Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dalla metà del Settecento appaiono sulla scena politica europea figure femminili in posizione di rilievo o che esercitano direttamente il potere. Si tratta di donne molto diverse che operano in contesti differenti; tutte però hanno in comune la volontà di imporsi, di non subire la realtà ma di modificarla a partire da opportunità che nascono dall’incrinatura di norme e sistemi consolidati. Esse utilizzano abilmente le risorse di cui dispongono, risorse definite anche dal loro essere donne in una determinata società.
La situazione europea
Un rapido sguardo ai troni europei, così come si presentano a partire dalla metà del secolo, è sufficiente per individuare nei luoghi istituzionali del potere la presenza di alcune donne: in Russia, Caterina II detiene fermamente il potere attraverso una politica di potenza e di trasformazione che impone il paese all’attenzione delle potenze europee; sul trono d’Austria, Maria Teresa attua una politica di riforme e di rafforzamento della dinastia Asburgo che porrà le basi dell’impero austriaco; in Francia, la politica viene influenzata, in modo ben più significativo che nel passato, dalla favorita di Luigi XV, la marchesa di Pompadour. Certo è la prima volta che si assiste alla presenza quasi contemporanea di tante donne nei luoghi istituzionali del potere, ma nel passato c’erano già state sovrane che avevano retto con decisione le redini dello Stato (si pensi a Elisabetta I d’Inghilterra) senza che questo significasse un’apertura della politica nei confronti delle donne.
Cercare di verificare se ci sono state trasformazioni in questa direzione significa chiedersi in che modo l’appartenenza di genere abbia condizionato l’assunzione, la legittimazione e l’esercizio del loro potere.
La marchesa di Pompadour
Figlia del finanziere Poisson, Jeanne-Antoinette acquista una posizione di rilievo a corte attraverso un sistema ormai consolidato: il favoritismo. La sua educazione, la sua ascesa sociale attraverso il matrimonio con il marchese d’Etioles, opera del grande finanziere Le Normand de Tournehem – amante della madre – e l’incontro, abilmente organizzato, con Luigi XV sono stati letti come le premesse di un tentativo, sostenuto da un gruppo dell’alta borghesia, di penetrare a corte, integrarsi nei ceti superiori della società e, alleandosi ad alcuni esponenti dell’alta nobiltà, di influenzare le scelte politiche della corona. Ammesso che sia vero, ciò avviene comunque secondo una logica ancora pienamente secentesca: Jeanne-Antoinette viene educata per diventare l’amante del re e non una statista; da lei ci si aspettano protezioni e aperture secondo quella logica degli intrighi di corte, ai quali era già tradizionalmente associata la figura femminile. E in effetti, durante i primi anni trascorsi a Versailles, sembra che la Pompadour si muova prevalentemente in questa direzione, cercando di rafforzare la sua posizione attraverso un gioco complesso di protezioni e favori che la pongono al centro di un gruppo numeroso, formato da uomini d’affari, intellettuali e ministri di cui ha favorito la nomina.
Una rete di relazioni indispensabile per contrastare l’ampia opposizione creatasi attorno alla sua persona, non solo a Versailles ma anche a Parigi; un’ostilità alimentata da libelli, stampe, canzoni sarcastiche, denigratorie e talvolta minacciose. Un’opposizione determinata non tanto dal suo ruolo di amante ufficiale del re, quanto dalla sua origine borghese. Gli anni in cui la Pompadour rimane l’amante di Luigi XV sono anni di crescita, di maturazione, che la porteranno a ricoprire in modo nuovo un ruolo tradizionale. Impara a conoscere gli intrighi della corte; colta e brillante, stringe rapporti con uomini di governo, acquista prestigio fra intellettuali, letterati e artisti che promuove e protegge attivamente. È a cominciare dal suo impegno in ambito culturale che la sua azione acquisisce un’autonomia, una consapevolezza e una prospettiva nuove, che ne fanno qualcosa di diverso rispetto alle forme tradizionali di partecipazione femminile alla politica. L’ottica non è più esclusivamente quella familiare, delle fazioni e delle clientele, della politica di corto respiro, ma abbraccia una prospettiva più ampia che si fonda sull’interesse della nazione. Alla sua iniziativa, infatti, non si devono solo opere d’arte, monumenti, spettacoli teatrali – inseribili in un’attività di patronage – ma anche la creazione della manifattura di Sèvres per la produzione di porcellane, o la fondazione della Scuola militare di Saint-Cyr, di istituzioni, cioè, che avranno notevole rilievo per lo Stato.
Attraverso una serie di interventi che finiscono per definire una vera e propria politica culturale, l’azione della Pompadour si estende anche alla politica interna: la protezione di Voltaire, degli enciclopedisti e di economisti come François Quesnay, suo medico personale, sfida il clero e i circoli nobiliari che formano il partito della regina e del delfino. Così, quando nel 1756 scoppia un grave conflitto fra il clero e il parlamento e tra questo e il re, la Pompadour viene universalmente considerata la vera responsabile della sconfitta del parlamento e della perdita di prestigio della Chiesa che, durante lo scontro, aveva visto l’alto clero abilmente diviso dall’azione della corte in due partiti contrapposti.
Ma già nel 1750 la Pompadour riesce a trasformare quella che era una posizione naturalmente debole, resa ancor più incerta dall’incostanza amorosa di Luigi XV, in una presenza stabile che si fonda sul suo nuovo ruolo di confidente e consigliere del sovrano. Un ruolo riconosciutole anche dagli ambienti diplomatici che comunque reagiscono in modo diverso: Federico II di Prussia, per esempio, dà istruzioni al proprio ambasciatore a Parigi perché cerchi di adularla e “di farle dire ciò che i ministri saggiamente tacciono”, giungendo in seguito a proporle un principato sovrano; Kaunitz, l’ambasciatore di Vienna, vede invece nella fragilità della sua parentela, nell’estraneità al ceto nobiliare e nel legame con il mondo della finanza i presupposti che fanno della Pompadour il miglior alleato alla corte di Francia in una politica volta a evitare la guerra attraverso un capovolgimento delle alleanze. La Pompadour condivide fin dall’inizio la linea proposta da Kaunitz ma, vista l’opposizione dell’intero Consiglio del re, interviene decisamente solo quando l’apertura della crisi con l’Inghilterra crea condizioni internazionali più favorevoli. Allora è lei a indicare per il negoziato con la casa d’Austria un suo protetto, l’abate di Bernis, legato a lei da vincoli di fedeltà e devozione.
Victor L. Tapié
Kaunitz esprime un giudizio su Madame de Pompadour
Sarebbe per noi un grave danno se il re avesse per amante una donna di rango, poiché per fare la fortuna dei parenti essa dovrebbe attenersi al ministro della guerra... e il suo credito sarebbe molto pericoloso. Vedete bene che in questo paese la condizione e il modo di pensare dell’amante del re è una faccenda molto seria. Sino a quando Mme de Pompadour sarà in carica, non temo né d’Argenson, né de Belle-Isle, né nessun altro dei seguaci di questo partito.
V.L. Tapié, L’Europa di Maria Teresa dal barocco all’illuminismo, Milano, Mondadori, 1982
L’alleanza con l’Austria – che coinvolge la Francia in un conflitto disastroso (la guerra dei Sette anni) – sostenuta attivamente anche nei momenti più difficili, le attira però l’ostilità del Paese e alla sua morte, nel 1764, riappaiono versi violentemente satirici che tornano a definirla una semplice sgualdrina. Sembra così che la sua vita si chiuda tornando al punto di partenza: fra i contemporanei sembra rimanere l’immagine di una donna dissoluta che, entrando in un mondo che non le compete, ha portato il Paese sull’orlo del disastro.
Maria Teresa d’Austria
Figlia dell’imperatore Carlo VI, Maria Teresa sale sul trono d’Austria nel 1740, in seguito all’applicazione della Prammatica sanzione (1713). Per quanto a Vienna non manchino voci secondo le quali sarebbe preferibile passare sotto un principe tedesco piuttosto che affidare la corona a una donna e per quanto il principe elettore di Sassonia cominci a mettere in dubbio, per opportunismo politico, che una donna possa esercitare il diritto di elettrice imperiale (diritto acquisito da Maria Teresa con la corona di Boemia), l’appartenenza di genere non costituisce un vero ostacolo né all’ascesa al trono, né alla legittimazione del suo potere. Ciò non perché la Prammatica sanzione ammetta la successione femminile, considerata un espediente pericoloso ma necessario per preservare l’unità e l’integrità dei possedimenti dinastici, ma perché si è ormai consolidata un’immagine ideale di sovrano più compatibile con la figura femminile di quanto non avvenisse nel passato. Le virtù del sovrano non sono più quelle del cavaliere medievale, che impone la giustizia e offre protezione attraverso l’uso della spada, ma quelle del padre benevolo e premuroso che opera con sollecitudine per la felicità dei suoi sudditi. Se, ancora nel Rinascimento, alla figura di Elisabetta I d’Inghilterra si era associata l’immagine della vergine Astrea, una figura androgina, Maria Teresa fa della femminilità un elemento importante della propria immagine pubblica: ella si presenta sempre innanzitutto come Landesmutter (“madre della terra”) riscuotendo fin dall’inizio, grazie anche alla semplicità dei suoi modi, ampia popolarità. Di fede e sentimenti cattolici, Maria Teresa si trova in perfetta sintonia con il rinnovato culto mariano promosso dalla Chiesa di Romain associazione al tema della Sacra Famiglia. In Maria Teresa, infatti, l’antica concezione dinastica della famiglia, alla quale rimane saldamente ancorata, è rinnovata e potenziata da una concezione etica e affettiva del nucleo familiare in cui acquista centralità la figura di moglie e madre. Attenta a non deprimere l’immagine pubblica del marito Francesco Stefano di Lorena, si impegna invece a rafforzarne il prestigio e la dignità (ad esempio insiste e ottiene che in Ungheria il marito venga riconosciuto come Mitregent); orgogliosa dei propri figli, ne cura l’educazione attraverso raccomandazioni e istruzioni scritte giornalmente a istruttori e governanti; madre previdente, alla morte del marito, quando ha ancora due figli piccoli e tutte le figlie da sistemare, scoprendo che l’intero patrimonio è stato assegnato al figlio, il futuro Giuseppe II, con una decisione che non ha precedenti storna dall’eredità un capitale di quasi 6 mila fiorini e lo deposita alla Banca di Vienna con l’accordo di poterne disporre in qualsiasi momento; quando i figli, ormai adulti, sono lontani, mantiene unita la famiglia e la casata attraverso fittissime relazioni epistolari.
Tuttavia la sua vita familiare rimane sempre consapevolmente subordinata alla politica, a quello che sente come un dovere nei confronti dei suoi Paesi e dei suoi popoli: “Per quanto amore abbia avuto per la famiglia e i miei bambini, non avendo risparmiato per loro né zelo, né fatica, né attenzioni, né lavoro, li ho sempre posposti al bene generale dei miei paesi, perché ero persuasa in coscienza che tale era il mio dovere e che la loro prosperità esigeva che io fossi la loro prima e comune madre”.
Maria Teresa non è stata educata per il governo e giunge al trono – come lei stessa scrive – “senza denaro, senza esercito e senza consiglio”, ciononostante non pensa neppure per un attimo di delegare ad altri l’esercizio della sovranità. Guidata, inizialmente, soprattutto dal senso del dovere dinastico, si muove con forza di volontà e senso pratico, compiendo scelte che dichiarano di porsi sulla linea della tradizione, ma che nei fatti, costituendone una forzatura, risultano innovative. Così nel 1741, vista l’inevitabilità dello scontro con Federico II di Prussia, Maria Teresa decide di chiedere aiuto alla Dieta ungherese sollecitando la proclamazione dell’insurrectio, la mobilitazione di massa. Si tratta di un istituto antico, al quale fino a quel momento si era ricorsi unicamente per la difesa del territorio ungherese, mai per gli altri Paesi del sovrano.
In quest’occasione Maria Teresa utilizza con abilità le proprie risorse di sovrana e di donna, facendo leva sui sentimenti cavallereschi dei componenti della Dieta: si presenta all’assemblea con la corona di Santo Stefano, ma in abito da lutto; giovane donna coraggiosa, ma sola e infelice, fa appello all’onore, al coraggio e alla fedeltà degli ungheresi, concludendo con la promessa di tangibili segni di riconoscenza. Maria Teresa ottiene così, fra acclamazioni e lacrime di commozione, un’importante successo: l’intervento ungherese, infatti, spinge Federico II a firmare la tregua di Klein-Schellendorf.
Decisa a costruirsi in ogni occasione un’opinione che si basi su una conoscenza approfondita della questione dibattuta, spinge i ministri a esprimersi liberamente, spesso propone un aggiornamento della seduta, invitandoli a esporre per iscritto le loro osservazioni; per le questioni più complesse istituisce specifiche commissioni autonome, che dipendono unicamente da lei. In grado di riconoscere e apprezzare le capacità e la fedeltà nei confronti degli Asburgo che animano i ministri di cui si circonda, non per questo si affida ciecamente a loro e prima di accordare il suo placetpone ai margini dei rapporti richieste di specifiche spiegazioni. In questo modo Maria Teresa costruisce la propria scienza politica a partire dall’esperienza quotidiana, senza richiamarsi mai ai nuovi princípi del dispotismo illuminato, che non condivide, e basandosi su un’interpretazione più estesa dell’antico ius regium che, nel confronto con le comunità e con i ceti, pone il sovrano in una posizione di preminenza. L’antica concezione monarchica viene però utilizzata in modo nuovo, perché nuovi sono gli strumenti che, nella pratica quotidiana, vengono approntati per garantire la felicità dei sudditi: un’amministrazione più efficiente collegata al potere centrale, l’unificazione monetaria, una semplificazione del sistema doganale, l’introduzione di un unico codice penale, l’istituzione di un sistema di istruzione primario e secondario comune a tutti gli Stati. Animata da una concezione patriarcale del dovere monarchico, sostenuta dalla sua fedeltà alla religione cattolica, Maria Teresa compie scelte che, nei fatti, rafforzano lo Stato facendone “una nuova comunità di interessi”, assegnandogli “una nuova coesione morale”. Tutto ciò attraverso relazioni diversificate che la sovrana istituisce con i singoli Stati del proprio impero, operando all’interno di tradizioni e istituzioni differenti, senza mai costringere all’omologazione Paesi e regioni per caratteristiche e cultura profondamente diversi.
Caterina II di Russia
Figlia di un generale prussiano e di Giovanna di Holstein-Gottorp, Caterina sembra destinata a un’oscura vita di provincia, quando nel 1744 la zarina Elisabetta di Russia la sceglie come sposa del nipote, erede al trono di Russia con il nome di Pietro III.
Per Caterina l’arrivo in Russia significa la rottura definitiva con il passato: abbraccia la fede ortodossa, impara a esprimersi in russo, è costretta a interrompere ogni relazione con la famiglia e con il Paese d’origine. Per ordine della zarina viene sottoposta a un controllo serratissimo: una governante veglia sulla sua fedeltà coniugale, vaglia le persone con cui può intrattenersi, fa attenzione che non le giungano informazioni sugli intrighi di corte o sulla politica di governo; le si impedisce di stringere relazioni con dame di compagnia e cameriere cambiandole continuamente.
Questo stato d’assedio si allenta con la nascita dell’erede, subito sottrattole dalla zarina: ora Caterina è meno pericolosa e quindi può godere di maggiore libertà.
Negli anni seguenti impara a destreggiarsi fra le insidie della corte; con la sua disinvolta semplicità, con il suo brio, con la sua spontaneità riesce a conquistarsi la simpatia, l’amicizia e la fedeltà di dame e servitori che le erano stati posti accanto per spiarla. Caterina vive arditamente una relazione amorosa che sconfina negli intrighi della diplomazia e la espone al rischio di un processo per tradimento che, anche se completamente isolata, riesce a superare utilizzando unicamente le proprie risorse: i buoni rapporti stretti con una sua dama di compagnia, nipote del confessore dell’imperatrice. La morte di Elisabetta e la sconsiderata politica di Pietro III, che in soli sei mesi di governo riesce ad alienarsi le élite e i funzionari di corte, la Chiesa ortodossa e le forze armate, pongono Caterina in una posizione nuova e ambivalente: di estremo pericolo, da una parte in quanto Pietro, dopo aver escluso sia lei sia il figlio Paolo dalla formula di giuramento della corona, giunge a minacciarla pubblicamente, mentre circola la voce che abbia intenzione di divorziare e di rinchiuderla in convento; di nuova centralità, dall’altra. Infatti, in quanto madre dell’erede legittimo, minorenne, su di lei si appunta l’attenzione di vari gruppi che, pur con obiettivi differenti, sono ormai convinti della necessità di un cambiamento. Ancora una volta Caterina, dimostrando quell’intelligenza, quella volontà di ferro e quella capacità di autocontrollo che ne costituiscono la forza, utilizza appieno le risorse di cui dispone: durante i sei mesi di governo del marito cerca l’approvazione della Chiesa, della corte e della capitale, svolgendo accuratamente tutti i doveri religiosi connessi alla morte di Elisabetta, comportandosi “con dignità di fronte agli inviati stranieri e ai cortigiani, sopportando con pazienza gli insulti e sottolineando con enfasi il contrasto tra la sua intelligenza, le sue buone maniere, e la sgraziata buffoneria di Pietro”, ma soprattutto fa dell’ampia parentela del suo amante, Grigorij Orlov, lo strumento di cui avvalersi per la presa del potere. Non sappiamo se questa relazione, avviata già da un anno, venga intrapresa con l’intenzione di assicurarsi una protezione e quel legame diretto con le forze armate che garantiranno il successo del colpo di Stato; sta di fatto che Caterina adotta qui una strategia che sarà costante durante il suo lungo regno: consolida il proprio potere legando a sé uomini che, attraverso la loro rete di relazioni, le assicurano il controllo della corte e dell’esercito. Assistiamo quindi a un capovolgimento dei rapporti di genere all’interno di una società di corte e di un costume (il favoritismo) tradizionali; un capovolgimento operato da un soggetto forte che, paradossalmente, deve la sua libertà d’azione proprio al suo isolamento e alla mancanza di protezioni.
Caterina infatti, come la Pompadour, compie scelte molto più radicali e autonome di quanto non faccia Maria Teresa, più condizionata dalla solida rete di relazioni in cui è inserita. Decisa a esercitare in prima persona il potere sovrano, Caterina istituisce fin dal primo momento una serie di commissioni che le permettono di dividere e controllare l’opposizione e contemporaneamente di acquisire informazioni e consigli indispensabili per far fronte alla sua inesperienza.
Un’inesperienza a cui si affianca però la volontà di imprimere al governo e alla società russa un indirizzo nuovo, le cui linee teoriche le vengono dalle letture di Montesquieu, Cesare Beccaria, Voltaire, compiute negli anni precedenti e in seguito rafforzate dai rapporti con i philosophes, dalla lettura dell’Encyclopédie e dallo studio del pensiero cameralistico tedesco.
Sua convinzione è che compito del sovrano sia disciplinare la vita dei sudditi in modo che ciascuno possa eseguire il compito affidatogli all’interno dell’ordinamento sociale. In un’ottica razionalistica, spesso astrattamente alla ricerca di un’uniformità che mal si concilia con la pluralità di condizioni sociali, economiche e culturali del suo impero, Caterina assicura al sovrano il controllo della società (attraverso la Tabella dei ranghi, infatti, sorveglia l’accesso alla nobiltà e le promozioni al suo interno) e cerca di creare un nuovo rapporto tra governanti e governati sia attraverso l’apertura di dibattiti e di nuovi spazi per un’iniziativa privata distinta dallo Stato, sia attraverso l’istituzione di strumenti di controllo che, raggiungendo anche i ceti più bassi della società, sottraggano i sudditi più deboli all’arbitrio della nobiltà locale. I princìpi affermati nel nakaz (il Codice dell’Impero russo), le grandi riforme amministrative e giudiziarie, la creazione di un sistema di istruzione pubblica trovano nella realtà una difficile applicazione per la penuria di personale qualificato, la diffusa corruzione, l’uso costante della violenza e in genere per le difficoltà di affermazione dei nuovi principi di legalità che Caterina si sforza di imporre a un Paese in cui le leggi appaiono più che altro esortazioni morali. Ciononostante Caterina attua riforme strutturali così significative da avviare un processo di modernizzazione che si manifesta innanzitutto attraverso la demilitarizzazione dell’amministrazione e della società, tratto quest’ultimo, che è stato letto come “il corollario della presenza al trono di una donna”. In realtà è la società russa che, diversamente ad esempio da quella austriaca, impone a Caterina quel rapporto indiretto con le forze armate che può averla spinta a ridurne il potere. Infatti, mentre Maria Teresa d’Austria esamina personalmente i piani militari, interviene per incitare i generali e passa in rassegna le truppe, Caterina delega sempre le questioni militari e il controllo dell’esercito ai suoi favoriti, in particolare a Grigorij Alexandrovic Potëmkin. In realtà sono soprattutto le convinzioni politiche che inducono Caterina a limitare la presenza di poteri forti all’interno dello Stato e a dare invece maggior spazio alla società civile. Allo stesso modo è nelle convinzioni illuministiche fatte proprie da Caterina, più che nel suo essere donna, che trovano fondamento alcuni atteggiamenti che caratterizzano il suo governo: l’assunzione di una strategia di persuasione piuttosto che di imposizione della propria volontà, l’avversione per l’uso della violenza nell’esercizio della giustizia, la costante “vocazione educativa” sia nell’attività di governo (nel 1768 tiene delle vere e proprie lezioni ai componenti della sottocommissione da lei istituita ‘Sulla struttura dello Stato in materia di diritto pubblico’) sia, negli ultimi anni, nella vita privata e familiare (scrive fiabe, novelle, racconti educativi per l’infanzia tratti dalla storia russa). Alla sua morte, però, l’appartenenza di genere emerge come elemento determinante nella definizione della sua immagine.
Isabel de Madariaga
V.S. Popov spiega al giovane imperatore Alessandro come Caterina ha concepito il suo potere assoluto
Niente lasciò impressione più profonda sul mio animo della seguente conversazione (con Caterina):
L’argomento era il potere illimitato con cui la grande Caterina non solo governava il suo impero ma dava disposizioni negli altri paesi. Le parlai dello stupore che provavo di fronte alla cieca ubbidienza con cui il suo volere veniva ovunque eseguito, dell’entusiasmo e dello zelo con cui tutti cercavano di accontentarla.
“Non è così facile come credete, - si compiacque di rispondermi. - Anzitutto i miei ordini non verrebbero eseguiti se non fossero tali da poterlo essere; voi sapete con quale prudenza e circospezione agisco nel promulgare le leggi. Esamino le circostanze, accetto consigli, consulto la parte illuminata della popolazione, e in questo modo vengo a sapere quale effetto produrrà la mia legge. E solo dopo essermi preventivamente assicurata dell’approvazione generale impartisco i miei ordini, e ho il piacere di osservare ciò che voi chiamate cieca ubbidienza. Questo è il fondamento del potere illimitato. Ma credetemi, non otterrebbero cieca obbedienza ordini non adattati alle consuetudini e alla mentalità della gente, ovvero dettati dal mio desiderio irriguardoso delle conseguenze”.
I. de Madariaga, Caterina di Russia, Torino, Einaudi, 1988
Pregiudizi su una zarina
Se infatti durante il suo regno Caterina suscita ammirazione, ma anche un certo disorientamento fra i contemporanei – la sua determinazione, la sua appassionata razionalità sono concepibili solo in un uomo – alla sua morte, soprattutto fra i ceti popolari, diviene il bersaglio di componimenti satirici: accusata di essere stata una donna spudorata che passava da un amante all’altro, che aveva sottomesso i cosacchi e vincolato al suolo i contadini della Piccola Russia, ella diviene la “zarina sgualdrina”. L’immagine di Caterina viene quindi riplasmata nella memoria secondo i criteri di giudizio a cui sono tradizionalmente sottoposte le donne, criteri unicamente moralistici che non riconoscono a loro alcuna legittimazione all’attività politica. Il riemergere di tale concezione dimostra quanto la presenza di singole donne nei luoghi istituzionali del potere sia ben lontana dal costituire una reale apertura della politica.