Le dimensioni dell’Universo
La struttura, l’evoluzione e il concetto stesso di Universo vengono analizzati in questo saggio a partire dai più recenti dati relativi alle sue caratteristiche di base e ai suoi elementi costitutivi: ha un’età di 13,7 miliardi di anni, con un margine di errore dell’1%; si sta espandendo con una velocità di 70,8-1,6 km/s a megaparsec da ogni punto di osservazione; soltanto per circa il 4% è costituito da materia ordinaria composta di protoni e neutroni (cui le stelle contribuiscono per una piccolissima frazione), il resto è materia oscura (24%), neutrini (meno dell’1%) ed energia oscura (72%); la radiazione cosmica di fondo, il residuo che ancora si osserva dell’Universo primordiale, fonte preziosa di informazioni cosmologiche, ha una temperatura media di 2,725 K, con fluttuazioni spaziali di 0,0002 K. Il contenuto dell’Universo, visibile e non visibile, è legato a doppio filo alla sua geometria; quest’ultima risulta la chiave per conoscerne il comportamento evolutivo e il destino finale, a partire da una singolarità iniziale (Big Bang) di enorme densità e temperatura dalla quale si è sprigionato lo spazio, tessuto dal tempo e gravato dalla materia. Alcune proprietà fisiche osservabili riducono le possibili forme dell’Universo da infinite a un numero limitato. Il modello cosmologico standard, che prevede il Big Bang come soluzione delle equazioni relativistiche e l’espansione successiva, è in accordo con i dati sperimentali e alcuni suoi aspetti non soddisfacenti trovano soluzione nell’ipotesi inflazionaria, la quale sembra confermata dai risultati delle osservazioni più recenti e spiega anche alcune problematiche della fisica moderna. Il limite resta la conoscenza dell’origine fisica dell’Universo (il tempo t=0 ha soltanto un significato matematico), su cui si erge una barriera a 10−43 s dal Big Bang (tempo di Planck), quando gli effetti relativistici si uniscono a quelli quantistici e la descrizione di tali condizioni estreme è governata da una fisica che non è nota. La sorpresa proviene dall’inaspettata scoperta dell’attuale fase di espansione accelerata dello spazio, un problema ancora non risolto ma anche il pezzo mancante per completare un quadro coerente con le osservazioni.
Geometria e forma dello spazio
In accordo con la teoria della relatività generale, lo spazio-tempo (costituito dalle tre coordinate spaziali e da quella temporale, indissolubilmente legate tra loro) è una struttura matematica caratterizzata da una topologia e da una metrica. La topologia fornisce informazioni sulla struttura globale dello spazio, ossia permette, per es., di capire se lo spazio è finito o infinito, senza introdurre alcuna misurazione. La metrica determina, invece, la forma locale dello spazio-tempo: ha a che fare cioè con le distanze e gli intervalli di tempo misurati.
Nello spazio assoluto derivante dalla concezione di Isaac Newton la cornice geometrica è semplice: quella euclidea. In tale spazio, ove la minima distanza tra due punti è un tratto di retta, per comprendere le traiettorie non lineari osservate, per es. quelle ellittiche dei pianeti e delle comete, è necessario introdurre il concetto di forza, ossia dell’attrazione universale. Nello spazio euclideo la metrica è determinata semplicemente dal teorema di Pitagora, per il quale il quadrato dell’elemento di linea ds è dato dalla somma degli spostamenti elementari lungo gli assi coordinati: ds2=dx2+dy2+dz2.
La relatività generale introduce modifiche radicali. Infatti, in tale contesto la gravità non è considerata più una forza, bensì una manifestazione locale di una geometria non euclidea: la presenza di materia incurva lo spazio-tempo e la traiettoria curvilinea dei corpi celesti è in questo quadro considerata una geodetica, ossia la linea dal cammino più breve (una ‘retta’ in questo tipo di geometria). In assenza di materia, lo spazio-tempo resta non curvo e la geometria euclidea mantiene la sua validità. In uno spazio qualsiasi, non necessariamente euclideo, per calcolare la distanza tra due punti si considera il seguente teorema di Pitagora generalizzato:
ds2=g11(dx1)2+g12dx1dx2+g22(dx2)2+…
nel quale si introduce una quantità matematica più complessa, ossia un tensore metrico gij (sostanzialmente una matrice n×n), le cui componenti (g11, g12,…) sono i coefficienti degli spostamenti (dx1, dx2,…). Nel caso relativistico, gij è una matrice 4×4 e rappresenta la geometria dello spazio-tempo (determinata dalla distribuzione di materia ed energia); possiede 16 componenti che tengono conto di tutti i prodotti a due a due delle tre coordinate spaziali e di quella temporale.
Se si assume la relatività generale come teoria della gravitazione (vedremo più avanti che essa può essere messa in discussione per rendere conto di alcune particolarità dell’Universo), bisogna metterla in relazione con un tipo adatto di Universo. Le soluzioni cosmologiche delle equazioni di Einstein propongono diversi modelli: si assumono quindi delle semplificazioni che permettono di restringere il campo. Tra il ventaglio delle possibili ipotesi, l’Universo che raccoglie il maggior consenso, il più semplice da descrivere e supportato dalle maggiori evidenze osservative, è quello spazialmente omogeneo e isotropo, ossia con proprietà fisiche identiche in ogni punto dello spazio e che appare simile in tutte le direzioni, senza che ne esista alcuna privilegiata. Queste due ipotesi (omogeneità e isotropia) sono in buon accordo con le osservazioni della distribuzione della materia a grande scala e con le caratteristiche della radiazione cosmica di fondo. Ovviamente si osservano direzioni con maggiori concentrazioni di materia (galassie, ammassi, superammassi) e distribuzioni irregolari, ma l’uniformità spaziale diventa sempre più netta quanto più lontano la si osservi. Matematicamente, per un Universo omogeneo e isotropo lo spazio deve avere una curvatura media costante, perché questa è determinata dalla materia che, a sua volta, deve essere distribuita in modo uniforme. Sono possibili tre curvature: positiva, nulla o negativa, che definiscono rispettivamente gli spazi tridimensionali sferico, euclideo e iperbolico. È impossibile visualizzare questi tre spazi, perché per farlo bisognerebbe osservarli da uno spazio quadridimensionale che li contenga, analogamente a come si visualizza una superficie dallo spazio tridimensionale ordinario: si considerino pertanto gli spazi tridimensionali una generalizzazione del caso bidimensionale (fig. 1). La curvatura nulla corrisponde al caso del piano euclideo: in esso è valido il quinto postulato di Euclide, secondo il quale per un punto esterno a una retta passa una e una sola retta parallela, e inoltre la somma degli angoli interni di un triangolo è 180°. Il quinto postulato di Euclide (o postulato delle parallele) non è derivabile dagli altri quattro (come per secoli si è cercato di dimostrare), perché caratterizza la geometria piana: è pertanto il crocevia per definire le geometrie non euclidee, nelle quali non è soddisfatto. Nella geometria iperbolica da ogni punto escono infinite parallele a una retta data (e la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180°), mentre nella geometria sferica non si hanno rette parallele (e la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180°).
In base alle equazioni della relatività generale, la curvatura dello spazio si ricava misurando la densità media di materia ed energia distribuita nell’Universo: si definisce un valore critico di densità di 1029 g/cm3 (a meno di un fattore che dipende dal tasso di espansione attuale dell’Universo) richiesto affinché lo spazio sia euclideo e si utilizza il parametro di densità Ω, definito come il rapporto tra la densità reale (considerando tutte le possibili forme di materia ed energia) e la densità critica per determinare il tipo di curvatura: negativa, nulla o positiva a seconda che Ω sia minore, uguale o maggiore di 1. È questo legame tra curvatura e densità di massa che permette di accedere sperimentalmente alla geometria macroscopica dello spazio, e quindi al destino dell’Universo: si ha espansione indefinita (Ω<1 o Ω=1) se l’energia cinetica iniziale è in grado di superare o uguagliare l’autogravitazione della materia; collasso in un tempo finito (Ω>1), nel caso contrario.
La gran parte della materia dell’Universo è presente in una forma non osservabile (materia oscura) che esercita una forza gravitazionale ma non emette o assorbe luce. Si tratta di materia ordinaria troppo poco luminosa per essere osservata (per es., stelle nane brune, buchi neri o pianeti giganti) o di materia non ordinaria costituita da ipotetiche particelle. La materia oscura è rilevabile soltanto indirettamente dagli effetti gravitazionali che produce sulla materia visibile e sulla luce emessa da sorgenti situate posteriormente a essa (effetto di lente gravitazionale). La sua esistenza è stata ipotizzata teoricamente da considerazioni di carattere dinamico riguardanti la stabilità osservata di alcune galassie e ammassi di galassie, che poteva essere giustificata soltanto con la presenza di materia aggiuntiva non visibile che garantisse l’equilibrio gravitazionale. Dai calcoli sull’analisi degli effetti indiretti osservati risulta che la materia oscura contribuisce alla densità critica per circa un quarto, cui va aggiunto il 5% circa della materia visibile.
Fotoni primordiali
Un mezzo potente per investigare direttamente la geometria dello spazio è la radiazione cosmica di fondo. Questa è una radiazione isotropica di corpo nero alla temperatura di circa 2,725 K che permea lo spazio e contiene la maggior parte dei fotoni presenti nell’Universo. Questi fotoni sono stati generati nell’Universo primordiale e hanno dapprima interagito con la materia fintantoché l’Universo si è trovato in uno stato ionizzato. L’Universo primordiale era, infatti, un plasma caldissimo, costituito da una miscela di particelle cariche e di radiazione: a una tale temperatura non esistevano atomi stabili, a causa dell’elevata agitazione termica (che impediva, per es., a nuclei positivi ed elettroni di associarsi in atomi neutri), e i fotoni erano continuamente deviati dagli elettroni, non potendo sfuggire. Dopo circa 380.000 anni, quando l’Universo si era raffreddato sufficientemente da permettere ai foto;ni di liberarsi dall’azione della materia, questi hanno cominciato a viaggiare liberamente fino a raggiungere i nostri strumenti. La radiazione cosmica di fondo può pertanto considerarsi una finestra sull’Universo primordiale di 380.000 anni di età. L’epoca nella quale l’Universo è diventato trasparente è chiamata epoca di ricombinazione e i punti di partenza della radiazione costituiscono la cosiddetta superficie di ultimo scattering. In circa 14 miliardi di anni la temperatura della radiazione cosmica di fondo è scesa di un fattore 1000, mentre le dimensioni dell’Universo sono aumentate a causa dell’espansione dello stesso fattore.
La radiazione cosmica di fondo mostra piccole variazioni di temperatura (dette anisotropie, perché dipendono dalla direzione di osservazione), numericamente di qualche unità su centomila (il che conferma l’ipotesi di omogeneità dell’Universo all’epoca della ricombinazione); queste variazioni corrispondono a fluttuazioni di densità che sono interpretate come i semi da cui ebbero poi origine le strutture più grandi. Le fluttuazioni di densità devono essere esistite, altrimenti, per un Universo perfettamente omogeneo e isotropo, sarebbe inspiegabile l’esistenza delle grandi strutture che oggi si osservano. Dal punto di vista fisico, le galassie, gli ammassi di galassie e i superammassi corrispondono a regioni dell’Universo primordiale leggermente più dense, che si sono poi ingrandite attirando gravitazionalmente ulteriore materia.
L’angolo sotto il quale osserviamo le fluttuazioni di temperatura della radiazione cosmica di fondo ci fornisce la curvatura dell’Universo. È utile a tale scopo interpretare le fluttuazioni come vibrazioni gravitazionali e analizzare il loro spettro angolare di potenza. Il plasma dell’Universo primordiale si è comportato come l’aria e le vibrazioni gravitazionali si sono propagate come onde acustiche che hanno registrato tutte le modificazioni del plasma sotto forma di macchie calde (rosse) e fredde (blu) nella radiazione cosmica di fondo (fig. 2). Le onde acustiche del plasma primordiale sono oscillazioni periodiche della densità e della temperatura che si sono sviluppate sotto l’azione di due tipi di forze: la gravità e la pressione della luce. Nelle zone di maggiore densità del plasma prevale la forza di gravità e si ha una compressione della materia, che causa un riscaldamento del plasma e quindi una maggiore emissione di luce; ciò si traduce in un aumento della pressione dei fotoni che si oppone alla gravità e alla fine prevale arrestando l’addensamento e nello stesso tempo producendo meno luce. A questo punto la gravità prevale di nuovo e il ciclo ricomincia: il plasma si comprime e si rarefà periodicamente fino al momento della ricombinazione, quando le oscillazioni lasceranno la loro impronta sulla radiazione cosmica di fondo.
Le onde acustiche possono avere una lunghezza massima limitata dall’esistenza di un orizzonte causale al momento della ricombinazione. Poiché questa è avvenuta circa 380.000 anni dopo il Big Bang, regioni che a quell’epoca si trovavano a più di 380.000 anni luce di distanza relativa non hanno avuto il tempo di scambiarsi informazioni attraverso la luce o qualsiasi altra forma di interazione. Al di fuori dell’orizzonte causale non possono esservi interazioni: le più estese oscillazioni acustiche del plasma primordiale osservabili nella radiazione cosmica di fondo hanno lunghezza massima pari a quelle di tale orizzonte.
L’angolo sotteso dall’orizzonte causale al momento della ricombinazione dà pertanto una misura delle dimensioni angolari delle fluttuazioni e può essere facilmente stimato, a partire dalla sua dimensione di circa 380.000 anni luce e dal fatto che lo si osserva da una distanza di circa 14 miliardi di anni luce (corrispondente all’età dell’Universo) e dopo un’espansione dello spazio di circa un fattore 1000: in un Universo governato da una geometria euclidea (nella quale i fotoni si propagano lungo traiettorie rettilinee), esso è pari a
103×3,8×105
θ ≈ ------ rad ≈ 10
14×109
La misura della scala angolare delle fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo si può quindi utilizzare per determinare la curvatura dell’Universo: valori di θ>1° corrispondono a macchie più grandi, ossia a una curvatura positiva (spazio sferico); valori di θ<1° corrispondono a macchie più piccole, ossia a una curvatura negativa (spazio iperbolico). In entrambi questi due casi, i fotoni della radiazione cosmica di fondo ci avranno raggiunto dopo aver percorso traiettorie curve a partire dalla superficie di ultimo scattering e la dimensione angolare dell’orizzonte causale sarà stata, rispettivamente, ingrandita e rimpicciolita. Fisicamente, in accordo con la relatività generale, ciò è dovuto alla curvatura della luce causata dalla presenza di massa, quindi, nei due casi, rispettivamente a valori del parametro di densità Ω>1 e Ω<1.
L’abbondanza relativa delle fluttuazioni nella distribuzione della radiazione di fondo con differenti scale angolari è descritta dallo spettro di potenza. La distribuzione spaziale della radiazione cosmica di fondo può essere decomposta nelle sue onde componenti, attraverso le armoniche sferiche, ossia funzioni che rappresentano onde su una sfera; il metodo è analogo a quello per cui su una circonferenza, una qualsiasi perturbazione può essere decomposta in serie di Fourier attraverso una serie infinita di seni e coseni che individuano onde persistenti. Le armoniche sferiche sono caratterizzate da un numero d’onda (o multipolo) l, che misura il numero di oscillazioni complete prodotte dall’onda all’equatore della sfera: per es., un’armonica sferica con l=180 produce un’oscillazione ogni due gradi, cioè una serie di macchie più intense e altre meno intense ciascuna con dimensione tipica di un grado. Si ha che θ=π/l (per cui la scala angolare di 1° corrisponde a l=180).
Lo spettro di potenza è quindi un diagramma che riporta l’intensità delle differenti armoniche che compongono la radiazione cosmica di fondo in funzione del numero d’onda (o, equivalentemente, della scala angolare). Affinché questo spettro possa fornire informazioni utili sulla geometria dell’Universo, è necessario che esso non sia completamente casuale, ossia che non sia un diagramma costante, piatto, formato dalla sovrapposizione di tutte le possibili armoniche con ampiezze simili, ma che prevalga qualche armonica rispetto alle altre. La figura 3 mostra lo spettro di potenza della radiazione cosmica di fondo ricavato dai dati raccolti dal satellite WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe), in cinque anni di osservazioni (2003-2008). Esso presenta un picco in corrispondenza del valore l=180 (θ=1°) ed è quindi chiaramente compatibile con un Universo governato da una geometria euclidea, cioè a curvatura nulla (Ω=1). Deve dunque esistere un contributo aggiuntivo di materia-energia dell’Universo da sommare a un terzo circa della materia (visibile e non) per raggiungere la densità critica: questo aspetto è legato a una scoperta sull’espansione dello spazio che sarà discussa più avanti. Oltre al picco principale, che corrisponde alla dimensione angolare delle fluttuazioni più frequenti, si nota la presenza di picchi secondari, dovuti alle vibrazioni di diverse dimensioni (quindi diversi numeri d’onda) che hanno cominciato a oscillare nell’orizzonte causale a tempi differenti prima della ricombinazione, dove sono arrivate pertanto con una fase dipendente dalla loro dimensione. Ciò è dipeso dal fatto che la dimensione dell’orizzonte causale non è stata sempre la stessa, ma è cresciuta con il tempo (è data, infatti, dal prodotto della velocità della luce per il tempo trascorso dal Big Bang). Conseguentemente vi saranno state alcune vibrazioni, la cui lunghezza era maggiore di quella dell’orizzonte causale, che inizialmente non oscillavano (erano per così dire ‘congelate’), ma hanno iniziato a farlo quando l’orizzonte è cresciuto abbastanza da diventare più grande della loro estensione. Hanno iniziato a oscillare per ultime le vibrazioni la cui dimensione era paragonabile a quella dell’orizzonte causale, le quali hanno fatto appena in tempo a raggiungere la massima compressione prima che il plasma diventasse neutro (e gli eventi tutti correlati).
La posizione e l’ampiezza dei picchi secondari forniscono importanti informazioni sulla composizione dell’Universo primordiale. In particolare, il secondo picco è determinato dalla materia ordinaria che modifica le fluttuazioni di densità del plasma primordiale favorendo le compressioni rispetto alle rarefazioni; il rapporto dell’ampiezza del secondo picco rispetto a quella del primo dà una stima della quantità di materia ordinaria presente nell’Universo, che può essere confrontata con i risultati delle determinazioni basate sulla teoria della nucleosintesi primordiale, la quale prevede la produzione degli elementi chimici dell’Universo dalle reazioni nucleari che avvennero nei primi tre minuti dopo il Big Bang.
I dati raccolti da WMAP hanno un margine di errore del 2% (Ω=1,02±0,02) e migliorano sensibilmente quelli ottenuti da precedenti osservazioni, in particolare da COBE (COsmic Background Explorer), su grandi scale angolari; da BOOMERanG (Balloon Observations Of Millimetric Extragalactic Radiation and Geophysics), MAXIMA (Millimeter Anisotropy eXperiment IMaging Array) e DASI (Degree Angular Scale Interferometer), su scale angolari più piccole. Ulteriori miglioramenti si attendono dai risultati della missione Planck (il cui lancio è stato effettuato il 14 maggio 2009), che fornirà una mappa della radiazione cosmica di fondo a un’alta risoluzione angolare coprendo il 95% di cielo su un largo spettro di frequenze: ci si aspetta una misura delle fluttuazioni di temperatura con una risoluzione in grado di valutare una parte su un milione.
Tra le possibili geometrie dell’Universo, quella euclidea è la più difficile da accogliere, perché corrisponde esattamente al valore Ω=1; si avrebbe la certezza che l’Universo possiede una geometria euclidea soltanto nel momento in cui fosse possibile affermare con sicurezza che Ω=1, azzerando gli inevitabili errori sperimentali (la cosa è chiaramente impossibile). Gli altri due casi (Ω>1, Ω<1) possono non essere influenzati dagli errori sperimentali, facendo riferimento a intervalli di valori e non a un valore numerico esatto. Fisicamente, il valore Ω=1 è spiegato facendo ricorso alla teoria dell’inflazione, in base alla quale subito dopo il Big Bang l’Universo, trovandosi in un particolare stato fisico da cui sarebbe scaturita una violenta repulsione gravitazionale, si sarebbe espanso esponenzialmente per una frazione di secondo crescendo di un fattore 1030 nelle dimensioni o forse più (le piccole disomogeneità della radiazione cosmica di fondo, all’origine delle strutture a grande scala, sono interpretate come fluttuazioni di tipo quantistico poi sviluppatesi con l’inflazione). Il valore Ω=1 è instabile: se nell’Universo primordiale Ω fosse stato anche leggermente minore di 1 sarebbe poi rapidamente caduto a 0, mentre se fosse stato leggermente maggiore di 1 sarebbe cresciuto così rapidamente che dopo poco tempo l’Universo sarebbe ricollassato. Senza l’ipotesi dell’inflazione, bisognerebbe accettare il fatto estremamente improbabile che nell’Universo primordiale il valore del parametro di densità fosse esattamente Ω=1.
L’inflazione spiega anche perché l’Universo appare omogeneo, risolvendo un problema cosmologico legato al fatto che regioni molto distanti (più della distanza che la luce può aver percorso dal momento del Big Bang) hanno proprietà fisiche quasi identiche nonostante non abbiano potuto influenzarsi a vicenda, perché nessun segnale (che viaggia al massimo alla velocità della luce) può averle messe in contatto: prima dell’inflazione le regioni, ora lontanissime, si trovavano molto più vicine, ed erano quindi in grado di interagire. Secondo una variante del modello inflazionario, che va però al di là della verifica sperimentale, a causa di piccole fluttuazioni casuali di temperatura e densità i periodi di inflazione si sarebbero ripetuti più volte e con diversa durata interessando svariate regioni, ciascuna delle quali si sarebbe evoluta in un universo distinto: il nostro sarebbe uno di questi, pertanto una minuscola parte di un ‘multiverso’.
Anche il cosiddetto problema della freccia temporale trova una sua soluzione con l’ipotesi inflazionaria. Le leggi della fisica sono essenzialmente simmetriche rispetto al tempo, cioè non distinguono il passato dal futuro, in netto contrasto con l’osservazione dello scorrere del tempo in una sola direzione. La seconda legge della termodinamica, che stabilisce la tendenza dei sistemi fisici a trovarsi in stati di maggiore entropia, cioè di maggiore disordine, si basa sostanzialmente su considerazioni probabilistiche applicate alle leggi newtoniane, valide sia nel passato sia nel futuro, e non può quindi essere presa sic et simpliciter a giustificazione dell’esistenza di una freccia unidirezionale del tempo. In altre parole, se si prende in considerazione un sistema fisico in un qualsiasi istante, è molto probabile secondo tale legge che la sua entropia (se non è già massima) aumenti sia nel futuro sia nel passato. La freccia del tempo data dall’entropia è giustificata soltanto se a un’estremità della freccia temporale sussistono condizioni limite molto particolari, di bassa entropia (ossia di ordine molto elevato): il ‘futuro’ può allora essere definito come la direzione in cui l’entropia aumenta. La questione assume evidentemente un carattere cosmologico: bisogna risalire al Big Bang e studiare lo stato fisico dell’Universo primordiale che ne è scaturito. Questo era costituito da un gas uniformemente diffuso che, in condizioni normali, è uno stato disordinato di alta entropia. Tuttavia, nell’Universo primordiale, molto denso, la gravità riveste un ruolo importante e modifica la situazione: in questo caso la normalità non è l’uniformità ma la presenza di raggruppamenti di gas formatisi a causa dell’attrazione gravitazionale. L’Universo primordiale, una miscela di gas uniforme, è da considerarsi pertanto uno stato di entropia straordinariamente bassa, che evolve nel futuro verso stati di entropia maggiore. Resta però un problema: questo stato dell’Universo primordiale è molto improbabile. Perché è esistito? L’ipotesi inflazionaria risolve la questione: la fase di rapida espansione, di gravità repulsiva, riduce drasticamente tutte le disomogeneità e abbassa l’entropia (l’entropia totale aumenta comunque, a causa della creazione di nuova materia conseguente all’energia rilasciata al termine dell’inflazione, ma molto meno di quanto avrebbe potuto fare senza l’espansione). È da questa fase che parte la freccia del tempo.
Uno dei dati raccolti dal satellite WMAP (fig. 3) desta qualche perplessità. Si tratta del valore corrispondente alla scala angolare 90°, ossia l=2, molto al di sotto dell’andamento orizzontale previsto per i primi numeri d’onda (a larghe scale angolari i fenomeni sono non correlati e quindi non portano contributo alle anisotropie). Il valore l=2 è il primo significativo dal punto di vista cosmologico: l=0 descrive solo l’intensità globale; l=1 rende conto del moto della Terra attraverso la radiazione cosmica di fondo, che dà origine, a causa dell’effetto Doppler, a una distribuzione di temperatura con valori leggermente più alti nella direzione del moto e più bassi nella direzione opposta. Questa discrepanza del valore l=2 con il modello teorico, ossia la mancanza di onde di grande lunghezza, unita al valore del parametro di densità Ω=1,02±0,02, leggermente spostato verso un valore maggiore di 1, è interpretata da taluni come un indizio che a grande scala la geometria dell’Universo differisce da quella euclidea, a favore di uno spazio sferico. Infatti, se si esclude che tale anomalia possa essere attribuita al fatto che l’Universo primordiale sia stato regolato da leggi fisiche ancora sconosciute, una spiegazione prettamente geometrica potrebbe essere basata sull’ipotesi di uno spazio finito, la cui dimensione, appunto finita, imporrebbe un valore massimo alle lunghezze d’onda.
Possibili forme
Qual è la forma dello spazio? Lo spazio è finito o infinito? Abbiamo visto che la metrica, quindi la relatività generale, non è in grado di dare una risposta a questa domanda, perché fissa soltanto gli elementi per descrivere la curvatura dello spazio, ma non quelli per rendere conto delle proprietà globali, delle quali si occupa la topologia: a uno stesso elemento metrico possono corrispondere più forme dello spazio. Le proprietà topologiche restano insensibili alle deformazioni, ammesso che queste siano continue (ossia senza tagli, strappi, incollature): una ciambella è equivalente a una tazza da caffè, perché l’una può trasformarsi nell’altra attraverso una deformazione continua, mentre invece la superficie di una ciambella non è equivalente a quella di una sfera, perché non è possibile trasformare l’una nell’altra senza operare tagli o incollature. Un esempio di spazi con uguale curvatura e differente topologia nel caso bidimensionale può chiarire la questione.
Si prenda un piano e se ne ricavi un quadrato: la sua metrica (geometria locale) è descritta dal teorema di Pitagora. Incollando il lato destro del quadrato sul lato sinistro si ottiene un cilindro. Questa operazione non ha cambiato la metrica e il teorema di Pitagora continua a essere valido sulla superficie del cilindro: l’apparente curvatura non nulla della superficie del cilindro è dettata dal suo rapporto con lo spazio esterno, in cui il cilindro viene visualizzato. La superficie sembra curva perché nel modello si cerca di immergerla nel consueto mondo tridimensionale; un ipotetico essere piatto che vivesse sulla superficie del cilindro e non avesse accesso allo spazio esterno verificherebbe una curvatura nulla, ossia la validità del teorema di Pitagora o, equivalentemente, che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180°. Le proprietà globali del quadrato e del cilindro sono invece differenti: il cilindro è anisotropo, poiché non tutte le sue direzioni sono equivalenti. Si prosegua nell’operazione e si incollino i cerchi alla sommità e alla base del cilindro: si otterrà un toro bidimensionale, ossia una sorta di ciambella. Anche in questo caso, la metrica è la stessa e le proprietà globali sono differenti rispetto al quadrato.
Si è visto che nei modelli omogenei e isotropi dell’Universo sono realizzabili soltanto tre curvature dello spazio. Ciò aiuta a limitare le possibili forme topologiche, che si riducono drasticamente e in un numero limitato nel caso, suffragato dalle osservazioni, di un Universo con geometria euclidea: esistono, infatti, in;finiti spazi omogenei e isotropi sferici e iperbolici, ma si dimostra matematicamente che esistono soltanto 18 forme topologiche tridimensionali euclidee, 8 delle quali possono essere escluse perché non orientabili. È molto improbabile che l’Universo abbia una forma di questo tipo: se così fosse e qualcuno si allontanasse dalla Terra, al suo ritorno si ritroverebbe con l’orientazione invertita, rispetto agli altri abitanti terrestri; inoltre, in un tale spazio si dovrebbe osservare una radiazione, mai osservata, proveniente dalle zone di confine, dove vengono a contatto materia e antimateria. Si potrebbe contestare il fatto che la topologia si occupi soltanto dello spazio, nonostante sia più corretto considerare lo spazio-tempo. Tuttavia, se si assume l’ipotesi di un Universo omogeneo (ossia, come abbiamo visto, con curvatura spaziale uniforme) e in espansione dal Big Bang, si possono distinguere le sezioni dello spazio sull’asse del tempo cosmico (il tempo solidale con il movimento delle galassie, dovuto all’espansione dello spazio) e l’analisi topologica può ridursi principalmente a quella della parte spaziale descrivendo lo spazio-tempo come il prodotto matematico tra lo spazio tridimensionale e il tempo.
Da un punto di vista geometrico, tutti gli spazi a curvatura positiva sono a volume finito, mentre non è vero il contrario: gli spazi euclidei e quelli a curvatura negativa possono infatti essere finiti o infiniti. Lo spazio sferico più semplice è l’ipersfera, cioè la generalizzazione a quattro dimensioni della sfera. Un modo per tentare di visualizzare l’ipersfera è considerare come apparirebbe se si muovesse nell’usuale spazio tridimensionale, facendo riferimento agli analoghi movimenti negli spazi di dimensioni inferiori: l’ipersfera, infatti, nell’attraversare lo spazio tridimensionale apparirebbe come una sfera che si espande a partire da un punto e poi decresce fino a scomparire, così come un cerchio che attraversa uno spazio a una dimensione appare come una retta di dimensioni variabili (un punto, che poi si estende fino al diametro del cerchio e ridiventa un punto) e una sfera che attraversando un piano appare come cerchi di raggio variabile.
Nel caso euclideo, che più ci interessa (perché così appare l’Universo), i 10 spazi topologici si suddividono in 6 a volume finito e 4 a volume infinito. Alcune forme topologiche sono difficili da concepire. Una tecnica per visualizzarle è quella di partire da una figura (dominio) fondamentale, replicata più volte in una sorta di pavimentazione di uno spazio più grande: un esempio di dominio fondamentale è il quadrato utilizzato precedentemente per la costruzione del cilindro e del toro bidimensionale. Una possibile forma dell’Universo è il toro tridimensionale, generalizzazione del toro bidimensionale in una dimensione più elevata: si costruisce incollando le facce opposte di un cubo (o di un parallelogramma), anziché i lati opposti di un quadrato. In tale spazio per ogni oggetto si osserverebbe una sua copia in ogni faccia, da ogni lato (davanti, dietro, destra, sinistra, sopra, sotto), e infinite altre copie al di là di queste. In un Universo di questo tipo a curvatura nulla, finito e privo di bordi (l’antico conflitto concettuale della ricerca di un confine spaziale perde di significato con l’identificazione dell’Universo, finito o infinito che sia, con lo spazio-tempo-materia) sarebbe possibile, allontanandosi in una direzione e non cambiando mai traiettoria, ritornare al punto di partenza: dirigendosi verso un lato, si riapparirebbe in quello opposto (nel caso bidimensionale, si può visualizzare tale spazio pensando allo schermo di un videogioco, che sembra limitato ma non lo è, in quanto i personaggi non possono mai uscire e quando raggiungono un bordo riappaiono in quello opposto).
Un altro possibile spazio euclideo a volume finito si ottiene se si utilizza ancora un cubo come dominio fondamentale ma con quattro delle facce incollate nel modo usuale e la parte alta della faccia anteriore incollata a quella bassa della faccia posteriore (ossia con una torsione di 180°): in un tale spazio, nelle due facce con torsione si vedrebbero alternativamente copie capovolte e non dello stesso oggetto. Analogamente, si può generare uno spazio cubico con una rotazione di due facce di 90°, nelle quali si osserverebbero infinite copie via via ruotate di 90°. Ancora, un altro spazio può essere generato da due cubi sovrapposti ma con le facce non tutte incollate a quelle opposte: quella anteriore in alto e quella posteriore in alto unite alle facce direttamente sotto di esse (in un tale spazio un essere sufficientemente alto vedrebbe i suoi piedi direttamente di fronte al viso). Le altre due forme topologiche euclidee finite possono essere generate da un prisma esagonale: una con la faccia esagonale anteriore incollata alla posteriore con una rotazione di 120°, l’altra, con la faccia esagonale anteriore incollata alla posteriore con una rotazione di 60°.
Lo spazio euclideo infinito più semplice è lo spazio tridimensionale usuale ℝ3, con i tre assi perpendicolari che si estendono all’infinito: in questo spazio non si osservano copie di alcun oggetto in esso contenuto. Le altre tre forme topologiche euclidee infinite, più complesse, possono essere generate da un piano infinito, con la faccia superiore incollata direttamente alla faccia inferiore (lo spazio è infinito in due direzioni e finito nella terza); dallo spazio delimitato da quattro facce di altezza infinita senza chiusura superiore e inferiore (praticamente un corridoio infinitamente lungo), con tutte le facce opposte incollate direttamente; ancora da uno spazio di questo stesso tipo, con due facce incollate con una rotazione di 180°.
Come possiamo riconoscere mediante le osservazioni queste forme dello spazio? Un modo potrebbe essere quello di cercare copie di galassie, o ammassi di galassie, e valutarne l’orientamento. Una notevole difficoltà di tale metodo deriva dal fatto che l’osservazione nello spazio profondo coincide con l’osservazione nel passato (a causa della velocità finita della luce), per cui può essere estremamente difficile identificare come copia di un oggetto celeste quello stesso oggetto molto più giovane. In ogni caso, è determinante il rapporto tra le dimensioni dell’Universo reale e quelle dell’Universo osservabile. Quest’ultimo è la porzione di Universo con cui in linea di principio è possibile aver scambiato informazioni dal Big Bang in poi. È definito come l’interno di una sfera centrata sull’osservatore e il cui raggio è quello dell’orizzonte cosmologico (approssimativamente la superficie sferica di ultimo scattering), ossia il luogo dei punti dello spazio tali che la velocità apparente di espansione raggiunge la velocità della luce, al di là del quale nessun oggetto può essere osservato perché la luce che ha emesso non ha avuto il tempo di raggiungerci da quando l’Universo è in espansione: per uno spazio euclideo con l’espansione attuale tale raggio è di 45,6 miliardi di anni luce (maggiore dello spazio percorso dalla radiazione cosmica di fondo nei 13,7 miliardi di anni di età dell’Universo, perché nel frattempo lo spazio si è espanso). Lo spazio tridimensionale, così come lo pensiamo spontaneamente, potrebbe essere il frutto di una percezione locale, analogamente a come la superficie terrestre ci appare localmente piatta nonostante la Terra sia sferica. Lo spazio euclideo infinito più semplice (ℝ3), nel quale l’Universo osservabile è una frazione infinitesima di quello reale, non è evidentemente testabile. Nel caso favorevole di un Universo reale più piccolo di quello osservabile (questa possibilità apparentemente bizzarra può essere dovuta, per es., a uno spazio di piccolo volume e a connessione multipla), il numero potenziale di copie osservabili dello stesso oggetto si può calcolare dal rapporto tra il volume del campione osservato (dettato dal potere di osservazione dei telescopi) e quello dello spazio reale (per es., nel caso del toro tridimensionale di uno spazio euclideo, il volume l3 generato da un cubo di lato l).
Un modo più promettente per ricavare la forma dello spazio proviene ancora una volta dalla radiazione cosmica di fondo, in particolare dallo studio di particolari correlazioni nelle sue fluttuazioni. Si è visto che la mappa delle fluttuazioni di temperatura della radiazione cosmica di fondo si riferisce a una superficie sferica di ultimo scattering da cui provengono i fotoni al momento della ricombinazione (possiamo considerarla una sorta di sfera visiva dell’osservatore). Poiché questa superficie sferica dipende dal punto di osservazione nell’Universo, anche la mappa delle fluttuazioni di temperatura della radiazione cosmica di fondo (ossia la distribuzione delle sue macchie calde e fredde) possiede la stessa dipendenza, per cui due osservatori di due galassie diverse otterranno mappe con differenti andamenti delle fluttuazioni, anche se con la stessa temperatura media. Per due galassie non molto distanti tra loro, le relative superfici sferiche di ultimo scattering si intersecheranno lungo un cerchio, sulla cui circonferenza l’andamento delle fluttuazioni di temperatura della radiazione cosmica di fondo sarà lo stesso, perché prodotto da fotoni che provengono dagli stessi punti.
Tuttavia, se si è in presenza della copia di una stessa galassia, prodotta da una particolare forma dello spazio, non si avrebbe più lo stesso cerchio condiviso da due osservatori, bensì due cerchi con le medesime fluttuazioni di temperatura visti dallo stesso osservatore in due direzioni diverse, perché la superficie di ultimo scattering si autointerseca (per più copie della galassia si avranno più coppie di cerchi ripetute in due direzioni). Quindi un indizio dell’esistenza di uno spazio creato da un particolare dominio fondamentale si può dedurre dall’osservazione nella mappa della radiazione cosmica di fondo di coppie di cerchi con la stessa sequenza di variazioni di temperatura. La presenza di queste coppie di cerchi dipende dalla dimensione del dominio fondamentale: se questa è più grande della superficie di ultimo scattering, quest’ultima non si potrà sovrapporre a sé stessa e non si potrà osservare alcuna coppia di cerchi; se invece è più piccola, si potranno osservare coppie di cerchi, tante più quanto minore è la dimensione. In quest’ultimo caso, il dominio fondamentale si può ricavare dalle orientazioni delle coppie di cerchi, se sono in corrispondenza diretta (è il caso del toro tridimensionale) oppure in corrispondenza con la torsione di un quarto o della metà. Per tali valutazioni sono necessarie mappe di grande precisione che coprono gran parte della sfera celeste.
Espansione accelerata e conseguenze sull’Universo
La cosmologia moderna nasce con la scoperta dell’espansione dell’Universo: lo spazio si dilata e trascina con sé galassie e ammassi di galassie che si allontanano in tutte le direzioni a una velocità che dipende dalla distanza reciproca. Dalla scoperta dell’espansione si è cercato di misurarne il rallentamento, che dovrebbe essere causato dall’attrazione gravitazionale della materia e della radiazione, i due costituenti dell’Universo. Il tasso di espansione si ricava misurando contemporaneamente la velocità di allontanamento e la distanza delle galassie; la prima misura si ottiene facilmente dall’analisi spettrale della radiazione emessa, la seconda è molto difficile da ottenere, perché non si ha alcun punto di riferimento per il confronto. Un metodo consiste nell’utilizzare come indicatori di distanza una particolare classe di stelle, le Cefeidi, la cui luminosità varia con il tempo con un periodo che è proporzionale alla luminosità assoluta (ossia quella intrinseca, effettivamente emessa dall’astro): quest’ultima si ricava quindi misurando tale periodo e, confrontata con la luminosità apparente (quella osservata al telescopio), fornisce la distanza. Tale metodo presenta una serie di difficoltà che rende complicato applicarlo a grandi distanze. Per indagare gli spazi più profondi dell’Universo ci si è avvalsi dello sviluppo di tecnologie avanzate, in particolare delle camere CCD (Charge Coupled Devices), in grado con la loro sensibilità di monitorare larghi settori di cielo e di esplorare migliaia di galassie: ciò ha permesso di osservare in numero significativo rari eventi che danno un’indicazione alquanto precisa di grandi distanze, le supernovae di tipo Ia. Si tratta di fenomeni esplosivi associati a nane bianche (stelle collassate in uno stato di alta densità) che catturano materia da stelle compagne di un sistema binario fino a un limite massimo oltre al quale collassano su sé stesse. Il picco di luminosità raggiunto nell’esplosione (paragonabile a quello di una tipica galassia, quindi osservabile anche a grandi distanze) è lo stesso per ogni supernova di questo tipo, in virtù del fatto che le nane bianche hanno tutte la stessa massa, ed è quindi noto a priori: ancora una volta, conoscendo questa luminosità assoluta e misurando quella apparente si risale alla distanza. Proprio misurando la luminosità di alcune di tali supernovae nel 1998 ci si accorse inaspettatamente che esse erano meno luminose del previsto, quindi più lontane di quanto ci si sarebbe aspettato nell’ipotesi di un’espansione rallentata dello spazio. Negli anni successivi, ulteriori osservazioni, tra cui quelle del telescopio spaziale Hubble del 2003 e, tra le ultime, quelle dell’ESSENCE (Equation of State: SupErNovae trace Cosmic Expansion) Supernova Survey del 2007, hanno esteso le misurazioni della luminosità di tali supernovae a distanze ancora maggiori e hanno confermato che la loro bassa luminosità è conseguenza dell’espansione accelerata dello spazio: i dati dimostrano che l’espansione accelerata è in atto da circa cinque miliardi di anni.
L’origine fisica dell’accelerazione cosmica non è ancora compresa. Nell’ambito di validità della relatività generale s’interpreta con la presenza nell’Universo di una diffusa forma di energia elastica repulsiva (energia oscura) che rende conto dei due terzi mancanti di energia necessari per raggiungere la densità critica di un Universo piatto (abbiamo visto, infatti, che la materia ordinaria e quella oscura contribuiscono per circa un terzo alla densità critica). Potrebbe trattarsi di energia del vuoto quantistico (per il principio di indeterminazione, il vuoto viene riempito da un mare di particelle virtuali), oppure essere la conseguenza dell’esistenza di un nuovo campo scalare, o ancora essere l’influenza di dimensioni spaziali aggiuntive. In alternativa, potrebbe essere il segno che a grande scala le equazioni della relatività generale non sono valide e debbono essere modificate: una teoria diversa della gravitazione potrebbe risolvere il problema, introducendo, per es., una differente geometria dello spazio. Anche l’ipotesi di omogeneità e isotropia dell’Universo può essere messa in discussione, ma allora la nostra galassia dovrebbe occupare nel Cosmo una posizione privilegiata, in disaccordo con il principio copernicano.
L’ipotesi che l’Universo possa avere più di tre dimensioni spaziali (oltre quella temporale) è richiesta dalla teoria delle stringhe, in base alla quale i costituenti fondamentali di esso sarebbero filamenti microscopici i cui modi di vibrazione sono all’origine delle masse e delle cariche delle particelle elementari. La teoria è un tentativo per conciliare la relatività generale con la meccanica quantistica, altrimenti incompatibili, nelle situazioni estreme in cui bisogna descrivere la curvatura spaziotemporale di un frenetico mondo microscopico, come avviene, per es., per l’Universo in prossimità del Big Bang alla scala di Planck (10−33 cm), quando le fluttuazioni quantistiche entrano in conflitto con l’esistenza di un orizzonte degli eventi. La teoria postula la presenza nell’Universo di 6 o 7 dimensioni spaziali aggiuntive arrotolate su sé stesse (compattificate) in uno spazio ridottissimo, quindi non osservabili, a differenza delle tre ordinarie dimensioni (altezza, larghezza, profondità), che sono estese; in ogni punto dello spazio visibile queste dimensioni nascoste formerebbero una complicata struttura geometrica multidimensionale. Il modello cosmologico che ne deriva impedisce all’Universo di contrarsi oltre un certo limite minimo (esclude quindi la dimensione nulla del Big Bang): all’inizio tutte le dimensioni spaziali sono arrotolate in un piccolissimo spazio multidimensionale delle dimensioni di Planck, e la temperatura e l’energia sono molto elevate ma non infinite; poi, a causa di una fluttuazione termica casuale, tre dimensioni diventano più grandi delle altre e iniziano a espandersi, mentre le altre mantengono la loro estensione originaria. In questa prospettiva, il piccolissimo grumo tridimensionale iniziale potrebbe essere stato innescato dalla presenza di un’instabilità in una ‘preistoria’ dell’Universo totalmente diversa e che inizia molto prima: l’espansione sarebbe poi avvenuta in accordo con la fase successiva all’epoca inflazionaria descritta dal modello standard.
Ma come facciamo a sapere quante sono le dimensioni del mondo in cui viviamo? L’esperienza ci dice che sono tre, ma bisogna provarlo. Un modo per farlo ci è fornito dalla legge di gravitazione universale di Newton, in base alla quale la forza gravitazionale esercitata da un corpo su un altro è inversamente proporzionale al quadrato della distanza r che li separa: raddoppiando la distanza la forza diminuisce a un quarto, triplicandola a un nono e così via. Ebbene, la dipendenza da 1/r2 di questa legge è la conseguenza di una proprietà geometrica in tre dimensioni: infatti, le linee di forza del campo prodotto dal corpo che esercita la forza sono disposte lungo una sfera immaginaria di raggio r e la loro densità, che dà la forza, diminuisce all’aumentare della superficie di tale sfera (perché lo stesso numero di linee di campo si distribuisce su una superficie maggiore), la quale è proporzionale a r2. In due dimensioni la legge di Newton andrebbe con l’inverso di r, in quattro con l’inverso di r3 e, generalizzando, in n dimensioni con l’inverso di rn−1. La legge di Newton è stata confermata sperimentalmente fino a una scala di distanza del decimo di millimetro: su scale minori la verifica è complicata dal fatto che emergono effetti quantistici e la gravità è molto più debole.
L’ipotesi di energia oscura, oltre a essere coerente con il quadro cosmologico che deriva dalle osservazioni, elimina anche una grave incongruenza in cui ci si imbatte se si stima l’età dell’Universo misurando il tasso d’espansione attuale ed estrapolandolo fino al Big Bang. L’età ricavata in questo modo (intesa quindi come il tempo impiegato dall’Universo per dilatarsi allo stato attuale) tiene conto naturalmente della storia dell’espansione, che dipende dal contenuto di materia nell’Universo, in grado di rallentare o meno l’espansione: nel caso di un Universo euclideo composto soltanto di materia, l’età risulta tuttavia assurdamente minore di quella delle stelle più vecchie. Se l’Universo sta oggi accelerando spinto dall’energia oscura, la sua espansione dev’essere stata più lenta nel passato e la sua età è maggiore di quella di un Universo in decelerazione (perché è trascorso più tempo per raggiungere il tasso di espansione attuale), quindi è compatibile con quella calcolata con metodi indipendenti.
Al contrario della materia, che tende ad aggregarsi, l’energia oscura è distribuita uniformemente nello spazio e ha profonde ripercussioni sull’evoluzione dell’Universo e in particolare sul suo destino. Dopo una prima fase di rallentamento, quando l’energia gravitazionale della materia era dominante, l’Universo ha iniziato ad accelerare, nel momento in cui con l’espansione la materia è diventata più rarefatta e la sua attrazione gravitazionale si è indebolita lasciando che a prevalere fosse l’energia oscura. Perché le perturbazioni primordiali di densità possano essere cresciute sufficientemente e non sia stata impedita la formazione delle strutture a grande scala, l’energia oscura deve aver iniziato a dominare nell’Universo soltanto qualche miliardo di anni fa. La strana coincidenza che proprio in questo periodo ha avuto pressoché termine la formazione delle grandi strutture ha indotto a pensare che l’azione dell’energia oscura abbia avuto un importante ruolo anche nello sviluppo della popolazione delle galassie e degli ammassi di galassie: l’inizio dell’accelerazione cosmica ne avrebbe impedito quasi del tutto la formazione, ‘congelando’ la distribuzione di materia. Senza l’influsso dell’energia oscura le galassie avrebbero interagito tra loro per un tempo maggiore e oggi se ne osserverebbero di più; al contrario, un’azione più intensa dell’energia oscura avrebbe svuotato prima lo spazio e diminuito di molto il numero di galassie.
In futuro, spinto dall’energia oscura, lo spazio si espanderà e si svuoterà sempre più e la sfera di influenza gravitazionale delle strutture cosmiche sarà poco più grande della loro stessa dimensione, con drastiche conseguenze sulla struttura dell’Universo e sulla possibilità di determinarne la vera natura, quindi sulla cosmologia stessa. Calcoli analitici e numerici indicano che il Gruppo Locale (che comprende anche la nostra galassia) resterà gravitazionalmente legato a dispetto dell’espansione accelerata e collasserà in un enorme superammasso di stelle. In circa 100 miliardi di anni tutte le altre galassie scompariranno dall’osservazione, trascinate al di fuori di un orizzonte degli eventi oltre il quale nulla potrà raggiungerci (la radiazione dei corpi celesti sarà indebolita dall’espansione al di sotto della soglia di rilevazione). Come risultato non si avrà alcuna evidenza osservativa dell’espansione dell’Universo, che apparirà come un enorme insieme di stelle statiche ed eterne, circondate dallo spazio vuoto. La mancanza di dati osservativi renderà molto difficile ipotizzare modelli di Universo. La lunghezza d’onda della radiazione cosmica di fondo sarà dilatata alla scala dei metri, nel campo delle onde radio, e non sarà più osservabile perché non potrà penetrare il gas ionizzato di elettroni che riempirà lo spazio tra le stelle della nostra galassia; con il passare del tempo, il picco della lunghezza d’onda si dilaterà fino a diventare più grande dell’orizzonte, ossia sarà inosservabile anche in linea di principio. L’abbondanza degli elementi chimici della nucleosintesi primordiale, l’ultimo caposaldo su cui si basa il modello del Big Bang, non potrà essere valutata in modo corretto: l’elio sarà pesantemente contaminato da quello prodotto dalle prossime generazioni di stelle, mentre il deuterio ancora presente nelle nubi di idrogeno dello spazio interstellare scomparirà insieme a queste ultime dalla nostra osservazione. Gli astrofisici del futuro potranno comunque stabilire un’età finita per l’Universo, se concluderanno che tutto l’elio presente in esso sarà stato prodotto dalle generazioni precedenti di stelle.
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