Le crisi economiche
Per molto tempo la teoria economica dominante ha ignorato il concetto di crisi. Il paradigma fondamentale di quella teoria era il modello dell’equilibrio generale di L. Walras. Secondo quel modello, in una condizione di concorrenza perfetta il mercato avrebbe sempre trovato, sia pure attraverso aggiustamenti successivi (tatonnements), un equilibrio stabile e ottimale. Questo principio ha ispirato l’ideologia del mercato autoregolato, un’economia deve essere lasciata a sé stessa senza interferenze politiche di alcun genere: mama knows best, la mamma sa quel che fa. Si dimenticava che quel modello era uno schema teorico ideale, non la rappresentazione del mercato reale. Riguardava un’economia chiusa e statica. E presupponeva condizioni di «perfezione», di parità contrattuale, che non si verificano praticamente mai. Quello schema fu corretto, integrato, sviluppato in senso più realistico nell’ambito della stessa corrente del pensiero economico dominante. Lasciando da parte l’antitesi marxista, di un processo di sviluppo conflittuale le cui contraddizioni si risolvono inevitabilmente in una trasformazione rivoluzionaria del sistema, si sono riconosciute le «imperfezioni» monopolistiche del mercato; le oscillazioni strutturali che lo identificano in una serie di cicli economici di espansione e contrazione; le discontinuità tecnologiche che sovrappongono alla visione dell’equilibrio quella dello sviluppo di un sistema imprenditoriale promosso dalle innovazioni e finanziato dal credito. E tuttavia, l’impronta ideologica è rimasta quella dell’equilibrio generale: di una piazza d’armi ove si svolgono manovre ordinate, non di un campo di battaglia teatro di scontri cruenti. Si è riconosciuto che l’economia non si riproduce entro uno schema costante, ma evolve attraverso fluttuazioni, di ondate di espansione e di riflusso della produzione e della domanda, nessuna delle quali è uguale alle altre, ma tutte presentano certe caratteristiche di regolarità. Si sono individuati quattro stati tipici del ciclo economico: due di espansione, iniziale e matura, e due di recessione, contrazione e depressione. Si sono distinti i cicli economici, secondo la loro durata, in cicli brevi, di tre-quattro anni, medi, di circa dieci anni, e lunghi, di circa cinquant’anni. La teoria del ciclo economico è stata sviluppata in diversi modi da diversi autori, ma sulla base comune di un meccanismo endogeno, svolgentesi all’interno del sistema economico. La teoria, anzi le teorie del ciclo economico lasciano inalterato il principio fondamentale della teoria economica dominante (liberale o, più precisamente, liberista) secondo il quale l’economia di mercato è provvista di un meccanismo interno di autoregolazione. Il ciclo sarebbe una caratteristica organica del sistema economico di mercato. Non dunque un segno di crisi del sistema ma, al contrario, della sua vitalità. Negli ultimi decenni la successione dei cicli economici nelle economie capitalistiche si è andata attenuando, tanto da accreditare la tesi che il capitalismo abbia trovato la via di una crescita priva di sistematiche oscillazioni. La teoria economica si è adagiata in una condizione simile a quella della teoria dell’equilibrio generale, dove alla concezione di un equilibrio statico si è sostituita quella, rassicurante, di una crescita continua. È nella crescita che si risolverebbero i conflitti distributivi. È la crescita che consentirebbe di attenuare le fasi di riflusso del ciclo. La convinzione che, specie dopo la scomparsa della sfida comunista, il capitalismo potesse affidarsi alla logica del suo sviluppo, ha avuto però breve durata. Paradossalmente, è proprio nel tempo del suo trionfo che sono riapparse le minacce di crisi: non però oscillazioni del sistema, ma vere e proprie rotture che ne compromettono il funzionamento.
Quella della crisi economica, e in particolare della crisi del capitalismo, non è certo una novità. La sua minaccia ha accompagnato fin dall’inizio l’intero corso della sua storia. Si possono distinguere due approcci che conviene trattare separatamente. Il primo, di marca marxista, riguarda le contraddizioni «interne» del capitalismo generate dal suo stesso sviluppo: le sproporzioni tra produzione e consumo e quelle tra risparmio e investimento. Dunque, crisi di sottoconsumo o di sovraproduzione. È da notare che queste contraddizioni non comportano un avvitamento esplosivo del capitalismo, come nella predizione marxista. Comportano però la necessità di un intervento correttivo esterno: necessità rilevata dall’analisi keynesiana. Malgrado ogni critica che le si possa rivolgere, si deve a quest’ultima se l’intervento dello Stato ha permesso di compensare o di controbilanciare gli squilibri provocati dall’accumulazione capitalistica. Il secondo approccio riguarda le contraddizioni «esterne» del capitalismo. Che sono di due tipi: l’impatto incontrollato della crescita sulle risorse e sugli equilibri ecologici del pianeta (esaurimento e inquinamento); l’impatto incontrollato su risorse economiche non ancora esistenti (indebitamento). Delle crisi ecologiche non c’è molto da dire, essendo chiara la meccanica del fenomeno, anche se discutibili i suoi modi e i suoi tempi. Si tratta non di vere crisi, ma di una condizione diffusa di stress, che può dar luogo in ogni momento a crisi imprevedibili. È probabile che esse diventeranno sempre più numerose e intense. Il che pone il problema della sostenibilità della crescita nel lungo periodo. Quanto alle crisi finanziarie, la loro componente psicologica è fondamentale. L’ha illustrata J.K. Galbraith. Crisi finanziarie ci sono sempre state. Si trattava di perturbazioni patologiche del rapporto tra finanza ed economia reale. Il ruolo della finanza, fondamentale nel processo capitalistico, è quello di indirizzare il risparmio verso gli impieghi più produttivi. Per quanto essenziale, esso è subalterno rispetto agli equilibri che l’evoluzione dell’economia reale comporta: tra consumi e risparmi, tra risparmi e investimenti. Le decisioni di risparmio e di investimento sono però esposte al rischio della speculazione. Il significato essenziale della speculazione sta nella parola stessa. Il «rispecchiamento» dell’economia comporta la possibilità che l’immagine, perturbata da informazioni occasionali, non si limiti a informare il soggetto, ma lo condizioni. Ciò si verifica quando quelle perturbazioni, dovute a informazioni esagerate o distorte, danno luogo a comportamenti cumulativi. Un manufatto o un processo evolutivo in apparenza desiderabile – tulipani in Olanda, oro in Louisiana, terreni in Florida – attrae la mente finanziaria determinando aumenti della domanda generati non dall’aumento dei bisogni ma dalla previsione dell’aumento della domanda. Il prezzo dell’oggetto di speculazione sale. Titoli, terra, oggetti d’arte e altre proprietà, se acquistati oggi, domani varranno di più. Questo incremento e quello prospettato attraggono nuovi acquirenti: questi a loro volta assicurano un ulteriore incremento. Costruendo su sé stessa, la speculazione crea il proprio monumento. Questi fenomeni cumulativi, queste «bolle» speculative sono state promosse nelle economie capitalistiche dal ruolo in esse assunto dalla moneta. È stato soprattutto K. Polanyi a spiegare le conseguenze della mercificazione della moneta. Da misura e intermediaria degli scambi (una istituzione regolatrice dello) essa è diventata oggetto di scambio e di accumulazione. Ciò ha impresso ai fenomeni speculativi una formidabile propulsione. Le crisi finanziarie si sono infittite nella storia del capitalismo moderno. Dai tulipani olandesi all’oro della Louisiana di John Law, dai mari del Sud al crollo del 1929, ogni crisi finanziaria presenta caratteristiche proprie, assai diverse; ma anche un profilo di percorso comune: «dall’euforia al disastro». Secondo Braudel, la prevalenza della finanza è un fenomeno ciclico, caratteristico delle fasi di declino del capitalismo. Ma è indubbio che essa ha assunto una tale portata da far pensare che si tratti di una vera e propria mutazione capitalistica. Questa mutazione ha origine nella liberalizzazione del movimento dei capitali e nella conseguente creazione di un mercato finanziario mondiale ove circolano flussi immensi di denaro e che ha dato origine a un nuovo ceto di intermediari finanziari. Questo ceto ha rapidamente sviluppato la sua potenza e la sua influenza sull’economia mondiale grazie agli strumenti mediatici di cui dispone e alla capacità di creare vera e propria moneta, non riconosciuta per tale, attraverso l’espansione delle emissioni di titoli. In tal modo la nuova classe, che si è presto intesa con la struttura bancaria esistente, modificandone i comportamenti tradizionali nel senso di una sempre maggiore avventurosità, si è posta in grado di modificare lo specchio del mercato finanziario, attivando quel fenomeno di rispecchiamento (speculazione) prima evocato. La modificazione sta nell’avere enormemente ampliato il leverage, il rapporto tra i crediti erogati e il capitale, oltre cento volte. Una colossale ignizione di liquidità. Ne è seguita una enorme espansione dei profitti della finanza, la quale non deve più limitarsi a operare entro uno spazio di mercato definito, ma è in grado di ampliarlo attraverso un sistema quanto mai complesso di strumenti contrattuali (innovazione finanziaria) di difficile comprensione per i risparmiatori e di scarsa trasparenza per gli stessi operatori. La nuova classe, insomma, è in grado di manipolare l’informazione e di realizzare quel paradosso dell’immagine che determina la realtà. Essa acquisisce ricchezza e potere smisurati. La base di questo potere è la mercatizzazione del futuro: la mobilitazione di risorse future ancora inesistenti. Il limite alla loro espansione è l’avidità. Si realizza così il sistema secondo cui il capitalismo è diventato quel particolare regime nel quale i debiti si rinnovano continuamente e non si rimborsano mai. Questo regime è basato su una totale devoluzione di fiducia. Basta una banale incrinatura per determinare un tracollo, con il conseguente avvio di un processo decumulativo (deleverage). Allora vengono alle luce le disinvolte manovre e i veri e propri trucchi che hanno provocato la creazione della mostruosa piramide dell’indebitamento. Questo è il meccanismo esplosivo messo in moto dalla nuova classe dei maghi della finanza. Ma questo è solo parte di una più vasta crisi del capitalismo. La vera e propria controffensiva capitalistica scatenata dalla liberazione dei movimenti di capitale ha messo in moto due grandi processi di mutazione dell’economia. Quello, interno all’economia dominante americana, di un aumento delle diseguaglianze. Quello, internazionale, di uno squilibrio strutturale nell’allocazione del risparmio tra due gruppi di Paesi: gli Stati Uniti e la Cina e i Paesi asiatici. Ambedue questi fenomeni dovrebbero generare una reazione. Delle classi penalizzate dalla diseguaglianza, il primo. Dei Paesi poveri costretti a finanziare il superconsumo dei Paesi ricchi, il secondo. Questa reazione non si verifica. La spiegazione sta, nel primo caso, nell’inflazione finanziaria che consente di finanziare consumi al di là della produzione: l’aumento delle disuguaglianze, prodotto dalla formazione di profitti finanziari, ha una compensazione sociale nell’aumento dei consumi di massa, indotto da una politica di larga permissività del credito. È come se il costo sociale della diseguaglianza si scaricasse sulle generazioni future. Nel secondo caso non c’è alcuna costrizione: Paesi più poveri sembrano felici di finanziare Paesi ricchi perché ciò gli permette di acquistare uno spazio di mercato e, attraverso l’accumulazione dei titoli di credito e di proprietà, una crescente influenza sul mondo delle imprese capitalistiche. È come se la rinuncia ad aumentare nel periodo breve il tenore di vita delle loro masse fosse compensato con un aumento del potere economico e politico nel periodo lungo. Questa condizione è tuttavia alla lunga insostenibile. L’inflazione finanziaria, rappresentata da una massa di titoli pari a quattro volte il prodotto lordo mondiale, ha finito in effetti per provocare una crisi mondiale dagli esiti ancora imprevedibili. E la condizione di disavanzo strutturale degli Stati Uniti non può non determinare una crisi del dollaro (per ora, quella crisi è ritardata dal travaglio dell’euro). Gli stessi dirigenti cinesi sono consapevoli della insostenibilità monetaria di questa condizione, tanto da proporre di resuscitare l’idea keynesiana della moneta unica mondiale. E non possono non preoccuparsi che i contadini cinesi perdano la loro millenaria pazienza. In conclusione: il capitalismo ha i secoli contati. Ma non si può escludere che i suoi deragliamenti, soprattutto le crisi che esso suscita con i suoi eccessi finanziari, abbrevino drammaticamente la conta.
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