Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il secolo di una guerra lunga trent’anni comincia con la pace: interna e tra vicini. Nel 1598 quella di Vervins mette fine alle guerre di religione in Francia e alle tensioni con gli Spagnoli; nel 1604 l’intermittente conflitto anglo-spagnolo, che aveva causato tensioni tra i due Paesi con ripercussioni sull’intera area europea dall’Irlanda ai Paesi Bassi, conosce una sospensione; nel 1609, una tregua di dodici anni viene sancita tra Spagna e Province Unite, permettendo a queste ultime di sagomare le proprie capacità mercantili e finanziarie. Le risorse, a lungo impegnate per finanziare le guerre, potrebbero indirizzarsi verso la crescita e lo sviluppo. In realtà, nel corso del secolo questi obiettivi per molti Paesi si rivelano impossibili o fallimentari; non solo perché la guerra appare, nel XVII secolo, endemica ma anche perché nel corso del secolo una diversa gerarchia economica si appalesa prima e si rafforza poi. Da una parte, le risorse degli Stati vengono messe all’asta e in alcuni casi gli Stati stessi diventano simulacri di private attività e interessi di privati finanzieri; dall’altra, le guerre e le rivoluzioni che sconvolgono il secolo prefigurano diversi soggetti che tentano di piegare l’economia al servizio del potere politico. Sullo sfondo, la decadenza: ma non per tutti e non ovunque.
Pubblico e privato al servizio dell’economia?
Il Seicento è ancora epoca indistinta: certo, il funzionamento del pubblico potere – qualunque sia la forma istituzionale – non è più garantito soltanto dal patrimonio personale del sovrano. Tuttavia, le forma che assume lo Stato, le possibilità o le capacità di accertare la ricchezza di chi ci abita o di chi vi produce, il modo di convogliarla verso gli obiettivi e l’uso che si fa delle risorse drenate o da chi si attingono e con quali conseguenze, si situano in una zona opaca. La fiscalità non è del tutto specchio della natura dello Stato, né indice della sua modernità perché la compresenza di tanti soggetti, tante resistenze e tanti interessi producono sovrapposizioni di ruoli e funzioni ma, soprattutto, perché ancora indistinta è la differenza tra pubblico e privato giacché l’uno si incunea, si sovrappone, scaturisce dall’altro. Comunque, e ovunque, c’è bisogno di denaro: per far le guerre, per opere pubbliche o di difesa, per embrionali o complesse infrastrutture: per interessi che coinvolgono molti, quasi sempre al servizio di pochi. Gli Stati sono una tela slabbrata; i soldi non bastano mai.
Finché c’è stata – come nel Cinquecento, sia pur con alti e bassi – un’economia in sostanziale espansione, le forme di finanziamento degli Stati e i modi per sovvenzionare gli obiettivi di chi li governa sono quasi impercettibili: l’esazione fiscale, sia essa diretta o indiretta, si scarica in minima parte sull’economia o sui singoli, piccoli o grandi siano le loro possibilità: c’è spazio per tutti, in un mondo che – diventando più grande – ha aumentato le proprie potenzialità. Ma la situazione cambia quando – come nel XVII secolo – l’economia comincia a sgranarsi, a incepparsi in più punti; quando, cioè, la produzione è in affanno, la circolazione fiduciaria tende a essere sproporzionata alla massa di numerario e le bocche da sfamare continuano a essere troppe, quando le spese superano le entrate ed è necessario ricorrere al prestito o all’aumento delle imposte o a entrambi; quando i ceti dirigenti e i principi si rivelano incapaci di modificare le strategie impositive: ci sono tanti modi di essere Stato: ma, da qualche parte, il denaro bisogna pur recuperarlo.
Tasse e gabelle
Nel corso del secolo, due funzioni e due bisogni si accostano nell’esercizio e nell’essere della sovranità: il warstate, perché le guerre costano e la pace anche; il welfarstate, embrionale o necessario con lo sconvolgersi dell’economia, con i conflitti che producono desolazione, con le epidemie devastanti e le rivoluzioni quasi endemiche, con le città che si vogliono belle e i ceti dirigenti che gareggiano nel lusso. Serve denaro: tanto, tantissimo denaro. Come e dove trovarlo? Le possibilità sono nelle imposte – comunque esse si qualifichino – e nel ricorso al credito privato, garantito attraverso l’indebitamento, la messa all’asta dello Stato o di alcune sue prerogative e funzioni, talvolta appena acquisite o configurate. In un caso come nell’altro non si tratta di un aumento del tasso di sovranità o del suo smarrirsi: non soltanto perché la sovranità non c’è ancora, o non del tutto, e tante sono le resistenze dei corpi, delle comunità o dei ceti che tentano di salvaguardare i proprio spazi di autonomia: piuttosto perché, quasi sempre, in una situazione di affanno si guarda al trovare le risorse: non certo al come o alle conseguenze.
In sede storiografica si è a lungo dibattuto sul significato e il ruolo della fiscalità, sia essa diretta o indiretta; sulla differenza tra esse, nella costruzione dei nascenti “Stati moderni”; sulle capacità di resistenza, le vivaci conflittualità sulla distribuzione dei carichi fiscali; sulla legittimità stessa dell’imposta e se essa qualifichi, e come e quanto, uno Stato di diritto e sia, in generale, specchio della natura dello Stato: e come si spieghino e quali scopi ne giustifichino il ritmo di introito, le modalità di esazione e la loro tipologia.
Un primo problema attiene al modo di raccoglier denaro: ossia, su chi debba gravare la tassazione. Laddove, come in molti Stati, si sceglie un aumento dell’imposizione sui consumi – specie se necessari –, si scarica sugli “strati inferiori” della popolazione il peso delle guerre e delle difficoltà, salvaguardando la base imponibile rappresentata dalla terra e da chi la possiede. Aumentar le gabelle, ancor più se la moneta – come nel Seicento – è instabile o “tosata” e nulla è certo, può provocar rivolte o rivoluzioni. L’imposta gocciola nella società e ne erode le possibilità e le potenzialità di consumo. E poi spesso ha tempi lunghi, mentre quelli delle guerre sono brevi: le diverse giurisdizioni creano ostacoli, e non sempre sono soltanto sopravvivenze del passato; ogni onere va negoziato con le élite e, talvolta, con le comunità. Comunque, ci sono costi di transazione di complessa e difficile gestione: determinazione dell’imponibile, contrattazione, esecuzione. Ma, comunque e ovunque, aides, gabelle e taglie aumentano: in Francia, da un gettito complessivo di 20 milioni di lire tornesi annue nel 1600 a 100 milioni nel 1680; ovunque, la difficoltà e, ancora una volta, le resistenze sono nelle possibilità di accertamento: la via dell’indebitamento, dell’appalto è la più proficua, efficace. E rapida.
Sguardi divergenti?
Fernand Braudel
Capitalismo e modernità: origini
I giochi dello scambio
Al momento di concludere queste spiegazioni, bisogna che il lettore sia cosciente della posta in gioco e scelga una delle due posizioni seguenti. Tutto è dipeso dallo Stato: la modernità dell’Europa e, di rimbalzo, quella del mondo, compreso - in tale modernità - il capitalismo che ne è la causa efficiente. Ciò vuol dire far propria la tesi di Werner Sombart [...] [che riconduce] energicamente la genesi del capitalismo alla potenza dello Stato, poiché il lusso è anzitutto, per secoli, il lusso della corte del principe, dunque dello Stato nel suo stesso cuore, e la guerra, che continua a gonfiare i suoi effettivi e i suoi mezzi, misura la crescita tumultuosa degli Stati moderni. E significa anche rifarsi alle opinioni generali degli storici [...] che paragonano lo Stato moderno all’orco della favola, a Gargantua, a Moloch, al Leviatano.Oppure si potrà sostenere, e probabilmente con più ragione, la causa inversa, quella dello Stato incompiuto, che si completa come può, incapace di esercitare da sé tutti i suoi diritti, di compiere tutte le sue funzioni, costretto, di fatto, a rivolgersi a altri, risentendone le conseguenze.
F. Braudel, I giochi dello scambio, Torino, Einaudi, 1981
L’abbandono dei prestiti forzosi e il passaggio all’emissione di titoli garantiti dal gettito fiscale ossia la tumultuosa crescita del debito pubblico, della rendita a lungo termine sono stati letti come una financial revolution: certo è che la messa all’asta dello Stato, e le diverse forme di indebitamento, permettono di far cassa subito e mettono re, principi e Repubbliche al riparo dalle fluttuazioni dell’economia e dai suoi rischi: garantiscono un introito immediato e scaricano su chi acquista e gestisce i costi. E, naturalmente, i guadagni.
Il profitto è, peraltro, disseminato: il sistema tributario ideato dagli Spagnoli, per esempio, è anche una struttura di occupazione e redistribuzione di risorse che coinvolge diversi soggetti e ceti, con ruoli talvolta sovrapponibili. Alienare i diritti di riscossione produce infatti un rafforzamento delle élite locali, che continuano a detenerlo o lo acquisiscono: il percettore è al centro di una rete di interessi e clientele e dialoga e contratta continuamente sia con essi che con il “potere centrale”, al quale ha concesso il prestito. Si è osservato, pertanto, che i governi con forte tendenza accentratrice hanno minor capacità di prelievo e una complessiva minor efficienza fiscale rispetto a statualità considerate più deboli: è il caso di Francia e Spagna rispetto a Inghilterra o Olanda. Laddove l’interesse si localizza, sembrerebbe aumentare il tasso di efficienza ripercuotendosi su tutto il sistema e sulle sue singole componenti. Inoltre, la trasformazione di risorse “pubbliche” in “private” mediante l’appalto di prerogative e funzioni esercita una reciproca influenza tra le componenti in gioco – il “pubblico” e il “privato” – pur nel variare delle forme assunte dai prestiti, dall’avvicendarsi dei diversi gruppi attivi sui mercati finanziari, dal modificarsi del livello del saggio d’interesse in funzione delle condizioni in cui il debito viene emesso. Non è un ritorno al passato ma un convogliarsi di “economia” e “politica” in mutuo vincolo e interesse.
Chi acquista – in genere Genovesi o loro “prestanomi”, giacché il “secolo dei Genovesi” sembra essere lungo più secoli – gode peraltro di profitti straordinari, raramente inferiori al 20 percento: quel che talvolta è stato considerato come un “fluido corrosivo” che mina le fondamenta di nascenti statualità o, viceversa, residuo di antiche prerogative locali certamente è un grande affare per i pochi che posseggono subito il denaro e lo usano per comprare l’indebitamento dello Stato. Il mercato dei capitali guarda, per esempio, ad asientos e juros come un’occasione di investimento straordinaria e senza sostanziale rischio di impresa: è il re di Spagna che garantisce. E anche quando il debito viene “consolidato”, come avviene più volte, si riesce sempre a trovare qualche forma di risarcimento e a recuperare il capitale investito: il mercato del potere non può prescindere – e a qualunque costo – dalla liquidità offerta dai grandi finanzieri ed è convinto di poterli condizionare e contenere rinegoziando di volta in volta il prestito, ottenendone uno nuovo e scaricando i debiti dismettendo funzioni o impegnando risorse future. D’altra parte, sovente non si tratta solo di influenza reciproca ma di interferenza nell’acquisizione delle cariche, nella venalità degli uffici, nei prestiti e negli appalti come nel personale di governo, proprie delle stesse persone: la contaminazione tra “pubblico” e “privato”, nel Seicento, spesso conduce – in continuità di interesse – allo stesso albergo, casata, stirpe.
Fernand Braudel
Capitalismo e modernità: origini
I giochi dello scambio
Al momento di concludere queste spiegazioni, bisogna che il lettore sia cosciente della posta in gioco e scelga una delle due posizioni seguenti. Tutto è dipeso dallo Stato: la modernità dell’Europa e, di rimbalzo, quella del mondo, compreso - in tale modernità - il capitalismo che ne è la causa efficiente. Ciò vuol dire far propria la tesi di Werner Sombart [...] [che riconduce] energicamente la genesi del capitalismo alla potenza dello Stato, poiché il lusso è anzitutto, per secoli, il lusso della corte del principe, dunque dello Stato nel suo stesso cuore, e la guerra, che continua a gonfiare i suoi effettivi e i suoi mezzi, misura la crescita tumultuosa degli Stati moderni. E significa anche rifarsi alle opinioni generali degli storici [...] che paragonano lo Stato moderno all’orco della favola, a Gargantua, a Moloch, al Leviatano.Oppure si potrà sostenere, e probabilmente con più ragione, la causa inversa, quella dello Stato incompiuto, che si completa come può, incapace di esercitare da sé tutti i suoi diritti, di compiere tutte le sue funzioni, costretto, di fatto, a rivolgersi a altri, risentendone le conseguenze.
F. Braudel, I giochi dello scambio, Torino, Einaudi, 1981