Le etiche antiche tra bene, virtu e felicita
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dietro le profonde diversità che animano le teorie etiche antiche, è possibile rintracciare un filo conduttore in comune: tutte condividono un approccio eudaimonistico, che consiste nel sostenere che il perseguimento di una condotta morale sia compatibile con il raggiungimento della felicità propriamente intesa, e che anzi ne sia propriamente l’ingrediente fondamentale.
Concentrandosi sulla dimensione teorica, ovvero sulla riflessione critica e sulla fondazione dell’etica, piuttosto che sui contenuti normativi in senso stretto, il presente capitolo seguirà un leitmotiv eudaimonistico attraverso tutto il pensiero etico antico, a partire ovviamente da Socrate, vero iniziatore dell’analisi critica dei concetti morali. Socrate, infatti, ancora più della sofistica del V secolo a.C., ponendo per primo la domanda sulla vera natura del bene, apre la strada alla riflessione metaetica sui concetti morali e alla messa in discussione dei valori tradizionalmente trasmessi. Con Platone, invece, la morale guadagna sia una forte fondazione metafisica (la teoria delle idee), sia un chiaro e complessivo orientamento politico. La riflessione teorica in Platone è sempre indirizzata al miglioramento etico individuale e collettivo, ma questo non è possibile senza un forte inquadramento metafisico che rimane una costante in tutto il pensiero platonico. Con Aristotele, invece, l’etica acquisisce autonomia disciplinare e metodologica, essendo una forma di sapere strutturalmente legata alla pratica umana e all’incertezza del mondo sociale. Per secoli teorico della virtù come giusto mezzo tra due opposti passionali, Aristotele ha contribuito alla storia dell’etica anche attraverso altre innovazioni, quali la riflessione sull’autonomia dell’etica (e della politica) dalle discipline teoriche e produttive, la teoria della debolezza del volere, e la teoria della deliberazione pratica. Con le etiche cosiddette ellenistiche, invece, la riflessione teorica si indirizza ancora più marcatamente verso la produzione di un sapere e di pratiche utili per il raggiungimento della vera felicità individuale. Lo stoicismo persegue l’obiettivo eudaimonistico cercando di liberare l’uomo dalle passioni, per renderlo concentrato solo su ciò che conta: l’autonomia individuale e la libertà del saggio. Pur negando il libero arbitrio, il saggio stoico liberamente accetta il destino e l’ordine cosmico, ponendo fine al dominio delle passioni. L’epicureismo, invece, sostiene che il perseguimento della felicità si ottiene in due mosse: da un lato, ci si deve liberare delle false paure e angosce (dèi, dolore, morte, incertezza del piacere), dall’altro si devono perseguire quei piaceri che non generano insoddisfazione.
Il recente interesse nei confronti dell’etica antica è sorto dall’idea secondo cui vi sia un’irriducibile frattura tra le etiche antiche e le etiche contemporanee. Questa prospettiva sostiene che, ancora prima di distinguersi dal punto di vista normativo, le etiche antiche e quelle moderne si differenzino proprio sull’oggetto fondamentale di indagine: da un lato il valore dell’agente morale secondo le etiche antiche, dall’altro il valore dell’azione secondo le etiche moderne. Nel primo caso l’analisi etica si occupa prioritariamente del modo con cui un individuo viene educato, del suo sistema di motivazioni, delle sue abitudini, del suo carattere. Nel secondo caso, invece, l’analisi etica si concentra sulla correttezza morale di ciò che l’individuo produce nel mondo in maniera prima facie impersonale, ovvero indipendentemente dal tipo di persona che produce un’azione. La conseguenza normativa primaria di questa visione è che le etiche antiche sono nel loro insieme delle teorie eudaimonistiche, poiché mirano a mostrare all’individuo il modo di trovare una realizzazione personale che faccia coincidere felicità e giustezza morale. Le teorie etiche moderne invece sviluppano sistemi di diritti e doveri interpersonali. La tendenza metodologica all’impersonalità delle etiche moderne comporta anche che esse propongano teorie che mirano all’applicazione universale, mentre le etiche antiche, pur mantenendo un intento universalistico nella giustificazione, spesso riconoscono che l’essere applicate dipende da una serie precisa di precondizioni, quali per esempio la buona disposizione individuale e il ricevere una buona educazione. Sebbene questa dicotomia, come tutte le distinzioni idealtipiche, vada ammorbidita in vari aspetti, essa mantiene una sua validità primaria.
Prima di iniziare la trattazione, è necessario precisare come il concetto di teoria etica verrà inteso. Per teoria etica non si intenderà semplicemente un sistema di valori, bensì la discussione critica di un sistema di valori o il tentativo di trovare una giustificazione razionale a un sistema di valori. Di conseguenza in questa trattazione la cosiddetta etica omerica dell’età arcaica non sarà presa in considerazione, pur essendo chiaramente un sistema di valori di natura agonale e competitiva mirante alla realizzazione dell’eccellenza umana in ambito politico e militare. Essa è infatti mancante della dimensione propriamente teorica e razionale. Un discorso a parte andrebbe fatto per altri filosofi appartenenti ai cosiddetti presocratici. Se nella filosofia eleatica la dimensione etica è pressoché assente, la scuola pitagorica aveva sicuramente sviluppato un insieme di norme di comportamento piuttosto codificato. Ma tali norme più che rappresentare un ideale etico a sé stante costituivano un insieme di pratiche rituali interne alla scuola e funzionali al processo iniziatico.
L’analisi della dimensione umana nasce con la sofistica e Socrate. Le molteplici posizioni interne alla sofistica hanno in comune l’idea di un uso libero e critico delle tecniche di discussione, anche se le posizioni normative di gran parte dei sofisti sono state probabilmente molto più omogenee con la realtà culturale dell’epoca di quanto sembri a prima vista. Dal socratico Antistene, invece, ha origine un radicalismo critico in cui una tradizione storiografica già antica vorrebbe rintracciare l’origine del movimento cinico. Quest’ultimo, tuttavia, tende a uscire, per quanto possiamo indurre dalle poche testimonianze pervenute, dalla elaborazione teorica in senso proprio per giungere a una pratica di vita autarchica e alla provocazione teorica fine a se stessa.
Oltre al metodo la sofistica ha avuto in comune il tema dell’opposizione tra natura (physis) e legge (nomos). Rompendo l’identificazione tradizionale che vede nelle norme sociali il riflesso di un ordine iscritto nelle cose stesse, i sofisti – assieme ad altri personaggi come Erodoto – hanno mostrato alla cultura greca la relatività dei costumi e la positività delle leggi.
L’espressione forse più compiuta del movimento sofistico trova il suo rappresentante in Protagora, il cui relativismo gnoselogico radicale è combinato in ambito politico con una tesi sulla condivisione da parte di tutti gli uomini di un minimo senso di giustizia e pudore. In questo quadro i giudizi di valore, così come quelli di natura conoscitiva, sono sì relativi a ogni individuo, ma non hanno tutti la stessa utilità sociale. Pragmatista ante litteram Protagora disgiunge il criterio di oggettività gnoseologica (la validità generale dei predicati conoscitivi) dalla validità sociale, il cui criterio si fonda sulla capacità di certi giudizi o di certe azioni di dare conseguenze migliori (cioè più benefiche per la collettività) di altre.
Nel grande rinnovamento culturale del V secolo a.C., Socrate presenta due grandi originalità: da un lato l’impiego della tecnica dialogica di messa in discussione delle certezze tradizionali per andare alla ricerca della vera natura di una cosa (ti esti, che cos’è il bene, o il coraggio?); dall’altro la tesi fondamentale dell’etica socratica consiste nel famoso intellettualismo, ovvero nell’idea che “nessuno fa il male volontariamente”. Questa tesi metaetica sulla natura del rapporto tra conoscenza, motivazione e azione sostiene che la scorrettezza morale si basi su un errore conoscitivo, poiché se una persona conoscesse veramente qual è il proprio bene agirebbe di conseguenza. Questa idea, che sembra sottovalutare la possibile debolezza del volere (il tema aristotelico dell’akrasia), ha invece il pregio di mostrare che l’errore morale, che può sembrare dipendere in prima istanza da problemi pratici, dopo un’attenta analisi, può rivelarsi causato da un’insufficiente conoscenza di ciò in cui consiste il vero bene in una determinata situazione. Da ciò si può ragionevolmente assumere che Socrate sostenesse una sorta di intuizionismo metaetico, ben più ampiamente sviluppato da Platone, rintracciabile nell’idea secondo cui le proprietà morali fondamentali non sono riducibili a proprietà naturali o a loro esemplificazioni. Dal punto di vista propriamente normativo, invece, la specificità socratica è più incerta, visto che consiste in una prescrizione di prendersi cura dell’anima rispetto ai beni del corpo, per concentrasi sulla purezza e indipendenza dell’anima. Questa tesi, affermata in dialoghi platonici sicuramente socratici come l’Apologia e il Critone, è però anche una tesi platonica, e ha origine nella tradizione orfica che credeva nell’immortalità e nella reincarnazione dell’anima come sistema di valutazione e retribuzione del comportamento avuto in una vita.
Il punto fondamentale su cui Platone si dissocia da Socrate risiede nella constatazione che la strategia socratica di rieducazione individuale è destinata al fallimento di fronte all’ingiustizia diffusa rappresentata dalla polis democratica. Platone non rinnega l’importanza dell’attività psicagogica e maieutica di conduzione delle anime individuali predisposte al vero bene, ma ritiene che il miglioramento morale individuale non possa alla fin fine essere disgiunto da un radicale processo di cambiamento collettivo. Anche dal punto di vista della caratterizzazione dell’anima Platone si differenzia da Socrate nel concepire l’anima come essenzialmente divisa in tre parti tra loro spesso conflittuali. L’anima per il Platone maturo della Repubblica (e del Fedro) consta di tre parti: razionale, animosa e desiderativa, a cui corrispondono tre gruppi sociali definiti dalla prevalenza di una parte dell’anima in ciascun membro (filosofi-governanti, guerrieri-difensori, produttori-commercianti). A partire dalla struttura dell’anima è necessario operare un cambiamento completo della struttura sociale che assegni ad ogni tipo di individuo il ruolo giusto nella società in base al principio fondamentale secondo cui la giustizia è “fare le cose proprie” (oikeiopragia), ovvero agire socialmente in base alla propria predisposizione naturale dell’anima. In questo modo il controllo delle passioni dirompenti dei beni materiali (rischio della parte desiderativa) e delle passioni sociali conflittuali come l’ambizione competitiva (rischio dei difensori) è possibile solo all’interno di una struttura collettiva in cui governa la parte razionale e ogni parte dell’anima e tipo umano sono incardinati in un sistema e ricevono un’educazione corrispondente. Al di là delle accuse di collettivismo e di illiberalismo, dal punto di vista strettamente etico, quella della Repubblica è un’etica propriamente antica ovvero eudaimonistica. Il punto di partenza è il tentativo di dimostrare che l’egoismo radicale e la negazione della giustizia non portano l’individuo alla vera felicità. Platone cerca di dimostrare che l’ingiustizia non paga innanzitutto per colui che la commette poiché, divenendo preda dei desideri più distruttivi dell’anima, questi lo condannano a una vita schiava di beni apparenti: nel Gorgia si mostra che la vita dedita al piacere e all’eccesso è insaziabile come un vaso bucato e conduce all’infelicità.
Nonostante accetti l’assunto fondamentale socratico, ovvero che il vivere in maniera giusta sia una questione di conoscenza, Platone opera una doppia riformulazione sia dal lato della natura dell’anima sia dal lato della conoscenza. L’intellettualismo socratico infatti viene superato attraverso l’idea che non basti mostrare all’anima individuale il vero bene, essendo necessaria un’educazione complessiva e un inserimento dell’individuo in un sistema collettivo riformato. L’indagine conoscitiva, partita dal ti esti socratico, trova in Platone una ben più ampia fondazione nella teoria delle idee, enti ideali immutabili oggetto di conoscenza e modelli di azione giusta. L’anima, nell’ambito di una struttura metafisica dualistica costituita dagli enti ideali e dalle copie empiriche, si situa come intermediario tra l’ideale e l’empirico. La condanna dell’anima consiste nell’essere legata a un corpo che la può corrompere, mentre la sua possibile salvezza nell’essere capace sotto opportune condizioni di distaccarsi o per lo meno di controllare la spinta alla dimensione empirica e corporea. Tale struttura metafisica trova il suo apice nell’idea di Bene (o di Buono), una sorta di meta-idea oggetto di possibile conoscenza intuitiva non riducibile ad altre idee.
Benché il pensiero platonico non costituisca un vero e proprio sistema, in ogni dialogo le diverse dimensioni (metafisica, metodologica, etica, e politica) sono saldamente intrecciate. Rispetto a Platone, Aristotele, ancora prima dei contenuti, rivoluziona la macro-struttura del sapere filosofico e costruisce un sistema diviso in diversi ambiti, aventi una propria autonomia dipendente dalla natura dell’oggetto in questione. Se quindi Platone fa dipendere “verticalmente” l’etica dalla metafisica, Aristotele è il maestro delle distinzioni tra ambiti differenti. Ciò comporta che l’etica vada inquadrata come un campo di sapere autonomo, strettamente legato alla pratica e alla cultura collettiva, e avente uno statuto metodologico proprio. L’etica al pari della politica si occupa infatti di un sapere del possibile (non del necessario) riguardante le cose umane che hanno un fine in se stesso (a differenza delle tecniche), ovvero azioni aventi a che fare con la dimensione dei valori. L’etica, tuttavia, condivide con gli altri campi del sapere (e della corrispondente natura del reale) una struttura orientata finalisticamente. In generale l’approccio teleologico aristotelico significa che per comprendere ogni cosa si deve considerare quale sia il fine verso cui tende (ad esempio il fine di un seme è di compiersi nella pianta). Nell’etica il fine (telos) proprio è la ricerca della felicità (come eudaimonia) che caratterizza naturalmente tutti gli esseri umani. La felicità non va intesa come uno stato di soddisfazione emotivo, bensì come una condizione generale di compiutezza della vita che realizza gli aspetti più propri dell’essere umano: la vita secondo virtù e ragione. Aristotele sottolinea la naturalità della tendenza al compimento, ma questa naturalità non deve essere vista come una necessità cieca, bensì come una potenzialità preordinata che si realizza solo se si danno alcune condizioni. Così come il seme non diventa pianta se non cresce in un luogo adatto e con il nutrimento necessario, analogamente l’uomo non realizza in senso proprio le potenzialità eudaimonistiche se non riceve un’educazione alla virtù, se non è una persona libera capace di prendersi cura degli affari politici della città, e se non cresce in un ambiente sociale virtuoso. Se l’etica platonica è un’etica in linea di principio “a priori”, nel senso che il contenuto normativo e la fondazione dipendono da un insieme di principi indipendenti dalle pratiche umane a cui il singolo deve conformarsi, l’etica aristotelica è invece “a posteriori”, ovvero un processo strutturalmente legato al carattere individuale, alle abitudini e scelte di un individuo. Ciò non significa, tuttavia, che non sia oggettiva, visto che Aristotele lega lo sviluppo individuale e sociale ad un piano di naturalità preordinata.
Il modo con cui un individuo può sviluppare appieno il proprio fine naturale dipende dalle condizioni concrete, e in particolare dalla crescita in un ambiente sociale che fornisce un modello normativo in vivo. L’educazione morale di un individuo è lo stesso processo di socializzazione, in cui i modelli normativi sono forniti dagli individui ritenuti virtuosi (spoudaioi) dalla stessa comunità di appartenenza. L’individuo può così apprendere uno schema di vita virtuosa solo attraverso lo sviluppo di abitudini virtuose, fino a farle diventare pratiche usuali del carattere individuale. Aristotele in generale accetta il significato tradizionale di virtù che, ancora prima di essere un valore morale, indica l’espressione dell’eccellenza in un determinato campo, e distingue due tipi di virtù: quelle etiche e quelle dianoetiche. Le virtù etiche sono quelle del carattere, ovvero relative alla sfera emotiva e non razionale dell’anima individuale, per le quali vale il principio del “giusto mezzo” tra due eccessi passionali sbagliati, ad esempio il coraggio come giusto mezzo tra codardia e temerarietà. Lo sviluppo delle virtù etiche si realizza nell’educazione concreta individuale e non è di per sé guidato dalla ragione. Aristotele è chiaramente un anti intellettualista etico (non socratico) visto che la parte razionale dell’anima non è direttamente capace di motivare all’azione. È solo la parte irrazionale-appetitiva (orexis) che può fornire una motivazione ed è per questo che l’educazione etica deve consistere in un’introiezione di abitudini al comportamento virtuoso. La parte razionale, invece, si esprime attraverso le virtù dianoetiche, che ci interessano rispetto alla vita etica in particolare per la capacità di individuare i mezzi efficaci per realizzare azioni giuste (phronesis). Affinché vi sia un’azione virtuosa, infatti, non basta che vi sia una buona disposizione del carattere o una corretta intenzione. Secondo Aristotele, infatti, solo l’azione compiuta è propriamente buona, e per compiersi, la volizione (boulesis), determinata dalla parte non razionale dell’anima, ha bisogno della parte razionale per deliberare (proairesis) sul corso d’azione e sugli strumenti più appropriati per perseguirla.
Fin qui Aristotele elabora una teoria etica che è profondamente votata alla vita pratica e sociale, ma nell’ultima parte dell’Etica Nicomachea, Aristotele sostiene che il fine più alto e che caratterizza più propriamente l’uomo si situa nella vita teoretica, ovvero nello studio filosofico sganciato dalla vita pratica. Quale sia in definitiva la posizione aristotelica è difficile da stabilire, si potrebbe pensare che però le due opzioni non siano in competizione, non in quanto compatibili in una singola vita, ma in quanto possibili modi degni di realizzare le virtù propriamente umane: lo sviluppo della razionalità e delle virtù sociali.
Lo stoicismo è forse l’unico caso antico di scuola i cui contributi più rilevanti sono stati elaborati da molti autori attraverso molti secoli: dalla prima metà del III secolo a.C con Zenone, Cleante e Crisippo sino alla piena età imperiale romana con Epitteto e Marco Aurelio Antonino. Lo scopo fondamentale dell’etica stoica è la liberazione dalle passioni. Il perseguimento di questo fine viene attuato dagli stoici attraverso una rigorosa strategia cognitiva che considera le passioni un errore conoscitivo dell’anima. Le passioni, infatti, sono delle affezioni dell’anima dovute all’incapacità di determinare la vera natura della rappresentazione esterna: ad esempio, credendo che il bene sia il piacere e che il male sia il dolore. L’anima infatti è un principio cognitivo e direttivo unico che può concedere o negare l’assenso alla validità di una determinata rappresentazione. Se, invece, le passioni dipendessero da una parte irrazionale dell’anima stessa (come per Platone e Aristotele), sarebbero per loro natura non estirpabili e l’ideale di liberazione dalle passioni sarebbe impossibile.
Solo ciò che riguarda il rapporto dell’anima con se stessa deve essere ritenuto degno di considerazione, tutte le altre cose, dalle vicende alterne della sorte ai beni esteriori, devono essere considerate cose indifferenti (adiaphora) e quindi non dovrebbero causare turbamento all’anima. Ciò non significa che tutte le azioni che ricadono nell’ambito dell’indifferente non vadano fatte, semplicemente non devono avere rilevanza morale ed esistenziale, e nei confronti di esse il vero saggio stoico deve assumere di volta in volta una maschera che gli permetta di agire convenientemente dal punto di vista sociale senza un effettivo coinvolgimento interiore. Il risultato di questa terapia delle passioni è l’isolamento della sfera propria dell’individuo dalle apparenze e dall’esterno al fine però di aderire al destino di ciascuno. Gli stoici, infatti, sostengono che la vera libertà individuale può consistere solo nell’adesione volontaria al destino prestabilito. Negando il libero arbitrio, la libertà individuale non può consistere nel volere altrimenti, quanto nel volere liberamente e senza turbamenti dell’anima ciò che è già prestabilito.
La morale stoica, in maniera ancora più radicale di altre scuole antiche, non prospetta un “contenuto” normativo proprio da perseguire, poiché la bontà dell’azione non ha carattere intrinseco, bensì dipende dalla condizione interiore dell’agente. La figura del puro saggio in una condizione di assenza di passioni (apatheia) costituisce un ideale irrealizzabile, ma fornisce la chiave per mostrare come la virtù (in quanto autonomia interiore) sia la condizione necessaria e sufficiente per il raggiungimento della felicità. Questo ideale di saggio non poteva che creare uno iato incolmabile rispetto alla condizione comune degli uomini, e sebbene sia rimasto indiscusso in tutta la storia dello stoicismo classico, attraverso Panezio e poi Marco Tullio Cicerone, è stato ammorbidito ammettendo che tra la virtù piena (irraggiungibile) e il vizio (consistente nella condizione passionale comune) dovessero esistere azioni convenienti (kathekonta), che tendono a coincidere con i doveri socialmente prescritti.
L’epicureismo – nato e sviluppatosi con Epicuro – è l’unica teoria esplicitamente edonistica, ovvero che intende l’eudaimonia come piacere. Quest’ultimo, tuttavia, a differenza della sua interpretazione moderna, è inteso come assenza di dolore. In misura forse maggiore di altre scuole antiche l’epicureismo si propone come un insegnamento terapeutico essenzialmente negativo, ovvero come una strategia di liberazione da tutte quelle ansie e paure che rendono la vita umana quotidianamente angosciosa. Il cosiddetto “quadruplice rimedio” (tetrapharmakon) intende fornire giuste concezioni degli dèi (non devono essere temuti perché non si occupano degli uomini), della morte (visto che l’anima si dissolve dopo la morte, questa non deve far paura perché una volta morto l’individuo non percepisce più dolore), del piacere (che non è difficile da raggiungere), e del dolore (che è una sensazione temporanea che avrà fine), per lasciare spazio alla soddisfazione dei piaceri più naturali, cioè quelli che non generano ansia, in quanto facilmente perseguibili, e infelicità, in quanto aventi una misura in se stessi. Epicuro distingue tre tipi di piaceri: naturali e necessari, naturali e non necessari, non naturali e non necessari. I primi, i soli intrinsecamente buoni, consistono nella soddisfazione delle esigenze primarie fisiologiche, i terzi nelle illusioni sociali, come la ricchezza o la gloria, e sono i soli a dover essere sradicati, i secondi invece, avendo una base naturale non vanno combattuti di per sé ma devono essere accettati nella loro naturalità e semplicità (un cibo gustoso è più buono del semplice pane ma rischia di generare bisogni più complessi e crescenti, quindi insoddisfazione). L’epicureismo si risolve, in sostanza, in una forma di dietetica dell’essenziale dal momento che l’aspetto positivo del piacere si riduce a un ristabilimento del naturale equilibrio corporeo (un riempimento del bisogno naturale come mancanza), mentre l’aspetto negativo consiste nella condizione di assenza del dolore.
Successivamente agli sviluppi del pensiero stoico ed epicureo la filosofia greca non registra significative nuove teorie etiche. Certamente numerosi sistemi e scuole di pensiero hanno affollato il mondo tardo ellenistico e successivamente romano, ma in generale l’elaborazione di teorie specificamente etiche è rimasta appannaggio prevalentemente dello stoicismo. In quanto segue si farà una breve menzione degli elementi etici di altre due grandi scuole: lo scetticismo e il neoplatonismo.
Lo scetticismo, nato con Pirrone nella sua prima formulazione non è esente da una dimensione etica che però viene ridotta a conseguenza esistenziale dell’atteggiamento di sospensione di ogni certezza conoscitiva. Dal lato pratico lo scettico non si esimerà dal vivere o agire analogamente agli altri individui, senza però concedere più di un assenso debole anche a quanto gli può sembrare naturalmente buono. Questo distacco cognitivo ed esistenziale che è frutto della sospensione di ogni certezza (epoché) precipita il pensiero scettico in una forma di elaborazione antiteorica dal punto di vista etico. Impegnato a smontare certezze altrui e dogmatismi cognitivi ed etici l’approccio teorico dello scettico si esprime in un modus essenzialmente negativo. Il risultato di questo atteggiamento ha dei chiari risvolti etici, che sorgono tuttavia come prodotto esistenziale di una preoccupazione prevalentemente epistemologica.
Per quanto riguarda il neoplatonismo, nato con Plotino, l’elemento etico e pratico, sebbene teorizzato, viene confinato in un livello intermedio di virtù inferiore rispetto alla virtù contemplativa. Fine dell’anima umana è l’assimilazione a dio che idealmente comporterebbe una pura cura interiore dell’anima a discapito delle azioni esteriori. In maniera opposta rispetto all’atteggiamento antiteorico dello scettico, nel neoplatonismo l’etica è sì teorizzata ma al fine di deprezzarne il valore a favore di pratiche mistiche.