Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con il termine “assolutismo” si è soliti definire l’affermazione della supremazia del potere dei sovrani europei nei confronti di ogni altro potere e istituzione (dei ceti nobiliari, della Chiesa, delle comunità ecc.). Esso è stato posto in relazione alla formazione del cosiddetto “Stato moderno”, inteso come macchina burocratica in grado d’imporre la volontà del sovrano in maniera omogenea su tutti i sudditi. In realtà da tempo la storiografia ha messo in luce come l’assolutismo seicentesco vada letto come un processo che, per giunta, ha conseguito più fallimenti che successi nelle sue differenti declinazioni ed esiti all’interno dei diversi Paesi europei.
Il ministro favorito
A partire dalla fine del Cinquecento, le grandi monarchie europee vedono l’avvento della figura del ministro favorito cui sono di fatto affidate le redini del governo. In precedenza i sovrani si sono generalmente guardati dall’attribuire a un singolo individuo troppo potere e hanno sempre cercato di non delegare a nessuno l’esercizio del patronage regio (vale a dire la concessione di titoli, privilegi pensioni, onorificenze ecc.).
Il primo monarca a modificare tale prassi è il sovrano spagnolo Filippo III. Egli concede al suo favorito, Francisco Gómez de Sandoval, duca di Lerma, un enorme potere, consentendogli in sostanza di governare la monarchia. Questa decisione apre la via a uno stile di governo in cui le aristocrazie europee vedono la possibilità di tornare a esercitare un ruolo politico di primo piano. In quegli stessi anni in Inghilterra, Giacomo I Stuart si affida a George Villiers, poi creato dallo stesso sovrano duca di Buckingham. In Francia, dove la regina Maria de’ Medici, reggente in nome del figlio minorenne, Luigi XIII, si appoggia al fiorentino Concino Concini.
Nelle diverse corti il potere regio viene così a essere dominato da un’unica fazione, quella guidata dal favorito, noto in Spagna come valido. A sua volta, il controllo del processo di decisione politica e il monopolio del patronage del sovrano da parte di un solo individuo – che non è il re – tendono a produrre una polarizzazione politica. Infatti tutti coloro che restano esclusi dalle stanze del potere e dall’accesso a ricchezze e onori si coalizzano contro il ministro favorito. A tale scopo l’opposizione ricorre ad atti di resistenza passiva o di renitenza alle sue disposizioni, ancorché emanate per conto della corona, così da metterlo in difficoltà e da spingere il sovrano a togliergli il suo favore.
Il governo straordinario e di guerra
Nel 1621 sale al trono della monarchia spagnola il giovane Filippo IV d’Asburgo. Desideroso di porsi come restauratore della corona, egli si mostra profondamente avverso alla corruzione del gruppo di potere del duca di Lerma. Egli si circonda di uomini che puntano a rinsaldare la monarchia di cui sentono le profonde difficoltà. Fra costoro emerge Gaspar de Guzmán, conte di Olivares, che diviene il nuovo valido, meglio noto – in seguito alla concessione del titolo di duca di Sanlucar – come il conte-duca. Questi si propone di ristabilire il ruolo di potenza egemone della monarchia sulla scena internazionale. Del resto è appena cominciata la guerra dei Trent’anni, in cui gli Asburgo di Spagna intervengono a sostegno del ramo austriaco della dinastia, ed è ripresa la guerra nei Paesi Bassi. Di fronte a tanti impegni militari e politici, Olivares propone, nel 1624, un piano (noto come Unión de armas) volto a dotare la Monarchia di un finanziamento stabile per gli eserciti, ripartendo le spese fra tutti i regni e domini, invece di gravare solamente sulla corona di Castiglia. Tale progetto però fallisce a causa del crescente isolamento del valido e del fatto che questi è sostenuto da una minoranza della nobiltà castigliana, nonché per il rifiuto della corona d’Aragona di vedere ridotti i suoi tradizionali privilegi fiscali.
Per eludere gli ostacoli della latente ma solida opposizione al suo governo, il conte-duca di Olivares ricorre così a strumenti eccezionali. Egli e i suoi uomini utilizzano tutte le forme di coercizione politica, militare e fiscale, che reputano necessari. Se infatti i suoi avversari rallentano o impediscono l’azione del valido sfruttando la tradizionale lentezza dei Consejos, Olivares affida la gestione delle questioni più rilevanti a organismi decisionali straordinari (le juntas, giunte speciali di ministri per una specifica questione o materia) e piega l’amministrazione della giustizia per colpire gli avversari e salvaguardare amici e alleati.
Le rivolte
L’esito di quello che gli studiosi hanno definito il governo straordinario e di guerra sono le rivolte. Ovunque in Europa i tentativi dei ministri favoriti di forzare il tradizionale sistema di governo viene bollato dai contemporanei come arbitrario e illegittimo. Nel 1640, scoppiano quasi contemporaneamente le rivolte di Catalogna e Portogallo. I ribelli accusano Olivares di continue e premeditate violazioni dei loro privilegi. Solo nel 1652, dopo una lunga guerra, le truppe di Filippo IV pongono fine alla ribellione.
Anche i Portoghesi lamentano la violazione delle leggi e tradizioni politiche del regno. In questo caso pesa anche il fatto che la corona si dimostra incapace di difendere l’Impero coloniale portoghese – specialmente il Brasile – dell’aggressione degli Olandesi. Più che una rivolta popolare, però, in Portogallo si verifica una sorta di secessione incruenta: infatti la maggioranza della nobiltà lusitana decide di affidare la corona al duca Giovanni di Braganza.
La grave crisi della monarchia induce Filippo IV ad allontanare Olivares dal potere (1643) e a concedere spazio ai membri di famiglie nobili in precedenza emarginate. Non vi è però alcun sollievo per le popolazioni sempre più vessate dalla pressione fiscale. Nel 1647 scoppia a Palermo un ribellione antifiscale. Lo stesso accade a Napoli, dove, dopo un iniziale accordo tra la nobiltà e il popolo di Napoli, la prima abbandona il secondo al suo destino. Le divisioni nel fronte rivoluzionario e l’abilità dei ministri spagnoli, che alternano la pressione militare e le trattative con i capi della rivolta, portano alla riconquista della città nell’aprile 1648.
La Francia di Richelieu
In Francia Luigi XIII, dopo aver emarginato la madre, si affida ad Armand-Jean du Plessis. Questi, vescovo e segretario di stato dal 1616, ottiene il cappello cardinalizio, nel 1622, e diviene due anni dopo ministro favorito, titolare dell’incondizionata fiducia del re che lo nomina duca di Richelieu.
Al fine di eliminare i poteri armati presenti nel regno, Richelieu avvia una serie di campagne militari per togliere agli ugonotti tutte le piazzeforti loro assegnate dall’editto di Nantes, pur riconfermando loro la libertà di culto. Sulla scena internazionale, egli reagisce al tentativo egemonico degli Asburgo e non esita ad appoggiare le forze protestanti nella guerra dei Trent’anni.
A causa dell’avversione di parte dell’aristocrazia, Richelieu, oltre alla repressione, invia propri uomini di fiducia, con il titolo di “intendenti” a sorvegliare strettamente l’azione dei governatori provinciali. Il cardinale crea una potente rete di legami personali e familiari che gli consente di governare aggirando la prassi ordinaria e le lentezze dell’amministrazione. A questo fine egli si giova della teorizzazione, risalente agli anni delle guerre di religione, del potere assoluto del re. Secondo questa teoria il sovrano, oltre alla potestà ordinaria, che deve tenere conto delle leggi e delle consuetudini del regno di Francia, è titolare di una potestà straordinaria che gli consente, in circostanze particolari, di violare i vincoli tradizionali. In questo caso il potere regio si configura come assoluto, cioè sciolto dalle leggi ordinarie.
Sulla scorta di queste teorizzazioni Richelieu e i suoi uomini attuano un incremento della pressione fiscale, senza il consenso degli Stati generali, l’assemblea dei ceti del Regno che, nella tradizione giuridica francese, è l’unico soggetto legittimato ad autorizzare l’imposizione di nuove tasse. Ogni opposizione e ogni rivolta sono stroncate con pugno di ferro.
Mazzarino e la Fronda
Dopo la morte di Richelieu e di Luigi XIII, la reggenza è assunta dalla regina madre Anna d’Austria, per conto del minorenne Luigi XIV. Il cardinale Giulio Mazzarino, già uomo di Richelieu, è il nuovo ministro favorito. Egli prosegue la politica del predecessore e si scontra con la principale corte di giustizia del regno: il Parlamento di Parigi. I “parlamentari” hanno l’appoggio della popolazione della capitale che insorge nell’aprile 1648. I rivoltosi – definiti spregiativamente frondeurs, e cioè ragazzacci dediti a scagliare pietre con la fionda – proclamano il rifiuto di tutte le norme e le pratiche introdotte nel corso degli anni da Richelieu e da Mazzarino (l’arresto arbitrario, l’aumento del prelievo fiscale, la creazione di speciali commissioni ecc.).
La fuga da Parigi di Mazzarino e della reggente segna l’inizio di una lunga guerra civile, che coinvolge ben presto diversi esponenti della nobiltà guidata da un parente del re, Luigi II di Borbone principe di Condé. Tuttavia la maggiore forza finanziaria di Mazzarino e l’incapacità delle diverse componenti della ribellione di trovare una posizione comune portano alla conclusione della rivolta nel 1653.
L’ascesa al trono di Luigi XIV: un sovrano assoluto?
Il 10 marzo 1661, il giorno dopo la morte di Mazzarino, Luigi XIV dichiara di voler governare in prima persona, senza delegare il proprio potere a un favorito. La decisione di Luigi XIV – che sarà imitata in tutte le principali monarchie – segna la fine di una fase politica. Le ragioni di tale scelta sono evidenti: le crisi politiche e le rivolte degli anni precedenti hanno mostrato quanto sia stato controproducente affidare le chiavi del potere regio ai favoriti.
Durante il mezzo secolo del suo regno, Luigi XIV agisce con determinazione per eliminare tutti i poteri che possono minacciare la restaurazione dell’autorità sovrana. Di qui l’enfatizzazione del suo ruolo di protagonista della stagione dell’assolutismo.
In realtà egli utilizza abilmente la repressione e la ricerca del consenso dei sudditi. La fine del sistema di governo basato sul ministro favorito comporta una maggiore possibilità per i nobili di ottenere onori e privilegi dal sovrano. Luigi si presenta infatti come l’unico titolare del patronage che dosa con cura verso i differenti gruppi e fazioni. Ferma restando la chiusura verso ogni pulsione nobiliare per esercitare una compartecipazione al potere del sovrano, Luigi offre ai nobili la possibilità di servirlo a corte, nell’esercito, nella marina e nell’amministrazione statale. Un atteggiamento accorto egli ha nei confronti dei privilegi dei pays d’état, ossia i territori, come la Bretagna e la Linguadoca, annessi più di recente alla Francia. Anziché cercare di cancellarne i privilegi, Luigi XIV segue una politica basata sul negoziato, mirando a ottenere dai pays d’état il massimo contributo finanziario. Anche rispetto al Parlamento di Parigi il sovrano si mostra inflessibile nell’impedire il ritorno a forme di ingerenza politica: nel 1673, toglie ai parlamenti del regno il diritto di rimostranza (la facoltà di rifiutare la registrazione immediata degli editti regi), ma in generale evita lo scontro frontale.
Naturalmente di fronte ad atti d’insubordinazione, il sovrano agisce con estrema ed esemplare severità al fine di dare un esempio a chiunque intenda opporsi alla sua volontà.
Le guerre di Luigi XIV, il “re sole”
Al centro della politica di Luigi XIV vi è il disegno di sostituire all’egemonia spagnola sull’Europa quella francese. Il sovrano rivendica il proprio diritto di successione al trono asburgico, sia in quanto figlio di Anna d’Asburgo (sorella di Filippo IV), sia per aver sposato Maria Teresa, figlia di Filippo IV. Entrambe le principesse avevano rinunciato ai propri diritti di successione, ma Luigi non esita a servirsi di tali legami familiari per avanzare le sue rivendicazioni sulla corona spagnola.
Nel 1667-68 il monarca dà il via alla cosiddetta “guerra di devoluzione”, facendo occupare dalle proprie truppe i Paesi Bassi spagnoli e la Franca Contea, territori appartenenti alla monarchia cattolica. La minaccia rappresentata dall’espansionismo francese produce però la reazione degli altri Paesi. Ciò avviene in occasione della guerra contro le Province Unite (1674-1678).
Nel 1684 Luigi XIV fa bombardare dalla sua flotta la città di Genova e obbliga la Repubblica a dichiararsi neutrale e accettare la sua protezione. Ancora una volta l’espansionismo francese provoca la formazione di un’alleanza antifrancese: la Lega di Augusta. Vi aderiscono l’impero, la monarchia cattolica, molti principi tedeschi, la Svezia e le Province Unite, cui poi si aggiungono l’Inghilterra e il ducato di Savoia. Scoppia una lunga guerra (dal 1688 al 1697) che si conclude con la pace di Rijswijk: la Francia deve cedere i territori conquistati durante il conflitto e anche alcuni di quelli annessi in precedenza.
Malgrado i molti anni di guerra e i magri successi, Luigi XIV è un abile propagandista di se stesso – grazie ai numerosi artisti e intellettuali al suo servizio – e si fa rappresentare come il “re sole”, il re guerriero circonfuso da un’aura di grandezza e di gloria militare.
Grande importanza egli tributa sin dal 1661 all’edificazione della nuova e splendida reggia a Versailles (vicino a Parigi). Qui egli stabilisce la sede definitiva della corte francese nel 1682. La reggia si configura come il fulcro della vita politica e sociale del regno, cui guardano i nobili e tutti coloro che cercano di attingere al patronage regio o di influire sulle decisioni dei ministri regi.
Colbert
I costi della politica di potenza di Luigi XIV sono enormi. Il sovrano affida a Jean-Baptiste Colbert, un ex collaboratore di Mazzarino, controllore generale delle finanze (1665) e segretario della casa reale e della marina (1669) il compito di rendere più efficiente il sistema finanziario e tributario del regno. Si tratta sia di ridurre l’enorme debito pubblico sia di aumentare e razionalizzare il prelievo fiscale. Nonostante alcuni parziali successi, Colbert non è in grado di fare a meno del sistema degli appalti delle imposte che, a sua volta, causa la continua crescita della pressione fiscale.
Da un punto di vista economico, il ministro cerca, per mezzo di privative e di monopoli, di creare o rafforzare la produzione manifatturiera, specialmente nella produzione di lusso e nei settori legati alle forniture per l’esercito e la marina. Egli – come molti suoi contemporanei – è convinto che la potenza di una nazione dipenda da una bilancia commerciale in attivo. A tal fine Colbert si serve della tassazione delle merci straniere, così da scoraggiare le importazioni e favorire lo sviluppo delle manifatture francesi. Tale politica non ottiene però i risultati sperati.
Luigi XIV e la religione: la revoca dell’editto di Nantes
Perseguendo una piena identificazione tra potere politico e potere religioso, Luigi afferma il proprio ruolo come guida, di fatto e di diritto, della Chiesa francese che riconosce al papa solo un primato spirituale. Il sovrano del resto può contare sulla solida tradizione giuridica ed ecclesiologica “gallicana” che afferma la speciale condizione di autonomia delle istituzioni ecclesiastiche francesi rispetto alla sede romana.
La politica di Luigi XIV entra in collisione con la curia papale. Nel 1681 il monarca convoca un sinodo di vescovi che approvano l’anno seguente la dichiarazione dei Quattro articoli . Essa stabilisce: che il sovrano non è soggetto all’autorità ecclesiastica negli affari temporali; la validità dei decreti del concilio di Costanza che aveva sancito la superiorità dei concili sui pontefici; l’obbligo del papa a esercitare la sua autorità nel rispetto delle tradizioni gallicane; e che, malgrado il papa sia la massima autorità teologica, le sue decisioni non possono essere considerate definitive senza l’assenso dell’intero corpo della Chiesa.
Il conflitto tra Luigi XIV e papa Innocenzo XI raggiunge il culmine, nel 1687-88, quando esplode la contesa sulle immunità giurisdizionali che i rappresentanti diplomatici francesi a Roma rivendicano per sé e per tutti i propri servitori. Solo nel 1692 viene raggiunto un compromesso fra il sovrano e il nuovo papa, Innocenzo XII.
La volontà di Luigi di eliminare ogni forma di diversità religiosa all’interno della Francia spiega perché, sin dal 1679, egli promulghi leggi che escludono gli ugonotti dagli uffici pubblici e che consentono l’alloggiamento forzato delle truppe nelle case dei sudditi di fede non cattolica. Dopo anni di vessazioni volte a costringere gli ugonotti a ritornare al cattolicesimo, Luigi emana l’editto di Fontainebleau (1685) con cui viene revocato l’editto di Nantes (1598) che aveva chiuso la fase delle guerre di religione, garantendo agli ugonotti libertà di culto. Tutti i culti protestanti, pubblici e privati, sono vietati e pertanto circa 200 mila ugonotti francesi emigrano verso i paesi calvinisti e l’Inghilterra.
La Prussia e la Russia
Luigi XIV viene preso a modello da altri sovrani. In primo luogo dal duca di Prussia Federico I Guglielmo di Hohenzollern. Questi è il sovrano di uno stato di fede luterana formato da due territori non confinanti geograficamente: il Brandeburgo e la Prussia. Egli intraprende una politica volta a rafforzare il potere sovrano. La nobiltà terriera degli Junker viene direttamente coinvolta, tanto nella creazione di un esercito permanente, quanto nella costruzione degli apparati statali. Tale tendenza viene seguita dal figlio Federico I che, nel 1701, ottiene dall’imperatore il titolo di re di Prussia.
Nel XVII secolo la Russia vive un periodo turbolento, caratterizzato da rivolte (come quella dei cosacchi) e da guerre civili legate a contrasti dinastici. Sopravvissuto a congiure e conflitti lo zar Pietro I, detto il Grande, dopo aver visitato l’Europa occidentale, al suo ritorno in patria (1698) si prefigge lo scopo di costruire in Russia una monarchia assoluta a somiglianza di quella del Re Sole. Egli procede in primo luogo alla riorganizzazione e all’ammodernamento della marina e dell’esercito (con l’introduzione della coscrizione obbligatoria). Lo zar cerca di coinvolgere – peraltro con scarso successo – l’aristocrazia nei suoi piani di rafforzamento dell’apparato statale. Inoltre, come il re sole, Pietro I stabilisce un saldo controllo sulla Chiesa ortodossa – seguendo la tradizionale bizantina – e fa piazza pulita di ogni opposizione verso la corona all’interno del clero.