Le eredita/3: i montiniani
Nella storiografia si parla spesso del ‘montinismo’ e dei ‘montiniani’ ma senza dare a questi termini una precisa determinazione1. Esistono molte biografie di Giovanni Battista Montini-Paolo VI (1897-1978), ma pochi studi sull’eredità lasciata da questo uomo di Chiesa. Più che di una corrente di pensiero nel senso vero e proprio, sarebbe più giusto definire il montinismo come una sensibilità comune a un certo numero di intellettuali cattolici, caratterizzata da un larga apertura alla modernità e alle sue sfide e finalizzata alla realizzazione di una nuova sintesi cristiana nel campo intellettuale, culturale e politico. Più che un partito organizzato e strutturato in seno della Chiesa preconciliare, i montiniani hanno rappresentato una nebulosa di gruppi, di cenacoli, di pubblicazioni che si riconoscevano nell’azione del prelato bresciano e guardavano a lui come a colui che avrebbe potuto incarnare la speranza di un rinnovamento cattolico. Se il montinismo (come del resto il ‘maritainismo’ con il quale viene spesso associato) è stato sempre fonte di polemiche e di controversie, esso corrisponde ad una stagione ben delimitata della storia del cattolicesimo italiano del Novecento, che va dalla fine degli anni Venti alla fine degli anni Settanta e ciò corrisponde grosso modo alla vita ecclesiale di Giovanni Battista Montini. Misurare il peso dell’eredità montiniana nell’Italia del Novecento significa quindi ripercorrere le tappe principali della carriera del futuro Paolo VI: gli anni della Fuci (1925-1933) come momento fondatore del montinismo; gli anni della Segreteria di Stato (1933-1954) come periodo di maturazione del progetto montiniano e di crescita di un ‘partito’ montiniano all’interno della Chiesa italiana; gli anni dell’episcopato milanese (1955-1963) come laboratorio di esperienze pastorali e pratiche; gli anni del pontificato (1963-1978) come luogo di attuazione ma anche di ridefinizione del montinismo e di ricomposizione dei montiniani.
Nell’ottobre del 1925, Giovanni Battista Montini, allora assistente del circolo universitario cattolico romano, e Igino Righetti, vicepresidente dello stesso circolo, venivano nominati rispettivamente assistente ecclesiastico generale e presidente della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci). L’importanza storica di questo momento per la Chiesa e il movimento cattolico italiano non va sottovalutata. L’arrivo del sacerdote bresciano al vertice dell’organizzazione contribuì a dare a quest’ultima un’identità propria all’interno dell’Azione cattolica e portò
«alla nascita, sempre più matura e consapevole (anche se rivelatasi a pieno titolo solo dopo la seconda guerra mondiale) di una componente nuova del movimento cattolico italiano, con propria matrice culturale autonoma, indipendente dall’intransigentismo, dal cattolicesimo liberale e da quello democratico sturziano»2.
Le circostanze della nomina sono note. Essa manifestava la volontà della Santa Sede di riprendere in mano un’associazione che si era lasciata andare a delle iniziative giudicate intempestive sul terreno politico. I nuovi dirigenti nominati vennero percepiti «come dei “commissari” chiamati a sorvegliarli, come gli “uomini del Vaticano”»3. Pur non avendo nessun tipo di simpatia per il nuovo regime, Giovanni Battista Montini poteva capire bene questo atteggiamento di riserbo che il Vaticano voleva imporre agli universitari cattolici. Il disegno perseguito da Luigi Sturzo e i suoi amici di una presenza attiva e autonoma dei cattolici nella vita politica italiana continuava ad apparirgli «inadeguato» in assenza di accordo tra la Chiesa e lo Stato: «non è forse l’irrazionale posizione di questa discorde concordia tra l’Italia surta a Stato e il Papato, che vieta per necessità di cose che la divisa cattolica, o popolare, possa dominare efficacemente, durevolmente la vita italiana?» scriveva da Varsavia al padre Giorgio dopo le dimissioni del leader del Partito popolare italiano4. La vera battaglia da condurre non era di ordine politico, ma si poneva sul piano superiore dell’intelligenza e della cultura. Il fascismo non era che la manifestazione, certo deplorevole, ma contingente e passeggera di un male più radicale di cui le radici andavano ricercate nel progressivo allontanamento della cultura moderna da Dio. Bisognava in qualche modo reinventare «una cultura cattolica viva e moderna», cioè ristabilire l’unità tra la fede e la cultura. Il compito dell’assistente ecclesiastico era essenzialmente quello di un educatore:
«Gli Assistenti devono ben seguire la formazione del pensiero dei propri amici ed allievi, perché è uno dei principi fondamentali del nostro programma tendere all’unità spirituale del giovane: non scompartimenti separati nell’anima, cultura da una parte, e fede dell’altra; scuola da un lato, chiesa dell’altro. La dottrina, come la vita, è unica»5.
Come ha scritto Vittorio Peri, il nuovo assistente ecclesiastico della Fuci si trovò impegnato «ad inventare una pastorale nuova, quella della cultura, in un frangente storico e politico doppiamente difficile per i cattolici italiani»6. Per capire bene le origini di questo disegno montiniano, bisogna ritornare ai primi scritti del giovane ecclesiastico bresciano. Montini ha voluto in qualche modo far uscire la cultura cattolica dall’impasse dell’antimodernismo attraverso la ricerca di una «apologetica nuova».
Nato a Concesio (Brescia) il 26 settembre 1897 in una famiglia della buona borghesia cattolica, Giovanni Battista Montini era troppo giovane per aver vissuto la crisi modernista. Quando nel 1916 cominciò a frequentare da esterno il seminario di Brescia, la bufera del modernismo si era placata, ma il clima di sospetti generato dalla condanna pronunciata da papa Pio X con l’enciclica Pascendi (1907) rimaneva pesante. La sua condizione di seminarista esterno, che gli era stata concessa in modo eccezionale dal vescovo per ragioni di salute e che gli permise di continuare a vivere in famiglia mentre seguiva i corsi del seminario, incise non poco sulla sua formazione intellettuale e spirituale. Oltre ad approfittare delle relazioni sociali del padre, che gli diedero l’occasione di incontrare alcuni personaggi coinvolti nella crisi modernista (come padre Giovanni Semeria e il vescovo di Cremona monsignor Geremia Bonomelli), Giovanni Battista poté organizzare in modo relativamente autonomo il suo tempo libero. «In quest’ottica non c’è da stupirsi che, fin dagli anni della sua formazione al sacerdozio, il giovane acquisisse uno spirito duttile e aperto»7. Due ambienti bresciani assiduamente frequentati dal seminarista contribuirono in modo decisivo alla sua formazione: l’Associazione studentesca Alessandro Manzoni e l’Oratorio della pace dei Padri filippini.
Fondata nel 1909, l’Associazione Alessandro Manzoni aveva per scopo di raccogliere giovani sia liceali sia universitari in vista di dare loro una formazione sulla base dei principi del cristianesimo. Giovanni Battista cominciò a frequentare questo ambiente, insieme al fratello Lodovico, a partire dall’anno scolastico 1911-1912. Fu l’occasione di rafforzare e di coltivare alcune relazioni importanti, come quella con Andrea Trebeschi, il suo grande amico e corrispondente degli anni giovanili. Nel giugno del 1918 essi diedero vita ad un giornale intitolato «La Fionda», diretto da Trebeschi e al quale Giovanni Battista collaborò con fervore, «stendendo note e recensioni che ben riflettevano la sua sensibilità religiosa e la sua volontà di azione sociale»8. In un articolo, pubblicato il 5 marzo 1919, egli rifletteva sulla «crisi spirituale» del dopoguerra9. Con grande lucidità analizzava le radici del profondo malessere esistenziale della nuova generazione. La crisi spirituale, che egli individuava, era innanzitutto una crisi dell’intelligenza metafisica nel suo apporto con la verità. Mentre ieri tutti si riconoscevano in «un sistema di dottrine, di principii, di teorie» trionfanti e indiscusse, oggi tutto sembrava destinato a cambiare sempre. «L’uomo oggi giura su convinzioni che domani rinnegherà, deprecherà». Il pensiero cristiano, rimasto «intatto da secoli», non poteva più rispondere a questo bisogno di certezze poiché rimaneva inaccessibile all’uomo contemporaneo: «si direbbe che un tal pensiero abbia dovuto irrigidirsi, come una mummia egizia, chiudersi in formule che non i popoli, non le plebi conoscano e maneggino, ma solo pochi sapienti devoti ad arcaiche tradizioni»10. Un altro testo, pubblicato tre anni più tardi in opuscolo dalle edizioni «La Fionda», ci aiuta a capire meglio il pensiero di colui che nel frattempo era divenuto sacerdote e si era trasferito a Roma. La lunga recensione dedicata al volume di padre Giulio Bevilacqua intitolato La luce nelle tenebre (1921) costituisce uno degli scritti giovanili più importanti di Montini11.
Nato nel 1881, di origine veronese, Giulio Bevilacqua era uno di questi padri filippini che i fratelli Montini avevano conosciuto da quando avevano cominciato a frequentare l’Oratorio della pace di Brescia. Uomo aperto, aveva studiato Scienze sociali a Lovanio alla scuola del cardinale Mercier e aveva aderito con entusiasmo al movimento di rinnovamento liturgico sorto nelle grandi abbazie belghe (Mont-César, Maredsous). Religioso patriota, aveva combattuto come ufficiale alpino sul fronte di guerra prima di essere fatto prigioniero. Nel 1921 diede alle stampe un libro che raccoglieva i testi delle sue conversazioni spirituali con i compagni di prigionia. Leggendo il libro di padre Bevilacqua, Giovanni Battista Montini ritrovava la grande preoccupazione dell’uomo moderno, con le sue angosce e i suoi dubbi. «L’uomo moderno è innanzi tutto un uomo senza filosofia». Incapace di accedere alla verità con la sua ragione, in preda al dubbio universale dalla rivoluzione cartesiana, «come può essere messo a contatto col sublime del Vangelo»? si chiedeva l’autore. La prospettiva doveva essere rovesciata: solo partendo dal Vangelo e condotta da esso l’intelligenza umana avrebbe potuto ritrovare la via della verità perduta. «Un giorno era il contrario: la metafisica conduceva al Vangelo; dopo un catecumenato di studi filosofici l’uomo apriva le pagine divine; ora l’uomo singhiozzando sulle pagine divine, ancora luminose fra tante tenebre, ritorna con confidenza a ragionare di verità speculativa»12. L’esigenza di una «apologetica nuova» si faceva chiaramente sentire: «Un’antica e forse un po’ vecchia scuola d’apologia cristiana poi non ha compreso come colla stabilità teologica possa conciliarsi un’agilità apologetica, e si riveste perciò della severa espressione teologica sterilizzata, sì, resa sterile, coi migliori metodi scolastici, per agire anime fuggenti di giovani, perdendo in efficacia ciò cha ha consumato nello sforzo di rendersi perfetta e verbalmente sicura»13. Appena arrivato a Roma per proseguire i suoi studi di teologia, il giovane Montini non riusciva a nascondere la sua delusione di fronte alla neoscolastica che veniva insegnata nei seminari romani. Quello che gli mancava era proprio «il senso delle altezze», non era più capace di parlare all’anima «di Dio, dell’infinito, della fede, del mistero, del Messia». L’autore non esitava a contrapporre «i grandi pensatori scolastici», per cui la proiezione concettuale «non era che un metodo riassuntivo, esclusivamente fatto per fermare i dati dell’intelligenza», «ai non sommi» per cui «invece questa pianificazione era divenuta indivisibile e sostanziale al sistema scolastico»14. La teologia, essenzialmente mistica, era degenerata in scienza positiva. Il rigetto del tomismo ottuso dei suoi professori romani, sotto l’influenza di padre Bevilacqua, lo metteva in conddizione di accogliere con entusiasmo il tomismo «aperto» e «moderno» di padre Mariano Cordovani o.p. (1881-1950) e di Jacques Maritain (1882-1973).
L’incontro di Montini con il teologo domenicano Cordovani doveva rivelarsi determinante. Ricordando quell’incontro «a Roma, subito dopo l’altra guerra», egli scriveva: «Lo ricordo pure alla Minerva dove tante persone andavano a Lui. E io pure ho ancora nella mente una conversazione fatta camminando su e giù per la sacristia della Minerva – e ricordo le sue parole, così paterne e così dolci, che furono per me in gran parte programmatiche»15. Padre Cordovani era stato un maestro per i giovani della sua generazione perché aveva saputo raccogliere l’eredità di Leone XIII, il quale aveva invitato, di fronte all’impasse del pensiero moderno, a ritornare a «questo faro di luce che si chiama filosofia scolastica». In questo senso, egli era stato «discepolo e imitatore del suo maestro: San Tommaso» che non aveva rifiutato il confronto con i sistemi di pensiero non cristiani del suo tempo. Nato nel 1883 da un’umile famiglia di Serravalle Casentinese, Cordovani era entrato giovane nell’Ordine domenicano e aveva acquistato subito una grande autorità intellettuale. Chiamato da padre Gemelli ad insegnare Teologia dogmatica all’Università cattolica del Sacro Cuore, aveva stabilito, dall’inizio del suo apostolato, un rapporto di grande vicinanza spirituale e intellettuale con le organizzazioni giovanili dell’Azione cattolica. Parlando al Congresso nazionale della Fuci nell’agosto del 1923, Cordovani non aveva esitato a denunciare la «radicale inconciliabilità» del «sistema filosofico» di Giovanni Gentile con il cattolicesimo. Il testo della sua conferenza sarà ripreso nel volume Cattolicismo e Idealismo (Milano, 1928) accolto molto positivamente da Montini sulla rivista «Studium». Il suo valore, scriveva, stava proprio nel fatto di dimostrare «la versatile capacità del tomismo a misurarsi con le principali questioni attualissime»16. Con gli scritti di padre Cordovani tutta «l’attualità di S. Tommaso d’Aquino» veniva rivelata al neo-assistente ecclesiastico nazionale della Fuci. La scoperta di questo tomismo «dinamico e vivo» sembrava rendere possibile «la visione di una definitiva conciliazione tra una cultura religiosa rinnovata e la modernità»17.
L’Italia, però, all’inizio degli anni Venti aveva cessato di essere il cuore della rinascita tomistica quale era stata durante l’Ottocento. Il centro di gravità degli studi tomistici si era spostato, già prima della guerra, in Francia e in altre aree francofone (Friburgo, Lovanio). L’influenza della cultura cattolica francese nella formazione intellettuale del giovane Montini fu preponderante. Jacques Prévotat ha sottolineato «l’écrasante proportion des livres français, parmi les ouvrages étrangers représentés» nella biblioteca del futuro pontefice18. In casa Montini la vita spirituale era tutt’improntata agli insegnamenti di s. Francesco di Sales «venerato come un maestro»19. La famiglia era abbonata alla prestigiosa «Revue des deux mondes». Nel 1921 don Battista raccomandava all’amico Andrea Trebeschi la lettura di un’altra rivista francese, la «Revue des jeunes», che simbolizzava la rinascita del cattolicesimo francese dopo la guerra. Il soggiorno parigino dell’estate 1924 fu comunque determinante. «Parigi, dopo un primo momento di delusione, non mi sembra inferiore alla sua fama» scriveva ai genitori il 9 agosto 192420. Il tomismo di Maritain era allora una filosofia che andava di moda nei salotti letterari della capitale. La casa del filosofo a Meudon era divenuta luogo importante della vita intellettuale del cattolicesimo transalpino. Non sembra che il sacerdote bresciano abbia incontrato il professore dell’Institut catholique, i cui scritti non gli erano sconosciuti. Da Varsavia, dove si trovava l’anno prima, Montini aveva chiesto ai suoi genitori di spedirgli una lista di libri, fra i quali compariva L’Introduction à la philosophie di Maritain21. Altri testi di Maritain, come Art et Scolastique (Paris, 1920) o Antimoderne (Paris, 1922), erano stati letti con grande entusiasmo. È tuttavia un altro il volume del pensatore francese che doveva attirare la sua attenzione: Trois Réformateurs: Luther, Descartes, Rousseau, pubblicato da Plon nel 1925 come primo titolo di una nuova collana, Le Roseau d’Or. Tre anni più tardi il libro usciva in traduzione italiana per conto di una nuova casa editrice cattolica, la Morcelliana di Brescia, con una prefazione del suo traduttore Giovanni Battista Montini datata Epifania 1928.
«Due ordini di considerazioni mi hanno suggerito il modestissimo compito di traduzione del presente volume per agevolarne più facile e più larga lettura anche in Italia, dove libro e Autore sono già conosciuti; e cioè: l’opportunità del contenuto e l’opportunità della forma con cui il libro è scritto. La prima sembra a me vantaggiosa all’educazione spirituale giovanile, l’altra all’educazione filosofica dei cattolici, non esclusi gli ecclesiastici»22.
La considerazione circa «l’opportunità del contenuto» era legata alle sue responsabilità come assistente ecclesiastico nazionale della Fuci. Ben accolto dai suoi superiori romani che ne avevano raccomandato la lettura dalla sua uscita in Francia, il libro era ritenuto utile all’educazione dei giovani universitari cattolici perché, «nelle persone dei suoi più qualificati fautori, rintracciava le origini del soggettivismo contemporaneo, in cui si vuole dai più ravvisare quel peculiare carattere che costituisce la modernità del pensiero». La considerazione circa «l’opportunità della forma» gli era in qualche modo più personale. L’autore non nascondeva il suo entusiasmo per un libro dall’impronta «purissimamente tomistica» che rendeva alla filosofia dell’Aquinate tutta la sua fecondità «nel campo del pensiero e dell’arte». Ciò che ammira Montini del tomismo di Maritain è la capacità di aprire nuovi orizzonti al pensiero cattolico seguendo «l’antico e sicuro sentiero della sapienza cristiana». Altri testi del filosofo francese saranno pubblicati negli anni successivi sul nuovo quindicinale della Federazione «Azione fucina». Ma Maritain non fu l’unico autore straniero ad essere tradotto in quegli anni. Questo tentativo di sprovincializzare la cultura cattolica era un’altra caratteristica della Fuci montiniana.
Non era casuale che l’opera di Maritain fosse apparsa nella collana Il pensiero cattolico moderno della Morcelliana23. La famiglia Montini era stata intimamente associata alla nascita della casa editrice bresciana nell’aprile del 1925. La Tipografia Editrice Morcelliana si era costituita per iniziativa di un gruppo di giovani amici di don Battista, con l’appoggio di suo padre Giorgio, direttore del giornale «Il Cittadino di Brescia», nell’intento d’incentivare una serie di pubblicazioni nel campo della cultura religiosa. Ricevendo i dirigenti e i collaboratori della Morcelliana nel giugno del 1964, Paolo VI, ricordando i vincoli personali che lo legavano alla casa editrice dalla sua fondazione, evocherà il contesto di crisi in cui era nata: «la cultura cattolica, dopo la crisi modernista e dopo lo sconvolgimento spirituale prodotto dalla prima guerra mondiale, aveva enorme bisogno di rifornimento proprio e di collegamento con la produzione libraria più significativa dei Paesi vicini»24. La necessità di «immettere correnti d’aria fresca nell’atmosfera nostra» portò alla pubblicazione di opere di autori francesi ma anche inglesi e soprattutto tedeschi25. Il grande tessitore di questi rapporti con la Germania era un fucino bresciano, Mario Bendiscioli (1903-1998), che si adoperò per far conoscere in Italia il movimento di rinnovamento culturale del cattolicesimo tedesco26. La Morcelliana pubblicò, non senza difficoltà con l’autorità romana, i grandi nomi della teologia cattolica tedesca degli anni Venti: Karl Adam27 e Romano Guardini28 per citarne alcuni. Negli anni Trenta, grazie allo stesso Bendiscioli e con il sostegno deciso di Montini, si preoccupò di predisporre documentazione e denunce critiche contro il nazionalsocialismo e le persecuzioni subite dalle Chiesa (Kirchenkampf)29.
L’influenza del cattolicesimo tedesco si fece sentire soprattutto nel campo della liturgia. La traduzione del volume di Romano Guardini, Lo spirito della liturgia (1930), era stata facilitata dall’intervento di Montini presso l’abate di Maria Laach, Ildefons Herwegen30. Lo stesso Montini era convinto del valore pedagogico della liturgia come «metodo di educazione integrale», come «metodo di cui si serve la Chiesa per ricordare, insegnare, riprodurre i misteri di Cristo»31. La sensibilità liturgica di Montini era maturata nella sua Brescia natale sotto l’influenza di padre Bevilacqua ma anche grazie all’incontro con i benedettini francesi, esiliati a Chiari nel 1910 in seguito alle leggi contro le congregazioni religiose. Le sue visite alle grandi abbazie europee (Solesmes, Einsiedeln, Maredsous, Mont-César, Beuron, Maria-Laach, Hautecombe) durante i viaggi estivi non aveva fatto che rafforzare l’ammirazione per l’essenzialità e la sobrietà della liturgia benedettina. Vanno sottolineate anche alcune letture importanti, come gli scritti dell’abate Emanuele Caronti, uno dei promotori del rinnovamento liturgico in Italia, oppure l’opera dell’abate svizzero Maurice Zundel intitolata Le poème de la sainte liturgie (1926) che egli fece tradurre in italiano. La promozione dell’educazione liturgica dei giovani fu una delle preoccupazioni costanti dell’assistente ecclesiastico della Fuci. Come ha scritto Massimo Marcocchi, «per Montini, la liturgia, fondata su una realtà oggettiva, rappresentava anche un rimedio alla malattia moderna dell’individualismo e del soggettivismo e costituiva altresì il modo per affermare una visione di Chiesa come realtà sacramentale e comunitaria»32. L’accusa di «liturgismo», cioè quella di privilegiare l’educazione liturgica a scapito delle devozioni tradizionali (Rosario, Via Crucis, Sacro Cuore, ecc.), che gli venne rivolta dai suoi superiori non fu estranea alla decisione di consegnare le sue dimissioni da assistente ecclesiastico della Fuci nel febbraio del 1933. Tra i principali oppositori del prelato bresciano troviamo i Gesuiti, che non vedevano di buon occhio il suo successo presso i giovani universitari che faceva ombra alle loro congregazioni mariane. Nonostante gli elogi di circostanza, «si trattò di un licenziamento vero e proprio», scrive ancora Marcocchi, che lasciò Montini molto amareggiato: «Sono pieno di amarezza, ma affatto privo di rimorso qualsiasi, se non forse quello di aver fatto meno del dovuto» scriveva ai genitori in data 19 febbraio 193333. Il timore di un rinascere delle violenze fasciste «contro l’Azione cattolica, quasi derivazione di sorpassata democrazia», richiedeva anche un assistente più ‘morbido’ nei confronti del regime dopo la crisi del 1931.
Il rapporto con il fascismo costituisce «uno dei temi centrali della biografia montiniana»34. Non si può capire l’azione di Montini come assistente ecclesiastico della Fuci senza tener conto di questo sfondo politico rappresentato dall’esistenza di un regime fondamentalmente ostile al cristianesimo e ai suoi valori ma che nello stesso tempo stava per ridare alla Chiesa una posizione privilegiata nella società italiana. Per le sue origini familiari, don Battista apparteneva ad un ambiente piuttosto prevenuto contro la seduzione delle camicie nere. Il padre Giorgio era stato tra i fondatori del Partito popolare italiano di Luigi Sturzo nel 1919, prima di essere eletto deputato e sostenere una linea di resistenza al fascismo dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924. L’atteggiamento fortemente critico di Montini nei confronti del nuovo regime era anche dovuto all’influenza di religiosi come Bevilacqua e Cordovani. Pur essendo totalmente ostile al nazionalismo fascista sul piano dei principi, egli aderiva alla linea vaticana del disimpegno politico dell’Azione cattolica. La scelta montiniana di rompere con l’attivismo militante della tradizione fucina e di mettere l’accento sulla formazione culturale dei giovani, secondo Renato Moro, non era «priva di valenze politiche». La strategia di autonomia e di indipendenza (‘a-fascista’) impressa da Righetti e Montini alla Fuci mirava infatti alla formazione di una nuova élite cattolica in grado di ricostruire una società basata sui principi del cristianesimo dopo la caduta del regime fascista. Completamente estraneo alla mentalità clerico-fascista di tanti ecclesiastici del suo tempo, egli accolse con una certa freddezza la firma dei Patti Lateranensi nel febbraio 1929:
«Giornate fredde queste, anche per l’entusiasmo che si attendeva al grande avvenimento: il popolo, ormai lontano dalla cosa pubblica, – ciò che non è tutto male – ed avvezzo ormai a rimaner indifferente nell’anima allo strepito artificiale dei giornali – ciò ch’è peggio, non per l’indifferenza, ma per l’artificio forzato ed inane – osserva senza molti commenti e tira via»35.
La linea montiniana dell’impegno culturale venne sempre più fortemente contestata all’interno della Fuci dopo la conciliazione. In un articolo pubblicato su «Azione fucina» alla vigilia del congresso di Trieste del settembre 1930 dedicato al tema Il compito attuale dei cattolici nella cultura, il sacerdote bresciano aveva ribadito la sua convinzione che la nuova situazione religiosa dell’Italia creava le premesse per una rinnovata azione dei cattolici nel campo della cultura in dialogo con il mondo moderno36. Per padre Gemelli, non si trattava invece di «armonizzare» la dottrina cattolica con il pensiero moderno per dare la dimostrazione «che noi siamo moderni». Il suo disegno di «riconquista» cristiana della società passava attraverso l’esaltazione della «missione civilizzatrice dell’Italia» e della sua «grandezza religiosa» nella fedeltà integrale alla tradizione cattolica37. La divergenza di vedute tra i due contribuì non poco ad isolare la Fuci nel mondo cattolico e ad indebolirla di fronte alle pretese del regime di voler controllare l’educazione della gioventù. La crisi del 1931 tra il fascismo e l’Azione cattolica che portò allo scioglimento dei circoli della Gioventù cattolica e della Fuci sembrò confermare le inquietudini di Montini circa le funeste conseguenze della Conciliazione. Ha sperato allora in un’eventuale denuncia del Concordato da parte della Santa Sede? Il compromesso finalmente raggiunto con il governo nel settembre 1931 fu «le commencement d’une période de substantielle et volontaire incompatibilité»38.
I biografi di Montini hanno poco insistito finora sul lungo periodo alla Segreteria di Stato durante il quale Giovanni Battista Montini è stato uno dei più stretti collaboratori di Pio XI e di Pio XII. Entrato al servizio della Santa Sede all’inizio degli anni Venti, Montini fu nominato minutante nel 1925 prima di essere promosso sostituto nel dicembre del 1937 grazie al sostegno deciso dell’allora cardinale Pacelli. La mancanza della documentazione vaticana, almeno per il pontificato pacelliano, non consente allo storico di ricostruire in modo dettagliato l’azione del prelato bresciano durante questo periodo. Diversi studi hanno tuttavia messo in evidenza l’esistenza di una tendenza, se non, come scrive Agostino Giovagnoli, di un ‘partito montiniano’ nella Chiesa italiana sotto Pio XII, che fungeva da contrappeso al cosiddetto ‘partito romano’ ben studiato da Andrea Riccardi39. Montini e i suoi amici si sono voluti portatori di un disegno per la Chiesa del dopoguerra tutto incentrato sul primato dello spirituale e sull’universalità del magistero del papato romano. Quella ch’è stata chiamata «l’utopia montiniana» doveva molto alla ‘cultura del progetto’ caratteristica del cattolicesimo degli anni Trenta. Abbiamo già sottolineato i legami tra montinismo e maritainismo. Come tanti altri ex fucini e laureati, Montini aveva letto con fervore il libro di Maritain intitolato Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté (1936) fin dal momento della sua pubblicazione in Francia. Il filosofo francese tracciava «l’ideale storico di una nuova cristianità», «di un nuovo regime temporale cristiano» che, «pur basandosi sugli stessi princìpi (ma di applicazione analogica) di quello della cristianità medievale, comporterebbe una concezione profana cristiana e non sacrale cristiana del mondo temporale».
All’inizio del conflitto, il sostituto Montini venne incaricato di costituire e di animare un Ufficio per lo scambio di informazioni sui prigionieri di guerra, militari e civili. Riflettendo sul senso di questa azione, egli scriveva nel 1946:
«Il Vaticano non è solo ciò che di esso si vede: è l’espressione d’un pensiero, d’un disegno, d’un programma che mira a toccare l’umanità in quanto tale, e che ha tuttora per essa il segreto d’un’immanente giovinezza, d’una perenne attualità»40.
Questa visione ideale del papato al servizio dell’umanità intera sta alla base di tutta l’azione svolta dal sostituto e dalla sua équipe durante il conflitto. Fondata nel settembre 1942 come organo dell’Ufficio Informazione, la rivista «Ecclesia» si presenta come l’espressione privilegiata di tutti coloro che condividevano le vedute del sostituto circa il dopoguerra. Il titolo scelto – Ecclesia – «trascendeva» gli obiettivi immediati della pubblicazione (di natura documentaria), ma «questa dilatazione dello sguardo osservatore dal cerchio di tali fatti all’orizzonte che tutto lo circonda e lo illumina» poteva esser benefico per coloro che aspiravano ad orientare «il mondo degli spiriti verso pensieri nuovi e salutari». Non sorprende trovare tra i primi collaboratori della rivista il nome di padre Mariano Cordovani, dal 1936 Maestro dei Sacri Palazzi e appena nominato teologo della Segreteria di Stato. In un articolo intitolato Carità e verità, il domenicano esaltava la funzione magisteriale del successore di Pietro come cattedra di verità posta al di sopra delle passioni umane.
«La più grande carità verso se stessi e verso il prossimo è quella della verità, nel campo filosofico in ordine alle verità fondamentali della vita, nel campo sociale secondo le esigenze della natura umana e non secondo le ideologie costruite dalle passioni degli uomini, nel campo religioso secondo ragione e Rivelazione»41.
Un altro nome che compare dal primo sommario era quello di Giorgio La Pira. Attivamente ricercato dalla polizia fascista per le sue vigorose prese di posizione contro il regime nella sua rivista «Princìpi» (1939-1940), il professore fiorentino si nascondeva a Roma nella casa di Montini. I due uomini si conoscevano dal tempo della Fuci. Già nel 1938, alla vigilia della visita di Hitler a Roma, La Pira si era rivolto a padre Cordovani per esprimergli il suo desiderio di vedere la Chiesa, «maestra divina di verità e di amore», dire «in una occasione così universale […] una parola di fatto che può avere immediatamente una ripercussione universale». «La autorizzo a far leggere questa lettera – se crede – a Mons. Montini»42. La stessa preoccupazione di «presenza» della Chiesa «in questo universale cataclisma che ha messo il mondo nel lutto e nella rovina» ispirava la sua riflessione nelle colonne di «Ecclesia». «La civiltà europea, generata dalla accettazione di Cristo, non può salvarsi se non da una nuova e più vigorosa accettazione di Cristo»43. La speranza di un rinnovamento della civiltà europea in senso cristiano espressa da La Pira rinviava alle tesi di Maritain sulla ‘nuova cristianità’. Il nome del filosofo francese – l’unico non italiano – compare anche nel sommario della rivista nel dicembre del 1945.
Il numero era dedicato «alla Beatitudine Cristiana sopra la guerra». Diversi autori (tra cui lo stesso Cordovani, Giuseppe Capograssi, ecc.) erano stati sollecitati dal sostituto per commentare le beatitudini del Vangelo. Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam: le «persecuzioni mostruose» nei confronti del popolo ebreo occupavano quasi un terzo dell’articolo di Maritain. «Six millions de Juifs ont été liquidés en Europe» osservava il filosofo. «Cette haine bestiale avait des yeux surnaturels. En vérité, c’est leur élection même, c’est Moïse et les prophètes qu’on poursuivait en eux, c’est au Sauveur sorti d’eux qu’on en voulait». Lungi dal procedere da una qualsiasi forma di antigiudaismo cristiano, «l’antisemitismo hitleriano» era al contrario una manifestazione estrema dell’odio anticristiano. «Comme d’étranges compagnons Juifs et chrétiens ont fait route ensemble sur le chemin du Calvaire. Le grand fait mystérieux est que les souffrances d’Israël ont pris de plus en plus distinctement la forme de la croix»44. Paolo VI difenderà con vigore l’operato del suo predecessore durante la guerra quando scoppierà la querelle dei «silenzi di Pio XII». Il fatto che il sostituto Montini abbia chiesto al filosofo ambasciatore, con il quale venne a stabilirsi un rapporto di grande amicizia, di commentare la beatitudine sui perseguitati, sembrava indicare tuttavia una certa presa di distanza con la linea pacelliana del riserbo.
Il maggior contributo degli amici del sostituto alla ricostruzione democratica del paese dopo la caduta del fascismo fu la pubblicazione nell’aprile del 1945 da parte della casa editrice Studium del volume Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Calmadoli. Il volume meglio noto come ‘codice di Camaldoli’ era stato elaborato in seguito ad un primo incontro tenuto nel monastero romualdino nel luglio 1943 sotto la guida di monsignor Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico del Movimento laureati di Azione cattolica. Dalla sua nascita nel 1932, il movimento si era proposto di riprendere e di continuare la linea di approfondimento culturale impressa alla Fuci da Montini e Righetti. Le ‘Settimane di cultura religiosa’ di Camaldoli riunivano ogni estate, a partire dal 1936, un gruppo di laureati sotto la presidenza di un vescovo per discutere su un argomento fondamentale della dottrina cattolica. Come ha scritto Renato Moro, esse costituirono «la prima organica occasione di incontro ad un livello serio e aggiornato tra i laici e la teologia in Italia»45. Il ruolo di Montini nella preparazione e nell’impostazione delle prime settimane fu assai importante. «Fu pure soprattutto grazie a lui ad ai contatti che erano stabiliti alla sua persona che a Camaldoli venne riunirsi veramente l’élite del clero italiano quella che aveva superato la crisi modernista recependone la verità interna e raccogliendone l’eredità»46. Oltre a quelli già menzionati (Bernareggi, Bevilacqua, Cordovani), altri sacerdoti amici contribuirono al successo dell’iniziativa: Emilio Guano, Carlo Colombo, Giovanni Urbani, Michele Maccarrone.
La riunione che si svolse nel cenobio di Camaldoli dal 18 al 23 luglio del 1943, nei giorni che vanno, dunque, dal bombardamento di Roma alla caduta di Mussolini, si poneva in qualche modo nella continuità delle settimane di cultura religiosa. L’obiettivo era tuttavia diverso: non si trattava più di approfondire temi della teologia cattolica, ma di riflettere sul futuro del paese alla luce degli insegnamenti di Pio XII. Nei suoi famosi radiomessaggi di Natale, il pontefice aveva, infatti, indicato i ‘presupposti’ di un nuovo ordine sociale ed internazionale secondo l’espressione di Guido Gonella (1905-1982), un ex-fucino antifascista che Montini aveva portato alla redazione de «L’Osservatore romano» nel 1933 per assicurare la rubrica di politica internazionale dal titolo Acta diurna e che pubblicò un commento pressoché ‘ufficiale’ di questi discorsi con una prefazione rimasta anonima del sostituto47. Il cosiddetto ‘codice di Malines’, pubblicato nel 1927 dall’Unione internazionale di studi sociali, servì di modello anche se sembrava ormai superato su molti punti (come il corporativismo). La guerra rese impossibile ogni ulteriore incontro a livello nazionale. Il lavoro proseguì a Roma sotto la guida dell’Istituto cattolico di attività sociale (Icas) e portò alla rielaborazione dei 76 enunciati definiti nelle discussioni del convegno camaldolese. Il volume fu curato da un piccolo gruppo di esperti tutti vicini al sostituto: un teologo (Emilio Guano), un filosofo (Giuseppe Capograssi), un giurista (il fratello Lodovico) e tre economisti (Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni). Esso si articolava in un preambolo e sette capitoli (lo Stato, la famiglia, l’educazione, il lavoro, la destinazione e la proprietà dei beni materiali, la produzione e lo scambio, l’attività economica pubblica, la vita internazionale). La sua edizione si esaurì in poche settimane e non ebbe seguito48. La sua influenza sui lavori della Costituente doveva essere notevole.
Giorgio Campanini ha efficacemente riassunto le ‘linee portanti’ del progetto degli intellettuali montiniani: il primato della persona umana rispetto allo Stato, l’abbandono della categoria di ‘Stato cattolico’ e l’accettazione del pluralismo confessionale, il riconoscimento del ruolo dello Stato nell’economia, il superamento dell’antico ‘diritto di guerra’ e la limitazione della sovranità nazionale a favore di organizzazioni internazionali49. Furono questi i principi che i deputati cattolici alla Costituente cercarono di difendere e di far inserire nella nuova carta costituzionale. L’apporto dei cattolici alla Costituzione riguarda soprattutto la parte I di essa, intitolata Principi fondamentali. Si pensi in particolare all’articolo 3 che parla del «pieno sviluppo della persona umana», all’articolo 7 che afferma «l’indipendenza» e «la sovranità» dello Stato e della Chiesa «ciascuno nel proprio ordine», oppure ancora all’articolo 2 che introduce il concetto nuovo di «formazioni sociali» ove «si svolge la personalità» dell’uomo e del cittadino50. Non va dimenticato nemmeno l’apporto dei costituenti cattolici all’elaborazione della parte dedicata alla ‘vita economica’ strutturata sui principi della morale cattolica (dignità della persona umana, uguaglianza dei diritti, solidarietà, giustizia distributiva). Ma la ricostruzione di uno Stato democratico fondato sui valori della morale cristiana passava anche attraverso la costituzione di una forza politica nuova, unitaria, dei cattolici nel campo politico.
La scelta di un partito unico dei cattolici dotato di un’ampia autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica e latore di un autentico progetto politico per la società italiana del dopoguerra trovò nella persona del sostituto alla Segreteria di Stato il suo difensore più ardente. Montini era l’ecclesiastico ideale per svolgere un ruolo di mediazione tra l’antifascismo degli ex dirigenti del partito da un lato e, dall’altro, le aspirazioni al rinnovamento della generazione in ascesa formatasi nei ranghi dei settori intellettuali (Fuci, Laureati) dell’Azione cattolica. Incaricato degli affari italiani come responsabile della seconda sezione della Segreteria di Stato, egli era riuscito a formare attorno alla sua persona una solida rete di amicizie, sia nel mondo ecclesiastico sia in quello laico. Questi uomini cercavano di essere latori di un progetto politico per l’Italia del dopoguerra: la creazione di un partito unico dei cattolici sostenuto dalla Chiesa e dalle associazioni che ne dipendevano, ma molto autonomo dalla gerarchia ecclesiastica. Il disegno montiniano si ricollegava al progetto di Alcide De Gasperi, con il quale aveva avuto cura di mantenere stretti rapporti durante tutto il periodo del suo esilio interno. L’ex deputato popolare era riconoscente al sostituto per la sua nomina a segretario della Biblioteca vaticana nel 1939. «Il tuo caro don Battista mi assistette infatti con tutta la sua prudente energia e con cuore d’amico e a lui devo specialmente se fu accolta la proposta della Biblioteca di concedermi ex gratia 10 anni da computarsi nella pensione, favore veramente prezioso per la famiglia mia»51. Nell’agosto del 1943 Montini incontrava De Gasperi per «fissare le linee di una sempre più decisa organizzazione dei cattolici»52. Fu infatti sotto la presidenza di De Gasperi che nacque a Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre, un nuovo partito, la Democrazia cristiana, i cui statuti furono approvati nel primo congresso nazionale a Napoli nel luglio 1944.
Questo progetto di un partito unico dei cattolici era violentemente combattuto, all’interno stesso della Curia romana e negli ambienti della destra cattolica, da una nebulosa che fu chiamata il ‘partito romano’ e il cui capofila non era altri che l’assessore (dal 1935) della potente Congregazione del Sant’Uffizio, monsignor Alfredo Ottaviani. Per iniziativa di un’altra personalità in vista nella Roma ecclesiastica di quell’epoca, monsignor Roberto Ronca, rettore del Seminario romano maggiore, negli ultimi mesi della guerra furono organizzati al Laterano incontri tra i principali esponenti del comitato di liberazione nazionale. Tali incontri non avevano altro scopo che impedire la realizzazione della strategia unitaria a esclusivo beneficio della Dc del sostituto Montini e di promuovere la costituzione di un polo moderato alla destra della Dc. Non è indifferente constatare che Ronca intratteneva relazioni molto strette con alcuni uomini della cerchia immediata di Pio XII come il conte Enrico Galeazzi o il principe Carlo Pacelli. Sul piano delle idee il quindicinale dei Gesuiti italiani, «La Civiltà cattolica», il cui direttore padre Giacomo Martegani aveva la fiducia personale del pontefice, accompagnava efficacemente la realizzazione di questa strategia pluralista. I Gesuiti di Porta Pinciana contestavano con forza l’idea secondo la quale un solo partito, anche se d’ispirazione cristiana come era la Dc di Alcide De Gasperi, fosse in grado di raccogliere i consensi di tutto l’elettorato cattolico. I cattolici avrebbero dovuto conservare la ‘libertà di scelta’, tranne che in casi di eccezionale gravità che richiedessero ‘l’unione delle forze’ sul piano elettorale.
Dopo aver molto esitato sulla strategia da seguire, Pio XII finì per aderire alla soluzione di un partito unico dei cattolici. La condanna dei ‘cattolici comunisti’, che fino ad allora avevano goduto di una certa benevolenza da parte della Santa Sede nonostante l’ostilità di Montini, parve come il primo evidente segno a favore della Democrazia cristiana. A partire da quel momento, l’Azione cattolica italiana fu invitata a sostenere il partito che difendeva il programma sociale cristiano. Nell’animo del papa l’organizzazione di massa dei cattolici italiani avrebbe dovuto svolgere un ruolo decisivo nella nuova congiuntura politica che si apriva per il paese: un ruolo di mobilitazione preelettorale a vantaggio del partito cattolico. Il sostegno ufficiale, ma implicito, dato a quest’ultimo non aveva tuttavia nulla di un assegno in bianco. L’autonomia dei dirigenti di un partito, che si faceva forte apertamente dell’influenza della Chiesa, non poteva essere che relativa. Le prime scadenze elettorali dell’immediato dopoguerra, sotto l’influenza di una polarizzazione crescente del dibattito politico, avrebbero rivelato l’incompatibilità del disegno montiniano di un partito unico, ma autonomo, dei cattolici con gli orientamenti di un pontefice come Pio XII preoccupato anzitutto di ostacolare la minaccia comunista.
La visione montiniana di una Chiesa al di sopra delle parti era destinata a permettere al papa di giocare il suo ruolo di mediatore e di arbitro tra le nazioni nel contesto della Guerra fredda nascente. L’insistenza di Pio XII sulla sopranazionalità della Chiesa nei suoi primi messaggi del dopoguerra appariva da quel punto di vista pienamente consonante con gli orientamenti del suo sostituto. Nell’estate del 1947, in una serie di articoli pubblicati su «L’Osservatore romano», il conte Dalla Torre, direttore del quotidiano, vi aveva difeso la tesi di una coesistenza possibile tra i due blocchi, malgrado l’antagonismo delle ideologie e degli interessi, «senza pregiudizio di fatalità» guerriera53. Senza approvarne necessariamente il contenuto, la Segreteria di Stato si guardò bene dallo sconfessare il loro autore. Secondo Montini conveniva infatti distinguere il piano spirituale, «in cui le posizioni della Santa Sede di fronte all’ateismo marxista e al materialismo dialettico sono e restano quelle che sono sempre state» e il piano della politica temporale delle nazioni, «in cui la soluzione dei conflitti di interessi e di ambizioni dev’essere esclusivamente ricercata nella pace e non nella guerra»54. La volontà della Santa Sede di non sembrare legata a uno dei due blocchi era manifesta. Pio XII l’aveva indicato molto chiaramente nel suo radiomessaggio del Natale 1947:
«La Nostra posizione fra i due campi opposti è scevra di ogni preconcetto, di ogni preferenza verso l’uno o l’altro popolo, verso l’uno o l’altro blocco di nazioni, come è aliena da qualsiasi considerazione di ordine temporale. Essere con Cristo o contro Cristo: è tutta la questione»55.
L’avvicinarsi delle elezioni politiche dell’aprile 1948 contribuì a modificare questa linea di prudenza della Santa Sede in un senso nettamente favorevole all’Occidente. Di fronte al pericolo di un trionfo elettorale del Pci di Palmiro Togliatti, Pio XII scelse apertamente di sostenere la Dc di Alcide De Gasperi e di affidare la preparazione della campagna elettorale ai Comitati civici di Luigi Gedda. Questa scelta di mobilitazione totale dell’Ac in vista delle prossime elezioni significava in pratica l’estromissione del suo presidente, l’avvocato veneto Vittorino Veronese (1910-1986). Uscito dai rami intellettuali dell’Ac, nominato a tale carica nell’ottobre 1946 grazie al sostegno di Montini, Veronese era notoriamente ostile a ogni impegno dell’organizzazione sul terreno politico. «Guai ad identificare il cattolicesimo con una espressione politica, o a negare sincerità di religione o pratica di fede o di morale a tutti i non votanti per un partito programmaticamente cristiano» scriveva nel luglio 1946 in un rapporto destinato alla commissione episcopale incaricata di seguire l’Azione cattolica56. Ricevuto in udienza dal papa qualche mese più tardi, si sentì rimproverare «la scarsa efficacia» dell’Azione cattolica e «un pericoloso ritardo nella preparazione della campagna elettorale».
«Ogni mia giustificazione e tentativo di illustrazione in profondità e a vasto raggio, si urtò contro uno di quei giudizi che, una volta radicati nella mente del Santo Padre, difficilmente si modificano. Soggiunse che, essendo stata riferita da mons. Montini una qualche perplessità circa il pericolo che la nuova organizzazione portasse sconcerto e sovvertimento di funzioni rispetto alle posizioni precedenti, egli “non aveva alcuna comprensione” per simili perplessità in un momento così decisivo: al che non mi restava che protestare al S. Padre tutta la mia adesione e piena volontà di collaborazione alle sue direttive»57.
La ‘dissidenza’ di Montini e dei suoi amici rispetto alla ‘nuova linea politica’ della Chiesa pacelliana, che culminò nel luglio 1949 con il famoso decreto di scomunica del Sant’Uffizio contro il comunismo, lo portarono a valorizzare tutto quello che poteva andare nel senso di una maggiore equidistanza della Santa Sede tra i blocchi. Nell’aprile 1948, il filosofo Jacques Maritain, allora ambasciatore a Roma, consegnò al sostituto «una lunga lettera» nella quale formulava delle proposte concrete per favorire la distensione con la Russia e l’Oriente. Tra queste proposte, c’era l’idea di consacrare il popolo russo al Sacro Cuore di Maria. La Lettera apostolica ai popoli della Russia (Ad universos Russiae populos) del 7 luglio 1952, giorno della festa dei santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori degli slavi, faceva direttamente riferimento al radiomessaggio che Pio XII aveva rivolto dieci anni prima al popolo portoghese nel quale aveva consacrato il mondo intero al Cuore immacolato di Maria (31 ottobre 1942). La sua novità, rispetto ad altri documenti dello stesso periodo indirizzati alle Chiese dell’Est sottoposte al giogo comunista, consisteva nel fatto che non faceva appello solo ai cattolici ma anche a tutti coloro «che conservano ancora il nome cristiano». Malgrado gli sforzi della Segreteria di Stato di dare a questa lettera apostolica «la maggiore diffusione possibile», essa rimase senza eco58. Era Montini l’ispiratore del testo? Difficile dimostrarlo in assenza di un accesso diretto alle fonti vaticane. La sua vicinanza al memorandum di Maritain appare in ogni caso evidente. C’è un’altra iniziativa da ricordare in questo contesto: i Congressi per la pace e la civiltà cristiana organizzati a Firenze tra il 1952 e il 1956.
Personalità cattolica vicina a Montini, come abbiamo visto, Giorgio La Pira aveva preso l’iniziativa, nella sua qualità di sindaco della città nella quale nel 1439 si era tenuto un concilio destinato a suggellare la riconciliazione tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, di organizzare un congresso per la pace e la civiltà cristiana nel giugno 1952. Nel suo appello finale, aveva lanciato un invito ai «governi assenti» a Firenze a «costruire un mondo più fraterno e più felice» fondato su quella «pietra d’angolo» della civiltà cristiana che era «la difesa della nostra casa, del nostro paese e della nostra universale verità». Questi congressi per la pace e la civiltà cristiana sarebbero proseguiti fino al 1956 con il sostegno tacito del Vaticano. Informato dall’inizio da La Pira, l’allora sostituto gli aveva assicurato il suo sostegno: «Pater vero rem tacitus considerabat»59. Si deve parlare a questo proposito di una forma di ‘diplomazia parallela’ della Santa Sede, tendente a stabilire dei contatti con i governi dell’Est comunista? Il fatto è che tra il 1954 e il 1956 il nuovo ambasciatore sovietico in Italia, Aleksandr Bogomolov, si recò tre volte sulle rive dell’Arno per incontrare La Pira. Mentre il primo incontro avvenne in piena disputa sulla ratifica del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (9 aprile 1954), il terzo si verificò dopo il ventesimo congresso del Partito comunista sovietico (15 aprile 1956). In quest’ultima occasione l’ambasciatore consegnò al suo interlocutore il famoso Rapporto Cruščëv, che denunciava i crimini di Stalin? Più volte interrogato in merito, il sindaco di Firenze non smentì mai di essere stato il «primo uomo politico occidentale» a essere informato sul suo contenuto. Si può anche pensare che egli immediatamente, secondo il suo solito, ne abbia informato la Segreteria di Stato60. L’ipotesi di un tale passo non ha nulla d’inverosimile, se lo si colloca nel contesto della primavera 1956, quando il Cremlino cerca manifestamente, con una serie di gesti di buona volontà, di avviare colloqui in vista di un accordo con il Vaticano. Quando all’indomani della crisi ungherese i congressi fiorentini cessarono per il mancato sostegno della Santa Sede, Montini non era più alla Segreteria di Stato. Così scriveva l’arcivescovo di Milano a La Pira nel marzo del 1957:
«Ammiro il Tuo ottimismo, che mi sembra davvero un atto di fede nella virtù intrinseca del cristianesimo di guadagnare a sé uomini, che sembrano poco disposti a comprenderlo e ad accoglierlo, ovvero di dare testimonianze di sé, anche nell’infelice resistenza che il mondo gli oppone. Si, bisogna tenere gli occhi desti per scorgere “i segni dei tempi”»61.
L’allontanamento di Montini dalla Curia romana nel novembre 1954 ha suscitato molti commenti. Le ragioni della nomina dell’allora pro-segretario di Stato sulla prestigiosa cattedra di s. Ambrogio non sono ancora del tutto chiarite. Aveva l’ex sostituto commesso qualche imprudenza che gli aveva fatto perdere la fiducia di Pio XII? C’è chi parla di una lettera di dimissioni del presidente della Giac Mario Rossi trattenuta da Montini. C’è chi allude alla sua partecipazione a una riunione riservata tra dirigenti di Azione cattolica contrari ai comitati civici di Gedda. C’è chi infine ipotizza qualche contatto con l’Est sovietico dopo la morte di Stalin62. Il fatto è che i suoi avversari (raggruppati nel cosiddetto ‘partito romano’) riuscirono a convincere Pio XII a separarsi dal suo più stretto collaboratore. La promozione-rimozione di Montini doveva aprigli la strada al pontificato. Creato cardinale nel dicembre 1958, egli assecondò con grande forza di convinzione il disegno conciliare di papa Roncalli. Eletto papa nel giugno 1963, Paolo VI non avrà altra preoccupazione se non quella di terminare il concilio e di applicarne fedelmente gli insegnamenti. Il nuovo pontefice si vorrà allora il profeta ispirato di una Chiesa rinnovata in dialogo con il mondo e al servizio dell’uomo e della promozione della pace. In piena sintonia con i documenti conciliari sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes) e sulla libertà religiosa (Dignitatis Humanae), le sue prime encicliche (dalla Ecclesiam Suam nell’agosto 1964 alla Populorum Progressio nel marzo 1967) delineeranno il programma di un umanesimo cristiano di ispirazione maritainiana. Il pastore ‘progressista’ si trasformerà, di fronte alle contestazioni e alle innovazioni dell’immediato post-concilio, in un ‘difensore’ vigilante della dottrina cattolica, ricordandosi quello che gli aveva detto Pio XII nell’ultima udienza prima della sua consacrazione episcopale: Depositum custodi63.
«È giunta un’ora nuova nella tua storia, o Chiesa milanese, un’ora in cui il Tuo immenso e fiorente patrimonio spirituale richiede alla tua Saggezza e al Tuo zelo un duplice dovere: difendere e rinnovarsi». Con queste parole pronunciate nel suo discorso d’ingresso a Milano il 6 gennaio 1955, il nuovo arcivescovo tracciava un programma ben chiaro per il suo episcopato che si poneva nella continuità del suo apostolato precedente presso gli universitari e i laureati. Non era sufficiente difendere e conservare, occorreva anche innovare, spiegava, «nelle nostre opere, nelle nostre istituzioni, nella nostra cultura, nella nostra vita in una parola, il sempre fecondo tesoro religioso e morale che abbiamo ricevuto»64. I suoi primi mesi non furono facili. La sua grande attenzione per il mondo dei lavoratori gli valse ben presto l’accusa di ‘sinistrismo’ o di ‘progressismo’. Il mito del ‘vescovo progressista’, protettore del centro-sinistra, è stato recentemente smentito dall’opera di Eliana Versace sulla base di una documentazione in gran parte inedita65. «Motivata da ragioni di principio e di carattere morale, l’opposizione al socialismo che aveva solide radici nel pensiero giovanile montiniano, non mutò durante tutti gli anni dell’episcopato milanese», scrive l’autrice, che sottolinea come l’arcivescovo avesse un rapporto difficile con la corrente che guidava la Dc a Milano, cioè la sinistra di base66. Oltre alla contrastata apertura a sinistra, egli non condivideva le aspirazioni dei suoi esponenti ad una maggiore autonomia del laicato dall’autorità ecclesiastica. La concezione del ruolo dei laici dell’arcivescovo Montini non si discostava molto su questo punto da quella espressa da Pio XII. Anche nel suo famoso discorso in occasione del Congresso mondiale per l’apostolato dei laici a Roma nell’ottobre 1957, dove non esitò a prendere la difesa di Maritain giudicando «eccessive alcune critiche fatte» nei confronti dell’autore di Umanesimo integrale, egli proponeva un modello di laico ‘collaboratore’ della gerarchia e totalmente sottomesso alle sue indicazioni. Non spettava ai laici, aggiungeva ancora Montini, ma «al governo della Chiesa determinare quali siano i tempi maturi per date riforme, e quali siano le riforme da eseguire»67. Il riformismo montiniano non si concepiva che all’interno di un’ecclesiologia ancora molto tradizionale nonostante i contatti mantenuti con i futuri grandi teologi del rinnovamento conciliare (Congar, de Lubac, Journet).
La Missione del 1957 fu il grande progetto pastorale del suo episcopato milanese. «Milano è per Montini l’incontro effettivo, non letterario e non intellettualistico, col mondo contemporaneo»68. Il nuovo arcivescovo senza alcuna esperienza pastorale alle spalle capì che per riavvicinare alla Chiesa questa città moderna e industriale in via di secolarizzazione accelerata, «assorbita e tesa nel suo incessante e frettoloso lavoro» come dirà il 24 settembre 1957 annunciando la Missione di Milano, occorrevano nuovi metodi pastorali. Il sostituto Montini aveva seguito con grande attenzione l’esperimento dei preti operai in Francia, anche se alla fine si era dimostrato solidale con la decisione romana di porvi fine. «Il faut trouver des méthodes nouvelles pour que le poisson revienne dans la nasse de Pierre» aveva detto al padre Jacques Loew che lo visitava a Roma all’inizio degli anni Cinquanta69. Lungamente preparata, la Missione si svolse dal 5 al 24 novembre 1957 e impegnò 1.288 predicatori, tra i quali i due cardinali arcivescovi di Bologna e di Genova, Giacomo Lercaro e Giuseppe Siri. L’unico laico a tenere catechesi fu Giuseppe Lazzati (1909-1986), il futuro rettore della Cattolica, con il quale i rapporti di collaborazione e di amicizia diventeranno sempre più stretti durante gli ultimi anni della permanenza a Milano. Se la Missione non diede tutti i frutti sperati, essa confermò l’arcivescovo nella sua determinazione di imboccare strade nuove per l’evangelizzazione della società moderna. Il suo interesse per la democrazia americana e le sue forme di organizzazione sociale sono un’ulteriore dimostrazione della sua ansia missionaria. Nell’agosto 1958, egli ricevette «per tre lunghi pomeriggi» nella sua residenza milanese l’agitatore sindacale Saul Alinsky, prima di visitare diverse istituzioni e fondazioni caritative durante il suo viaggio negli Stati Uniti e in Brasile del giugno 1960. L’annuncio di Giovanni XXIII di riunire un concilio ecumenico poteva rappresentare una nuova chance per la Chiesa.
Nominato cardinale nel dicembre 1958, Giovanni Battista Montini accolse con grande gioia la decisione del nuovo pontefice. Nel suo messaggio di adesione del 26 gennaio 1959, parlava di «un avvenimento di prima grandezza», «grande per la Chiesa intera e per tutta l’umanità»70. Non sembra che l’arcivescovo di Milano sia stato messo al corrente delle intenzioni papali. L’annuncio del 25 gennaio lo colse di sorpresa. Passato questo primo momento di stupore, egli si mosse su diversi fronti per preparare la Chiesa ambrosiana all’evento conciliare. Il votum che mandò a Roma in data 8 maggio 1960, «con grande ritardo», elencava tutte le tematiche montiniane: l’unità della Chiesa e l’ecumenismo; la liturgia; la Chiesa e l’episcopato; la Chiesa e il cristiano nel mondo71. Trattando quest’ultimo aspetto, il documento chiedeva una migliore definizione della dottrina cristiana «sul fine soprannaturale del genere umano» «contro le concezioni del cosiddetto “umanesimo naturalistico” che facilmente dominano la mente degli uomini moderni». Non mancava nemmeno il suggerimento di chiarire meglio la dottrina sui rapporti «tra la vita politica e la vita religiosa» e «sul ruolo dei laici». Nella parte finale del documento, veniva formulata la proposta di preparare «una grande adunanza dei rappresenti dei popoli e delle nazioni che hanno pubblici rapporti con la Santa Sede» affinché siano informati delle decisioni del concilio, «soprattutto in ciò che riguarda la tutela della religione e della Chiesa cattolica e la universale accettazione dei diritti e dei doveri degli uomini secondo la concezione cristiana». L’apporto della cosiddetta ‘scuola teologica milanese’ alla stesura del documento montiniano fu tutt’altro che irrilevante nonostante il clima di sospetto che pesava sulla facoltà teologica di Venegono dall’inizio degli anni Cinquanta. Studi recenti hanno giustamente attirato l’attenzione sulla collaborazione di Montini con un professore della facoltà, ex fucino chiamato a diventare il suo teologo di fiducia per tutto il periodo conciliare, monsignor Carlo Colombo (1909-1991)72. Da rilevare anche i convegni organizzati da Montini alla Villa Cagnola di Gazzada sui principali temi del concilio a partire del 1960.
Nominato membro della commissione centrale preparatoria del concilio, l’arcivescovo di Milano giocò un ruolo di primo piano nell’ultima fase della preparazione del Vaticano II. Relativamente isolato in seno all’episcopato italiano dove prevaleva la linea ‘tradizionalista’ del presidente della Cei, il cardinale Giuseppe Siri, si adoperò soprattutto per sensibilizzare i suoi diocesani all’evento in preparazione. La sua lettera pastorale Pensiamo al Concilio (22 febbraio 1962) ebbe un’ampia diffusione73. Riflettendo sul ‘concetto di riforma’, egli insisteva sulla novità del futuro concilio rispetto a tutti gli altri precedenti: il Vaticano II sarebbe stato più un concilio «di esortazioni che di anatemi»74. Proponendo di distinguere tra i problemi che riguardavano la riforma interna della Chiesa e quelli che riguardavano i suoi rapporti esterni col mondo, metteva in guardia i fedeli «dalle illusioni» che una falsa comprensione dell’idea di ‘aggiornamento’ avrebbe potuto domani far «diventare delusioni»75. In un’ultima conferenza pronunciata in Campidoglio alla presenza delle più alte cariche della Repubblica italiana, il giorno antecedente l’apertura solenne del concilio (10 ottobre 1962), annoverava «tra le più alte finalità rinnovatrici» del concilio «quella di assumere al livello di un umanesimo cristiano moderno i grandi fenomeni della vita economica, culturale, scientifica e sociale» e «di aprire un dialogo fiducioso e amichevole col mondo contemporaneo»76. Relativamente discreto durante il primo periodo del concilio (solo due interventi in aula), scrisse le sue famose ‘lettere dal Concilio’ concepite come una specie di ‘diario conciliare’ destinato a mobilitare tutta la comunità ecclesiale attorno a questo «grande evento, che coinvolge la Chiesa intera e, per riflesso, il mondo»77. La cautela del cardinale Montini si spiegava anche col fatto che si sapeva osservato dai suoi avversari: gli antimontiniani non avrebbero mancato di sfruttare eventuali passi falsi dell’arcivescovo in vista del futuro conclave.
Appena eletto papa, il 21 giugno 1963, Paolo VI comunicò che la grande opera del suo pontificato sarebbe stata quella di continuare e di terminare il concilio Vaticano II (radiomessaggio al mondo, 29 giugno 1963). Non si limitò a fissare la date della riapertura dei lavori ma si adoperò anche a creare le condizioni per una felice ripresa dei lavori conciliari. Tra le prime decisioni di Paolo VI, tre furono delle vere e proprie innovazioni: la promulgazione di una nuova versione del regolamento del concilio; la creazione di un comitato di quattro cardinali moderatori, che doveva pilotare l’assise; la nomina degli uditori laici chiamati ad assistervi. A differenza del suo predecessore Giovanni XXIII, che non aveva voluto tracciare un programma per il concilio, Paolo VI volle essere la guida, il ‘timoniere’ del Vaticano II. Jan Grootaers ha suggerito una tipologia dei suoi interventi che distingue tra le questioni della Chiesa ad intra (rivelazione, collegialità episcopale, ecc.) sulle quali la sua maggiore preoccupazione sarebbe stata quella di ottenere il massimo consenso, di andare incontro alle richieste della minoranza per cercare di trovare un compromesso che avrebbe evitato una divisione interna della Chiesa, e le questioni della Chiesa ad extra (libertà religiosa, pace, missioni) sulle quali è stato molto più deciso, spingendo l’assemblea ad andare avanti, anche di fronte alla perplessità di un gruppo dei padri della minoranza, in quanto corrispondevano alla sua sensibilità personale78.
Per Paolo VI, la via regia della Chiesa conciliare era la via del dialogo e della pace. Due iniziative extra-conciliari assumono da quel punto di vista un’importanza decisiva. La prima fu la pubblicazione dell’enciclica Ecclesiam suam (6 agosto 1964), nella quale presentava il dialogo come un dovere ineludibile, congeniale al patrimonio ricevuto: «la Chiesa deve venire al dialogo con il mondo in cui si trova a vivere, la Chiesa si fa parola, la chiesa si fa messaggio, si fa colloquio». La seconda fu la visita alla sede dell’Onu a New York in occasione del ventesimo anniversario di fondazione. Nel discorso pronunciato in francese davanti all’assemblea delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965, il papa si presentò come «il messaggero che al termine di un lungo viaggio consegna la lettera che gli è stata affidata». Il messaggio trasmesso alle Nazioni Unite era fondamentalmente un messaggio di pace: «Mai più la guerra, mai più la guerra. […] è la pace a guidare il destino degli uomini e di tutta l’umanità». Per concretizzare questa visione di una Chiesa in dialogo con il mondo e al servizio della pace, Paolo VI creò nuovi organismi in seno alla curia: il Segretariato per il dialogo con le religioni non cristiane (maggio 1964), il Segretariato per il dialogo con i non credenti (aprile 1965); il Pontificio consiglio per i laici e la Commissione giustizia e pace (gennaio 1967).
Nel suo discorso di chiusura del 7 dicembre 1965, Paolo VI, cercando in qualche modo di caratterizzare quella che era stata ‘la spiritualità del concilio’, ebbe queste parole: «La religione del Dio che si è fatto uomo, s’è incontrata con la religione, perché tale è, dell’uomo che si fa Dio». Qualche giorno dopo, ricevendo in udienza privata Jacques Maritain, al quale aveva scelto di consegnare il messaggio rivolto agli intellettuali al termine del concilio Vaticano II, gli disse, alludendo alla polemica degli anni Cinquanta nei suoi confronti, che «il tempo del “naturalismo integrale” ormai è proprio finito»79. Questa consacrazione tardiva non impedirà alla polemica contro il filosofo di proseguire in Italia dopo il concilio. Per il cardinale Siri, l’influenza delle tesi maritainiane al Vaticano II era stata decisiva, nella «predilezione per taluni argomenti, i quali senza quella predilezione, dubito che sarebbero stati trattati»80. Antimaritainismo o antimontinismo? Se il ruolo dei montiniani nell’elaborazione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes e della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae fu determinante, è giocoforza constatare che il loro atteggiamento nel periodo del postconcilio non fu sempre all’unisono con le decisioni di Paolo VI.
Con il concilio Vaticano II, la Chiesa ha fatto sue molte delle istanze portate avanti dagli intellettuali montiniani dagli anni Trenta. Sul piano dottrinale, il riconoscimento del principio della libertà religiosa fondato sulla dignità della persona umana significava in pratica l’accettazione della non-confessionalità dello Stato, cioè di uno Stato neutrale sul piano religioso, dello Stato moderno e laico. Era la fine dello Stato cristiano, ma non la fine di ogni prospettiva di rinnovamento cristiano dell’ordine temporale. Quando la costituzione pastorale Gaudium et spes dichiara che «la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale», ma «d’ordine religioso», lo fa per aggiungere subito dopo che «da questa missione religiosa scaturiscono compiti, luci e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina» (Gaudium et spes, 42). Ogni forma di divorzio tra la fede e la vita era respinta con fermezza: «La dissociazione, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo» (Gaudium et spes, 43). Sul piano dell’impegno concreto dei cattolici, i padri conciliari hanno voluto in qualche modo ‘sciogliere’ il legame privilegiato tra la Chiesa e la Democrazia cristiana ricordando che la Chiesa «non è legata ad alcun sistema politico». Il termine stesso di democrazia non compare mai nei testi conciliari mentre vengono richiamati con forza i «principi di una politica umanista» che avevano portato Pio XII a ‘battezzare’ la stessa alla fine della Seconda guerra mondiale. La costituzione pastorale riprende la famosa distinzione, formulata da Maritain alla metà degli anni Trenta, tra l’agire «in qualità di cristiano» e il comportarsi «da cristiano».
Come scrive Andrea Riccardi, «l’unità politica dei cattolici e la loro dipendenza dalla gerarchia in politica appariva parzialmente delegittimata dal Vaticano II»81.
«Il Vaticano II, riformulando su basi nuove il rapporto tra la politica e la fede e valorizzando il ruolo strategico dei laici all’interno della comunità cristiana e più in generale nella società ha in qualche misura “liberato” la DC dalla tutela della gerarchia cattolica. Ma ha liberato anche il mondo cattolico, nelle sue scelte politiche, dalla DC e ha creato le premesse della crisi della DC»82.
La parola-chiave della Chiesa postconciliare per quanto riguarda il rapporto con il mondo della politica era quella di ‘pluralismo’: pluralismo delle scelte, pluralismo delle soluzioni. «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi» spiegava Paolo VI nella sua lettera apostolica Octogesimo adveniens (14 maggio 1971). Questa scelta in favore del pluralismo ha portato molti cattolici a fare la scelta della lotta di classe, cioè a condividere pienamente le lotte anticapitalistiche e antimperialiste del movimento operaio. Il periodo postconciliare vede il trionfo di una certa lettura rivoluzionaria, di stampo marxista, del messaggio evangelico83.
La situazione della Chiesa in Italia è contrassegnata da una profonda crisi politica e religiosa. Il Concordato del febbraio 1929 era stato inserito nella nuova Costituzione repubblicana del 1947 (art.7). Lo stesso Partito comunista, nella persona del suo segretario Palmiro Togliatti, preoccupato di non spaventare l’elettorato cattolico, aveva difeso l’adozione dell’articolo. Negli ambienti laici, l’ostilità al Concordato rimaneva vivace. Non pochi cattolici sostenevano l’idea che il sistema concordatario era superato e che solo una Chiesa libera da compromessi sarebbe stata adatta a svolgere efficacemente la sua missione profetica. La Chiesa postconciliare non doveva più essere preoccupata di difendere se stessa ma l’uomo e l’umanità. Il Parlamento italiano si interessò della questione nell’ottobre del 1967. Fu istituita una commissione incaricata di riflettere alla revisione del Concordato che si mise subito al lavoro. Ci vorranno ben quindici anni per arrivare all’accordo di Villa Madama tra la Santa Sede e il governo di Bettino Craxi (1984). L’articolo 1 dell’accordo dichiara esplicitamente che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese». Nel frattempo erano successi due ‘terremoti’ per quanto riguarda l’influenza politica della Chiesa in Italia: la battaglia perduta del referendum sul divorzio (1974) e la battaglia perduta del referendum sull’aborto (1981).
L’approvazione della legge sul divorzio nel 1970 causò un grande trauma nel mondo cattolico. La nuova norma chiamava in causa le disposizioni del Concordato che riconosceva gli effetti civili del matrimonio religioso. Nonostante i suoi dubbi sull’esito della consultazione popolare, Paolo VI non si oppose al lancio di una campagna referendaria contro la nuova legge. Molti intellettuali cattolici (tra cui lo stesso Lazzati) non nascosero le loro perplessità sull’opportunità di una tale consultazione, che non sembrava andare nel senso del necessario rispetto della libertà di coscienza. Alla vigilia della consultazione del 12 maggio 1974, la Cei emanava un documento nel quale ribadiva il dovere dei cristiani di «partecipare responsabilmente alla costruzione di un retto ordine civile e impegnarsi perché le leggi corrispondano ai precetti morali e al bene comune». La vittoria del No significava non solo la sconfitta della Chiesa e la fine dell’unità politica dei cattolici. L’Italia non poteva più essere considerato un paese ufficialmente cristiano: «Non sembri quindi eccessivo dire che l’Italia è un paese da evangelizzare», si leggeva nel documento di base della Cei su Evangelizzazione e promozione umana (1976). La scelta religiosa della Chiesa italiana significava «una presa di distanza dalla politica come strumento della religione, ma non una svalutazione della politica» la quale veniva affidata alla responsabilità autonoma dei laici cristiani84. Questa prospettiva dell’evangelizzazione era maturata in collegamento con una riflessione più ampia emersa in occasione del sinodo dei vescovi del 1974, poi esplicitata nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (8 dicembre 1975). La strategia della Chiesa italiana sotto Paolo VI, culminata nel convegno ecclesiale di Roma del dicembre del 1976 sul tema Evangelizzazione e promozione umana, fu di accompagnare un processo di secolarizzazione, ritenuto irreversibile, evitando che esso degenerasse in un ‘secolarismo’ ostile alla fede cristiana. «In pratica, il Convegno ha tradotto in Italia, in modo originale, il metodo conciliare, come papa Montini lo aveva codificato nell’enciclica Ecclesiam suam e nella Octogesima adveniens, applicandolo egli stesso per primo, durante l’intero suo pontificato», commenterà più tardi l’ex direttore de «La Civiltà cattolica», padre Bartolomeo Sorge, ‘l’ultimo montiniano’85. Con l’ascesa di Giovanni Paolo II al soglio pontificio (16 ottobre 1978), la strategia della Chiesa doveva cambiare. Per il papa polacco, «la secolarizzazione non era il destino inevitabile della modernità». Bisognava combatterla con una strategia pastorale efficace che riportasse Cristo al centro della vita e della cultura dell’Italia. La strategia della ‘nuova evangelizzazione’ significava la fine della stagione montiniana del cattolicesimo italiano.
1 Per una bibliografia generale sull’argomento, si vedano A. Acerbi, La Chiesa nel tempo. Sguardi su progetti di relazione tra Chiesa e società civile negli ultimi cento anni, Milano 1984; Id., Chiesa e Democrazia. Da Leone XIII al Vaticano II, Milano 1991; G. Adornato, Giovanni Battista Montini. Religione e lavoro nella Milano degli anni ’50, Brescia 1988; Id., Paolo VI. Il coraggio della modernità, Cinisello Balsamo 2008; N. Antonetti, La Fuci di Montini e di Righetti. Lettere di Igino Righetti ad Angela Gotelli (1928-1933), Roma 1979; P. Chenaux, Une Europe vaticane? Entre le plan Marshall et les traités de Rome, Bruxelles 1990; Id., Pio XII. Diplomatico e pastore, Cinisello Balsamo 2004; Id., L’Église catholique et le communisme en Europe (1917-1989), Paris 2009; Chiese italiane e Concilio, a cura di G. Alberigo, Genova 1988, pp. 91-128; Educazione, intellettuali e società in G.B. Montini-Paolo VI, Brescia-Roma 2002; A. Fappani, F. Molinari, Giovanni Battista Montini giovane, Casale Monferrato 1979; A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Milano 1982; Id., Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari 1996; Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano e il Concilio Ecumenico Vaticano II. Preparazione e primo periodo, Brescia-Roma 1985; P.G. Giovannoni, “A Firenze un concilio delle nazioni”. Il primo Convegno per la Pace e la Civiltà Cristiana, Firenze 2007; J. Grootaers, Actes et acteurs à Vatican II, Leuven 1998; In ascolto della storia. L’itinerario dei «Laureati Cattolici» (1932-1982), Roma 1984; Il cristiano laico, L’eredità dell’arcivescovo Montini, a cura di L. Vaccaro, Brescia 2004; Le Chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1986; L’idea di un progetto storico. Dagli anni ’30 agli anni ’80, Roma 1982; A. Melloni, L’altra Roma. Politica e S. Sede durante il concilio Vaticano II (1959 1965), Bologna 2000; G. Montini, G.B. Montini, Affetti familiari, spiritualità e politica. Cartegio 1900-1942, a cura di L. Pazzaglia, Roma-Brescia 2009; G.B. Montini, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), 4 voll., Brescia-Roma 1997-1998; Id., Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), 1983; Id., Lettere ai familiari (1919-1943), a cura di N. Vian, 2 voll., Brescia-Roma, 1986; Id., Scritti fucini (1925-1933), a cura di M. Marcocchi, Roma 2004; G.B. Montini, J. Maritain, Civiltà dell’educare. Lettere scritti sulla formazione dell’uomo e del cristiano (1926-1973), a cura di R. Rossi, Brescia 2009; G.B. Montini, A. Trebeschi, Corrispondenza (1914-1925), Brescia-Roma 2002; Montini, Journet, Maritain: une famille d’esprit, Journées d’études (Molsheim 1999), Brescia-Roma 2000; Paolo VI e il rapporto Chiesa-mondo al Concilio, Atti del Colloquio Internazionale di studio (Roma 1989), Brescia-Roma 1991; A. Riccardi, Il «partito romano» nel secondo dopoguerra (1945-1954), Brescia 1983 (2007); Id., Il potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Bari-Roma 1993; Id., Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta, Roma-Bari 2003; G. Sale, Dalla monarchia alla repubblica. Santa Sede, cattolici italiani e referendum, Milano 2003; R. Sani, Da De Gasperi a Fanfani. «La Civiltà Cattolica» e il mondo cattolico italiano nel secondo dopoguerra (1945-1952), Brescia 1986; S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione «Dignitatis humanae» sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003; G. Turbanti, Un concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Vaticano II, Bologna 2000; P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1988; Storia del Concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 5 voll., Bologna 1995-2001; Vittorino Veronese dal dopoguerra al Concilio. Un laico nella Chiesa e nel mondo, Roma 1994.
2 R. Moro, La FUCI montiniana in una prospettiva storica, «Ricerca», 6, 1990, 12, p. 42.
3 R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979, p. 65.
4 Lettera del 15 luglio 1923, in G. Montini, G.B. Montini, Affetti familiari, cit., p. 289.
5 G.B. Montini, Idee-forze, «Studium», 24, 1928, p. 343.
6 V. Peri, Le radici italiane nella maturazione culturale di Giovanni Battista Montini, «Archivum Historiae Pontificiae», 22, 1984, p. 318.
7 L. Pazzaglia, Introduzione a G. Montini, G.B. Montini, Affetti familiari, cit., p. 39.
8 M. Bendiscioli, s.v. Paolo VI, in DSMC, II, Casale Monferrato 1982, p. 448.
9 In G.B. Montini, Scritti giovanili, a cura di C. Trebeschi, Brescia 1979, pp. 82-84.
10 Ibidem.
11 In G.B. Montini, Riflessioni su “La luce nelle tenebre” di p. Bevilacqua, in G.B. Montini, Scritti giovanili, cit., pp. 187-222.
12 Ibidem, p. 191.
13 Ibidem, p. 197.
14 Ibidem, pp. 197-198.
15 G.B. Montini, Prefazione a R. Spiazzi, P. Mariano Cordovani dei Frati Predicatori, I, Roma 1954, p. VIII.
16 G.B.M., Cattolicesimo e Idealismo, «Studium», 1928, p. 326.
17 R. Moro, La formazione della classe dirigente, cit., p. 98.
18 Cfr. J. Prevotat, Les sources françaises dans la formation intellectuelle de G.B. Montini (1919-1963), in Paul VI et la modernité dans l’Église, Actes du Colloque organisé par l’École française de Rome (Rome 1983), Rome 1984, p. 102.
19 L. Pazzaglia, Introduzione, cit., p. 19.
20 Ibidem, pp. 78-79.
21 Ph. Chenaux, Paul VI et Maritain. Les rapports du «montinianisme» et du «maritanisme», Roma-Brescia 1994, pp. 26-28.
22 Ibidem, p. 101.
23 Il primo titolo della collana era quello dello scrittore inglese H. Belloc, L’anima cattolica dell’Europa (1927). Tra gli altri autori pubblicati, troviamo G.K. Chesterton, M. d’Herbigny, D. von Hilderbrand, A.-D. Sertillanges.
24 Discorso del 15 giugno 1964, in Morcelliana 1925-1975; Humanitas 1946-1976, Brescia 1976, pp. 138-139.
25 Lettera di Mario Bendiscioli a Fausto Minelli, 7 marzo 1933 (citata in M. Marcocchi, Cristianesimo e cultura nell’Italia del Novecento, Brescia 2008, p. 18, n. 19).
26 M. Bendiscioli, Pensiero e vita religiosa nella Germania del Novecento, a cura di M. Marcocchi, Brescia 2001. Si veda inoltre A. Maffeis, Giovanni Battista Montini, Mario Bendiscioli e l’incontro con la cultura tedesca, «Notiziario dell’Istituto Paolo VI», 2004, 46, pp. 140-153.
27 L’essenza del cattolicesimo (1929) con una prefazione di Giulio Bevilacqua, Cristo nostro fratello (1931), Gesù Cristo (1935). Sull’opposizione romana, si veda M. Bendiscioli, M. Marcocchi, La censura del S.Ufficio a “L’essenza del cattolicesimo di K. Adam: notizie di un carteggio (1929-1935), «Studi e memorie», 7, 1979, pp. 95-147.
28 R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia 1930, con un’ampia introduzione dello stesso Bendiscioli su Romano Guardini e la rinascita cattolica in Germania; Id., I santi segni, Brescia 1931; Id., La coscienza, Brescia 1933.
29 M. Bendiscioli, Germania religiosa nel terzo Reich. Conflitti religiosi e culturali nella Germania nazista. Dalla testimonianza (1933-1945) alla storiografia (1946-1976), Brescia 1977.
30 Cfr M. Marcocchi, Cristianesimo e cultura, cit., pp. 51-65.
31 Articolo del 1928 di G.B.M., Dogma e liturgia, citato in M. Marcocchi, Cristianesimo e cultura, cit., pp. 120-121.
32 Ibidem, p. 120.
33 Ibidem, p. 154, n. 175.
34 R. Moro, Giovanni Battista Montini e il fascismo, in Paul VI et la modernité dans l’Eglise, cit., p. 41.
35 Lettera del 18 febbraio 1929, in Lettere ai familiari (1919-1943), II, cit., Brescia-Roma 1986, pp. 588-589.
36 G.B.M., I cattolici e la cultura, «Azione Fucina», 31 agosto 1930, in R. Moro, La formazione della classe dirigente, cit., pp. 146-150.
37 Ibidem, pp. 150-152.
38 G. Andreotti, Giovanni Battista Montini, aumônier des universitaires et des licenciés, in Paul VI et la modernité dans l’Eglise, cit., p. 38.
39 A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana, 1918-1948, Roma-Bari 1991, pp. 157-161; A. Riccardi, Il «Partito romano» nel secondo dopoguerra, cit.
40 G.B.M., Presentazione, «Ecclesia», 1, 1942, 1, pp. 9-11.
41 M. Cordovani, O.P., Carità e verità, «Ecclesia», 1, 1942, 1, p. 16.
42 Lettera datata Pasqua 1938, in R. Spiazzi O.P., P. Mariano Cordovani dei Frati Predicatori, II, pp. 73-74.
43 G. La Pira, La Chiesa, «Ecclesia», 1, 1942, 1, p. 27.
44 J. Maritain, Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, «Ecclesia», 4, 1945, 12, pp. 588-591.
45 R. moro, La formazione della classe dirigente, cit., p. 540.
46 Ibidem, p. 542.
47 G. Gonella, Presupposti di un ordine internazionale. Note ai messaggi di S.S. Pio XII, Roma 1942.
48 Fu ristampa solo nel 1988 dalla rivista «Civitas».
49 G. Campanini, Dal Codice di Camaldoli alla Costituzione. I cattolici e la rinascita della democrazia, «Aggiornamenti sociali», 56, 2006, pp. 339-410.
50 Ibidem.
51 Lettera di De Gasperi a Giorgio Montini, 25 giugno 1939, citata in L. Pazzaglia, Introduzione, cit., p. 158.
52 A. Giovagnoli, La cultura democristiana, cit., p. 161.
53 «L’Osservatore romano», 14, 18 e 26 giugno 1947.
54 Dispaccio (Maritain) del 10 luglio 1947, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in avanti ASMAE), Europe, Saint-Siège (1944-1949), vol. 9, citato in Ph. Chenaux, Pio XII. Diplomatico e pastore, cit., p. 321.
55 Ibidem, p. 322.
56 F. Malgeri, La presenza di Vittorino Veronese nell’ACI e la rinascita democratica del dopoguerra, in Vittorino Veronese dal dopoguerra al concilio, cit., Roma 1994, pp. 23-24.
57 Ibidem, p. 35, dove si legge il racconto dell’udienza del 4 febbraio 1948.
58 Si vedano a questo proposito i dispacci concordanti degli ambasciatori di Francia e d’Italia presso la Santa Sede dopo una riunione con monsignor Montini, il 23 luglio 1952 (ASMAE, Europe, Saint-Siège 1949-1955, vol. 16; ASMAE, Affari politici 1950-1957, Santa Sede, 1671).
59 Ibidem, pp. 59-60.
60 È questa almeno la tesi sviluppata nel testo di M. Coppetti, F. Vaselli, Giorgio La Pira, agente d’Iddio. Dal «rapporto segreto» di Kruscev al viaggio di Hanoi, Milano 1978, pp. 75 seg.
61 Lettera del 28 marzo 1957, Archivio La Pira, (Firenze).
62 Cfr. A. Tornielli, Paolo VI. L’audacia di un papa, Milano 2009, pp. 169-181.
63 G.B. Montini, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), I, Brescia-Roma 1997, pp. 55-71.
64 Ibidem.
65 E. Versace, Montini e l’apertura a sinistra. Il mito del “vescovo progressista”, Milano 2007.
66 I montiniani appartenevano a un’altra corrente della Dc: Iniziativa democratica.
67 Cit. da A. Torniellli, Paolo VI. L’audacia di un papa, cit., p. 216.
68 G. Rumi, Milano, una seconda Roma al Nord?, in Le Chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Il “partito romano” nel secondo dopoguerra (1945-1954), Roma-Bari 1986, p. 156.
69 Testimonianza citata in Ph. Chenaux, Paul VI et Maritain, cit., p.67.
70 Cit. da A. Tornielli, Paolo VI. L’audacia di un papa, cit., p. 282.
71 A. Rimoldi, La preparazione del concilio, in Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano e il concilio ecumenico Vaticano II. Preparazione e primo periodo, Brescia-Roma 1985, pp. 205-211.
72 Cfr. F.G. Brambilla, Il concilio Vaticano II: Carlo Colombo e l’apporto della “Scuola Milanese”, «Centro Vaticano II. Ricerche e documenti», 5, 2005, 2, pp. 5-39.
73 G.B. Montini, Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), Brescia-Roma 1983, pp. 72-108.
74 Ibidem.
75 Ibidem.
76 Ibidem, pp. 168-177.
77 Ibidem, p. 178.
78 Cfr. J. Grootaers, Paul VI et la liberté religieuse, in Id., Actes et acteurs ò Vatican II, Peeters-Leuven 1998, pp. 90-92.
79 Ph. Chenaux, Paul VI et Maritain, cit., p. 63.
80 Ibidem, p. 64.
81 A. Riccardi, Il potere del papa, cit., p. 283.
82 P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, Roma-Bari 2005, p. 132.
83 G. Girardi, Marxismo e cristianesimo, Assisi 1968.
84 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 2010, p. 182.
85 B. Sorge, Uscire dal tempio. Intervista autobiografica, a cura di P. Giuntella, Genova 1989, p. 94.