Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il concetto di “grande colonna sonora” implica l’esclusione di importanti sodalizi fra regista e compositore, riferendosi esclusivamente a concezioni spettacolari del cinema in cui la musica ha potuto assumere ruoli primari. I titoli chiamati in causa – Rapsodia satanica (1915), Aleksandr Nevskij (1938), Vertigo (1958), The Mission (1986) e Trois couleurs - Bleu (1993) – mostrano, attraverso un secolo di cinema, concezioni drammaturgiche molto diverse, in ciascuna delle quali, però, la musica ha assunto un ruolo primario e insostituibile.
Il sodalizio regista-compositore
In una storia del complesso rapporto tra cinema e musica la valutazione del fenomeno “colonna sonora” (definizione tanto diffusa quanto impropria, poiché in senso tecnico e analitico la colonna sonora è l’insieme di tre componenti: dialoghi, effetti e musica) investe fattori di volta in volta diversi, derivanti dalle ambizioni produttive, dal genere di appartenenza del film, dalle sue caratteristiche intrinseche coerenti o meno con il genere stesso, dall’eventuale costanza del rapporto di collaborazione tra il regista e il compositore, che nei casi migliori diviene un vero e proprio sodalizio. Quest’ultima circostanza, se da una parte garantisce al regista una continuità stilistico-formale altrimenti irraggiungibile, con la conseguente salvaguardia almeno parziale della propria poetica, dall’altra non implica necessariamente il raggiungimento di risultati filmico-musicali straordinari. In altre parole, più che il singolo film potrà divenire oggetto di trattazione storica e di attenta valutazione estetica il sodalizio nel suo insieme. È il caso – fra i molti altri – di Jean Vigo e Maurice Jaubert, di Jean Cocteau e Georges Auric, di Laurence Olivier e William Walton, di Pietro Germi e Carlo Rustichelli, di Federico Fellini e Nino Rota, di Sergio Leone ed Ennio Morricone, di Francesco Rosi e Piero Piccioni, di Peter Greenaway e Michael Nyman, di Gianni Amelio e Franco Piersanti, di Takeshi Kitano e Joe Hisaishi, di Godfrey Reggio e Philip Glass.
Un altro fenomeno ancora a parte riguarda quei registi che nel loro cinema hanno preferito utilizzare in prevalenza musica preesistente, facendosi così maestri della decontestualizzazione e della trasfigurazione (due autori su tutti: Stanley Kubrick e Pier Paolo Pasolini). Anche in questi casi si potrebbe parlare di “grandi colonne sonore”, ma in un’accezione musicalmente ambigua, poiché l’attenzione dello storico e del semiologo ricadranno inevitabilmente sulla concezione linguistica del regista, e solo su quella.
Volendo trattare di grandi colonne sonore – ovvero di episodi filmico-musicali di qualità straordinaria, capaci come tali di incidere nella memoria dello spettatore per l’originalità e per la potenza del risultato globale – si circoscrive perciò l’indagine, com’è inevitabile, entro i confini di un cinema altamente spettacolare, talvolta magniloquente, che discende in maniera più o meno diretta dal melodramma, inteso quest’ultimo non tanto in senso operistico bensì nell’accezione più ampia del concetto, quindi con riferimenti storici all’ottocentesco melodrame ovvero al mélo romantico. A onta dei pregiudizi basati sulle limitazioni tecniche implicite nei film dei primi trent’anni del Novecento, sono proprio certe pietre miliari del cinema muto a vantare una drammaturgia filmico-musicale tra le più complesse e articolate, strettamente imparentata con il melodramma.
Rapsodia satanica
Rapsodia satanica, un film diretto da Nino Oxilia nel 1915 (ma proiettato soltanto nel 1917) come trasposizione di un poema di Fausto Maria Martini, nasce con ambizioni del tutto particolari, tali da ipotizzare un nuovo genere, il “Poema Cinema Musicale”, per il quale la Cines riesce a coinvolgere Pietro Mascagni. In funzione della sua musica, di fatto, il film viene prodotto e realizzato. La composizione è caratterizzata da forme musicali riconoscibili e ricorrenti, come la pavana e lo scherzo sinfonico tripartito, il che non impedisce il ricorso episodico alla funzione leitmotivica (ad esempio il tema mefistofelico – Misterioso – che nel recitativo strumentale affidato al fagotto ricorda i caratteri di un topos pantomimico), oppure a un episodio di sincrono esplicito in cui Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli), Faust al femminile, accenna al pianoforte un valzer di Chopin. In Rapsodia satanica Mascagni anticipa e mette in atto, mirabilmente, processi drammaturgici che saranno tipici della musica nel film sonoro.
Aleksandr Nevskij
Per ottenere un grado massimo di interazione fra componenti figurative e sonore occorrono un soggetto eroico ed esaltante, un regista geniale, innovatore e musicalmente colto, un compositore sensibilissimo, incline alla musica a programma e privo di sovrastrutture accademiche e, infine, una produzione non condizionata dall’imperativo categorico dei profitti. Tutto ciò si verifica in Unione Sovietica nel 1938 con Aleksandr Nevskij, regia di Sergej M. Ejzenstein, musica di Sergej Prokof’ev, produzione Mosfil’m.
L’apologo antinazista è trasparente come in una favola per bambini – lo sdanovismo è d’altra parte ormai nell’aria –, ma è proprio grazie a una concezione del genere che Ejzenstein e Prokof’ev possono operare su una drammaturgia a quadri, ovvero a episodi chiusi, basata su due strati coesistenti: uno strato narratologicamente semplificato secondo il quale non esistono sfumature intermedie tra figure positive e negative, tra “buoni” e “cattivi”, tanto che la vittoria dei Russi sui cavalieri teutonici si può celebrare già durante la battaglia, illustrata a tratti come un balletto festoso e persino ciarliero. Più in profondità, invece, Ejzenstein fa ricorso a numerose relazioni organizzate secondo una complessa concezione formalista, piegando il montaggio alla ritmica e alle scansioni musicali. Soltanto in pochi, brevi e ininfluenti episodi il regista ha chiesto al compositore interventi meramente funzionali, per cui la musica per il film – in alcune circostanze scritta prima che Ejzenstein avesse girato le scene relative e stilisticamente imparentata con altre composizioni sinfoniche – già in questa fase ha tutte le caratteristiche della Cantata per mezzosoprano, coro misto e orchestra op. 78 che avrà la prima esecuzione a Mosca nel 1939.
Probabilmente la colonna sonora di Aleksandr Nevskij è la più citata e celebrata nella storia del rapporto musica-cinema anche se, paradossalmente, della musica per film ha poco o nulla, sia in senso formale, sia per il contesto produttivo in cui è nata, ovvero per l’assenza pressoché totale di condizionamenti.
Vertigo
Usare la definizione di “capolavoro” per una colonna musicale nata nella più rigida e condizionante delle concezioni produttive – Hollywood – può apparire eccessivo, mentre riflette adeguatamente il valore delle musiche che Bernard Herrmann ha composto nel 1958 per Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock. Dopo il modello imposto da Max Steiner – musica con funzione segnaletica, concordante, tendenzialmente pleonastica, stilisticamente basata sul sinfonismo ottocentesco di matrice mitteleuropea – la rottura herrmanniana consiste in relazioni molto più sottili, insinuanti, di natura quasi psicanalitica, mentre sul piano formale egli introduce formule tematiche basate sul blues (il Tema Madeleine), che sottopone a variazioni ritmiche, melodiche, armoniche e timbriche, e sugli ostinati (l’habanera o Motivo di Carlotta, l’Incubo). In tal senso, al di là di un lirismo trascinante che è nelle aspettative della produzione, del regista e del pubblico, le vicissitudini dei personaggi, e soprattutto le ossessioni di Scottie (James Stewart), si formalizzano e si manifestano allo spettatore in termini apparentemente asemantici, i quali anticipano e sciolgono i nodi della narrazione in base a un coprotagonismo musicale che ritroveremo, non meno velenoso e intenso, in Psycho (Hitchcock, USA, 1960).
The Mission
Con The Mission (Mission) di Roland Joffè, Ennio Morricone raggiunge nel 1986 il vertice della propria carriera iniziata nel 1961 con Il federale di Luciano Salce. Con Invenzione per John da Giù la testa (Sergio Leone, Italia, 1971), Morricone ha già coronato una fase sperimentale basata su una tecnica compositiva di tipo modulare, nella quale i diversi brani di una stessa colonna sonora nascono da un’unica partitura madre, utilizzata in combinazioni potenzialmente infinite e capaci di produrre ambiti stilistici tendenzialmente modali, tonali, seriali, separati o coesistenti per sovrapposizione. La maggiore consacrazione espressiva di questa tecnica si trova però in The Mission, dove i singoli moduli, più articolati ed estesi rispetto ai trattamenti precedenti, agiscono in rapporto dialettico, assumendo precise funzioni simboliche: il tema dell’oboe solista è la voce interiore di Padre Gabriel e della sua etica; il coro Guarani e le percussioni esplicitano l’intonazione affermativa, rude, ritmicamente difforme degli indigeni (“Vita nostra”); il coro a quattro voci su testo latino (“Conspectus tuus”) interpreta la voce della Chiesa nell’evocazione di un mottetto vagamente palestriniano; l’orchestra d’archi che tutto racchiude e amalgama in forma contemporanea è infine l’impronta degli artefici. Seppure il montaggio e il missaggio di The Mission non rendano piena giustizia alla musica, la sua persistenza dopo vent’anni in contesti diversi (short pubblicitari, concerti pubblici) ne testimonia l’unicità.
Trois couleurs - Bleu
Fra i casi più recenti di una concezione narratologica basata sulla presenza concreta della musica – tale da richiedere una pianificazione degli interventi musicali già in sede di sceneggiatura – un posto di assoluto rilievo occupa Trois couleurs - Bleu (Tre colori - Film blu) di Krzysztof Kieslowski con musica di Zbigniew Preisner (Francia/Svizzera/Polonia, 1993). Nel suo rifiuto dei sentimenti e della vita stessa, seguito a un incidente d’auto in cui Julie (Juliette Binoche) ha perduto il marito, celebre compositore, e la figlia, le insidie – ovvero gli stimoli di sopravvivenza – le arrivano soprattutto in forma musicale, come memoria e percezione interiore dei frammenti di una composizione incompiuta del marito che, inizialmente, la donna aveva cercato di distruggere. Sarà proprio attraverso la ricostruzione di quella partitura dedicata all’Europa che Julie tornerà alla vita. Non a caso il canto solistico in greco, posto nel pre-finale, si basa sul celebre passo di una Lettera di Paolo ai Corinzi: “Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, / se non ho amore, / sarei un rame risonante / o un cembalo squillante [...] ”. Ciò che colpisce maggiormente in questo film è il contrasto fra la convenzionalità del linguaggio musicale adottato inevitabilmente da Preisner e le originali soluzioni drammaturgiche volute da Kieslowski, grazie alle quali la musica sfugge alla funzione convenzionale del commento esterno (extradiegetico), ovvero all’artificio manifesto, per farsi protagonista della narrazione.