che ha voluto i Romani partecipi dei giochi panellenici e che ha sentito proclamare la libertà dell’Ellade, viene ora distrutta dal console Lucio Mummio, e i suoi abitanti sono venduti schiavi (146 a.C.). Oltre ai distretti appartenuti alla Macedonia nella nuova provincia si incorporano l’Illiria, l’Epiro e il territorio degli Achei.
La classe dirigente della repubblica conosce una crisi soprattutto morale. Il contegno di uomini come Vulsone, – che aggredisce i Galati d’Asia senza provocazione (189 a.C.) – segna l’imporsi di una nova sapientia, di un indirizzo etico opposto al precedente. Figlio di quella metis che, attraverso Annibale, l’Africano ha tratto dal pensiero greco, esso ispira, in diplomazia come in guerra, la nuova vocazione all’utilitarismo e alla mancanza di scrupoli.
Comincia ora una delle età più buie, con l’uso indiscriminato di sicari e veleno anche contro i nemici interni e il ricorso sistematico al terrore, al tradimento, alla sovversione. Se, quando si verificano nell’Oriente ellenistico, tali episodi sono ancora capaci di scandalizzare i senatori legati all’antico costume, quando accadono in Occidente impressionano meno; ma è qui, dove colpiscono popoli dall’etica arcaica affine a quella tipica finora degli stessi Romani, che gesti come il massacro dei Lusitani compiuto da Sulpicio Galba (150 a.C.) coinvolgono la repubblica in guerre feroci. In nome della logica d’impero tale condotta si coniuga con la più sfrenata politica di conquista e con il più efferato terrorismo: all’asservimento dei Molossi seguono i massacri di Spagna e la distruzione di Corinto, Cartagine, Numanzia.
Roma dilaga. Dopo aver ripreso il controllo della pianura padana (lasciata ai Cisalpini, d’ora in poi alleati), la repubblica è coinvolta nei conflitti di Spagna, spinta dall’interesse per le ricchezze minerarie e dalla necessità di rintuzzare le incursioni verso la costa. Con un solo intervallo, la pace di Tiberio Gracco padre dei tribuni, lo scontro, durissimo, va dall’istituzione delle provincie iberiche (196 a.C.) fino al 133 a.C. Grandi guerrieri, i Lusitani, sotto la guida di Viriato (150-139 a.C.), e i Celtiberi sconfiggono più volte le truppe di Roma. Scipione Emiliano, figlio di Emilio Paolo e nipote adottivo dell’Africano, riesce infine a distruggere, Numanzia, capitale dei Celtiberi assicurando la pace (133 a.C.); non il compimento della conquista, piena solo all’età di Augusto.
Ad opera dello stesso Emiliano si è frattanto compiuto il destino di Cartagine. Provocata da Masinissa, il re di Numidia, la città prende le armi in violazione al trattato del 201 a.C.; con esiti disastrosi, tuttavia, poiché non solo viene sconfitta, ma offre a Roma il pretesto per intervenire (150 a.C.). La repubblica ordina che la città sia abbandonata e ne sia fondata un’altra a dieci miglia dal mare, ma ciò provoca nei Punici un sussulto di dignità, spingendoli a resistere. Due anni di inutile assedio inducono a derogare per la prima volta dalla lex annalis, eleggendo console prima dell’età consentita Publio Cornelio Scipione Emiliano. Figlio di Emilio Paolo, adottato dagli Scipioni, questi riesce a distruggere la città (primavera del 146). Dalla chora di Cartagine, incorporata da Roma, nasce la provincia d’Africa.
Oltremare Roma aggiunge altre terre. Viene conquistata la Gallia Narbonensis, l’attuale Provenza, appendice dell’Italia e tramite terrestre verso la Spagna: qui i Romani, intervenuti in difesa dell’amica Massalia, sconfiggono prima la gente celto-ligure dei Salii, poi i loro protettori Allobrogi, infine gli Arverni, egemoni sulla Gallia transalpina. Malgrado Aristonico, forse figlio illegittimo di Eumene II, si opponga (130-129 a.C.), Roma acquisisce infine, come provincia d’Asia, anche il regno di Pergamo, che l’ultimo sovrano, Attalo III, le ha lasciato in eredità.
Se i Tolemei d’Egitto accettano il protettorato romano, il regno di Siria si disgrega. Mentre nella parte occidentale del territorio la guerriglia giudaica, scatenata dall’età di Antioco IV in nome dell’ortodossia religiosa, riesce (con Giovanni Ircano nel 131 a.C.) a creare un embrione di stato indipendente, ad est cresce la pressione dei Parti, gente di ceppo iranico entrata nel territorio che ne prende il nome. Con la sconfitta e la morte di Antioco VII Sidete (129 a.C.) la dinastia declina. Negli anni intorno al 133 a.C. Roma sembra aver abbattuto ogni ostacolo. Si profila, invece, l’inizio delle contese intestine.