Le eredita/1: i rosminiani
Antonio Rosmini (Rovereto 1797-Stresa 1855) si presenta come una personalità geniale e poliedrica, il cui influsso nell’Ottocento e nel Novecento si estende in varie direzioni e a diversi livelli di profondità. La sua eredità interessa anzitutto la storia del pensiero, perché egli è noto in primo luogo per il suo originale sistema filosofico di carattere enciclopedico – l’edizione critica dei suoi scritti consta di sessanta volumi –, che spazia dalla gnoseologia alla logica, dall’ontologia all’etica, dalla teologia all’antropologia, dal diritto alla politica, dalla psicologia alla pedagogia. Ma la sua presenza segna anche, in un modo peculiare, la storia della Chiesa cattolica sia in quanto fondatore di un ordine religioso tuttora operante, l’Istituto della Carità, sia in quanto figura controversa che, dopo le condanne ecclesiastiche del 1849 e del 1887, ha suscitato nei secoli XIX e XX vivaci discussioni, fino alla graduale riabilitazione della seconda metà del Novecento e alla recente beatificazione (2007). Non da ultimo Rosmini appartiene alla storia politica d’Italia, quale autorevole punto di riferimento per la pubblica opinione, e soprattutto come protagonista delRisorgimento nazionale. Se a ciò si aggiungono l’ampia rete di relazioni e il copiosissimo epistolario – l’edizione critica prevede venti volumi – si comprende subito come la sua eredità religiosa, culturale e politica, rilasciata nel corso del tempo, sia di fatto incalcolabile, qualitativamente molto varia, in ogni caso vastissima1.
In questa cornice, se rosminiani sono senza dubbio gli appartenenti all’Istituto della Carità – preti, suore della Provvidenza, ascritti laici –, di essi verranno prese in considerazione in questa sede solo le figure più rilevanti sotto il profilo della produzione culturale. D’altro canto si trovano seguaci ed estimatori diRosmini – denominati spesso filorosminiani o rosministi – anche al di fuori dell’Istituto: si tratta di figure sulle quali l’eredità rosminiana ha influito con estensione e profondità alquanto varie, quasi sempre in modo selettivo, interagendo con altri influssi religiosi e culturali, ma lasciando comunque una traccia significativa nelle biografie intellettuali e spirituali di queste personalità. Infine esistono gli interpreti e gli studiosi di Rosmini – più, meno, o per nulla seguaci dell’abate di Rovereto, talora anzi su posizioni molto diverse – ma che, soprattutto in alcuni casi, hanno inciso considerevolmente nella comprensione e nell’approfondimento dell’eredità rosminiana, condizionandone la ricezione in modo duraturo. La storia del rosminianesimo non può essere ricostruita che a partire dalla diversificazione interna e insieme dall’intreccio tra queste sue componenti.
Tuttavia un tale alveo rimane ancora troppo vasto per una sintesi storiograficamente originale. Esistono già ricognizioni generali, anche se di ‘primissima approssimazione’2, oppure ricostruzioni settoriali di diversa ampiezza e caratura scientifica, vuoi sotto il profilo tematico3, vuoi dal punto di vista cronologico4 o di storia locale5. Manca ancora, invece, un profilo della storia del rosminianesimo che assuma il famoso libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa6 come prospettiva ermeneutica privilegiata. Un tentativo in questa direzione merita di essere compiuto sia per la comprovata fecondità di tale approccio storiografico alla figura e al pensiero di Rosmini7, sia perché nessun’altra opera del Roveretano ha avuto una fortuna e una risonanza paragonabili: basti ricordare che dal 1848 ai nostri giorni sono state pubblicate oltre venti edizioni, comprese sei traduzioni, senza contare le numerose ristampe e gli estratti8. Non a caso tuttavia si è parlato di ‘prospettiva ermeneutica privilegiata’ e non esclusiva, perché le Cinque piaghe – lette e interpretate nel corso del tempo in contesti storici diversi – non possono essere adeguatamente comprese in modo avulso dalla più ampia ricezione dell’eredità rosminiana sul piano religioso, culturale e politico, né a prescindere da quei contesti.
Come è noto, gran parte di questa ‘operetta’ – così la definisce spesso l’autore – venne scritta tra novembre 1832 e marzo 1833, nel cuore della Restaurazione. In quel momento Rosmini aveva già chiaramente delineato le scelte fondamentali della sua vita: nel 1828 aveva fondato a Domodossola l’Istituto della Carità, che alla fine del 1830 iniziava a mettere radici anche a Trento; pochi mesi prima era uscito a Roma il Nuovo saggio sull’origine delle idee, seguito a breve distanza dai Principii della scienza morale. Il rinnovamento della vita religiosa e la «ristorazione della filosofia» erano, nelle sue intenzioni, due facce del medesimo contributo a una più ampia e desiderabile riforma della Chiesa cattolica, che l’elezione al soglio pontificio di Gregorio XVI, amico e corrispondente del Roveretano9, sembrava incoraggiare. Ma proprio questi nuovi inizi dovevano ben presto scontrarsi con la dura realtà: nello scenario politico europeo e italiano l’ondata rivoluzionaria del 1830-1831 era quasi ovunque repressa duramente, e insieme veniva restaurato il ‘giurisdizionalismo confessionale’ delle monarchie assolute, che consentiva allo Stato un’ingerenza paralizzante nella vita delle diocesi in particolare nella nomina dei vescovi; sul versante ecclesiale l’enciclica Mirari vos dell’agosto 1832 avviava la chiusura sempre più netta del papato nei confronti di ogni prospettiva di rinnovamento interno e verso qualunque forma di dialogo con i regimi liberali. A Rosmini, che poco prima aveva misurato anche le divergenze con la Compagnia di Gesù intorno a una possibile revisione della ratio studiorum deiGesuiti e le forti resistenze dell’autorità politica allo sviluppo del suo Istituto in Trentino, non restava che prendere dolorosamente atto della situazione e affidare le proprie amare riflessioni sulle ‘piaghe della Chiesa’ a un libro rimasto incompiuto e ben presto riposto nel cassetto.
In questa singolare ‘operetta’ – rivista e completata nel novembre 1847, pubblicata nel maggio 1848, condannata dalla Congregazione dell’Indice esattamente un anno dopo – l’abate di Rovereto contemplava la Chiesa crocifissa come il suo Fondatore e dolorosamente attraversata nel suo corpo da cinque piaghe: la piaga della mano sinistra era «la divisione del popolo dal Clero nel pubblico culto», quella della mano destra era «la insufficiente educazione del Clero», quella del costato era «la disunione de’ Vescovi», quella del piede destro era «la nomina de’ Vescovi abbandonata al potere laicale», cioè politico, quella infine del piede sinistro era «la servitù de’ beni ecclesiastici» al medesimo potere10. Le prime due riguardavano i mali interni del corpo ecclesiale, le ultime due i suoi rapporti con il mondo, quella di mezzo faceva da snodo tra le une e le altre. Ciascuna piaga era individuata sulla base di un confronto «fra la condizione in cui oggidì [1832-1833] si trova la Chiesa e quella in cui ella si trovava quando nel popolo cristiano fioriva più ardente la fede e la carità»11, vale a dire – secondo l’autore – nei primi sei secoli della sua storia. Le cinque arcate parallele che si distendevano da quella prima epoca all’odierna erano coperte da una serrata ed eruditissima analisi storica in cui, seguendo sostanzialmente un medesimo schema, l’autore mostrava come ciascuna piaga si fosse prodotta. L’unità, la povertà e soprattutto la libertà della Chiesa antica, in particolare nelle elezioni vescovili a clero e popolo e nell’amministrazione dei propri beni, assurgevano a paradigma ideale, orientativo anche per il futuro; il feudalesimo, il cui «spirito» di ingerenza nella vita ecclesiale si faceva ancora sentire nel ‘giurisdizionalismo confessionale’ delle monarchie restaurate, era visto come «l’unica, o certo la principalissima fonte di tutti i mali»12.
Tuttavia Rosmini non era il solo, in quel tornante storico, ad avvertire l’urgenza di una riforma ecclesiale, che comunque trapelava chiaramente nella corrispondenza privata. Un significativo humus riformistico-religioso stava maturando in Europa: Möhler, Sailer e Wessemberg in Germania, Lamennais e Saint-Simon in Francia, Lambruschini e Capponi in Italia13. Tra i cattolici-liberali nostrani, in particolare, due figure d’eccezione si affiancarono a Rosmini, stabilendo con lui un vivo e duraturo rapporto d’amicizia e condividendone non poche aspirazioni riformistiche: Manzoni e Tommaseo14. Se non è possibile, in questi casi, parlare di eredità, certo non è fuori luogo rilevare puntuali convergenze con il riformismo rosminiano, in particolare nelle riflessioni che a Parigi, nel 1835, Tommaseo affidava ai libri Dell’Italia, diffusi nel nostro paese con il titolo di Opuscoli inediti di fra Girolamo Savonarola15.
Il corso degli eventi cominciò ad apparire più favorevole agli occhi di Rosmini nel decennio successivo con il rafforzamento del movimento nazionale, la diffusione del progetto neoguelfo di una confederazione degli Stati italiani presieduta dal papa e soprattutto con l’elezione di Pio IX al soglio di Pietro nel 1846. Le prime scelte del nuovo pontificato, il mito crescente del ‘papa liberale’ e la stipula nel novembre 1847 di un accordo tra Pio IX, Carlo Alberto e Leopoldo II per la formazione di una lega doganale in Italia dovettero persuadere Rosmini della portata realmente provvidenziale degli avvenimenti. Egli decise allora di completare la stesura della quinta piaga e, prima dello scoppio delle rivoluzioni, di dare alle stampe la sua ‘operetta’ insieme a un altro scritto assai diverso, ma che gli era parimenti caro, la Costituzione secondo la giustizia sociale. I due libretti videro la luce quasi contemporaneamente nella prima metà di maggio 1848 e nel nuovo clima rivoluzionario tutto indusse a pensare che l’autore avesse inteso proporre, in due opere parallele e simultanee, un piano di riforma costituzionale valida per lo Stato e un analogo progetto di riforma valido per la Chiesa. Né si può negare che anche nelle intenzioni di Rosmini le due ‘operette’, per quanto diverse sotto vari aspetti, facessero parte di un unico disegno volto al risorgimento della Chiesa e alla sua piena libertà da ogni ipoteca giurisdizionalistica proprio attraverso ilRisorgimento degli Stati italiani in un’unica confederazione presieduta dal papa16. Lo stesso prete di Rovereto ha lasciato una testimonianza diretta della prima accoglienza delle Cinque piaghe nell’Avvertimento, scritto poco più di un anno dopo, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto aprire un’auspicata seconda edizione, ritoccata qui e là con emendamenti e aggiunte esplicative:
«Nell’avvenimento al trono di Pio IX l’autore dando alla luce quest’operetta, scritta diciassett’anni fa, intendeva di comunicarla ad alcuni scelti amici, com’egli dichiara nella conclusione della medesima. Ma essendone pervenuti alcuni esemplari in mano dei librai, questi, contro la volontà dell’autore, ne fecero altre edizioni per isperanza di trarne guadagno, e così ella ebbe una pubblicità maggiore e più celere che l’autore medesimo non avrebbe desiderato. Abbandonata in tal guisa ad ogni maniera [de’] lettori, il giudizio portatone dal pubblico fu vario: altri la innalzarono alle stelle, altri la depressero nell’abisso»17.
Due dati, in particolare, colpiscono in questa prima valutazione sintetica stesa all’insaputa della condanna del 30 maggio: in primo luogo il successo del tutto imprevisto dell’‘operetta’ – ben cinque edizioni oltre alla princeps stampata a Lugano presso la tipografia Veladini18 – che agli occhi dell’autore appariva quasi uno scippo perpetrato ai suoi danni dai librai a scopo di lucro; in secondo luogo la spiccata polarizzazione dei giudizi da parte dei lettori, tratto che doveva segnare a lungo la fortuna del libretto. Quello che Rosmini non dice è che almeno fino all’estate del ’48 il giudizio sulle Cinque piaghe fu prevalentemente positivo. In quei mesi solo due apparivano i punti effettivamente controversi: in primo luogo le modalità di partecipazione dei fedeli alla liturgia, che sembravano aprire la strada alla celebrazione dei riti in lingua volgare e accomunare Rosmini agli eretici del secolo precedente, i giansenisti; in secondo luogo il desiderio del Roveretano di introdurre nuovamente le elezioni vescovili a clero e popolo, proposta che egli si era affrettato a precisare in due lettere al canonico Giuseppe Gatti pubblicate su «Fede e patria» in giugno e in settembre, ma che a molte orecchie doveva suonare addirittura temeraria in quei mesi di rivolgimenti popolari. Con la sua discesa a Roma nell’agosto 1848 – prima come inviato del Regno di Sardegna, poi come consigliere personale di Pio IX e, si sussurrava nei corridoi del Quirinale, come futuro Segretario di Stato – le speranze di Rosmini divennero incubi per una parte crescente della curia pontificia, nella quale ebbero un ruolo di primo piano il nuovo Segretario di Stato cardinale Antonelli e il capo della vecchia guardia legata al papa precedente, cardinale Lambruschini, fautori di una linea reazionaria che, dopo l’avvento della Repubblica romana, divenne rapidamente maggioritaria. Fu soprattutto grazie ai loro convergenti maneggi che, tra dicembre ’48 e marzo ’49, il rapporto tra Rosmini e Pio IX si raffreddò e le accuse, più o meno fondate, nei confronti delle Cinque piaghe e della Costituzione si aggravarono in modo irrimediabile. Ma la sconfitta della linea rosminiana tanto sul versante ecclesiale quanto su quello politico doveva trovare anche una sanzione pubblica e così, nonostante le ripetute lettere di chiarificazione e di sottomissione del prete di Rovereto al pontefice, il 30 maggio 1849 la Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, riunita a Napoli in seduta straordinaria, decretò la condanna delle Cinque piaghe e della Costituzione secondo la giustizia sociale, insieme al Gesuita moderno di V. Gioberti e al Discorso funebre per i morti di Vienna di G. Ventura. A quel punto Pio IX, confermando il decreto, impose che il verdetto, prima della pubblicazione, fosse comunicato a Rosmini, il quale fu raggiunto ad Albano, ospite del cardinale Tosti, solo a metà agosto e lì espresse la propria sottomissione «puramente, semplicemente e in ogni miglior modo possibile», ma senza alcuna ritrattazione formale19. In piena coerenza con tale scelta il pensatore di Rovereto mise nel cassetto, come già aveva fatto nel ’33, la seconda edizione delle Cinque piaghe che stava predisponendo, cercò di impedire ulteriori ristampe del libretto incriminato e difese anche pubblicamente l’operato della Congregazione20.
La pubblicazione e la condanna delle Cinque piaghe e della Costituzione nel biennio 1848-1849 marcarono uno spartiacque: esse rappresentarono anzitutto il sigillo della svolta anti-costituzionale di Pio IX, la quale da un lato apriva una nuova fase del suo pontificato, dall’altro poneva le premesse della questione romana, che per parecchi decenni avrebbe opposto la Santa Sede al nuovo Stato italiano. Nel medesimo tempo la condanna delle due ‘operette’ segnò una fase nuova anche nella storia del rosminianesimo, facendo esplodere la cosiddetta ‘questione rosminiana’ e intrecciando due livelli di discussione e di polemica che fino a quel momento nel campo cattolico erano rimasti relativamente distinti: quello filosofico-teologico e quello politico-ecclesiale. Il composito fronte antirosminiano – capeggiato in modo sempre più chiaro dai Gesuiti, in testa padre Antonio Ballerini – dopo aver incassato la sconfitta del Roveretano sul piano politico-ecclesiale, tra il 1848 e il 1854 cercò di ottenere anche la condanna del suo sistema filosofico sotto l’egida dell’incipiente rinascita neotomista, ma senza successo, perché la commissione incaricata da Pio IX di esaminare tutte le opere del filosofo di Rovereto concluse i suoi lavori con un decreto, reso noto il 3 luglio 1854 e passato alla storia con il nome Dimittantur, nel quale si dichiaravano ammissibili tutti gli scritti, a eccezione delle Cinque piaghe e della Costituzione. Viceversa l’altrettanto composito fronte rosminiano – minoritario, ma accomunato dall’adesione al costituzionalismo e alla causa nazionale – attraverso una pubblicistica vigorosa e misurata, nella quale si segnalò soprattutto Alessandro Pestalozza, contribuì efficacemente sul piano filosofico all’esito positivo dell’esame. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che l’astiosa campagna messa in moto contro il pensiero rosminiano restasse senza effetto, perché proprio in questi anni prese tacitamente l’avvio nei seminari, soprattutto nell’Italia del Nord, una politica formativa di indirizzo neotomista volta a scalzare o a emarginare, spesso duramente, gli insegnanti filorosminiani, proprio mentre sul versante pedagogico e della politica scolastica statale l’influsso rosminiano, e più latamente cattolico-conciliatorista, consolidava un’egemonia che si sarebbe prolungata lungo tutta l’età della Destra storica, grazie in particolare a figure di spicco come Giovanni Antonio Rayneri, Ruggero Bonghi e Giuseppe Allievo21.
In questo contesto la polemica sulle Cinque piaghe si concentrò, a ridosso della condanna, soprattutto intorno al nodo delle elezioni vescovili. Benché già nel febbraio 1849 fosse uscita, sempre su «Fede e patria», una terza lettera chiarificatrice di Rosmini al canonicoGatti, durante il suo soggiorno ad Albano, nell’agosto successivo, gli pervenne una copia del libro dell’oratoriano Agostino Theiner che contestava aspramente le sue tesi al riguardo22. Il prete di Rovereto avviò allora la stesura di un’ampia replica, che venne completata dopo il ritorno a Stresa nel novembre 1849 e data alle stampe per iniziativa degli editori pochi mesi dopo, ma non divulgata23. È chiaro che l’opuscolo del Theiner, in quel contesto di rivoluzione e di restaurazione, cercava di colpire l’‘operetta’ nel suo punto politicamente più «inopportuno e imprudente», a tutto vantaggio delle monarchie assolute. Esso era invece il più qualificante e strategico dal punto di vista di Rosmini, che nelle elezioni vescovili a clero e popolo vedeva il perno della sua prospettiva di riforma ecclesiale e insieme un elemento decisivo della sua proposta politica, che assegnava ai vescovi un insostituibile ruolo di mediazione tra il popolo e il governo civile. In entrambi i casi veniva confermato il nesso strettissimo tra causa nazionale e riformismo ecclesiale che, già implicito nel ‘gran disegno’ rosminiano del 1848, era stato sancito dalla condanna contemporanea delle Cinque piaghe e della Costituzione ed era in vario modo destinato a consolidarsi nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento. Almeno due dati sembrano confermarlo: l’uscita di due nuove edizioni delle Cinque piaghe in un anno decisivo come il 1860 e in due città non casuali: Firenze e Napoli. Come pure l’importante ruolo svolto da filorosminiani e rosminiani di stretta osservanza, come Gustavo di Cavour e padre Jacopo Molinari, nelle trattative Pantaleoni-Passaglia, che tra novembre 1860 e marzo 1861 rappresentarono l’ultimo tentativo di conciliazione tra Pio IX e il nascente Stato italiano prima dell’Unità: come è noto, fra i punti oggetto di discussione affiorarono temi cari al Rosmini delle Cinque piaghe, come l’elezione dei pastori a clero e popolo e la libertà della Chiesa da ogni ingerenza giurisdizionalistica dello Stato. Ma è stato giustamente osservato che la carica riformatrice impressa al negoziato non fu una delle ultime ragioni per cui le trattative fallirono e che l’idea stessa di libertà era ancora troppo spesso guardata in campo cattolico ed ecclesiastico come tipica eresia moderna24.
La proclamazione del Regno d’Italia nel marzo 1861 avvenne dunque in un clima di forte contrapposizione tra Stato e Chiesa e le vibranti parole di Camillo di Cavour sul destino di Roma come futura capitale del Regno, con la conseguente soppressione dello Stato pontificio, risuonarono con drammatica gravità in campo cattolico, ponendo chiaramente sul tappeto il nodo del potere temporale del papa e dividendo clero e laicato in opposte fazioni. Ne risentì anche l’accennato nesso tra causa nazionale e riformismo ecclesiale rosminiano, che assunse rapidamente una curvatura antitemporalista. La pubblicistica del cosiddetto ‘clero nazionale’ diede infatti notevole spazio a motivi rosminiani – in particolare a quello di una Chiesa libera, senza ‘privilegi’ né ‘angherie’ da parte dello Stato, inquadrata dentro i limiti del diritto comune – ma caricando spesso il processo di unificazione nazionale e la caduta del potere temporale, considerata inevitabile, di una funzione palingenetico-riformatrice impropria e, alla fine, illusoria.
Nei primi anni unitari varie testate, alle quali collaborarono non pochi preti e laici filorosminiani, sorsero in Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana e Campania, spesso con una sostanziale continuità del gruppo redazionale: a Milano dal «Conciliatore» al «Carroccio», a Torino da «Il Mediatore» a «La Pace», a Genova dagli «Annali cattolici» alla «Rivista universale». In Toscana uscì l’«Esaminatore», che a differenza delle altre testate insistette sulla separazione tra Stato e Chiesa, fondamentale per un’armonia tra le due istituzioni, invano cercata in «forzati connubi» o in «concordati mondani ed effimeri». Su posizioni più audacemente riformiste si collocò il gruppo napoletano della «Società emancipatrice del sacerdozio italiano», che diede vita al giornale l’«Episcopato cattolico», sostenitore di tesi antiromane come l’elettività dei preti, dei vescovi e dello stesso pontefice, nonché la legittimità del matrimonio civile e l’inopportunità del celibato ecclesiastico25. Ma insieme a una certa fragilità sul piano culturale, ben lontana dal respiro e dalla robustezza delle Cinque piaghe, la curvatura anti-temporalista di questi periodici finì spesso per ridurre sensibilmente il senso e la portata del riformismo rosminiano e per lasciare spazio a rivendicazioni emancipative del clero ad esso estranee. L’eccezione più significativa sembra essere quella dell’ex gesuita Carlo Passaglia, che a Torino dirigeva «Il Mediatore» e che nel 1862 fu l’estensore del famoso indirizzo del clero italiano a Pio IX, sottoscritto da circa novemila firmatari. Pur nel fervore di un’attività pubblicista senza tregua, Passaglia avviò infatti in numerosi opuscoli un ripensamento dottrinale che aveva un’organicità e una complessità sconosciute al resto del ‘clero nazionale’. Partendo dalla prospettiva di una ecclesiologia rinnovata, che attingeva a fonti bibliche e patristiche spesso comuni a quelle delle Cinque piaghe, egli giungeva a cimentarsi su tematiche politico-ecclesiastiche di stretta attualità: in particolare del riformismo rosminiano riprendeva alcuni temi caratteristici, come la formazione del clero e le elezioni vescovili, ma piegandoli a un’immediata esigenza riformatrice e operativa nell’ambito delle istituzioni26.
L’indebolimento e la diaspora del rosminianesimo nel corso degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento non si spiega, peraltro, senza tener conto del contestuale irrigidimento dell’ultima fase del pontificato di Pio IX sancito dalla pubblicazione del Sillabo nel 1864, dalle costituzioni del concilio Vaticano I – che dogmatizzavano il primato papale e l’annessa infallibilità in materia di fede e di morale – e dalla reazione alla presa di Roma nel 1870, con l’annuncio del non expedit e il decollo dell’Opera dei congressi, che inquadrava il laicato cattolico militante entro posizioni di assoluta intransigenza. In questo clima, come facilmente si comprende, lo spazio per il riformismo rosminiano divenne sempre più esiguo. Emblematico in tal senso, oltre che fortemente simbolico, fu il caso dell’edizione delle Cinque piaghe, stampata a Rovereto nel giugno 1863 in coincidenza con il terzo centenario della chiusura del concilio di Trento. Singole copie dovevano essere recapitate privatamente a ciascuno dei «padri conciliari», come furono chiamati i vescovi convocati a Trento per l’occasione, ma non giunsero mai nelle mani dei destinatari, perché vennero trafugate e bruciate dagli ecclesiastici di curia27. Tuttavia anche in questi anni non mancarono luminose personalità filorosminiane di riferimento – come monsignor Lorenzo Gastaldi, Niccolò Tommaseo, Ruggero Bonghi, Carlo Pagano Paganini, Antonio Cicuto, più tardi monsignor Geremia Bonomelli e, tra le fila dei religiosi, Francesco Angeleri, Sebastiano Casara, monsignor Luigi Puecher Passavalli – e qualche tentativo di parziale ripresa, con «L’ateneo religioso» di Torino, con il libro Della società politica e religiosa dell’Audisio (1876) e con alcuni esperimenti di elezione popolare dei parroci – ad Agrigento, a Napoli, a Mantova, ad Acqui – energicamente rintuzzati dagli articoli dei padri Liberatore e Steccanella sulle pagine de «La Civiltà cattolica», tra il 1876 e il 1878, articoli ai quali il pur valente filorosminiano Giuseppe Buroni poté rispondere solo con argomenti ‘di retroguardia’28. Di ben più ampio respiro, al confronto, anche se non prive di fraintendimenti, erano state le lezioni tenute a Roma qualche anno prima da Francesco De Sanctis29. In realtà il declino del riformismo rosminiano in questo periodo non si spiega soltanto con ragioni intra-ecclesiali: esso aveva anche motivazioni, per così dire, endogene, legate a una sua interpretazione riduttiva, in quanto declinato a partire da e in funzione del conflitto istituzionale tra Stato e Chiesa, con appresso l’ombra costante di una condanna ecclesiastica. Ma più in generale era l’intera cultura risorgimentale italiana a dare segni di esaurimento, proprio quando la rivoluzione darwiniana e l’affermarsi del positivismo aprivano nuove, cruciali questioni.
L’ascesa al soglio pontificio di Leone XIII nel 1878 confermò, per quanto concerne il riformismo politico-ecclesiale, questa linea di tendenza, ma portò anche a una soluzione lacerante dell’intera ‘questione rosminiana’. Come si è appena accennato, quest’ultima era stata larvatamente riaperta a metà degli anni Settanta proprio intorno a un’opera del filorosminiano Pietro Antonio Corte e alla questione delle cosiddette ‘elezioni popolari’, ma la sua recrudescenza nei primi anni del nuovo pontificato fu determinata dalla convergenza di almeno quattro fattori: oltre alla diaspora del rosminianesimo, di cui si è detto, una condizione decisiva fu creata dalla promulgazione, nel 1879, dell’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che per un verso tributava il più alto riconoscimento alla rinascita neotomista dei decenni precedenti, per l’altro indicava un preciso e vincolante indirizzo di ‘politica scolastica’ per il rinnovamento culturale nei seminari e negli studi teologici degli ordini religiosi30: tra i molti casi di forzato adeguamento, particolarmente doloroso e significativo fu quello dei barnabiti31. Il terzo fattore è legato alla pubblicazione, tra il 1857 e il 1881, di parecchie opere postume del pensatore di Rovereto, alcune delle quali – come la Teosofia, Del divino nella natura, Il linguaggio teologico – di capitale importanza per la comprensione del suo sistema filosofico-teologico. Ed è proprio in queste opere che il gesuitaGiovanni Maria Cornoldi, che fin dall’inizio aveva seguito da vicino la polemica intorno al sistema filosofico rosminiano, ritenne di poter trovare con certezza gli elementi eterodossi che configuravano il rosminianesimo come «sintesi dell’ontologismo e del panteismo»32. La travagliata querelle si concluse, come è risaputo, con il decreto Post obitum del 14 dicembre 1887, reso noto il 7 marzo 1888, che riprovava quaranta proposizioni tratte dalle opere di Rosmini come «non consone alla verità cattolica»33. Dopo la condanna del Rosmini ‘riformatore’ del 1849, ora il variegato fronte antirosminiano otteneva la condanna anche del Rosmini ‘filosofo e teologo’. Il colpo, per i seguaci e gli estimatori del pensatore di Rovereto, fu durissimo.
In questo contesto anche il riformismo rosminiano, in particolare quello delle Cinque piaghe, venne ulteriormente delegittimato. Tra il 1879 e il 1881 l’abbandono, da parte del nuovo pontefice, dei toni aspramente polemici del predecessore nei confronti dello Stato italiano sembrava aver creato le condizioni favorevoli per una ripresa conciliatorista. Nel 1879 erano iniziate le pubblicazioni di due riviste dichiaratamente filorosminiane: «La Sapienza» di Torino e «La Rassegna nazionale» di Firenze. Nel 1880 era apparso il primo volume Della vita di Antonio Rosmini, scritta da Francesco Paoli anche con lo scopo di porre le premesse per l’introduzione di un’auspicata causa di beatificazione dell’abate di Rovereto34. Ma, dopo il riaccendersi della ‘questione rosminiana’ nel 1881, si preferì non complicare la posizione del Roveretano con la ripresa di temi riformistici sui quali già gravava la condanna del 1849. È anche in questa luce, oltre alle ragioni personali e a quelle interne alla Chiesa inglese, che si comprende l’atteggiamento molto cauto del cardinale John Henry Newman, già legato in vario modo a Rosmini e ai rosminiani d’oltremanica, nei riguardi della traduzione inglese delle Cinque piaghe, uscita a Londra nel 1883: in una lettera di risposta al traduttore, egli confidava di trovare il libro non privo di utili «insegnamenti», ma anche lontano dalla realtà «e, potrei dire, rivoluzionario», «perché quasi condanna i principi secondo i quali la Chiesa ha agito fin dai tempi di Costantino», e comunque animato da un «tono» che non lo convinceva35. Tuttavia nei medesimi anni, per uno di quei paradossi di cui talora la storia sembra compiacersi, il rilancio più convincente di motivi cari al riformismo ecclesiale rosminiano fu realizzato, ancora una volta dopo Passaglia, da un ex gesuita di grande fama, il padre Carlo Maria Curci, fondatore e primo direttore de «La Civiltà cattolica», il quale formulò, se pur in modo frammentario e non senza inflessioni polemiche, un autentico piano di riforma della Chiesa, contenuto nella trilogia di opere pubblicate nel 1881, nel 1883 e nel 1884, tutte subito messe all’Indice36. Né sorte migliore incontrò la breve stagione conciliatorista del 1887: dopo le speranze, o le illusioni, della primavera di quell’anno, che avevano incoraggiato il cassinese padre Luigi Tosti a pubblicare l’opuscolo La Conciliazione, in luglio egli era costretto a far uscire, sull’«Osservatore romano», una lettera di ritrattazione37. In modo ancora peggiore uscì da quella vicenda, che l’aveva fortemente coinvolto, monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, che vide iscritto all’Indice, nel 1889, il suo opuscolo su Roma e l’Italia e la realtà delle cose, episodio doloroso che favorì in modo decisivo il suo avvicinamento alla spiritualità rosminiana e alla meditazione delle Cinque piaghe38. Cosicché, collegando il Post obitum del dicembre 1887 con la ritrattazione di padre Tosti del luglio precedente e la condanna di Bonomelli del 1889, si è indotti da più ragioni ad accostare le condanne del biennio 1848-1849 con quelle del triennio 1887-1889, quasi che Roma intendesse confermare nuovamente, e in modo ancor più netto, la scelta di una linea anti-rosminiana sia sul piano filosofico-teologico sia su quello politico-ecclesiastico. In ogni caso la scansione degli eventi lascia supporre che il Post obitum fosse un tassello decisivo all’interno di un più vasto indirizzo di governo ecclesiastico, volto a chiudere, se possibile, l’annoso capitolo della ‘questione rosminiana’ e a colpire, nello stesso tempo, un più vasto orientamento conciliatorista presente nel clero e nel laicato cattolico39.
La condanna del Post obitum chiuse in un certo senso un’epoca e contestualmente un paradigma interpretativo del riformismo ecclesiale del Roveretano. La chiuse sino a rendere, almeno in apparenza, molto problematica la stessa continuità di una significativa presenza rosminiana nel tessuto della cultura cattolica. Il periodo tra il 1888 e il 1897 fu probabilmente il più buio e doloroso per i seguaci e gli estimatori del filosofo. Eppure, a ben vedere, proprio negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, in concomitanza con la piena egemonia culturale del positivismo, cominciò a farsi strada un altro paradigma interpretativo della tradizione rosminiana, che aprì una nuova fase anche nella ricezione delle Cinque piaghe. Si trattava di un paradigma che spostava il baricentro del rosminianesimo dalla polemica tutta interna alla cultura cattolica tra neotomisti e filorosminiani al confronto aperto con le sfide delle «scienze positive» e delle nuove filosofie coeve e contemporaneamente dal conflitto tra Stato e Chiesa alla ricerca di una nuova apologetica della fede cattolica e di un profondo rinnovamento spirituale, culturale e pastorale della Chiesa. Per certi versi riaffiorava in forme nuove il paradigma originario del rosminianesimo, quello precedente il 1848.
L’anticipatore di questo nuovo orientamento può essere considerato, già nella prima metà degli anni Ottanta, l’abate Antonio Stoppani con il volume Il Dogma e le scienze positive, che nella prima edizione del 1884 conteneva un’ampia appendice dedicata al noto indirizzo del Passaglia a Pio IX, mentre nella seconda edizione del 1886 era significativamente privo di tale appendice, che andava a costituire il nucleo di un’altra opera intitolata Gli intransigenti alla stregua dei fatti vecchi, nuovi e nuovissimi. Questa seconda edizione – per un verso depurata, per l’altro rivista e ampliata – aprì la via alla nuova fase di cui si è detto40. Lungo tale strada s’incamminarono negli anni successivi, se pur a un livello più pubblicistico, rosministi come Pietro Stoppani, nipote dell’abate, e Lorenzo Michelangelo Billia, che rispettivamente sulla «Rassegna nazionale» e sul «Nuovo Risorgimento» continuarono a sviluppare la riflessione sul rapporto tra fede cattolica ed evoluzionismi41. Ma il contributo più originale su questo fronte, se pur speculativamente fragile, venne da un filorosminiano sui generis come lo scrittore vicentino Antonio Fogazzaro, che tra il 1891 e il 1898 tenne sei conferenze di grande risonanza, poi raccolte nel volume Ascensioni umane42. L’originalità del tentativo fogazzariano stava meno, come spesso si è creduto, nello sforzo di conciliare il dogma cattolico con il darwinismo, cosa che in realtà gli riuscì ben poco43, quanto piuttosto nell’assunzione consapevole del moderno paradigma evoluzionista come strumento ermeneutico per reinterpretare in maniera culturalmente più aggiornata e persuasiva non solo il dogma della creazione, ma potenzialmente l’intera dottrina cattolica, dalla concezione di Dio fino all’antropologia e alla morale sessuale44. In altre parole l’operazione del Fogazzaro si collocava sul terreno di una nuova apologetica embrionalmente modernista piuttosto che su quello di una reale conciliazione tra fede e scienza.
In questo contesto, solcato dalle prime crepe dell’egemonia positivista e dal rigoglio di nuove istanze neospiritualistiche, si celebrò, nel 1897, il centenario della nascita di Rosmini, che rappresentò anche il primo momento corale di reazione e di rilancio dell’eredità rosminiana dopo il Post obitum: venne pubblicata la biografia di G.B. Pagani, destinata ad avere grande fortuna nel corso del Novecento45, ma soprattutto videro la luce due ponderosi volumi, opera di una trentina di scrittori italiani e stranieri, che nel riprendere in vario modo la lezione del Roveretano diedero un segnale non trascurabile di anticonformismo all’interno della Chiesa e della cultura cattolica del tempo, ormai egemonizzate dagli intransigenti e dai neotomisti46. Anche le Cinque piaghe vennero in vario modo riprese, finalmente al di fuori dell’ottica politico-ecclesiastica del paradigma precedente e ricondotte nell’alveo di un riformismo culturale ed ecclesiale che già incubava le problematiche della crisi modernista. Ancora una volta fu soprattutto nei tre scritti stesi da Antonio Fogazzaro per il centenario che le Cinque piaghe tornarono a farsi sentire. Tuttavia il rilancio proposto dallo scrittore vicentino fu quanto mai significativo del nuovo clima che si respirava sul finire del secolo, perché non solo egli selezionava, nell’ampio ventaglio di temi presenti nell’‘operetta’, alcuni motivi a preferenza di altri – ad esempio insistendo in modo quasi ossessivo sull’arretratezza teologica e culturale del clero47 – ma li riprendeva con un accento ben diverso, privandoli dello spessore storico e teologico che avevano nel testo originario e piegandoli polemicamente al duro conflitto con gli intransigenti e con il clima oppressivo da essi instaurato nell’ambito ecclesiale: era soprattutto l’istanza di libertà di coscienza e di parola nella Chiesa che balzava in primo piano, mentre – come è noto – nelle Cinque piaghe il tema della libertà era svolto prevalentemente in chiave antigiurisdizionalistica, contro l’indebita invadenza dello Stato nello spazio ecclesiale. Questa operazione selettiva e questo spostamento di accenti era solo un anticipo di quanto avvenne in modo ancora più marcato con Il Santo48. È innegabile che nel romanzo fogazzariano, pubblicato con enorme clamore nel novembre 1905 (ma con la data del 1906), vi fossero echi delle Cinque piaghe, specialmente nel famoso discorso di Benedetto al Papa sui ‘quattro spiriti maligni’ entrati nel corpo della Chiesa, ma questi echi si mescolavano con parecchie altre fonti di matrice modernista, che avevano alla fine un peso preponderante, e soprattutto era la prospettiva generale che cambiava in modo profondo: nell’‘operetta’ rosminiana la riforma era interamente concepita nel quadro dell’istituzione ecclesiastica, delle sue strutture e dei suoi vincoli, era in senso proprio un rinnovamento della Chiesa auspicato da un angolo visuale storico-oggettivo; nel Santo la riforma veniva concentrata in un testimone d’eccezione, Benedetto appunto, e rilanciata con forza verso l’istituzione proprio a partire dalla sua esperienza carismatica, mistica e soggettiva49. A ogni modo la condanna del Santo nel 1906 e l’enciclica Pascendi diPio X, promulgata l’anno successivo, stroncarono sul nascere le speranze di riforma cattolica cullate dai modernisti più sensibili all’eredità religiosa del Risorgimento, nonostante qualche significativa ripresa delle Cinque piaghe in Tommaso Gallarati Scotti a proposito dell’insegnamento catechistico nella scuola pubblica50.
Tuttavia, mentre sul finire dell’Ottocento la cultura positivista era già in declino, il nuovo paradigma ermeneutico dell’eredità rosminiana prese anche un’altra direzione. All’indomani del ricordato centenario Giovanni Gentile dava alle stampe il suo Rosmini e Gioberti, un libro destinato a segnare con forza, in campo sia laico che cattolico, l’interpretazione della gnoseologia e della metafisica del filosofo di Rovereto. Sulla scia di Bertrando Spaventa, infatti, egli guardava a Rosmini come al Kant italiano e a Gioberti come allo Hegel italiano: pertanto la prospettiva generale era neohegeliana e, all’interno di essa, Rosmini era letto attraversoGioberti51. La risposta più vigorosa alle tesi del neoidealismo gentiliano venne qualche anno dopo dal fondatore della «Rivista rosminiana», Giuseppe Morando52. Fin dal 1906, sulle pagine della neonata rivista – che sarebbe diventata un fondamentale punto di riferimento per gli studi rosminiani nel corso del secolo – egli avviò una serrata difesa del pensatore di Rovereto su un duplice versante: ad extra nei confronti diGentile, mostrando la differenza tra la gnoseologia rosminiana e quella kantiana; ad intra nei confronti della filosofia dell’azione e della nuova apologetica modernista, rivendicando con forza l’oggettivismo rosminiano contro ogni forma di soggettivismo immanentistico. Questa linea fu coerentemente proseguita da un altro rosminista di vaglia, Carlo Caviglione, che nel 1914 subentrò al Morando nella direzione della rivista53. Diverso fu invece, nei medesimi anni, il percorso senza dubbio originale di un ‘neoscolastico filo-rosminiano’ come Emilio Chiocchetti54.
Può apparire singolare che, pur all’interno del medesimo paradigma ermeneutico e nonostante i buoni rapporti interpersonali – in particolare tra Fogazzaro e Morando – i due percorsi appena delineati, soprattutto dopo il 1897, corressero in modo sostanzialmente parallelo; ma al di là delle divergenze di merito (per esempio sulla filosofia dell’azione), non va trascurato il fatto che a partire dal 1903 le principali opere dei modernisti vennero condannate all’Indice, compreso Il Santo. Con ogni probabilità ciò indusse i protagonisti di ambo le parti a mantenere una prudente distanza e a privilegiare aspetti diversi dell’eredità rosminiana, ma nel corso del tempo questa forbice interpretativa, salvo poche eccezioni, si sarebbe consolidata.
Il dopoguerra, la breve stagione del Partito popolare, l’avvento al potere del fascismo con il progressivo avvio della dittatura, i Patti Lateranensi segnarono senza dubbio una svolta nel cattolicesimo italiano e tuttavia, pur nel clima meno oppressivo inaugurato da Benedetto XV, la minaccia del modernismo continuò ad aleggiare nella Chiesa. Nel 1920 vide la luce la Vita di Antonio Fogazzaro dell’amico e discepolo Tommaso Gallarati Scotti, presto condannata all’Indice55. In essa il biografo indicava in Rosmini il filosofo di riferimento del Fogazzaro e nelle Cinque piaghe, in particolare, la fonte principale del suo riformismo religioso56. L’interpretazione del letterato milanese, che avrebbe avuto un grande peso nei decenni successivi, risentiva del suo crescente distacco dall’esperienza modernista, ma difficilmente poteva essere condivisa da un rosminiano della tempra intellettuale e della levatura spirituale di Giuseppe Bozzetti. Il quale, infatti, intervenendo pubblicamente due anni dopo per demolire una serie di luoghi comuni erronei a proposito dell’immagine deformata che allora si aveva del Roveretano e delle Cinque piaghe, colse l’occasione anche per mettere in luce la distanza tra «la poetica e fluttuante confusione di idee a cui ilFogazzaro era portato dal suo temperamento» e la forma mentis del Rosmini, «quadrata, chiara, coerente e solida». Nella conclusione, inoltre, annotava un’altra, sostanziale differenza di atteggiamento tra i due:
«Rosmini nelle Cinque piaghe ha di continuo la mira all’Austria, al giurisdizionalismo e al giuseppinismo, ai quali addossa la colpa dei mali che affliggono la Chiesa. Egli sente nello scrivere di rendere un servizio non solo al popolo cristiano, ma alla Sede di Pietro, al Papa, dal quale attende i rimedi ai mali che deplora. Fogazzaro è sopra tutt’altro terreno: egli si assume le parti della scienza contemporanea e del colto pubblico e in loro nome parla a Roma, alle Congregazioni, al Papa; è di fronte all’Autorità stessa della Chiesa che prende il suo atteggiamento. Non mi pare di piccolo momento anche questa diversità di posizione per giudicare dei due scrittori»57.
Osservazione acuta, che merita ancor oggi di essere riproposta per cogliere la diversità di atteggiamenti e lo spirito più autentico del riformismo ecclesiale rosminiano, ma forse non del tutto equa nei riguardi del Fogazzaro e dei suoi temuti cedimenti modernisti.
Poco dopo, per effetto della riforma Gentile del 1923, una serie di estratti da fondamentali opere rosminiane, come il Nuovo saggio o i Principii della scienza morale, veniva inserita nei programmi del liceo classico. Nel frattempo le Cinque piaghe continuavano la loro lievitazione carsica in alcune importanti figure del clero e del laicato del tempo, favorita anche dall’accurata presentazione che ne fece il padre Giovanni Pusineri nel 1933 sul bollettino rosminiano «Charitas», che egli aveva fondato nel 1927. Il caso più rilevante riguarda probabilmente Giuseppe Dossetti. Nell’ottobre 1930 egli si iscriveva alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Bologna ed è proprio in questi anni universitari che si accostò per la prima volta all’opera di Rosmini, verso il quale si riconobbe, da adulto, «molto debitore». Vi era stato introdotto dalla «Collana Serafica» di «Charitas», grazie alla quale aveva potuto leggere, sotto forma di opuscoli, scritti come i Dialoghi della Divina Provvidenza e numerosi brani della Teodicea58. Successivamente studiò buona parte dell’Antropologia soprannaturale e, anche per esigenze di formazione professionale, la Filosofia del diritto. La meditazione del Roveretano proseguì durante gli anni della Seconda guerra mondiale, proprio mentre l’editore Bompiani pubblicava a Milano, nel 1943, una ristampa delle Cinque piaghe, curata da Emiliano Zazo e commentata a parte da padre Bozzetti. Nel 1948, durante una convalescenza a Marola, quando Dossetti meditava l’abbandono della politica, vi furono ancora «mesi di studio, particolarmente di Rosmini e di un’ecclesiologia ravvivata»:
«Cominciai anche a scrivere alcuni fascicoletti su una struttura della Chiesa pensata in termini nuovi: gli anticipi di quello che fu poi il concilio, ma senza pensare che ci potesse essere un concilio»59.
Questi «fascicoletti», a tutt’oggi, rimangono irreperibili, ma non è azzardato supporre che proprio in quel periodo di studio Dossetti meditasse o rimeditasse nuovamente anche le Cinque piaghe, la cui lettura appare comunque certa60.
Questa riflessione prolungata di Dossetti suRosmini e su una nuova ecclesiologia nell’estate del ’48, ossia a ridosso delle famose elezioni dell’aprile precedente e nel periodo più intenso del suo impegno politico, non era casuale. Già nel novembre 1946, a venti mesi dalla conferenza di Yalta, egli aveva formulato una lettura approfondita del ciclo storico apertosi con la fine della Seconda guerra mondiale: secondo lui era in atto un «grande rinnovamento della struttura della civiltà». E in quelle medesime settimane, impostando l’associazione Civitas humana, egli aveva individuato come «problema universale, principio primo e fondamentalissimo» che
«ad ogni grande rinnovamento della struttura di una civiltà corrisponde e presiede (deve corrispondere e presiedere) un rinnovamento della Chiesa, nel senso sia di una più approfondita presa di coscienza di verità già implicite (o esplicite ma non adeguatamente rilevate) nel suo insegnamento, che di un’adeguazione delle sue strutture organizzative e dei suoi metodi di azione»61.
La lievitazione carsica dell’eredità rosminiana tra le due guerre coincise anche con l’avvio dell’edizione nazionale delle opere di Rosmini diretta da Enrico Castelli e con una significativa germinazione di nuovi studi, in particolare da parte di Gioele Solari, di Luigi Bulferetti, di Michele Federico Sciacca e dei rosminiani Giuseppe Bozzetti e Giovanni Pusineri.
Nel nuovo contesto repubblicano e democratico del secondo dopoguerra – mentre il ‘rosminista’ Gonella assumeva la guida della Pubblica istruzione e la cultura cattolica era impegnata nell’elaborazione di un personalismo cristiano secondo vari accenti e declinazioni – furono proprio i filosofi del diritto Giuseppe Capograssi62 e Pietro Piovani63, ma soprattutto il filosofo spiritualista Michele Federico Sciacca64, insieme ai loro promettenti allievi, a portare a piena fioritura la riabilitazione filosofica di Rosmini, privilegiando il Rosmini ‘morale’ e, per così dire, precursore del personalismo rispetto a quello ‘gnoseologico e metafisico’ delle stagioni precedenti. Su un piano più discreto, ma non meno importante, erano orientati nella medesima direzione i penetranti articoli di spiritualità rosminiana pubblicati in quegli anni su «Charitas» daClemente Rebora65. Così, quando nel 1955 si celebrò il centenario della morte del Roveretano, si può dire che la sua figura e il suo pensiero fossero già ampiamente rivalutati in significativi settori della cultura e degli ambienti cattolici, non solo italiani66. Soltanto l’ecclesiologia e il riformismo delle Cinque piaghe rimanevano ancora nell’ombra, in quell’ultima fase del pontificato diPio XII punteggiata di condanne delle opere teologiche e delle riviste più anticonformiste rispetto alle direttive pontificie. Sembra che tre sole voci, pur nella diversità di accenti, osassero riprendere pubblicamente in quell’anno l’ispirazione e alcuni motivi dell’‘operetta’: il già ricordato padre Pusineri, dopo l’ampio commento del 1933, tornò sul tema in un discorso tenuto al clero torinese67; Luigi Paggiaro ne scrisse sulle pagine di «Humanitas»68; soprattutto lo scolopio Ernesto Balducci, dopo anni di studio del Roveretano, vi dedicò una delle conferenze rosminiane svolte a Milano69.
All’aprirsi del pontificato diGiovanni XXIII, videro intanto la luce, nel 1959, i due ponderosi volumi de La vita di Antonio Rosmini, cioè la vecchia biografia del Pagani rivista e integrata da padre Bozzetti e da Guido Rossi70. Ma se la democrazia aveva portato alla riabilitazione cattolica della filosofia di Rosmini, solo il concilio Vaticano II creò le condizioni favorevoli alla sua piena e totale riabilitazione ecclesiale: in entrambi i casi non si trattava, in senso proprio, di un nuovo paradigma ermeneutico rispetto a quello affacciatosi tra Otto e Novecento, ma piuttosto di un suo libero e rigoglioso sviluppo su tutti i versanti dell’eredità rosminiana, reso possibile dalle profonde svolte storiche sul piano civile prima ed ecclesiale poi. A sancire e ad accelerare questo sviluppo, con un contributo che nel corso degli anni si sarebbe rivelato fondamentale, giunse nel 1966 la fondazione del Centro internazionale di studi rosminiani, inaugurato a Stresa il 25 settembre e posto sotto la direzione di Michele Federico Sciacca71.
Tale sviluppo divenne particolarmente ampio e significativo, per quanto riguarda le Cinque piaghe, in coincidenza con la svolta epocale prodotta nella Chiesa dal concilio e con il vigoroso impulso riformatore da esso innescato, in particolare durante il pontificato di Paolo VI. Fu in questo nuovo clima di fervide speranze che, nel 1966, la celebre ‘operetta’ venne pubblicata a cura del rosminiano Clemente Riva dalla casa editrice Morcelliana, con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica e con le aggiunte e le chiarificazioni rimaste a lungo chiuse nel cassetto dopo la condanna del 184972. L’uscita coincise con un successo editoriale di proporzioni inaspettate ed ebbe una grande risonanza sulla stampa, anche estera73. La storica riedizione venne presto tradotta in spagnolo e in tedesco. Soprattutto il libro di Rosmini cominciò a essere considerato in ambito ecclesiale sotto una luce nuova, quella della profezia. Tra le molte testimonianze dell’epoca una delle più significative è senza dubbio la lettera scritta al padre Riva dal gesuita Roberto Tucci, allora direttore della «Civiltà Cattolica»:
«È con vivo piacere – si legge – che la Civiltà Cattolica vede la ristampa delle Cinque piaghe della Santa Chiesa: un’opera che mostra in Rosmini un vivo amore per la Chiesa ed una fede salda nella sua divina costituzione; ma che mostra anche una profondità di visione e un’antiveggenza che solo, a distanza di un secolo, dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II, noi possiamo pienamente apprezzare. Sono sicuro che la lettura del volume, in questo clima di rinnovamento conciliare offrirà a molti materia di riflessione e di stimolo per l’attuazione delle decisioni del Concilio che, se non sempre nella forma, sono però nello spirito assai vicine a quelle preconizzate dal Rosmini»74.
Colpisce, in questo scritto davvero emblematico, non solo la piena riabilitazione ecclesiale di Rosmini, ma soprattutto il nesso strettissimo stabilito tra le riforme auspicate dal Roveretano e le «decisioni del Concilio». Cinque piaghe e Vaticano II, nella cultura cattolica di quegli anni, si intrecciarono continuamente e si rafforzarono reciprocamente, anche se la categoria della profezia, legittima in ambito teologico ed ecclesiale, appariva inadeguata dal punto di vista storiografico e già nel 1969 Francesco Traniello mostrava, in modo più appropriato, che la figura di Rosmini non andava vista nell’ottica del ‘profeta’ o del ‘precursore’, ma piuttosto che il rosminianesimo costituiva una delle fonti del concilio, uno dei percorsi spirituali e culturali che avevano preparato il concilio e portato al concilio75.
Tuttavia la riscoperta delle Cinque piaghe non è pienamente comprensibile se non viene inserita anche nel più generale approfondimento del pensiero di Rosmini, cui si è accennato, che metteva capo nel volgere di qualche decennio a una letteratura critica abbondantissima76, all’interno della quale venivano finalmente valorizzati anche gli aspetti teologici ed ecclesiologici della riflessione rosminiana (da padre Bessero Belti, a Menke, a Lorizio) e, d’altro canto, ulteriormente arricchiti quelli politici (da Mercadante a Campanini, a D’Addio). Nel frattempo giungevano a maturazione i primi veri e propri studi storici sull’‘operetta’ e sulla sua ricezione, legati in particolare ai nomi di Giacomo Martina e soprattutto di Francesco Traniello. Era questo pieno recupero dell’eredità rosminiana in forma critica, corale e insieme pluralistica che, accanto e in sinergia con la riabilitazione ecclesiale, poneva le premesse nel 1990 per l’avvio, questa volta decisivo, della causa di beatificazione e anche per la fase successiva della ricezione delle Cinque piaghe.
Tutto ciò avveniva sullo sfondo di un passaggio epocale di incalcolabile portata. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta si chiuse infatti il ciclo storico dellaGuerra fredda e si avviò la faticosa costruzione di un nuovo ordine mondiale, particolarmente difficile dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle di New York e il duro impatto dell’Occidente con il terrorismo internazionale di matrice islamica. Contemporaneamente la rivoluzione informatica e telematica su scala planetaria andava da tempo producendo radicali cambiamenti economici, sociali e culturali nel segno della ‘globalizzazione’, con forti ricadute sulla vita quotidiana delle persone e inevitabili ripercussioni nella continuità delle tradizioni religiose e nelle dinamiche interne ed esterne della Chiesa cattolica. In società sempre più scristianizzate nella mentalità collettiva e nei costumi e ad un tempo multietniche e multireligiose, nelle quali il rapporto tra le generazioni diventava via via più labile, anche le condizioni sociali e culturali del senso di appartenenza alla Chiesa cattolica conoscevano un profondo mutamento.
La storicizzazione di tali processi è ancora in una fase iniziale ed è pertanto prematuro cercare di stabilire in modo adeguato quanto e come questi radicali mutamenti abbiano condizionato il lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II e, da un angolo visuale più ristretto, l’eredità rosminiana nei suoi vari aspetti. Per quanto concerne quest’ultimo punto sembra comunque possibile rilevare almeno tre linee di tendenza. Anzitutto la creazione di siti web in vario modo collegati alla figura diRosmini o al suo pensiero o all’Istituto della Carità, con la progressiva digitalizzazione del corpus rosminiano e l’istituzione a Lugano di una videocattedra on line77. In secondo luogo un’ulteriore, marcata proliferazione degli studi rosminiani78, caratterizzata da uno specialismo sempre più accentuato e da una difficoltà crescente degli studiosi, ai limiti dell’impossibilità di fatto, di sostenere una visione insieme globale e critica di una figura così poliedrica e di un’eredità così vasta come quelle rosminiane, a dispetto della personalità molto unitaria e del pensiero profondamente organico del Roveretano. Non è un caso che la reinterpretazione forse più completa e innovativa della sua imponente eredità culturale sia stata frutto, in questi anni, di un vero e proprio «Progetto» più che decennale, realizzato a Rovereto con la partecipazione di tutti i maggiori specialisti79. In terzo luogo va notato il graduale emergere, all’interno di questa bibliografia ormai immensa, di una tendenza a valorizzare gli aspetti universali, interculturali e interreligiosi della riflessione di Rosmini: il futuro dirà se tale orientamento, in evidente sintonia con alcuni caratteri del nostro tempo, avrà la forza di affermarsi come un nuovo paradigma ermeneutico.
In questo contesto il bicentenario della nascita di Rosmini, nel 1997, è diventato ancora una volta una data periodizzante, sia sul piano generale dell’ulteriore approfondimento critico della sua figura e del suo pensiero sia su quello più specifico della ricezione delle Cinque piaghe. In quell’anno l’‘operetta’ è stata ripubblicata da tre case editrici diverse (Rizzoli, Città Nuova e San Paolo) e ha avuto numerose ristampe. La stessa Università Cattolica del Sacro Cuore, che fin dall’inizio degli anni Sessanta aveva visto l’affermarsi tra alcuni suoi docenti di un indirizzo più favorevole a Rosmini rispetto al precedente neotomismo80, si è fatta promotrice nel novembre 1997 di un convegno nazionale sulla loro «origine, fortuna e profezia», che raccoglieva i contributi di dodici relatori, tra i quali spiccava quello del cardinale di Milano C.M. Martini81. All’interno di un quadro ermeneutico che accostava il capolavoro rosminiano in forma scientificamente e storiograficamente adeguata, l’intervento del cardinale non eludeva «la natura delicata di non pochi problemi trattati», «che ancora oggi costituiscono punti caldi e controversi nel dibattito all’interno della Chiesa»:
«A livello generale – proseguiva – stupisce e desta ammirazione nel libro di Rosmini soprattutto la straordinaria vivacità dello stile, la vis polemica, la forza del linguaggio. È un libro ancora vivo, fresco, pungente, appassionato. È sostenuto da un grande amore alla Chiesa e insieme da una grande audacia e da un robusto spirito profetico»82.
Tre anni dopo le Cinque piaghe sono state addirittura indicate dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger, come autorevole precedente del solenne mea culpa per i peccati storici della Chiesa, pronunciato da Giovanni Paolo II nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 200083. Questo evento può essere considerato, sul piano ecclesiale, il vertice della ricezione delle Cinque piaghe, anche se i mali pubblicamente confessati dal pontefice erano in gran parte diversi da quelli indicati a suo tempo da Rosmini. Ma ciò che più conta era la presa di coscienza irreversibile, e al livello più alto, di una Chiesa peccatrice e semper reformanda. Come si può notare, in quest’ultima fase il richiamo al concilio veniva lasciato sullo sfondo e gli aspetti di novità erano legati da un lato a un approfondimento scientifico più completo del libro di Rosmini, dall’altro al significato complessivo che esso assumeva all’interno della Chiesa come caso esemplare di coraggiosa autocritica.
Tuttavia mentre la riabilitazione di Rosmini raggiungeva il suo apice con la beatificazione del 18 novembre 2007, fortemente voluta daBenedetto XVI, c’è da chiedersi quale riscontro effettivo abbia avuto il suo ideale di riforma della Chiesa a mezzo secolo dal Vaticano II. Una cosa, infatti, è riconoscere a parole che le Cinque piaghe sono state un libro eccezionalmente precorritore, altra e ben più ardua questione è vedere realizzata nei fatti, almeno in buona parte, la Chiesa che Rosmini e soprattutto il concilio avevano immaginato per il futuro del cristianesimo. Come facilmente si comprende, qui si aprirebbe la storia vastissima dell’inveramento, ma anche dei ritardi e delle inadempienze nell’attuazione del Vaticano II: un bilancio troppo ampio, complesso e articolato per poter essere anche solo accennato in questa sede. Tuttavia non si può passare sotto silenzio l’allarme lanciato da uno studioso come Pietro Prini, autore di pregevoli studi rosminiani, che nel 1999 pubblicava un libro efficacemente intitolato Lo scisma sommerso84. Proprio mentre le condizioni sociali e culturali del senso di appartenenza alla Chiesa cattolica conoscevano, come si è detto, un profondo mutamento,Prini non solo richiamava l’attenzione sul silenzioso divario, intorno a parecchi punti qualificanti, tra le posizioni ufficiali del magistero ecclesiastico e le convinzioni di molti fedeli, in particolare dei praticanti, ma senza accenti polemici, ne individuava chiaramente la causa nell’insufficiente ‘aggiornamento’ della Chiesa al mondo contemporaneo.
Nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha superato parecchi passaggi storici fondamentali senza un sostanziale ‘aggiornamento’, ma oggi molti indizi inducono a ritenere che siamo di fronte a un
«grande rinnovamento della struttura della civiltà»,
per usare l’espressione di Dossetti, e sembra molto difficile affrontare positivamente un passaggio d’epoca come questo da posizioni di arroccamento dottrinale e giuridico. Con ogni probabilità aveva ragione il cardinale C.M. Martini quando, già nel sinodo dei vescovi del 1999, auspicava di fatto un nuovo concilio, quale necessario sviluppo del Vaticano II, per completare la guarigione delle antiche piaghe del corpo ecclesiale e incominciare a sanare quelle nuove85.
1 F. De Giorgi, La questione rosminiana nella storia della cultura cattolica, in Le due società. Scritti in onore di Francesco Traniello, a cura di B. Gariglio, M. Margotti, P.G. Zunino, Bologna 2009, pp. 229-231; cfr. C. Bergamaschi, Bibliografia rosminiana, 10 voll., Milano 1967-1974, Genova 1981-1982, Stresa 1989-2005.
2 F. De Giorgi, La questione rosminiana nella storia, cit.
3 G. Martina, La questione rosminiana durante il pontificato di Pio IX, in R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), Paris 19642, ed. italiana a cura di G. Martina, II, Torino 1970, pp. 812-819; F. Traniello, La questione rosminiana nella storia della cultura cattolica in Italia (1875-1881), «Aevum», 37, 1963, pp. 63-103; ristampato in Cultura cattolica e vita religiosa tra Ottocento e Novecento, Brescia 1991, pp. 117-162; Id., La spiritualità rosminiana nella storia religiosa dell’Italia moderna, in Spiritualità ed azione del laicato cattolico italiano, II, Padova 1969; ristampato in Cultura cattolica e vita religiosa tra Ottocento e Novecento, Brescia 1991, pp. 201-230; R. Bessero Belti, La questione rosminiana, Stresa 1988; U. Muratore, I rosminiani nel XX secolo, in La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, III. Correnti moderne del XX secolo, ed. italiana a cura di G. Mura, G. Penzo, Roma 1995, pp. 703-722; L. Malusa, Introduzione, in Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio. Atti e documenti inediti della condanna del 1887, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, E. Guglielmi, Milano 2008, pp. 11-60.
4 E. Passerin d’Entrevès, La fortuna del pensiero del Rosmini nella cultura del Risorgimento, «Rivista rosminiana», 56, 1962, pp. 97-109; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970.
5 L. Pazzaglia, Le «Cinque piaghe» e la cultura milanese: la lettura di Tommaso Gallarati Scotti, in Il ‘gran disegno’ di Rosmini. Origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di M. Marcocchi, F. De Giorgi, Milano 1999, pp. 213-244.
6 A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Trattato dedicato al clero cattolico, Lugano 1848.
7 Cfr. F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna 1966, Brescia 19972.
8 Cfr. A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Testo ricostruito nella forma ultima voluta dall’Autore con saggio introduttivo e note di N. Galantino, Cinisello Balsamo 1997, pp. 82-86. Ovviamente una ricostruzione del genere è cosa alquanto diversa da una rassegna completa degli studi sulle Cinque piaghe e tematiche connesse.
9 F. De Giorgi, Rosmini e gli Zelanti romani, in Rosmini e Roma, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, Stresa-Roma 2000, pp. 99-171.
10 A. Rosmini, Delle cinque piaghe, cit., pp. 117, 139, 177, 212, 319.
11 Ibidem, p. 108.
12 Ibidem, p. 323; cfr. P. Marangon, Il Risorgimento della Chiesa. Genesi e ricezione delle «Cinque piaghe» di A. Rosmini, Roma 2000.
13 F. Traniello, Società religiosa, cit., pp. 203-207; V. Conzemius, Le «Cinque piaghe» di Rosmini nel contesto dei progetti di riforma della Chiesa del XIX secolo, in Il pensiero di Antonio Rosmini a due secoli dalla nascita, a cura di G. Beschin, A. Valle, S. Zucal, Brescia 1999, II, pp. 933-951.
14 Oltre ai rispettivi carteggi, per il primo cfr. F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 100-116; per il secondo N. Tommaseo, Delle innovazioni religiose e politiche buone all’Italia. Lettere inedite a Raffaele Lambruschini (1831-1832), a cura di R. Ciampini con un saggio introduttivo di G. Sofri, Brescia 1963.
15 F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1797-1833), Brescia 2003, pp. 535-539.
16 P. Marangon, Il Risorgimento della Chiesa, cit., pp. 118-134. Per un quadro complessivo cfr. M. Nicoletti, Sul rapporto tra Stato e Chiesa nel pensiero di Antonio Rosmini, in Antonio Rosmini tra modernità e universalità, a cura di M. Dossi, M. Nicoletti, Brescia 2007, pp. 207-228.
17 A. Rosmini, Delle cinque piaghe, cit., p. 107.
18 A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Trattato dedicato al clero cattolico, Lugano 1848.
19 A. Rosmini, Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-1849. Commentario, a cura di L. Malusa, Stresa 1998, p. 174.
20 Cfr. Ibidem; Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice. Il decreto del 30 maggio 1849, la sua genesi ed i suoi echi, a cura di L. Malusa, Stresa 1999; G. Martina, La condanna all’Indice delle «Cinque piaghe» e della «Costituzione secondo la giustizia sociale», in Il ‘gran disegno’ di Rosmini, cit., pp. 147-165, 350-376; G. Campanini, Antonio Rosmini fra politica ed ecclesiologia, Bologna 2006, pp. 23-34.
21 G. Chiosso, Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia (XIX e XX secolo), Brescia 2001, pp. 52-59; per la manualistica pedagogica cfr. C. Sagliocco, Manuali scolastici di pedagogia nel secondo Ottocento: Corte, Uttini, Vecchia, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 9, 2002, pp. 257-283.
22 A. Theiner, Lettere storico-critiche intorno alle Cinque Piaghe della S. Chiesa del chiarissimo sacerdote d. Antonio de Rosmini-Serbati scritte in alemanno dal p. Agostino Theiner sacerdote dell’Oratorio e tradotte in italiano dall’ab. Ferdinando Mansi. Lettera prima intorno alla elezione dei vescovi mediante il clero e il popolo, Napoli 1849; M. Nicoletti, La missione a Roma di Rosmini sullo sfondo delle relazioni diplomatiche con l’Austria e la Baviera, in Rosmini e Roma, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, Stresa-Roma 2000, pp. 346-349.
23 A. Rosmini, Risposta ad Agostino Theiner, Casale 1850.
24 F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 247-254.
25 O. Confessore, I cattolici e la “fede nella libertà”. «Annali cattolici», «Rivista universale», «Rassegna nazionale», Roma 1989, p. 15; cfr. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997, pp. 64-75.
26 F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 283-297; A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica. L’itinerario di Carlo Passaglia negli anni di Pio IX e Cavour, Brescia 1984.
27 E. Pignoloni, Una sfortunata edizione trentina delle «Cinque piaghe» di Rosmini, in Rosmini e il rosminianesimo nel Veneto, Verona 1970, pp. 217-225, pp. 217-225.
28 F. De Giorgi, La questione rosminiana, cit., p. 234; F. Traniello, La questione rosminiana, cit., pp. 121-135.
29 F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, II, La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Catalano, Bari 1953, pp. 222-246; E. Passerin d’Entreves, La fortuna del pensiero del Rosmini, cit., p. 99.
30 R. Aubert, Aspects divers du néo-thomisme sous le Pontificat de Leon XIII, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, a cura di G. Rossini, Roma 1961, pp. 133-227.
31 G. Scalese, Il rosminianesimo nell’ordine dei barnabiti (III), «Barnabiti studi», 9, 1992, pp. 201-214.
32 G.M. Cornoldi, Il rosminianesimo sintesi dell’ontologismo e del panteismo, Roma 1881; cfr. L. Malusa, L’ultima fase della questione rosminiana e il decreto “Post obitum”, Stresa 1989.
33 Cfr. L. Malusa, Introduzione, in Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio, cit., pp. 11-60.
34 C.M. Papa, Rosmini: conoscere e credere. Storia della Causa, Roma 2007, pp. 211-214.
35 A. Patrone, John Henry Newman e «Le cinque Piaghe della Chiesa», «Rivista rosminiana», 72, 1978, p. 320.
36 G. Mucci, Il primo direttore della «Civiltà cattolica». Carlo Maria Curci tra la cultura dell’immobilismo e la cultura della storicità, Roma 1986.
37 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione ai giorni nostri, Torino 1955, 19785, pp. 65-75.
38 F. Traniello, La questione rosminiana, cit., pp. 208-209; cfr. C. Bello’, Geremia Bonomelli: vescovo di povera santa Chiesa, Brescia 1975.
39 F. Traniello, Rosmini e la tradizione dei cattolici liberali, in Rosmini: tradizione e modernità (1888-1988), Stresa-Milazzo 1989, ristampato in Cultura cattolica e vita religiosa tra Ottocento e Novecento, Brescia 1991, pp. 188-197.
40 A. Stoppani, Il Dogma e le scienze positive, ossia la missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la ragione e la fede, Milano 1884, 18862; cfr. F. Traniello, Scienza e religione in Antonio Stoppani, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 15, 1978, ristampato in Cultura cattolica e vita religiosa tra Ottocento e Novecento, Brescia 1991, pp. 163-180.
41 Per il primo cfr. O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna 1971, pp. 31-32; per il secondo T. Bugossi, Momenti di storia del rosminianesimo, I, Morando e Billia, Genova 1986, pp. 51-74.
42 A. Fogazzaro, Ascensioni umane, Milano 1899.
43 P. Rossi, Introduzione a A. Fogazzaro, Ascensioni umane. Teoria dell’evoluzione e filosofia cristiana, a cura di P. Rossi, Milano 1977, pp. 7-44.
44 P. Marangon, Fogazzaro tra evoluzionismo e modernismo, in Il modernismo in Italia e in Germania nel contesto europeo, a cura di M. Nicoletti, O. Weiss, Bologna 2010, pp. 241-254.
45 G.B. Pagani, Vita di Antonio Rosmini scritta da un sacerdote dell’Istituto della Carità, Torino 1897.
46 Per Antonio Rosmini nel primo centenario della sua nascita, 2 voll., Milano 1897; per la presenza del rosminista tedesco si veda F.X. Kraus cfr. C. Liermann, Rosmini in Germania: Kraus e Dyroff, in Filosofia e politica. Rosmini e la cultura della Restaurazione, a cura di G. Campanini, F. Traniello, Brescia 1993, pp. 337-345.
47 Sulla seconda piaga cfr. P. Zovatto, Cultura cattolica rosminiana tra ’800 e ’900, Trieste 1999, pp. 181-214.
48 A. Fogazzaro, Il Santo, Milano 1906.
49 P. Marangon, Il modernismo di Antonio Fogazzaro, Napoli-Bologna 1998.
50 L. Pazzaglia, Le «Cinque piaghe» e la cultura milanese, cit., pp. 233-234.
51 G. Gentile, Rosmini e Gioberti, Pisa 1898.
52 T. Bugossi, Momenti di storia del rosminianesimo, cit., pp. 11-49.
53 U. Muratore, I rosminiani, cit., pp. 707-709.
54 E. Chiocchetti, Gli scritti “rosminiani”, Rovereto 1990.
55 T. Gallarati scotti, La vita di Antonio Fogazzaro, Milano 1920.
56 L. Pazzaglia, Le «Cinque piaghe» e la cultura milanese, cit., pp. 235-244.
57 G. Bozzetti, Per una giusta valutazione delle «Cinque piaghe» di Rosmini, Novara 1922, ristampato in Opere complete, II, Milano 1966, pp. 2322-2323.
58 E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna 2006, pp. 140-141
59 G. Dossetti, La ricerca costituente 1945-1952, a cura di A. Melloni, Bologna 1994, p. 33.
60 Cfr. G. Dossetti, G. Lazzati, A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), Bologna 2003, p. 34.
61 G. Alberigo, Rinnovamento della chiesa e partecipazione al concilio, in Giuseppe Dossetti: prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, Bologna 1998, pp. 41-86, 50-55.
62 M. D’Addio, Capograssi e Rosmini, «Quaderni sardi di filosofia e scienze umane», 15-16, 1986-1987, pp. 97-113.
63 G. Cantillo, Pietro Piovani interprete di Rosmini, in P. Piovani, La teodicea sociale di Rosmini, Padova 1957, Brescia 19972, pp. 421-459.
64 E. Pignoloni, Genesi e sviluppo del rosminianesimo nel pensiero di M.F. Sciacca, 2 voll., Milano 1964-1967.
65 C. Rebora, Antonio Rosmini asceta e mistico. Prefazione di C. Riva, Vicenza 1980.
66 Per la Germania, ad es., cfr. M. Krienke, Studi rosminiani in Germania. Indagine storico-critica sulla ricezione di Rosmini in Germania dal 1830 fino ad oggi, «Rivista di filosofia neo-scolastica», 97, 2005, pp. 390-391.
67 G. Pusineri, Chiesa e Papato nel pensiero e nella vita di A. Rosmini, «Rivista rosminiana», 49, 1955, pp. 255-259.
68 L. Paggiaro, Le Cinque Piaghe della Chiesa, «Humanitas», 10, 1955, pp. 974-980.
69 E. Balducci, La Chiesa e il tempo secondo Rosmini, in Conferenze rosminiane tenute a Milano nel centenario della morte di Antonio Rosmini, 1855-1955, Milano 1955, pp. 33-40; cfr. B. Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità, Roma-Bari 2002, pp. 121-122.
70 G.B. Pagani, G. Rossi, Vita di Antonio Rosmini scritta da un sacerdote dell’Istituto della Carità, riveduta e aggiornata dal prof. Guido Rossi, 2 voll., Rovereto 1959.
71 U. Muratore, I rosminiani, cit., pp. 716-718.
72 A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 1966, 19796.
73 Cfr. A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di A. Valle, Roma 1981, pp. 302-304, (Edizione nazionale e critica, 56).
74 Ibidem, p. 302.
75 F. Traniello, La spiritualità rosminiana, cit., pp. 201-230; F. De Giorgi, La questione rosminiana, cit., pp. 246-247.
76 Cfr. C. Bergamaschi, Bibliografia rosminiana, Milano 1967-1974, Genova 1981-1982, Stresa 1981, 1989.
77 Sono indicati di seguito solo i maggiori siti di interesse culturale: http://www.rosmini.it (sito generale), http:// www. rosmini.it/Objects/Pagina.asp?ID=62&T=Centro%20Inter.%20Studi%20Rosminiani (Centro internazionale di studi rosminiani - Stresa), http://www.casanatalerosmini.it (Biblioteca rosminiana - Rovereto), http://www.rosmini.it/Objects/Pagina.asp? ID=244 (Collegio Rosmini - Stresa), http://www.sacromontedomodossola.it /index.html (Sacro monte Calvario - Domodossola), http://www.sacradisanmichele.com/index.asp (Sacra di San Michele - Torino), http://www.cattedrarosmini.org/site/view/ view.php?menu1=m1 (Cattedra Rosmini - Lugano), http:// www.rosmini-in-english.org/ (Centro studi inglese “Rosmini House”), http://philosophiedudroit.org/page12.htm (Centre français d’études rosminiennes).
78 Cfr. C. Bergamaschi, Bibliografia rosminiana, Stresa 1996, 1999, 2005.
79 Cfr. M. Farina, Rosmini e l’Accademia degli Agiati, Brescia 2000, pp. 123-128.
80 Cfr. N. Raponi, Rosmini, le «Cinque piaghe» e l’Università Cattolica, in Il ‘gran disegno’ di Rosmini. Origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di M. Marcocchi, F. De Giorgi, Milano 1999, pp. 268-275.
81 Il ‘gran disegno’ di Rosmini. Origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di M. Marcocchi, F. De Giorgi, Milano 1999; cfr. Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice. Il decreto del 30 maggio 1849, la sua genesi ed i suoi echi, a cura di L. Malusa, cit.; P. Marangon, Il Risorgimento della Chiesa, cit.
82 C.M. Martini, Come un Vescovo rilegge il libro «Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, in Il ‘gran disegno’ di Rosmini, cit., pp. 277-278.
83 J. Ratzinger, L’intervento del Card. Joseph Ratzinger, «L’Osservatore romano», 9 marzo 2000.
84 P. Prini, Lo scisma sommerso, Milano 1999.
85 Cfr. A. Melloni, Chiesa madre, Chiesa matrigna, Torino 2004, pp. 120-145. Per ulteriori riferimenti bibliografici contenuti nel testo cfr.: G. Audisio, Della società politica e religiosa rispetto al secolo decimo nono, Firenze 1876; F. Paoli, Della vita di Antonio Rosmini-Serbati, 2 voll., I, Memorie, II, Delle sue virtù, Rovereto 1880-1884; N. Tommaseo, A. Rosmini, Carteggio edito e inedito, a cura di V. Missori, 2 voll., Milano 1967; A. Manzoni, A. Rosmini, Carteggio, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, Milano 2003.