Le fonti del diritto
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nello studio del diritto si usa distinguere fra fonti di cognizione e fonti di produzione del diritto. Le prime non sono altro che i documenti grazie ai quali noi possiamo ricostruire qual è il diritto vigente in un dato momento storico. Le seconde, invece, sono le sorgenti da cui il diritto oggettivo trae origine.
Le fonti di cognizione del diritto possono essere distinte in fonti tecniche e atecniche. Le prime comprendono le opere della giurisprudenza e tutti i documenti di carattere strettamente giuridico: ad esempio, le iscrizioni recanti i testi di leggi o trattati, i papiri o le tavolette contenenti i testi di atti o contratti e così via. Le fonti atecniche sono invece di natura non giuridica, tuttavia recano al loro interno notizie utili alla ricostruzione del diritto vigente in un dato momento: si tratta, ad esempio, delle opere storiche o antiquarie nelle quali sono riferite informazioni relative a leggi o istituti giuridici.
Questa categoria di fonti, per quanto di straordinaria utilità, ha, nello studio del diritto romano, un peso complessivamente minore di quello che assume per altri mondi giuridici, come quello greco, dove le fonti tecniche sono molto meno numerose. Esse sono comunque imprescindibili per la ricostruzione del diritto pubblico e privato dell’età arcaica (dall’età regia alla metà del III sec. a.C.): sono infatti pochissime le fonti tecniche risalenti all’età della monarchia, quali ad esempio il lapis niger, epigrafe rinvenuta sotto il foro e recante i resti di una disposizione regia.
Parimenti, non sono molto abbondanti i riferimenti a norme e istituti dell’età arcaica contenuti nei testi giuridici di epoche successive. Occorre quindi rifarsi ai testi di storici (quali ad esempio Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco), linguisti, antiquari ed eruditi (ad esempio Varrone, Plinio, Aulo Gellio, Festo, Macrobio); specialmente utili sono anche i testi dei primi comici latini (Plauto e Terenzio) e le opere di Catone e di Cicerone. Naturalmente, va detto che i riferimenti all’età arcaica contenuti in opere di molto posteriori, siano esse fonti tecniche o atecniche, poiché provengono da epoche anche molto lontane dai fatti e dalle norme che riferiscono, devono essere utilizzate con cautela. Bisogna anche precisare che le fonti atecniche – talvolta ingiustamente trascurate dagli studiosi, specie quando vi è abbondanza di quelle tecniche – costituiscono sempre uno strumento di grande importanza per la ricostruzione della storia del diritto romano durante tutto il corso del suo sviluppo. Ad esempio, per quel che riguarda l’età tardoantica sono principalmente le fonti atecniche (e fra queste la patristica) che consentono di ricostruire la prassi seguita nell’applicazione delle leggi imperiali nei diversi territori dell’impero.
Passando alle fonti tecniche, conviene distinguerle in due grandi sottocategorie ordinate cronologicamente: le fonti anteriori alla codificazione di Giustiniano e quelle ad essa posteriori. Per quanto riguarda le prime, esse comprendono in primo luogo i testi contenenti previsioni normative (leggi, senatoconsulti, editti, decreti): si tratta di epigrafi, papiri e citazioni all’interno di opere della giurisprudenza. Vi sono poi i codici di epoca pregiustinianea: si tratta di due raccolte di leggi imperiali, composte privatamente per opera di due giuristi, Gregorio e Ermogene, note come Codex Gregorianus e Codex Hermogenianus. Questi ultimi ci sono pervenuti in modo solo frammentario; non così la compilazione di leggi imperiali ordinata dall’imperatore Teodosio, pubblicata nel 438 d.C., che ci è pervenuta quasi per intero. Materiale normativo pregiustinianeo si ritrova anche in altre raccolte contenenti leggi emanate dopo la pubblicazione del Codex Theodosianus (Novellae posttheodosianae) e così pure nelle leggi emanate fra V e VI secolo d.C. dai re germanici perché avessero valore sui territori romani da loro conquistati: si tratta delle leggi romano-barbariche, contenenti sia leggi che materiale giurisprudenziale, fra le quali si possono ricordare la lex Romana Visigothorum, la lex Romana Burgundiorum, l’edictum Theodorici. Oltre ai testi contenenti previsioni normative, vanno considerati poi gli scritti dei giuristi; fra questi primeggiano le Istituzioni di Gaio, un manuale elementare per lo studio del diritto romano risalente al II secolo d.C., unica fra le opere della giurisprudenza classica a esserci pervenuta quasi per intero. Vi sono poi diverse raccolte di materiale giurisprudenziale risalenti all’età postclassica e tarda, come i Tituli Ulpiani, le Pauli Sententiae, parafrasi delle Istituzioni di Gaio (Epitome Gai, Fragmenta Augustodunensia), raccolte contenenti al contempo leggi e giurisprudenza (Fragmenta Vaticana, Consultatio veteris iurisconsulti). Due casi a parte sono costituiti dalla Collatio legum romanarum et mosaicarum, un’opera di ignoto autore in cui sono messi a raffronto il diritto romano e quello ebraico, e il Liber Syro-Romanus, una compilazione di testi giuridici romani in lingua aramaica. Infine, vanno ricordate fra le fonti tecniche pregiustinianee tutte quelle attestazioni dell’applicazione del diritto contenute in papiri, tavolette cerate e così via, recanti traccia di contratti, atti, verbali, che si sono conservate nonostante la deperibilità dei materiali grazie a particolari condizioni climatiche (basti pensare ai papiri egiziani, pervenutici in gran quantità e spesso contenenti informazioni preziose per il giurista).
In questa categoria ricadono tutti i testi contenuti nella compilazione ordinata da Giustiniano a partire dal 528 e comprendente la seconda edizione del Codice, il Digesto, le Istituzioni e le Novelle. A questi, contenenti un’enorme mole di materiale legislativo e giurisprudenziale, si possono aggiungere altri testi di età bizantina come la Parafrasi in lingua greca delle Istituzioni compiuta da Teofilo, egli stesso coautore della compilazione, e la raccolta del IX secolo d.C. di riassunti e commenti in lingua greca attinenti alla compilazione nota come Basilici (Basilika).
Con fonti di produzione si intendono le “sorgenti” da cui sgorga il diritto. La prima e la più antica di esse consiste nei mores, ossia le consuetudini tramandate dagli avi, che costituiscono il nucleo ancestrale del diritto civile (ius civile, il diritto proprio dei cittadini). In secondo luogo, vi sono le leggi e i plebisciti. Le leggi possono essere distinte in leges rogatae e datae. Le prime sono leggi proposte dal magistrato all’assemblea e da questa approvate, le seconde sono una sorta di legislazione delegata: sono composte dallo stesso magistrato su delega da parte dell’assemblea popolare (a questa categoria appartiene secondo alcuni la legge delle XII Tavole).
Le leggi sono fin dall’origine vincolanti per tutta la cittadinanza. Lo stesso non vale per i plebisciti, che nascono come deliberazioni assunte dalla sola plebe riunita nei concilia plebis, vincolanti unicamente per i plebei. A partire dalla lex Hortensia del 286 a.C. i plebisciti sono equiparati alle leggi e divengono vincolanti per la generalità. L’attività legislativa delle assemblee popolari scema progressivamente con il principato (l’ultima lex di questo tipo risale al regno di Nerva, alla fine del I sec. d.C.).
Ad essa si sostituisce l’attività legislativa del principe e quella del senato. In origine le deliberazioni del senato (senatus consulta) non avevano valore di legge e costituivano per lo più direttive vincolanti per i magistrati ai quali erano indirizzate. Con l’età imperiale, invece, essi assumono valore di legge, il che si spiega facilmente con il fatto che sono per lo più proposti dallo stesso principe o comunque conformi alla volontà di questi. L’attività legislativa del senato cessa alla metà del III secolo d.C., quando unica fonte di produzione legislativa rimane l’imperatore.
Accanto alla produzione normativa da parte delle assemblee civiche e del senato, grandissima importanza hanno gli editti dei magistrati, specificamente dei pretori e degli edili. Infatti, a partire dalle leges Liciniae Sextiae del 367 a.C., al pretore urbano è attribuita la funzione di decidere le liti fra cittadini e a partire dalla metà del III secolo a.C. viene creato il pretore peregrino, competente per le liti che coinvolgano stranieri. Accanto al pretore urbano e al pretore peregrino, funzioni giurisdizionali minori (limitate essenzialmente alle liti sorte nei mercati) sono attribuite agli edili curuli. I pretori (e in misura minore gli edili) esercitano una fondamentale azione di modernizzazione del diritto romano attraverso la creazione del cosiddetto diritto onorario (da honor, “magistratura”). Infatti con l’affermarsi di un nuovo tipo di processo, noto come processo formulare, perché fondato su di un documento scritto detto formula, questi magistrati creano un nuovo insieme di regole giuridiche, diverse da quelle dell’originario ius civile. Ciò è possibile grazie all’editto che all’inizio dell’anno di carica il magistrato pubblica e nel quale rende noto alla cittadinanza quali siano i criteri ai quali egli intende informare la sua azione giurisdizionale. L’editto, detto perpetuo perché ad esso il magistrato si dovrà attenere per tutto l’anno di carica, viene poi trasmesso al suo successore, il quale può modificarlo e integrarlo.
Il testo dell’editto diviene perpetuo in senso stretto e dunque non più modificabile con la codificazione che ne fa il giurista Salvio Giuliano, su incarico dell’imperatore Adriano intorno al 130 d.C., anno in cui si esaurisce il ruolo del pretore (e degli edili) come fonte di produzione del diritto. Grazie alle previsioni contenute nell’editto, il magistrato può concedere tutela a situazioni non previste dallo ius civile ma che gli sembrino meritevoli di riconoscimento. Parimenti egli può negare la possibilità di agire in giudizio a chi – pur operando legittimamente sulla base del diritto civile – gli sembri non meritare tutela, per ragioni di equità e giustizia sostanziale: ad esempio, il pretore può rendere inefficaci negozi, pur validi iure civili, quando una parte sia stata indotta a concluderli con l’inganno. Inoltre, vengono escogitati complessi meccanismi processuali che consentono di porre rimedio alle rigidità e al formalismo dell’antico ius civile: esso infatti rimane vigente ed è proprio al fine di correggerlo, migliorarlo e integrarlo (come scrive Papiniano) che gli si affianca il diritto onorario. Un insieme di nuove regole giuridiche, vale la pena ricordarlo, prodotte non in sede legislativa, ma in sede giurisdizionale.
Fin dalla nascita dell’impero, lo stesso principe è fonte di produzione del diritto: secondo quanto scrive Ulpiano, ciò che piace al principe ha vigore di legge. Le leggi imperiali sono note come costituzioni. Esse si dividono in quattro categorie: edicta, mandata, decreta, rescripta. Gli edicta sono disposizioni legislative a carattere generale rivolte a tutti i sudditi dell’impero. I mandata sono invece disposizioni vincolanti rivolte ai funzionari dell’impero, ma da essi possono essere indirettamente ricavate disposizioni aventi carattere generale e astratto. I decreta sono sentenze emanate dal principe in qualità di giudice; mentre i rescripta sono pareri resi dal principe riguardo ad un caso controverso. Pur essendo riferiti a casi concreti, decreta e rescripta forniscono comunque materia dalla quale ricavare i principi di diritto su cui si fonda la decisione imperiale e per questo motivo essi vengono ben presto considerati al pari di leggi. Va detto che, successivamente al regno di Diocleziano, l’imperatore resta sostanzialmente l’unica fonte attiva di produzione del diritto.
Con la progressiva estensione della cittadinanza romana ai provinciali, culminata con la Constitutio Antoniniana del 212 d.C., che rende cittadini tutti i sudditi dell’impero, si pone il problema delle tradizioni giuridiche di comunità che improvvisamente si trovano a dover applicare il diritto romano. Al riguardo si stabilisce il principio che le consuetudini locali dei provinciali hanno comunque vigore per tutti quegli ambiti che non siano già regolati da leggi, leggi imperiali e senatoconsulti.
Infine, fra le fonti di produzione del diritto devono essere anche considerati i responsi dei giuristi. In età arcaica il monopolio della scienza giuridica è proprio dei pontefici, sacerdoti appartenenti al patriziato. I loro responsi, che hanno certamente contribuito all’evoluzione del diritto civile arcaico, sono in quell’epoca certamente vincolanti, di fatto se non di diritto. Con la fine del monopolio aristocratico del diritto (il primo pontefice plebeo è del 300 a.C.) si afferma rapidamente una giurisprudenza laica e gli studiosi di diritto rendono gratuitamente pareri su questioni controverse, spesso poi radunati in volumi.
A partire dal principato di Augusto, l’imperatore concede ai più illustri fra i giuristi lo ius respondendi ex auctoritate principis. Ciò significa che i responsi su casi controversi resi da titolari dello ius respondendi hanno lo stesso valore di un responso reso dal principe stesso e costituiscono un precedente vincolante. I passi raccolti nel Digesto provengono prevalentemente da opere di giuristi che hanno avuto questo privilegio. Con il tempo il crescere del numero di responsi dati ex auctoritate principis e con l’inevitabile emergere di contraddizioni e discordanze fra giurista e giurista, rendono necessario procedere ad una regolamentazione nell’uso del materiale giurisprudenziale: ciò avviene con la cosiddetta legge delle citazioni, emanata nel 426 da Valentiniano III e Teodosio II. Essa dispone che ad essere vincolanti sono unicamente i pareri di Ulpiano, Paolo, Papiniano, Modestino e Gaio. In caso di discordanza, prevale la maggioranza fra costoro; in caso di parità, il parere di Papiniano è decisivo.