Le feu follet
(Francia/Italia 1963, Fuoco fatuo, bianco e nero, 121m); regia: Louis Malle; produzione: Alain Quefféléan per Nouvelles Éditions de Films/Arco; soggetto: dall'omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle; sceneggiatura: Louis Malle; fotografia: Ghislain Cloquet; montaggio: Suzanne Baron; scenografia: Bernard Evein.
Alain Leroy, trentenne d'estrazione borghese, esce da una clinica dopo una cura disintossicante dall'alcol. In preda alla depressione, visita alcuni vecchi amici: Dubourg, accasato con moglie e due figli; Jeanne, che lo porta a una riunione di intellettuali in cui Alain è protagonista di un diverbio; alcuni ex camerati della guerra in Algeria, ora membri dell'OAS. A cena da Cyrille e Solange Lavaud, Alain si abbandona a uno sfogo in cui tira fuori tutto il suo disagio. Non è riuscito a trovare una sola valida motivazione per vivere: torna alla clinica e si spara un colpo al cuore.
Favorito da una fortuna personale non trascurabile, discendente di una grande famiglia borghese, Louis Malle provò sempre una sorta di disagio, quasi un senso di colpa, rispetto alle proprie origini sociali. Nottambulo e, secondo le sue stesse parole, un poco "eterno adolescente", all'epoca il giovane regista conduceva una vita intensa fatta di locali notturni, brevi incontri occasionali, alcol in abbondanza... Così egli ricorda questo periodo della sua vita, dal quale sarebbe nato il progetto di Le feu follet: "Avevo l'impressione che i trent'anni fossero l'età della pensione. Mi chiedevo che fare della mia vita, se non fosse arrivato il momento di diventare adulto. Cioè di accettare il mondo così com'è, cosa che mi sono sempre rifiutato di fare". Per esprimere questo malessere Louis Malle decide quindi di adattare un romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, opera letteraria molto vicina al reportage che racconta le ultime quarantotto ore di Alain Leroy, fino al colpo di pistola finale. Benché ideologicamente vicino alla sinistra, Louis Malle appartiene a una generazione di giovani di origine borghese, affascinati da una corrente di pensiero di destra caratterizzata da un senso di inutilità della vita e dall'impressione che nulla permetterà loro di realizzarsi. Di conseguenza il suicidio sembra l'ultima possibilità rimasta. È questo il sentimento, l'impressione che Le feu follet tenta con successo di descrivere. Malle sembra interessato esclusivamente a mostrare i momenti di deriva di un personaggio piacevole, bello, che avrebbe potuto riuscire in tutto, ma che, minato dal proprio stato di depressione, sprofonda nell'alcol e in una sorta di follia che, in fondo, non intende abbandonare.
Tutta la bellezza del film deriva dal suo tono incompiuto e disilluso. In nessuna scena Malle cerca di comunicarci qualcosa in particolare. Per tutto il film non facciamo altro che seguire questo personaggio disperato; i minuti si aggiungono ai minuti, mentre l'emozione viene ricreata quasi unicamente attraverso l'accumulo dei primi piani neutri che descrivono le varie situazioni. Così avviene, per esempio, nella discussione intorno al teatro dell'Odéon, dove la durata ci viene presentata nella sua assoluta continuità, facendoci avvertire che Alain prende ‒ ma soprattutto perde ‒ il proprio tempo. L'aspetto patetico della ripetizione temporale è percepibile anche quando il protagonista evoca la routine quotidiana: "A letto alle tre del mattino, a cavallo dalle nove alle undici, poi è l'ora della Borsa: qualche milione vinto, perduto, detto fatto; pranzo di lavoro, un po' di ufficio, una donna, qualche bicchiere, a cena in città, un locale e poi si ricomincia". Il tempo non ha più alcuna funzione o utilità, si riduce a una durata che bisogna riempire fino al tedio estremo. Soltanto il personaggio di Jeanne riuscirà a dare ad Alain, per un breve attimo, l'illusione della pace della vita quotidiana. Tutto l'interesse di Le feu follet deriva dal fatto che il suo protagonista sembra costantemente rifiutare la vicenda che gli viene proposto di seguire. Racconto di un non-racconto, il film non potrà far altro che terminare sul viso di Alain, irrigidito nella morte. La sua voce risuona per l'ultima volta, come rivolgendosi allo spettatore: "Mi sono ucciso perché non mi avete amato, perché non vi ho amato... Su di voi lascerò un'impronta indelebile".
Per mettere in scena il ritratto di un essere umano ossessionato e spossato dal disgusto nei confronti della vita, Malle utilizza i nuovi mezzi tecnici dell'epoca (come la pellicola ultrasensibile), ma, contrariamente ai cineasti della Nouvelle vague, non ricerca mai la novità o l'invenzione. La sua regia rimane semplice, il suo montaggio classico. Quando entriamo nella stanza di Alain, la data scritta sulla lavagna nera, la pistola che viene maneggiata e il suicidio abbozzato prefigurano immediatamente l'esito della giornata. Le immagini di Malle, risultato di un lavoro a regola d'arte, testimoniano una ricerca quasi ossessiva dell'inquadratura perfetta, plasticamente priva di difetti, ma che può esistere soltanto a costo di una certa perdita di spontaneità. Si potrebbe quasi affermare che, per quanto impeccabile, la regia di Le feu follet a volte manchi drammaticamente di ciò che costituisce il vero stile: una riflessione profonda. Rimane la presenza unica di Maurice Ronet. Il regista ebbe l'intelligenza di offrirgli la parte di Alain, personaggio che corrispondeva alla vera personalità di Ronet, dandy elegante e sottilmente distaccato nel dissimulare un pessimismo ironico, che trova in questa occasione il suo ruolo migliore. È lui che 'tiene in piedi' il film, conferendogli un fascino particolare. Nell'interpretazione di Ronet, il personaggio di Alain è commovente fin dall'inizio. E questa è anche una delle differenze essenziali rispetto ai protagonisti dei film della Nouvelle vague. Nel cinema di Godard, Truffaut o Chabrol i protagonisti ci colpiscono soltanto strada facendo, mentre le emozioni risultano più forti e pure perché ottenute nonostante tutto. Se ogni tanto Alain fosse stato aggressivo o detestabile (pensiamo al Michel Poiccard di À bout de souffle, anch'egli in un certo senso suicida), la nostra adesione sarebbe stata più totale e il film, invece di essere semplicemente commovente, sarebbe stato davvero straziante. Premio speciale della giuria al Festival di Venezia del 1963.
Interpreti e personaggi: Maurice Ronet (Alain Leroy), Léna Skerla (Lydia), Yvonne Clech (mademoiselle Farnoux), Hubert Deschamps (D'Averseau), Jean-Paul Moulinot (dr. La Barbinais), Mona Dol (madame La Barbinais), Pierre Moncorbier (Moraine), René Dupuy (Charlie), Bernard Tiphaine (Milou), Bernard Noël (Dubourg), Ursula Kubler (Fanny), Jeanne Moreau (Jeanne), Alain Mottet (Urcel), François Gragnon (François Minville), Romain Bouteille (Jérôme Minville), Jacques Sereys (Cyrille Lavaud), Alexandra Stewart (Solange).
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Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 30, 15 octobre 1963.