Le fabulae dei Romani
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I racconti (fabulae) rivestono grande importanza nella cultura romana: universalmente condivisi, espressione di un modo di pensare e di ordinare la realtà, sono funzionali alla memoria e alle identità collettive, oltre che al piacere dell’ascolto. Di alcuni di essi proponiamo una riscrittura. Si tratta di una traduzione delle fonti antiche che è inevitabilmente mediazione culturale e che adotta un punto di vista interno alla cultura romana.
Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie (1, 40, 1), sostiene che le fabulae sono state chiamate così dal verbo fari, “parlare”, “per il fatto che vengono elaborate solo parlando” (tantum loquendo fictae). Questa definizione, nella sua semplicità, è decisamente felice perché coglie due tratti fondamentali del termine fabula e, insieme, opera una sintesi di quanto le fonti latine, sin dalle prime attestazioni, suggeriscono su di esso. Innanzitutto la sua relazione etimologica con il verbo fari, unanimemente condivisa, e in secondo luogo il contesto di oralità all’interno del quale viene posto, visto che è “solo parlando” che le fabulae sono elaborate. In effetti, le fonti mostrano costante consapevolezza del fatto che un discorso-fabula sia propriamente destinato alle orecchie, e non agli occhi, ossia all’ascolto e non alla lettura. In alcuni casi, anzi, le fabulae vengono esplicitamente distinte, a volte per opposizione, dai discorsi registrati per iscritto. In modo puntuale, inoltre, il loro contenuto è costituito da eventi o personaggi che nessuno, neppure chi le enuncia, può vedere, per lontananza spaziale e/o temporale. Infine, vengono sempre marcate come, diremmo noi moderni, “discorso di riuso”, ovvero un discorso/racconto che nel momento dell’enunciazione comporta un atto di ripetizione: chi lo enuncia non fa che ripetere quanto ha sentito da altri, in una catena infinita “dalla bocca all’orecchio”, l’origine della quale è puntualmente indeterminata e anonima. Coerentemente con le prerogative di tutti i cosiddetti “discorsi di riuso” – proverbi, indovinelli, formule rituali, fiabe, poemi e così via –, le fabulae vengono caratterizzate nelle fonti dal fatto che intervengono nella comunicazione in virtù della loro specificità di discorso/racconto pubblico e universale. Esse sono, cioè, a disposizione di tutti, pronte ad essere utilizzate al momento giusto, e godono della condivisione collettiva, tanto sul piano dell’espressione quanto su quello del contenuto. Per ciò che riguarda l’atto di ripetizione implicato, esso non è necessariamente ad verbum, ossia parola per parola, come avviene per altri discorsi di riuso, ma comporta il fatto che il locutore – colui che pronuncia – è libero di apportare variazioni, nell’espressione e nel contenuto, pur continuando a ripetere.
I tratti fin qui delineati come propri a tutte le fabulae – trasmissione orale, gioco delle varianti, contenuto privo di verificabilità per la lontananza spaziale e/o temporale, indeterminatezza e anonimato delle fonti – rappresentano, per certi intellettuali romani, motivo sufficiente a nutrire forti dubbi sulla loro veridicità. Tuttavia, il carattere di “discorso di riuso” che esse possiedono le rende parte di un repertorio linguistico irrinunciabile per una cultura a tendenza prevalentemente orale, quale è quella romana, tanto che neppure gli intellettuali più raffinati ne fanno a meno. Anzi, ne ammettono, a volte con timore, l’efficacia. Che le fabulae siano discorsi/racconti efficaci viene suggerito d’altra parte anche dalle metafore che la lingua organizza intorno al termine: le fabulae “prendono”, “afferrano”, “stringono”, “fanno male”, “catturano”, “attraggono”, “si attaccano”, “s’impossessano” delle orecchie – sede per altro della memoria, nell’anatomia simbolica antica – e della mente. Tali metafore confermano che i Romani sono consapevoli della funzione svolta dalle fabulae (come dagli altri “discorsi di riuso”). Esse esprimono e rinforzano i comportamenti e la visione del mondo del gruppo dei parlanti. Concorrono a formare e consolidare la memoria collettiva, tanto in senso verticale, di generazione in generazione, quanto orizzontale, attraverso la condivisione da parte dei membri del gruppo. In altri termini, costituiscono parte sostanziale della tradizione e partecipano alla costruzione dell’identità culturale.
Per nostra fortuna, anche nei testi scritti le fabulae vengono “riusate”. Le modalità e le occasioni variano, a seconda del genere letterario e del singolo autore. Per lo più viene operato il loro inserimento all’interno del discorso principale, a volte sotto forma di sintetica citazione o di allusione, operazione resa possibile dal fatto che si tratta, per l’appunto, di storie già note. Per alcuni testi, però, le fabulae costituiscono la materia privilegiata del discorso: sono quei testi legati, anche se in modo diverso, alla costruzione della memoria e quelle fabulae che mettono in narrazione una lontananza temporale – il passato di Roma – e spaziale insieme – la Roma del passato. Dall’epica alla storiografia alle raccolte narrative di gesta e personaggi notevoli, in ogni caso si tratta di generi che intendono consegnare alla città quanto si ritenga importante non dimenticare, per la vita della città stessa. Una simile operazione ha solo marginalmente la funzione di fissare date e successione di avvenimenti importanti, funzione svolta dalle tavole annuali dei pontefici. Essa intende mostrare, piuttosto, come si sono comportati, e ancora dovrebbero comportarsi, i buoni Romani, in determinate situazioni organizzate intorno a certi eventi.
Si tratta infatti di affermare una memoria collettiva che, da una parte, ricostruisca il passato di Roma, sin dalle sue origini, e dall’altra, contemporaneamente, fornisca un significato al presente. È quella che viene definita, in termini moderni, memoria culturale, condivisa e trasmessa perché necessaria all’identità del gruppo. Per i Romani l’identità – di un individuo come della collettività – si fonda su un principio di appartenenza pubblicamente sancita: a una stirpe familiare come al popolo. Un gruppo familiare riceve l’identità dal fondatore della stirpe, la sua origine, e dalla serie dei discendenti che man mano costituiscono gli antenati privati. Quanto più illustre è il primo antenato tanto più illustre sarà la sua discendenza. A unire origine e schiera di discendenti/antenati con chi vive è la memoria delle loro qualità e delle loro imprese: chi appartiene a quella stirpe è pubblicamente chiamato a imitarle e possibilmente emularle. Allo stesso modo, ciascun Romano, per sentirsi tale, ha bisogno di avere un passato, di partecipare di una memoria collettiva che dagli inizi fino al presente ricostruisca la storia identitaria del popolo del quale fa parte. Si tratta di sapere quale sia la sua origine, a chi egli appartenga, chi debba imitare ed emulare per dirsi Romano e ricevere l’approvazione della collettività: il riconoscimento pubblico coincide, a Roma, col dare significato all’essere nel tempo e in quello spazio di mondo.
Intellettuali della grandezza di Marco Tullio Cicerone e di Tito Livio a più riprese esprimono la convinzione che la memoria del più antico passato di Roma sia avvolta nell’incertezza, se non nella menzogna, ed entrambi concordano, a distanza di una generazione l’uno dall’altro, sul fatto che causa principale ne sia la mancanza di monumenta certa in litteris, di memoria fissata per iscritto da testimoni contemporanei a quelle lontane vicende. In assenza di documenti scritti, allora, entrambi, per narrare i primi tempi della città, si affidano esplicitamente ai racconti tramandati oralmente dagli antenati, che definiscono fabulae, non del tutto certi eppure necessari, o addirittura pieni di saggezza, almeno a dire di Cicerone (De republica 2, 4). Se quelle fabulae sono state narrate, ripetute, condivise e conservate nella memoria per tanto tempo vuol dire che sono importanti, anche se non rispondono alla realtà dei fatti. A leggerle, in effetti, si comprende che esse costruiscono memoria di eventi capitali per la “vita futura” di Roma: per la religione, per le istituzioni civili e militari, per gli ordinamenti e le regole, per le usanze, per l’economia, oltre che per i comportamenti individuali, pubblici e privati. Esse mettono in azione e sottopongono alla prova i costumi degli antenati, i mores maiorum, e in questo modo li spiegano, li rendono esemplari. Queste fabulae, infine, legano costantemente personaggi e vicende ai luoghi della città: la topografia di Roma, così, viene disegnata da innumerevoli figure del ricordo.
Tutto ha inizio con l’arrivo nel Lazio di Enea, il grande eroe troiano, figlio della dea Venere e del nobile Anchise, sfuggito alla rovina della sua città. Non poteva del resto che iniziare così: l’eroe fondatore, in questo caso della stirpe, deve giungere da fuori, da molto lontano, a segnare un mutamento, un inizio.
Enea giunge sorretto da una promessa divina: Troia sarebbe rinata; sarebbe nato, da lui, un grande popolo, padrone del mondo. L’eroe porta con sé i simulacri degli dèi Penati troiani che saranno, un giorno, i Penati di Roma. Dopo l’arrivo nel Lazio, si narra, Enea e i suoi si fondono con gli abitanti del luogo, gli aborigeni, dei quali è re, a quei tempi, Latino. Riuniti in un popolo solo, prendono tutti il nome di Latini, in seguito a vicende su cui i racconti non sono sempre concordi. Intorno alla figura del primo antenato, al suo viaggio e ai fatti successivi al suo approdo, in verità, le fabulae registrano molte varianti. Varia il numero e il nome dei figli, varia la successione degli eventi, variano personaggi e città. Non variano però alcuni nomi, intorno ai quali, anche se in modo diverso, si snodano fatti importanti. In tutte le tradizioni non manca mai la città di Alba Longa, né un crudele re Amulio né sua nipote, una ragazza di nome Ilia o Rea Silvia, a seconda che sia figlia o lontana discendente di Enea. Di lei, anzi, proprio non si può fare a meno.
Secondo la storia maggiormente diffusa, Alba Longa è governata da una lunga serie di re latini, discendenti di un Silvio, figlio o nipote di Enea. A un certo momento, il re Proca lascia il regno a Numitore, il maggiore dei figli, leale e onesto. Ma Amulio, l’altro figlio, crudele e infido, caccia il fratello e si impone come re di Alba Longa. Poi, per scongiurare ogni minaccia al suo trono, uccide i figli maschi di Numitore e costringe l’unica figlia, Rea Silvia, a diventare vestale, vergine a vita, perché non abbia mai figli. Ma i piani di Amulio vanno contro quelli del cielo. Accade così che, in un modo o nell’altro, dipende da chi narra la storia, il dio Marte fa violenza a Rea Silvia. La ragazza rimane incinta, naturalmente, scatenando l’ira di Amulio. Tenuta isolata, in prigione, alla fine mette al mondo due maschi gemelli. La notizia, in città, provoca stupore e trambusto. La nascita di due gemelli, in effetti, a Roma è un evento problematico, capace di ingenerare il sospetto che dietro a ogni bambino ci sia un padre diverso. Nel mito però è sempre segno di un concepimento eccezionale, quale solo un dio, si capisce, può realizzare. È segno anche che uno dei due bambini avrà un grande destino: è come se nascesse doppio, è già scelto per diventare un eroe. Ad Alba, quel giorno, è nato un bambino speciale, ma, a quanto si narra, Amulio non vuole accettarlo, anzi, quella nascita prodigiosa gli fa molta paura. E così i due gemelli, posti in una cesta, sono abbandonati alla corrente del Tevere, in balia della piena, dei gorghi. Accade spesso così nei racconti: l’“eletto” è rifiutato dalla città in cui nasce e viene esposto, neonato, ai pericoli della natura. Ma accade anche che si salvi, perché quella natura si rivela, in forme diverse, amica e materna. È segno che il bambino è destinato a diventare l’“eroe fondatore” di un nuovo ordine, di una nuova cultura contrapposta a quella che lo ha rifiutato. Anche i nostri gemelli si sono salvati, e proprio ai margini della grande palude che allora il Tevere formava dove si piega in un’ansa, a lambire sette colli boscosi. A salvarli ai piedi di quello che un giorno sarà il Palatino è stato il ramo di un fico che trattiene la cesta, e poi una lupa che dà loro il suo latte, aiutata da un picchio che li imbecca.
Picchio e lupo, del resto, sono animali sacri al dio Marte: ci ha pensato il padre divino a salvare la sua discendenza, a conservarla al futuro. E dopo un inizio così straordinario la vita dei due bambini continua tra uomini marginali, ai margini della città di Alba Longa, fino all’ingresso nell’età adulta. Sono raccolti infatti da un pastore di Amulio, Faustolo, e da lui allevati con la moglie Acca Larenzia. Faustolo impone loro anche il nome e li chiama Romolo e Remo. Fa insomma da padre, crescendoli come pastori, anche se, a quanto pare, i ragazzi preferiscono battute di caccia, scontri armati con vari predoni, risse con pastori di terre vicine: imparano a fare bene la guerra, da degni figli di Marte. Quando Romolo e Remo raggiungono la maggiore età, per una serie di circostanze, conoscono il loro passato, tornano ad Alba, e uccidono il crudele zio Amulio. Narrano, in verità, che a sferrare il colpo fatale sia stato Romolo, che qualcuno dice sia il più forte fra i due. Numitore così riottiene il suo trono. I gemelli però non si fermano ad Alba, è un altro il luogo che il Fato ha destinato alla stirpe di Marte: insieme tornano ai colli sulla grande palude. Per fondare una nuova città. Finalmente la promessa ricevuta da Enea, nell’ultima notte di Troia, si avvia a diventare realtà (Livio, 1, 3-6; Dionigi di Alicarnasso, 1, 70 – 79; Plutarco, Vita di Romolo, 8).
Una volta tornati sulla riva del Tevere, Romolo e Remo, si narra, iniziano a non andare d’accordo. Romolo vuole fondare la nuova città sul Palatino, dove sono stati allevati, Remo invece sull’Aventino. E ciascuno di loro vuole fregiarsi del titolo di fondatore.
È il primo segnale che a questo punto i due gemelli devono separare i loro destini. Decidono che affideranno la scelta agli dèi. Preparano allora il rituale previsto chiedendo un augurium. Gli dèi, col loro favore, accresceranno l’onore di uno dei due fratelli, lo renderanno più grande. E renderanno grande la nuova città. Romolo prende gli auspìci sul Palatino, Remo sull’Aventino. Aspettano a lungo che il volo degli uccelli divinatori mostri il volere divino. Gli dèi però lanciano una difficile sfida ai fratelli e si esprimono, come sono soliti fare, attraverso un enigma: inviano a Remo per primo gli auspicia richiesti, ma a Romolo in numero doppio. Chi è il prescelto fra i due? Avrebbe vinto la sfida divina, in realtà, chi avesse mostrato maggiore prontezza, più astuzia, più abilità. Come tutti gli enigmi infatti anche questo non prevede una sola risposta possibile, unica e certa. E Romolo, a quanto si narra, riesce a giocare abilmente di prontezza e di astuzia. Prima che arrivi la risposta divina, infatti, preoccupato da quel ritardo, invia a Remo alcuni dei suoi per farlo venire sul Palatino, come se avesse visto gli auspicia, in realtà per distoglierlo dal rituale. Da poco giunti sull’Aventino, però, gli uomini vedono realizzarsi l’augurium: sei avvoltoi attraversano il templum. Remo allora, contento, li segue sul Palatino.
“A me sono apparsi sei avvoltoi, tu cosa hai visto?” chiede al fratello. E prima che l’altro ammetta la verità, 12 avvoltoi attraversano il cielo. “Perché me lo chiedi? Hai visto tu stesso” risponde Romolo con prontezza. E con altrettanta prontezza decreta il proprio trionfo. Ma Remo non ammette di essere vinto. Ne nasce una discussione, e poi un litigio violento, che coinvolge anche tutti i compagni dei due. Ormai, è evidente, i figli di Marte e Rea Silvia non sono d’accordo su niente: l’unità di gemelli si è distinta in due individualità contrapposte. Il fatto è che per fondare la nuova città occorre un fondatore. Uno solo. L’altro è, come dire, di troppo. E allora, anche se in modo diverso, i racconti degli antenati tramandano che Remo morì. La sua morte è un atto violento, a segnare una profonda rottura, la fine di un corso, per sempre, e l’inizio di quello nuovo. Remo viene ucciso durante la rissa scoppiata dopo l’augurium, oppure, come narrano i più, da Romolo stesso, perché avrebbe osato saltare sul solco di fondazione, compiendo un sacrilegio, mostrando di essere una minaccia per l’intera città. Così Romolo rimane da solo, senza il suo doppio che lo ha reso più grande per tanto tempo. Adesso ad accrescere la sua persona, però, c’è l’augurium divino, ci sono gli auspicia doppi ricevuti sul Palatino. Il 21 di aprile viene fondata la nuova città. È l’inizio di tutto. Adesso lo spazio – il nord e il sud, l’Oriente e l’Occidente – ha un nuovo centro. Da questo momento si svolgerà un nuovo ordine, quello della città voluta dal Fato, destinata a diventare padrona del mondo. Romolo la chiama Roma. Qualcuno sostiene, però, che il vero nome sia rimasto segreto, tramandato per secoli solo dai sacerdoti maggiori: nessuno deve pronunciarlo, né deve diffonderlo, per non consegnare ai nemici il modo di maledire la città e di esporla così alla rovina (Livio 1, 6; Dionigi di Alicarnasso 1, 85-87).
Per popolare la sua città, si racconta, Romolo istituisce sulla rocca l’Asilo, luogo sacro e inviolabile: chiunque vi troverà protezione e cittadinanza. Giungono a Roma allora uomini da tante città, tutti più o meno in fuga. Debitori insolventi, ladri, omicidi: un insieme vario e di fama assai dubbia. Ma adesso daranno il meglio di sé, diventeranno cittadini esemplari. Così in breve tempo la città è popolata, ma questo non può bastare.
I nuovi arrivati infatti non hanno mogli né figlie con sé: Roma è una città di soli maschi. Dove trovare le spose? Senza figli tutto è destinato a finire. Come dare un futuro ai Romani? Sentito il senato, Romolo invia ambasciatori a tutti i popoli vicini per proporre nozze e alleanze, alla pari. Così va fatto, perché il matrimonio sancisce alleanze: attraverso il corpo delle donne e in quello dei figli, unisce due gruppi in un vincolo di sangue, li fa consanguinei. E poi le spose vanno prese sempre da “fuori”, da un gruppo diverso. Ma agli ambasciatori romani che chiedono un patto alla pari, da esseri umani a esseri umani, tutti rispondono un secco “no”. Qualcuno usa anzi parole sprezzanti. I Romani insomma vengono trattati quasi come animali, esclusi dalle regole civili e sociali. E questo non piace affatto né a Romolo né ai suoi. Si decide di passare all’azione. Vengono indetti giochi equestri solenni, per celebrare una festa in onore del dio Conso, dio dei consilia, le decisioni sagge e accorte. Tutti i popoli vicini sono invitati ad assistervi e accettano in tanti. In massa, quel giorno, giungono a Roma i Sabini, con le mogli, i figli e le figlie. Iniziano le corse dei cavalli e tutti siedono a gustarsi lo spettacolo, completamente rapiti, quando, d’un tratto, i giovani Romani si alzano e urlando si lanciano ad afferrare le ragazze sabine. È uno scompiglio, stupore e paura dilagano fra gli stranieri che non hanno il tempo di intervenire. Nella confusione generale le Sabine vengono portate via, nelle case dei cittadini. Queste ragazze – avranno pensato contenti i Romani – saranno mogli davvero perbene, sono state educate da padri sabini, dai severi costumi, di grande lealtà.
Si racconta che il rapimento sia avvenuto al grido “talassio talassio”, parola d’ordine stabilita dal re. Altri narrano che ad alcuni giovanotti che portano via una ragazza particolarmente avvenente tutti chiedono a chi sia destinata, e allora quelli corrono gridando “talassio talassio”, nome di un cittadino influente. Con questi episodi si vuole spiegare come mai, nel rituale nuziale, la sposa romana venga simbolicamente rapita e portata nella sua nuova casa al grido “talassio talassio”, parola col tempo divenuta oscura. A dire il vero qualcuno sostiene che quel grido rituale sia segno dell’arte del filare, visto che talassio era un antico nome del quasillum, il cesto usato per la lana. Le spose infatti vengono accompagnate nel corteo nuziale con la rocca, il fuso e la conocchia, simboli dell’arte della filatura, unica attività che ogni donna perbene svolge all’interno della casa. Ma questa è una voce isolata. I più preferiscono cercare l’origine del rituale nel giorno del rapimento delle Sabine. In effetti non è solo il grido “talassio talassio” a trovarvi una spiegazione: il fatto che le spose entrino nella nuova casa portate in braccio dagli invitati ricorderebbe come le Sabine siano state portate a forza nelle case dei Romani; oppure, l’uso di dividere i capelli della sposa con la punta di una lancia, l’hasta caelibaris, sarebbe memoria dell’ostilità guerriera che segnò il primo matrimonio. I gesti e l’atmosfera di quel lontano giorno così rivivono in ogni rito nuziale, e, viceversa, il rito offre gesti e atmosfera alla ricostruzione della memoria.
Quel lontano giorno, comunque, i padri sabini lasciano Roma pieni di rabbia. E le ragazze non sono meno indignate e avvilite. Narrano che Romolo si rechi da ciascuna a spiegare che la colpa di tutto è proprio dei loro padri, non dei Romani. I Romani hanno chiesto le spose secondo le regole, a non rispettare il diritto umano e divino, dice il re, non sono stati loro, ma gli altri. Quanto ai suoi uomini, Romolo impose di non toccare le ragazze rapite: prima si dovevano celebrare nozze legittime. E allora quelle straniere avrebbero avuto in comune, ciascuna con il proprio marito, i beni, i diritti della città e, soprattutto, i figli, il bene più grande. A quanto pare i mariti romani ce la misero tutta e in breve tempo riuscirono a tranquillizzare e addolcire gli animi delle giovani spose. E prima che fosse trascorso un anno nacquero molti bambini a garantire finalmente il futuro di Roma (Livio 1, 9 -10; Plutarco, Vita di Romolo, 14, 315).
Durante il regno di Numa Pompilio, il successore di Romolo, gli dèi vogliono dare a quel re, e a tutta Roma, la prova del loro favore. D’altra parte Numa ha imposto ai Romani la religio, anzi li ha resi il popolo più religioso del mondo. La città merita il contraccambio divino. Qualcuno racconta che Giove in persona ha annunciato al re il giorno e l’ora in cui gli darà la prova della sua protezione. Il re, a sua volta, lo annuncia ai suoi cittadini. Ma i Romani non lo prendono molto sul serio. E così, quella mattina, quando tutti si affollano intorno alla reggia per avere conferma dei propri dubbi, quello che invece accade lascia senza fiato. D’un tratto l’aria di Roma si riempie del fragore di un tuono. E poi di un altro, e di un altro ancora. E a ogni tuono un fulmine abbaglia l’intera città. La paura scende su quella folla, insieme a un profondo silenzio. Guardano tutti su in alto, gli occhi fissi nel cielo. E il cielo, all’improvviso, si apre.
Scende lentamente, oscillando, sostenuto da un vento leggero, o forse, chissà, da una mano invisibile e piena di grazia. Poi tocca terra. Il dono di Giove è lì, davanti agli occhi di tutti, uno scudo grande, di forma elicoidale, mai vista prima, e di straordinaria fattura. Numa Pompilio lo solleva da terra, lo chiama Ancile, forse, sostiene qualcuno, per la sua forma priva di angoli, o forse perché inciso da ogni parte. Quello, il re lo sa, sarà lo scudo di Roma, la sua protezione, il possessore avrà garantita la sovranità direttamente dal cielo.
L’Ancile va perciò custodito, nascosto, eppure deve restare in mezzo ai Romani, ne deve essere condiviso il possesso. Allora il re pensa che ci sia un solo modo per tutelarlo. Chiama tutti i fabbri di Roma e indice fra loro una gara. Chi realizzerà una copia esatta dell’Ancile riceverà il premio della vittoria. Ma i fabbri si sentono sopraffatti. Quello scudo non è di mano umana, non si può eguagliarlo. Qualcuno, a dire il vero, tenta, ma a metà del lavoro si dà per vinto. I più tenaci producono scudi simili, sì, ma certo non uguali all’Ancile. Sembra non ci sia nulla da fare. Senonché, dopo giorni e giorni di lavoro duro e segreto, un certo Veturio Mamurio si presenta a Numa. Porta con sé 11 copie perfette, tanto perfette che quando l’Ancile è mescolato con esse, lo stesso re non riesce più a distinguerlo, in nulla. Lo scudo di Giove è adesso nascosto eppure sotto gli occhi di tutti. Così, da quel momento, Roma ha, non uno, ma 12 ancili. Quanto al fabbro Mamurio, si narra, non vuole premi né ricompense in denaro. Chiede l’onore della memoria: il suo nome ripetuto nel canto intonato dai sacerdoti Salii quando, due volte l’anno, attraversano la città reggendo al braccio gli ancili, perché il dono di Giove stia in mezzo ai Romani, a trasmettere il suo grande potere a tutta Roma (Ovidio, Fasti, 3, 345-392; Plutarco, Vita di Numa, 13).
Il terzo re di Roma è Tullo Ostilio. Un re forte, che ama la guerra, molto diverso da Numa. Eppure gli stanno a cuore, in uguale misura, le regole, i patti, le procedure. Solo, preferisce pensare a quelli che regolino le relazioni fra gli esseri umani, ora che Roma ha quanto serve a garantire l’accordo con gli dèi. E così, quando si viene allo scontro con la città di Alba Longa, Tullo mette in azione, per la prima volta a quanto si narra, quel rituale che segnerà poi, per sempre, l’inizio di ogni guerra romana. Attraverso il pater patratus, investito dai sacerdoti feziali che incarnano la fides publica, prima di dare mano alle armi si stringe un patto. Romani e Albani concordano che a decidere l’esito della guerra sarà un solo scontro fra soldati scelti da una parte e dall’altra, il più possibile pari fra loro.
A sancire il patto, il pater patratus, a nome di tutti, mentre uccide un porco con una pietra, pronuncia il giuramento solenne in nome di Giove. Sono scelti allora i soldati, secondo gli accordi. Non ci sono dubbi: si tratta davvero di guerrieri alla pari. Per Roma combatteranno infatti i tre gemelli Orazi, per Alba i tre gemelli Curiazi. Ma Orazi e Curiazi fra loro sono anche cugini, figli di due sorelle, le Sicinie, a loro volta gemelle. A quanto si narra, le due donne hanno partorito lo stesso giorno, e in due sei gemelli. Evento straordinario, mai visto prima: le due famiglie, ma anche le due città, possono farsi vanto di tanta prosperità, di quel segno del favore divino.
I sei gemelli, gli Orazi e i Curazi, sono cresciuti davvero uniti. Qualcuno anzi narra che le Sicinie allattano insieme i bambini, l’una anche quelli dell’altra, a scambiarsi il ruolo di madre. D’altra parte a Roma la zia materna, la matertera, è quasi una seconda madre per i nipoti, li accudisce, li ama, li difende per l’intera vita, con amore materno. In genere, poi, fra cugini c’è una relazione particolare, fatta di affetto, di solidarietà, di fratellanza, tanto che fra loro si chiamano fratres, fratelli. È un intreccio importante nella grande rete di sangue che stringe la società dei Romani, dà compattezza, rende più forti. Orazi e Curiazi hanno davvero molti segni di fratellanza: non solo cugini, anche gemelli fra loro e figli di due sorelle gemelle. E adesso vengono trasformati in nemici dalle vicende delle loro città; tocca a ciascuno uccidere un proprio cugino-fratello. Raccontano che non si oppongono a quella scelta, che accettano il patto. Prima di venire alle armi, però, si abbracciano un’ultima volta. Poi è lo scontro. E gli Orazi pensano solo alla vittoria di Roma, i Curiazi a quella di Alba. Si vengono contro, tre contro tre, con l’impeto di un esercito intero. Intorno Romani e Albani trattengono il fiato. Lo scontro è incerto. I tre Curiazi sono feriti per primi, ma cadono presto due degli Orazi. Tre contro uno, per Roma le cose si mettono male. Publio, l’unico Orazio rimasto, è circondato, e allora con scatto improvviso comincia a correre come se voglia fuggire. In realtà, conta sul fatto che i tre nemici sono feriti, e lui no. Sa che quelli lo inseguiranno, e perderanno poco a poco le forze. Quando si volta e vede che i Curiazi corrono l’uno a distanza dell’altro, capisce che è il momento di agire. Inverte la sua corsa e affronta il primo nemico, quello a lui più vicino. Lo colpisce al braccio, glielo spezza, poi lo finisce sprofondandogli la spada nel petto. Raggiunge anche il secondo Curiazio e lo uccide. Adesso tocca al terzo, ormai davvero stremato. Tramandano che Publio Orazio abbia pronunciato queste parole: “Due nemici li ho offerti ai Mani dei miei fratelli, il terzo lo offro perché il popolo romano comandi su quello albano”. E conficca la spada nella gola del nemico. È la vittoria per Roma. A Publio Orazio vanno le ovazioni dei suoi. Ma a tutti quei coraggiosi soldati caduti sul campo, che hanno anteposto ciascuno il bene della loro città a quello della comune famiglia, va l’onore dovuto. Là dove ciascuno è caduto vengono eretti i sepolcri. Vicini, quelli dei due Orazi, distanti l’uno dall’altro quelli dei tre gemelli Curiazi (Livio 1, 24-25; Dionigi di Alicarnasso 3, 12-20).
La testa di Roma Sulla rocca di Roma si scava ormai senza sosta, in profondità, per gettare le fondamenta del grande tempio di Giove che Tarquinio Superbo ha voluto come segno di sé e del suo regno. Una mattina, all’improvviso, nella terra appare la testa di un essere umano. Ha i tratti del viso ancora intatti, dalla sua base sgorga sangue tiepido e fresco. L’orrore è generale.
Tarquinio Superbo fa fermare i lavori e ordina a tutti gli indovini di Roma di recarsi alla reggia. Nessuno di loro, però, sa spiegare quel perturbante prodigio. L’angoscia cresce. Si decide allora di interpellare indovini in Etruria, terra notoriamente di esperti. Là forse qualcuno capirà, spiegherà. Tarquinio invia un’ambasciata a Oleno Caleno, indovino fra i più rinomati, anzi, quello ritenuto il migliore. Partono dunque i messaggeri romani, in gran fretta. Giungono a destinazione e incontrano lì davanti un ragazzino, sembra uno di casa. Gli chiedono allora di vedere Oleno Caleno. “L’augure che abita qui è mio padre” risponde il ragazzo “ma adesso è molto occupato. Dite a me, forse vi posso aiutare. Sapete come funziona coi vaticini, bisogna usare molta attenzione, grande esattezza. Basta poco, si sbaglia nel formulare la richiesta, e tutto va storto”.
I Romani, per quanto esitanti, convengono che ha ragione. Non volendo rischiare errori gli raccontano tutto. Il ragazzo rimane un poco in silenzio, poi dice: “Mio padre è un grande indovino, vi risponderà. Ma voi dovete prestare molta attenzione. Ascoltatemi bene, seguite le mie indicazioni”.
E prende a descrivere nei dettagli le parole e i gesti del padre, e poi le risposte opportune dei messaggeri. “Se farete così” conclude “mio padre capirà che il destino non può mutare e vi spiegherà quel prodigio”. E dopo queste parole quel ragazzo va via, sembra in breve svanire nel nulla. In quell’istante si apre la porta di casa di Oleno Caleno e un tizio invita i messaggeri ad entrare. L’augure se ne sta seduto per terra, col capo velato, in silenzio. Allora i Romani raccontano di quella orribile testa. “Non ho capito niente” dice quello con voce impaziente. E con il suo lituo traccia per terra delle linee curve e poi delle rette. E mentre indica zone del suo disegno si rivolge ai Romani: “Questa è la rocca di Roma. Questa è la parte rivolta a Oriente, questa a Occidente, questa è la parte che guarda a settentrione e questa quella che guarda a meridione. Dove è stata trovata la testa?”
Le cose vanno esattamente come ha descritto il ragazzo, conviene seguirne le indicazioni. E allora un messaggero risponde: “Il prodigio è apparso sulla rocca di Roma in mezzo ai Romani”. Oleno Caleno ci riprova: “Qui, oppure qui?” e intanto col lituo indica punti precisi del suo disegno. “Il prodigio è apparso sulla rocca di Roma in mezzo ai Romani” ripete un secondo messaggero. L’augure allora insiste, con il solito gesto: “Qui? Oppure qui?”. E il terzo messaggero: “Il prodigio è apparso sulla rocca di Roma in mezzo ai Romani”. Non c’è niente da fare” pensa l’indovino “non riesco a strappare un solo ‘qui’, nella mia casa. Il destino, si vede, non può mutare”. E dà ai Romani la spiegazione richiesta: “Dite al vostro re che il luogo dove avete trovato la testa sarà la testa di tutta l’Italia”.
Non è poi così oscuro quel presagio divino. La testa, il caput, è considerata a Roma la parte più importante del corpo umano, posta in alto, al vertice delle altre membra. È la sede dei sensi e della ragione, rappresenta un individuo, gli dà identità. L’apparizione di quella testa indica chiaramente che la rocca è destinata a diventare la sede di un caput, della città più importante. Da allora, per via di questo prodigio, il colle di Roma, si narra, sarà chiamato Capitolium, dal tema capit- di caput. A dire il vero un’altra storia spiega un po’ diversamente il nome del colle. Raccontano che sulla rocca, ma ai tempi di Tarquinio Prisco, viene trovata la testa di un essere umano su cui, in lingua etrusca, sono incise le parole Caput Oli, testa di Olus. Olus, sembra, è uno di Vulci, ucciso da un servo, al quale la patria ha negato sepoltura. La si trova, non si sa come mai, sul colle di Roma che da lui prende il nome di Capitolium, “della testa di Olus”, il nostro Campidoglio. Comunque siano andate le cose, però, il Campidoglio sarà sempre considerato la “testa”, il vertice di Roma, a sottolineare la sua importanza religiosa e civile (Dionigi di Alicarnasso 4, 59; Livio 1, 55; Arnobio 6, 7).
Roma è stretta d’assedio da Porsenna, re etrusco forte e potente, chiamato in aiuto da Tarquinio Superbo che non si rassegna all’esilio. Il re ha già occupato il Gianicolo. Ha bloccato le navi che portano grano in città, lascia che i suoi saccheggino i campi romani. Dentro le mura una schiera di contadini e pastori ha cercato rifugio e affolla le strade. Su tutti la minaccia di fame grava più di quella delle armi nemiche.
Gaio Muzio Cordo, un giovanotto di grande coraggio, degno della stirpe da cui discende, decide di agire. Non tollera più di restare inerte a vedere la rovina di Roma, piegata non dalle armi ma dagli stenti. Si presenta ai senatori ed espone il suo piano. Vuole tentare l’impresa più audace, la più rischiosa: uscire dalla città, penetrare nell’accampamento nemico e uccidere il re etrusco Porsenna. Il senato dà il permesso, e avverte il giovane Muzio: “Se riuscirai nel tuo intento, gli Etruschi, lo sai, non ti lasceranno vivo, ma Roma, puoi esserne certo, darà gloria e onore al tuo nome.
Muzio Cordo esce dalla curia pieno di orgoglio e speranza. Lui, così giovane, adesso può liberare Roma, può darle salvezza. Già il giorno dopo è pronto all’impresa. Esce da Roma travestito da Etrusco, con addosso chitonisco e tebenna, le tipiche vesti di quella gente, e calza in testa il tutulus, uno strano berretto di stoffa ricamata. Sfrutta il fatto di aver avuto una nutrice etrusca che gli ha insegnato la lingua e si presenta all’accampamento nemico. Nessuno ha sospetti che uno vestito a quel modo non sia uno dei loro, nessuno nota, all’ingresso del campo, un accento straniero. E così Muzio si ritrova mescolato agli Etruschi. C’è una gran confusione, quel giorno, perché viene distribuita la paga ai soldati. Seguendo la folla, Muzio raggiunge uno spazio con una tribuna. Ci sarà il re – pensa in cuor suo. Sul seggio però non siede un solo uomo, ce ne sono due, entrambi abbigliati con foggia che sembra regale. Il Romano non può chiedere chi sia Porsenna, si tradirebbe. Può soltanto affidarsi alla sorte. Da sotto la veste, dove lo ha nascosto, estrae il pugnale e si avventa sull’uomo al quale si rivolgono i soldati nemici, quello che gli pare possa essere il re. La sorte però cade contraria e Muzio uccide lo scriba. Nella gran confusione che ne segue, tenta di fuggire, umiliato e avvilito per il suo errore. Cerca di farsi largo in mezzo alla folla, ma non gli riesce. Davanti a Porsenna, alle domande incalzanti del re, Muzio dice il suo nome, dichiara di essere cittadino romano. “Perché hai ucciso lo scriba?” chiede Porsenna “era lui che volevi davvero colpire? Parla o subirai atroci torture”.
E il giovane Muzio parla, con grande fierezza: “Non ho paura di morire come non l’avevo di ucciderti, Porsenna. Noi Romani sappiamo essere forti. Piuttosto preparati, sei tu che devi temere per la tua vita, non sono il solo a volerti colpire”.
Muzio tenta ancora la sorte. E questa volta le sue parole vanno a segno. Il re teme quella minaccia, sospetta che altri nemici si aggirino nell’accampamento. Quel Romano deve parlare, dire tutta la verità. Ordina di preparare il fuoco per la tortura. Con un balzo improvviso, però, Muzio raggiunge il braciere già acceso per un sacrificio, e senza esitare mette la sua mano destra sul fuoco. Da uomo libero, non da prigioniero, lui stesso punisce la mano che ha commesso l’errore. Porsenna rimane senza parole. Osserva il nemico, in fondo è poco più che un ragazzo, ne ammira la fermezza dell’espressione, lo sguardo fiero che continua a fissarlo mentre la sua carne brucia. “Basta, ti lascio andare, sei libero, ritorna a Roma” alla fine ordinò. Quel ragazzo, intanto pensa, merita rispetto. Uno così, se fosse un etrusco, avrebbe da lui grandi onori. Muzio Cordo immagina di tornare in città, sconfitto, umiliato, privato della gloria che voleva acquistare, mentre quel re avrebbe continuato ad affamare i Romani. Non poteva accettarlo. Allora prova a giocare d’astuzia. “Porsenna – esclama – in cambio della vita ti dirò quello che sotto tortura non avrei detto mai. Siamo in 300, tutti della stessa età, abbiamo giurato solennemente di ucciderti. E ciascuno ha giurato per la sua destra. Io sono stato il primo a tentare, ma dopo di me, uno per uno, verranno in tanti a cercarti. Senza paura. Finché qualcuno riuscirà a sferrare il colpo mortale. Tu non hai scampo”.
Porsenna, a queste parole, si sente raggelare. Ora capisce, almeno crede, il gesto di Muzio. Quel ragazzo ha lasciato bruciare la mano spergiura. A quel sacrificio sono pronti adesso centinaia di Romani. Così il giorno dopo propone per primo la pace al senato. E non per paura, si narra, ma per ammirazione del coraggio e della fides dei cittadini romani.
Gaio Muzio Cordo riceve l’onore cercato. La città gli dona anche un terreno pubblico al di là del Tevere, quello che sarà chiamato “Prati Muzi”. Da quel momento, poi, ha il soprannome di Scaevola, che vuol dire mancino, dalla parola scaeva, “sinistra”. In tal modo sarà per sempre ricordato il sacrificio della sua mano destra, quella che armata ha sbagliato e che bruciata ha dato la pace alla patria (Livio 2, 11-13).
I messi del senato lo trovano intento al lavoro dei campi, forse zappa, o forse spinge davanti a sé i buoi con l’aratro. Lucio Quinzio, soprannominato Cincinnatus, “riccioluto”, vive in una casupola ai piedi del colle Vaticano, sull’altra sponda del Tevere. Possiede un campo di appena quattro iugeri, più o meno un ettaro di terreno, e lo coltiva con le sue mani. Come tutti i migliori Romani, tratta i semi con la stessa cura riservata alla guerra e dispone il campo con la stessa attenzione usata per gli accampamenti militari. D’altra parte, i frutti della terra non possono che essere migliori se provengono da mani oneste. Il cultus agri, la coltivazione del campo, coincide infatti con il cultus animi, la “coltivazione” del proprio animo, della propria persona. Ai tempi di Cincinnato, del resto, l’elogio più grande che un Romano potesse ricevere è quello di saper coltivare la terra, e lui sa coltivarla davvero bene. Non è ricco, Lucio Quinzio, anzi, è segnato dalla paupertas. Eppure ha una grande dignitas, gode cioè di grande prestigio, di autorità, e ricopre le più alte cariche dello stato. Quella mattina, quando vede i messaggeri, interrompe il lavoro, risponde al loro saluto e aspetta. “Ti chiediamo di indossare la toga mentre ascolti il messaggio del senato di Roma” dicono quelli “perché sia un bene per te e per lo stato”.
Cincinnato non dice nulla, attende che la moglie Racilia gli porti la toga. Certo qualcosa di grave sta accadendo, pensa, se i messi gli fanno quella richiesta. La toga, infatti, segna il corpo pubblico e legalizzato dell’uomo romano. Si porta solo in tempo di pace, quando si esercitano diritti e doveri di cittadino, e senza di essa nessuno può compiere azioni formali ritenute valide ed efficaci. I messi del senato devono avere un messaggio davvero importante. Una volta indossata la toga Cincinnato ascolta. Il senato lo nomina dittatore, gli affida le sorti di Roma.
È accaduto infatti che il console Minucio, impegnato in una campagna militare contro gli Equi, è stato circondato dai nemici nel suo accampamento, insieme alla legione. La notizia ha provocato sgomento e paura. Un esercito consolare assediato, a rischio le insegne romane: la via verso Roma sembra spianata al nemico. Per condurre un’azione rapida, prudente ed efficace, l’uomo migliore, ha deciso il senato, è Lucio Quinzio, il Riccioluto. E adesso lui, mentre ascolta in silenzio i messaggeri, si sente già gravato da quel compito arduo e rischioso. Ma non perde tempo. Entra in città su una barca che il senato ha disposto. È accolto da una folla esultante, dai senatori al completo, dai figli, dagli amici, da cittadini in ansia per le sorti di Roma. Passa la notte a studiare la situazione, all’alba è già pronto a ordinare una leva speciale. E, come sperano tutti, la sua azione è rapida, prudente ed efficace. In poche ore riesce con il suo esercito ad accerchiare il nemico che ha circondato Minucio. Costringe gli Equi, gente notoriamente infida e sprezzante, a supplicare di aver salva la vita in cambio della resa, con una sola battaglia. Impone loro di passare sotto il giogo, uno per uno umiliati. Porta a Roma, in catene, i loro capi a sfilare durante il trionfo che il senato, senza esitare, accorda. Ed è uno straordinario trionfo fra la festa di tutti i Romani. Dopo appena 16 giorni il dittatore depone la carica. Adesso che ha fatto il suo dovere è tempo di tornare alla vita privata.
Lucio Quinzio Cincinnato, questa volta da solo, si avvia allora verso il ponte di Roma, a piedi lo supera, costeggia il fiume e raggiunge il suo campo. Si toglie la toga, la consegna a Racilia, e senza perdere tempo si mette all’aratro per spingere i buoi. Tutto, del resto, promette un ricco raccolto. (Livio 3, 26-29; Plinio, Nat. Hist., 18, 4-5).