Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A fronte dell’unità determinata dall’adesione al cristianesimo, la filosofia etica medievale del mondo latino manifesta tendenze diverse. Esistono correnti rigoriste propense ad accentuare il tema del ritorno a Dio e tendenze che valorizzano maggiormente le capacità dell’uomo e la sua presenza nel mondo. Vi sono inoltre contrasti per quanto riguarda la conciliabilità tra l’etica aristotelica e quella cristiana e il rapporto tra le facoltà coinvolte nei processi decisionali (intelletto e volontà).
Bonaventura da Bagnoregio
Come dal concorso della forza di due uomini deriva la capacità di portare un grosso masso, che non potrebbe essere portato da uno solo dei due; come dal concorso del padre e della madre dipende in una famiglia il governo della casa, cui non basta l’autorità soltanto dell’uomo o dell’altra; e come dal concorso della virtù della mano e dell’occhio deriva la capacità di scrivere, per la quale non basterebbe una sola di queste due virtù: così dal concorso della ragione e della volontà deriva la libertà, ossia il potere di deliberare e di compiere un certo atto.
F. Corvino, Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Bari, Dedalo, 1980
Boezio di Dacia
La felicità è l’attività più nobile e migliore e come tale proviene dalla virtù più alta come dimostra Aristotele nel primo libri dell’Etica (I, 7, 1098a15-17); ora, come dice il Filosofo nel libro VI dell’Etica (VI, 7, 1141a18), la sapienza è la virtù migliore e più nobile. Quindi, la felicità consiste nell’attività di quella parte dell’anima nella quale la sapienza si trova come nel suo soggetto, come è chiaro ed evidente a tutti coloro che fanno uso dell’intelligenza.
in F. Bottin, Ricerca della felicità e piaceri dell’intelletto, Firenze, Nardini, 1989
Tommaso d’Aquino
La felicità è contemplazione
Somma contro i Gentili, Cap. XXXVII
Se dunque l’ultima felicità dell’uomo non consiste nei beni esteriori, denominati beni di fortuna; e neppure del corpo, o nei beni dell’anima rispetto alla parte sensitiva, o negli atti delle virtù morali rispetto a quella intellettiva; e neppure negli atti intellettivi relativi all’operare, ossia nell’esercizio dell’arte e della prudenza, rimane che l’ultima felicità dell’uomo consiste nella contemplazione della verità […] l’ultima felicità dell’uomo deve consistere nella contemplazione della sapienza circa le verità divine.
T. d’Aquino, Somma contro i Gentili, trad it. a cura di T. S. Centi, Torino, Utet, 1978
L’Occidente latino medievale abbraccia i principi del cristianesimo e della sua etica. All’interno di questo quadro comune si individuano, tuttavia, delle differenze fortissime che traggono origine dall’accentuazione di elementi diversi del cristianesimo, dal contatto con nuove fonti (Aristotele in primis), dagli sviluppi della spiritualità. Le differenze tra le varie concezioni etiche ruotano attorno ad alcuni interrogativi di fondo: quale possa e debba essere l’impegno dell’uomo in questo mondo, quanto l’uomo sia in grado di compiere il bene con le proprie forze o quanto necessiti della grazia divina, quale sia facoltà motrice delle scelte umane. Un secondo aspetto importante dell’etica medievale riguarda l’etica in quanto disciplina. Da un lato, infatti, la stretta connessione con la dottrina cristiana fa sì che i temi etici siano inclusi o trattati in un contesto teologico. Dall’altro, la lettura dell’Etica Nicomachea di Aristotele stabilisce un campo di indagine con una sua indipendenza, almeno per molti autori. Perciò l’etica acquista un’autonomia come disciplina, testimoniata dalla lettura dell’Etica aristotelica alla Facoltà delle Arti dell’università.
Dal punto di vista dello sviluppo del pensiero etico, la riscoperta dell’ Etica nicomachea di Aristotele costituisce un evento fondamentale. L’opera, tradotta a più riprese tra il XII e il XIII secolo, diventa disponibile pienamente alla metà del XIII secolo con la traduzione di Roberto Grossatesta e la revisione di Guglielmo di Moerbeke.
La lettura dell’Etica Nicomachea pone al lettore medievale molti interrogativi. Da un lato egli trova un’impostazione eudemonistica consonante con la dottrina cristiana: anche per Aristotele il fine dell’uomo è la felicità. Aristotele tuttavia si riferisce alla realtà terrena dell’uomo e non al suo destino dopo la morte; inoltre la felicità di cui parla Aristotele coincide con l’attività di ricerca del filosofo. È perciò evidente che sotto uno strato di compatibilità si delineavano distanze profondissime. Scendendo sul terreno dei singoli valori, le differenze si moltiplicano. Gli aspetti ascetici ed eroici della morale cristiana contrastano con la morale del giusto mezzo; l’esaltazione della povertà da parte dei Francescani entra in conflitto con la valorizzazione delle risorse che permettono di vivere bene fatta da Aristotele; anche l’umiltà, virtù chiave soprattutto nel mondo monastico, è estranea alla riflessione aristotelica.
Insieme a una prospettiva etica divergente da quella cristiana, la lettura di Aristotele insegna la possibilità stessa di definire dei campi di studio autonomi rispetto all’insegnamento tradizionale. Un teologo di chiara fama come Alberto Magno non ha dubbi che sia legittimo uno studio puramente filosofico di tanti temi seguendo l’insegnamento aristotelico. Le conseguenze di questa prospettiva non si fanno attendere. Lo stesso spirito di autonomia che spinge i maestri delle Arti a formulare ipotesi ardite in relazione alla mortalità dell’anima e all’eternità del mondo, porta all’elaborazione di un’etica filosofica.
In particolare Boezio di Dacia, nel De summo bono, tratteggia una prospettiva etica filosofica. Egli parte dal presupposto che la felicità consiste nella realizzazione della propria natura. Ciò significa, nel caso di quell’animale razionale che è l’uomo, che la felicità deve coincidere con la piena esplicazione delle facoltà intellettuali: la felicità coinciderà allora con l’attività del filosofo e con la ricerca intellettuale. Si tratta di quella che, con una felice formula, Maria Corti ha chiamato la “felicità mentale”. Tale tesi lascia sul terreno alcuni interrogativi. Innanzitutto ci si può chiedere come si concili con l’etica cristiana che è rivolta al destino ultraterreno dell’uomo. Per i sostenitori dell’etica filosofica, però, non vi è una contraddizione: la felicità mentale non esaurisce la vita etica dell’uomo, ma si riferisce solo alle possibilità in questa vita. Un secondo problema riguarda la portata elitaria di questa dottrina, che sembra riferirsi ai soli intellettuali. In linea teorica, la felicità mentale è accessibile a ogni uomo, in quanto creatura razionale, e non solo agli intellettuali di professione, ma di fatto i contadini, gli artigiani, i semplices, impegnati in una vita di fatiche e lontani dalla ricerca filosofica, sono esclusi da questa felicità.
Le tesi aristoteliche non sfuggono alla censura del vescovo di Parigi Étienne Tempier del 1277. Con queste condanne viene perciò colpita sia l’autonomia dell’etica sia l’idea di un’etica slegata dai contenuti più tradizionali. La condanna riguarda le proposizioni che affermano che la felicità appartiene a questo mondo, che in essa Dio non aveva alcun ruolo, che tutto il bene dell’uomo risiede nelle virtù intellettuali. Essa è insomma un severo richiamo all’etica tradizionale, una negazione del primato della vita contemplativa su quella attiva e delle tendenze elitarie dell’aristotelismo.
Un’altra tesi che risulta inaccettabile riguarda la passività della volontà rispetto all’intelletto, ossia l’idea che la volontà sia necessitata dall’intelletto. Questo tema non ha a che fare direttamente con i contenuti dell’etica normativa, ma con il rapporto tra le facoltà dell’anima e in estrema sintesi può porsi in questi termini: le scelte che compiamo sono il frutto di un atto dell’intelletto che dice alla volontà che cosa volere o sono un atto della sola volontà che sceglie indipendentemente dai suggerimenti dell’intelletto? La condanna della passività della volontà colpisce ancora una volta le tendenze aristoteliche che mettono l’accento sul ruolo dell’intelletto dell’uomo e aprono la strada a una riflessione ad ampio raggio sulla volontà.
Per comprendere quanto la prospettiva aristotelica risulti inaccettabile per molti teologi, si consideri la posizione di Bonaventura da Bagnoregio, teologo di Parigi e generale dell’ordine dei Francescani, sostenitore di un’opposizione all’aristotelismo. Egli è convinto che la filosofia e i suoi insegnamenti debbano cadere sotto il precetto agostiniano dell’uti: devono essere usati e devono essere considerati strumenti o tappe all’interno di un percorso di ritorno a Dio. L’etica di Bonaventura aderisce perciò ai contenuti tradizionali e non ha una formulazione autonoma come dottrina dei comportamenti.
A suo avviso, è un errore fermarsi come fanno i filosofi allo studio delle virtù per se stesse: le virtù cardinali (temperanza, saggezza, fortezza e giustizia) sono i mezzi per orientarsi verso quel fine che è la beatitudine. Fedele alla tradizione agostiniana, Bonaventura si esprime anche in merito al dibattito sulle facoltà dell’anima. Egli non nega un ruolo della ragione nelle scelte dell’uomo, ma anche se il libero arbitrio inizia con la ragione, si compie però nella volontà. La salvezza che deve essere il fine del comportamento umano si ottiene grazie alla volontà e non all’intelletto. In questo modo Bonaventura esprime la sua autorevole opinione su un problema che divideva i filosofi tra razionalisti, propensi a dare peso più all’intelletto nei processi decisionali dell’uomo e nel libero arbitrio, e volontaristi, che invece accordavano una maggior preferenza alla volontà. Questo problema costituisce uno degli elementi di maggior dibattito tra Duecento e Trecento.
Accanto alla prospettiva più tradizionale di Bonaventura e a quella radicale dei maestri delle Arti vi sono posizioni che cercano un equilibrio, come quella di Tommaso d’Aquino. Lo scopo di Tommaso è quello di riprendere in un contesto dottrinale cristiano i temi aristotelici. Ne deriva una dottrina eudemonistica nella quale egli stabilisce un accordo tra il ruolo della ragione e quello della volontà (e quindi tra le tendenze aristoteliche e i tradizionali contenuti agostiniani). Tommaso afferma che gli uomini, come tutte le creature, agiscono in vista di un fine, ossia del loro bene. Il loro comportamento è libero e volto a raggiungere la beatitudine, che l’uomo trova in Dio grazie a una operatio dell’intellectus. La volontà “può essere la sede o del desiderium o del gaudium circa il fine ultimo, quindi non è essa a renderlo presente” (Italo Sciuto, L’Etica nel Medioevo. Protagonisti e percorsi. V-XIV secolo , 2007). Il rapporto tra la volontà e l’intelletto risulta complesso: l’intelletto muove la volontà in quanto le presenta l’oggetto da volere e quando l’oggetto è buono sotto ogni aspetto, cioè Dio, la volontà non può non volerlo. La sua visio è possibile però solo nella vita futura. In questa vita non resta che compiere gli atti necessari per poterla raggiungere. Si apre così lo spazio per la trattazione delle singole virtù. Tommaso mantiene perciò il tema aristotelico del primato dell’intelletto, ma cerca di non depotenziare il ruolo della volontà e di restare nel cerchio della dottrina cristiana.
L’accentuazione della volontà e delle sue capacità di scelta si presenta con forza in Duns Scoto, Guglielmo di Ockham e per certi versi in Giovanni Buridano. Duns Scoto è un deciso sostenitore del primato della volontà. Egli sottolinea come la volontà sia pienamente padrona di se stessa e come sia libera di attenersi o meno alle indicazioni dell’intelletto. Inoltre essa non è nemmeno vincolata al desiderio del sommo bene, che può rifiutare. Scoto chiarisce i comportamenti della volontà distinguendo tra una volontà naturale (una sorta di tendenza verso i beni necessari) e una volontà libera, che può entrare in contrasto con la prima ed è la volontà vera e propria. Guglielmo di Ockham è ancora più radicale. Non solo la volontà può disobbedire ai suggerimenti dell’intelletto, ma può persino autosospendersi. Proseguendo sulla linea di Scoto, egli ammette l’esistenza di principi morali e mette in luce tutta l’importanza della prudenza per un comportamento corretto, ma evidenzia anche la piena libertà della volontà rispetto a tali principi.
Ockham accentua in questo modo il valore dell’atto di volontà di amore per Dio, che non ha in sé nulla di necessario e può non essere compiuto. L’etica di questi autori si distingue notevolmente da quella di Tommaso perché fa uso della ragione per mostrare la piena libertà della volontà e l’assenza di vincoli nella decisioni nonché negare ogni forma di necessità. Descrive un uomo più libero, ma soprattutto identifica la sede della libertà nella volontà, a differenza di Tommaso e degli aristotelici che la individuavano nella interazione tra l’intelletto e la volontà o nel solo intelletto. Anche Buridano, commentando l’Etica nicomachea, asserisce che la volontà non è necessitata dall’intelletto e possiede una capacità di scelta autonoma, ma riequilibra queste tesi sottolineando che la volontà non è indifferente a ciò che l’intelletto le mostra: non può rifiutare ciò che le viene presentato come buono sotto ogni punto di vista, sebbene possa astenersi dal volerlo.
In piena età scolastica si presenta un’altra etica che riprende temi della tradizione monastica e vuole offrire una strada per il reditus a Dio. Espressa in forme diverse, dall’esempio delle beghine e delle mistiche (come Chiara d’Assisi e Angela da Foligno) alle opere di Margherita Porrete e Meister Eckhart, si profila un’etica dell’annichilamento della volontà come strada per il ritorno a Dio. L’elemento comune di queste diverse esperienze è il tema della volontà, che si svuota di contenuti, di scelte, che rinuncia a se stessa e si pone in attesa del contatto con Dio. Questa etica comporta una svalutazione delle opere e un rapporto personale tra creatura e Creatore, tutti fattori che furono causa del sospetto, quando non delle condanne, da parte della Chiesa.