Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La critica letteraria, dal greco κρίνειν (“discernere”, “giudicare”), si può definire, in generale, come “discorso sulla letteratura”. Essa solitamente comprende la teoria letteraria (o poetica), la “critica pratica” e la storia della letteratura. Molte delle tendenze critiche novecentesche si intersecano tra di loro secondo varie e complesse direttrici ideologiche, geografiche e temporali; si cercherà di darne un quadro d’insieme classificandole a seconda che esse abbiano posto maggiore attenzione rispettivamente sull’autore (nel suo contesto psicologico, storico, sociale e culturale), sull’opera letteraria stessa o, infine, sui fruitori (il lettore).
L’autore protagonista
Sigmund Freud
Arte e psicoanalisi
Ma perché l’intenzione dell’artista non potrebbe essere comunicata e compresa attraverso le parole, come qualunque altro fatto della vita psichica? Forse per quanto riguarda le grandi opere d’arte questo non è assolutamente possibile senza l’applicazione della psicoanalisi. Il prodotto stesso, dopo tutto, implica una tale analisi se realmente è un’effettiva espressione delle intenzioni e delle attività emotive dell’artista. Per scoprire la sua intenzione, però, devo prima trovare il significato e il contenuto di ciò che è rappresentato nella sua opera, devo, in altre parole, essere in grado di interpretarla. È quindi possibile che un’opera d’arte di questo tipo richieda l’interpretazione e che finché io non abbia compiuto tale interpretazione io non possa arrivare a conoscere il perché sono stato così fortemente colpito.
S. Freud, Psicoanalisi dell’arte e della letteratura, Roma, Newton Compton, 1993
Hans Georg Gadamer
Un’ermeneutica universale
L’essere dell’opera d’arte, abbiamo visto, non è un in sé, che si distingua dalla sua esecuzione o dalla contingenza del suo modo di presentarsi; solo in virtù di una tematizzazione secondaria dei due aspetti si giunge a questa “differenziazione estetica”. Parimenti, ciò che si offre alla nostra conoscenza storica come proveniente dalla tradizione o come tradizione, cioè sul piano storico o su quello filologico, il significato di un avvenimento o il senso di un testo, non è un oggetto in sé fissato, che si tratti di accertare: anche la coscienza storica implica in realtà una mediazione di passato e presente.
H.G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani , 1989
Per quanto riguarda la prima corrente, l’iniziatore può essere considerato lo stesso Sigmund Freud che nella conferenza Il poeta e la fantasia (1907) ipotizza lo studio della creazione artistica da un punto di vista psicanalitico, attribuendo allo scrittore una particolare capacità di percepire più a fondo l’inconscio umano. Lo stesso Freud mette alla prova le sue idee applicandole allo studio di personalità artistiche, come Shakespeare (Il motivo della scelta degli scrigni, 1913) e Dostoevskij (Dostoevskij e il parricidio, 1927), o Leonardo da Vinci (Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, 1910) e Michelangelo (Il Mosè di Michelangelo, 1913). Sono comunque i suoi discepoli a utilizzare con maggior vigore il metodo psicanalitico alla letteratura, da una parte identificando nelle motivazioni inconsce dell’autore i moventi della sua scrittura, dall’altra rintracciando nel testo quegli elementi formali che testimoniano di una censura o rimozione delle pulsioni operata dall’artista. Mentre lo psicanalista Otto Rank (Il Doppio, 1914) legge la figura del doppio presente in numerose opere ottocentesche come uno sdoppiamento del protagonista di tipo schizofrenico, Marie Bonaparte nel suo E.A. Poe (1933) riconduce in maniera deterministica i contenuti dei racconti alla biografia psicanalitica del loro autore. Oltre a Ernest Jones che in Amleto e Edipo (1949) analizza la figura di Amleto nella prospettiva del complesso di Edipo, vanno ricordati altri critici di scuola freudiana come Marthe Robert (Romans des origines et origines du roman, 1972) ed Ernst Hans Gombrich che ha applicato con interessanti risultati il metodo psicanalitico allo studio dell’arte (Freud e la psicologia dell’arte, 1967).
In Italia la critica psicanalitica trova un capostipite in Giacomo Debenedetti che, riprendendo ecletticamente elementi da Freud e da altri grandi pensatori (Husserl, Jung, Einstein), approfondisce alcune categorie generali (“personaggio”, “destino”) nel contesto della frantumazione culturale, filosofica e scientifica del Novecento nelle serie di Saggi critici (1929, 1945, 1959) e nei famosi volumi postumi ricavati dai suoi corsi universitari Il romanzo del Novecento (1971) e La poesia italiana del Novecento (1974). Allievo di Debenedetti, insieme a Walter Pedullà e ad Alfonso Berardinelli, è Mario Lavagetto, studioso tra gli altri di Svevo, Proust, Saba e Balzac, che ha analizzato le implicazioni letterarie del lapsus (La cicatrice di Montagne. Sulla bugia in letteratura, 1992). Originali e innovative sono le posizioni teoriche di Francesco Orlando che, coniugando alcuni assunti freudiani, in particolare da Il motto di spirito (1905), con idee marxiste e linguistico-strutturali e in seguito con il pensiero dello psicanalista cileno Ignacio Matte Blanco, considera la letteratura come una formazione di compromesso nella quale trova manifestazione il represso, in particolare nei passi a più alta densità figurale (Per una teoria freudiana della letteratura, 1973). Sempre nella corrente di studi psicanalitici, in Italia il francesista Stefano Agosti ha utilizzato gli strumenti della psicologia lacaniana nei suoi studi Cinque analisi. Il testo della poesia (1982) e Modelli psicanalitici e teoria del testo (1984). Può rientrare poi nell’ambito di questa stessa critica il lavoro di René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961) dove il desiderio amoroso, analizzato in numerosi romanzi, è spiegato secondo la struttura triangolare dell’immedesimazione mimetica.
Principale esponente della critica idealistico-storicista è il filosofo italiano Benedetto Croce che in L’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) espone l’idea secondo cui l’arte è intuizione assoluta, indipendente dagli aspetti materiali e portatrice di un valore universale, “atto spirituale, creazione di valore”; non c’è più differenza tra contenuto e forma, mentre il critico e la “critica estetica” hanno lo scopo di immedesimarsi nell’autore stesso così da poter rilevare le parti autenticamente poetiche da quelle non poetiche. Croce esercita una grande influenza in America, dove la critica stilistica e il New Criticism rielaborano alcuni elementi delle sue teorie mentre in Italia il predominio crociano dura per tutti gli anni Quaranta condizionando la vita culturale di quegli anni. Accanto ai critici che si limitano a propagandare pedissequamente le teorie del maestro, ci sono coloro che invece le rielaborano con un taglio personale (Francesco Flora, Attilio Momigliano, Mario Sansone) e altri ancora che se ne discostano in maniera più netta. Luigi Russo, per esempio, cerca di mediare tra poesia (intesa nel senso crociano) e storia, dando spazio a quell’insieme di fattori (sentimenti, idee, passioni) che hanno determinato un certo tipo di scrittura (Problemi di metodo critico, 1929; Giovanni Verga, 1934); sulla stessa linea Walter Binni, allievo di Russo, approfondisce l’analisi di vari autori e testi nel tentativo di delineare il diffondersi di un particolare gusto e di specifici orientamenti storico-culturali in una precisa epoca (La poetica del decadentismo, 1936) e contribuisce efficacemente agli studi leopardiani con il saggio La protesta di Leopardi (1973). Natalino Sapegno, fondendo le idee crociane con influssi gramsciani e gobettiani, scrive, tra le altre, notevoli pagine su Manzoni (Ritratto di Manzoni e altri saggi, 1961).
Lo studio degli aspetti retorici e stilistici del testo letterario, in rapporto al contesto culturale, tanto da poter delineare una storia della poesia italiana attraverso la storia del metro, caratterizzano invece l’opera critica di Mario Fubini (Metrica e poesia, 1962) e l’attenzione ai valori formali di Domenico Petrini. Ricordiamo poi, in chiave anticrociana, Luciano Anceschi che sottopone a un’analisi storica e fenomenologica la “poesia pura” nel famoso Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936). Nell’ambito della critica d’arte, va sottolineata per l’attenzione ai valori formali dell’opera e per il tentativo di costruire una storia dell’arte alternativa al canone fiorentinocentrico, l’attività saggistica – unica nel suo genere – di Roberto Longhi, uno dei personaggi più interessanti del panorama italiano, anche per il notevole influsso esercitato dai suoi saggi principali (si ricordino almeno Piero della Francesca, 1927, Officina ferrarese, 1934, Caravaggio, 1952) su scrittori come Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani e Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti, che è sua moglie).
Sociologia della letteratura e critica marxista
La critica sociologica si concentra sui rapporti tra autore, opera e società; dagli anni Cinquanta in poi si è cominciato a parlare di sociologia della letteratura, proprio per sottolineare l’attenzione al contesto sociale di produzione e di diffusione dell’opera d’arte nel circuito autore-mercato-lettore. Famosissimo è Dialettica dell’illuminismo (1947) dove Max Horkheimer e Theodor W. Adorno analizzano il rapporto tra l’attività letteraria e i processi di produzione industriale, ormai strettamente connessi nel mondo contemporaneo; in Note per la letteratura (1943-1968) Adorno rintraccia nello sperimentalismo delle avanguardie l’unica voce demistificatrice dell’arte massificata. Mentre Ian Watt, influenzato anche da Erich Auerbach, studia la nascita del realismo formale nella letteratura inglese (Le origini del romanzo borghese, 1957), il francese Robert Escarpit (Sociologia della letteratura, 1958) contribuisce alla formazione a Bordeaux del Centre de Sociologie des faits lettéraires che studia la produzione e diffusione del testo letterario considerandola un processo legato all’economia di scambio. Sempre in Francia Lucien Goldmann, accogliendo istanze della critica marxista e strutturalista, sviluppa il cosiddetto strutturalismo genetico (Per una sociologia del romanzo, 1964) che rintraccia rapporti di omologia tra le strutture interne al romanzo e le condizioni storiche e sociali. In Italia è stato Carlo Dionisotti che, partendo dal magistero del Croce erudito, ha esaminato in chiave sociologica soprattutto il periodo rinascimentale (Geografia e Storia della Letteratura italiana, 1967).
La critica sociologica si è spesso intersecata e fusa con quella marxista. Karl Marx e Friederich Engels, benché nel loro sistema filosofico abbiano considerato la letteratura una sovrastruttura, hanno fatto spesso riferimento ad alcuni romanzi (ad esempio quelli di Balzac) nei quali sono rispecchiate, al di là delle intenzioni dell’autore, le contraddizioni del capitalismo. Il dibattito per una critica letteraria marxista comincia prima della rivoluzione russa con Georgij Valentinovič Plechanov e vede poi dominare le posizioni del teorico del “realismo socialista” Andrej Aleksandrovič Ždanov. Sulla questione del realismo socialista e di una critica di stampo marxista molto influenti furono gli interventi e le riflessioni dell’ungherese Gyorgy Lukács. Ai giovanili L’anima e la forma (1911) e Teoria del romanzo (1920), seguono i saggi improntati a una visione hegeliano-marxista della storia, basata sulla teoria del rispecchiamento che sottolinea la stretta connessione tra le opere letterarie e i fenomeni sociali e politici; al noto Il romanzo storico (1937-1938) seguono i Saggi sul realismo (1948) e Il marxismo e la critica letteraria (1952). Marxista eterodosso e asistematico è anche il tedesco Walter Benjamin che si occupa dell’allegoria moderna (contrapposta al simbolo degli antichi) ne Il dramma barocco tedesco (1928) e in generale della commercializzazione dell’opera letteraria (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) nel mondo contemporaneo, caratterizzato dallo shock e dalla perdita dell’aura (Parigi, capitale del XIX secolo, 1982). Su posizioni benjaminiane troviamo in Italia Guido Guglielmi (Ironia e negazione, 1974) e Fausto Curi (Perdita d’aureola, 1977), provenienti dalla scuola di Anceschi, attenti poi al discorso sul comico del russo Michail Bachtin, e Romano Luperini, che ha sviluppato la contrapposizione tra simbolo e allegoria (L’allegoria del moderno, 1940). Mentre in Francia Louis Althusser cerca di coniugare marxismo e strutturalismo, in Italia il pioniere degli studi sociologici può essere considerato Antonio Gramsci, che nei Quaderni dal carcere (1948-1951) e in Letteratura e vita nazionale (1950) studia la figura dell’intellettuale nella società borghese e, analizzando lo stretto legame tra elementi ideologici, forma letteraria e cultura nazional-popolare, scrive pagine acute su Dante, Manzoni e Machiavelli. Nel dopoguerra è famosa la polemica tra il segretario del PCI Palmiro Togliatti ed Elio Vittorini, direttore della rivista “Il Politecnico”, che rivendica per gli intellettuali libertà di azione e di critica nel campo culturale e artistico. Critici marxisti di quel periodo sono Carlo Muscetta (Letteratura militante, 1953), Mario Alicata, Carlo Salinari (Miti e coscienza del Decadentismo italiano, 1960) e Alberto Asor Rosa, autore del famoso Scrittori e popolo (1965) in cui è analizzato il carattere populista di molti romanzi italiani del Novecento; di grande rilievo, inoltre, Pier Paolo Pasolini (Passione e ideologia, 1960; Empirismo eretico, 1972), che innesta ecletticamente sulla base marxista spunti tratti da altre metodologie critiche (tra cui quelle dei maestri Gianfranco Contini e Roberto Longhi); Franco Fortini (Verifica dei poteri, 1965; Saggi italiani, 1974) il quale affronta da un punto di vista marxista autori e problemi metodologici, ed Edoardo Sanguineti, professore universitario e critico militante appartenente al Gruppo 63, che a una formazione gramsciana ha affiancato suggestioni provenienti dalle scienze umane (oggetti della sua analisi soprattutto Dante, Pascoli, Gozzano). Infine ricordiamo gli studi sociologici su base marxista di Giuseppe Petronio (L’attività letteraria in Italia, 1964), Sebastiano Timpanaro per gli studi su Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (1965) e i lavori di Giancarlo Mazzacurati su Cinquecento (Il Rinascimento dei moderni, 1985) e Novecento (Pirandello nel romanzo europeo, 1987).
Linguistica e semiotica
Una delle più importanti correnti critiche che si concentra sul testo letterario in sé è la stilistica; nel Novecento il concetto di stile perde il tradizionale valore precettistico per acquistare quello di “scarto” o differenza da una norma definita storicisticamente. In quest’ottica sono da leggere le opere di Leo Spitzer che, sullo sfondo delle teorie freudiane, teorizza la possibilità di ricondurre l’analisi di una singola parola all’intero testo. Il suo metodo, definito “Wort und Werk”, permette di risalire all’“etimo psicologico” di un autore partendo dalle caratteristiche stilistiche della sua opera e, applicato ad autori quali Racine e Proust, produce saggi di notevole interesse (Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, 1959; Studi italiani, 1976); dopo gli Studi di Dante (1929), in cui analizza il carattere figurale della Divina commedia (la storia terrena prefigurazione di quella eterna), il critico tedesco Erich Auerbach compone il capolavoro Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946) in cui analizza l’evolversi della rappresentazione stilistica del realismo dall’antichità fino al grande romanzo Ottocentesco e primo Novecentesco; in seguito si sofferma su altri autori (Da Montaigne a Proust, 1970) e scrive saggi di stampo stilistico-sociologico raccolti in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo (1958). Di formazione classica, Ernst Robert Curtius studia, in Letteratura europea e medioevo latino (1948), come determinati topoi (immagini e temi ricorrenti entrati a far parte stabilmente del patrimonio letterario) siano stati riutilizzati da autori di diversi luoghi e tempi, e il significato di tali riappropriazioni in contesti diversi. In Italia Giacomo Devoto (Studi e Nuovi studi di stilistica, 1950, 1962) approfondisce le caratterizzazioni stilistiche di singoli autori, mentre Gianfranco Contini analizza la storia della letteratura italiana secondo parametri linguistici e stilistici, sottolineando l’importanza delle varianti d’autore in quanto rivelatrici di significati precisi dell’opera, vista come una struttura in movimento (Varianti e altra linguistica, 1970). Nell’ambito degli studi rinascimentali ricordiamo Gianfranco Folena, mentre in quelli medievali Vittore Branca (Boccaccio medievale, 1956).
Il Corso di linguistica generale (1916) di Ferdinand de Saussure costituisce un prezioso antecedente e una fondamentale base per tutte quelle teorie del Novecento che hanno privilegiato l’analisi del testo nelle sue caratteristiche formali così da rivelarne aspetti e significati strutturali immediatamente non evidenti. Il formalismo ha il suo centro propulsore nel Circolo linguistico di Mosca negli anni tra il 1914-1915 e il 1928-1930, ma non costituisce mai una scuola unitaria; scrittori e critici formalisti condividono piuttosto alcuni assunti di base, come l’autonomia del testo poetico dal contesto storico-sociale e dalla biografia dell’autore, e l’attenzione per gli aspetti formali, soprattutto l’aspetto fonico, del significante: la letteratura è insomma considerata come un sistema e scopo del critico, attraverso un’indagine sistematica, è quello di sottolinearne i caratteri fondamentali nel tentativo di costruire una catalogazione valida per tutti i testi. Uno dei principali rappresentanti del formalismo è Viktor Šlovskij, per il quale l’arte è una sorta di meccanismo da analizzare nelle sue componenti con un procedimento di montaggio e smontaggio, come emerge dal suo volume L’arte come artificio (1917) e dagli studi su Sterne e Cervantes (Teoria della prosa, 1925). Nell’ambito del formalismo lo studioso di folklore Vladimir Propp rintraccia nei racconti fiabeschi russi una serie di azioni ricorrenti che nelle varie rielaborazioni mantengono costanti le funzioni di corrispondenza, ad esempio “partenza dell’eroe”, “lotta tra eroe e antagonista” (Morfologia della fiaba, 1928). Il linguista Roman Jakobson, dopo aver elaborato i suoi primi scritti sul linguaggio poetico nell’ambito del circolo linguistico di Mosca, emigra nel 1920 a Praga dove collabora alla fondazione di un nuovo Centro linguistico e scrive le Tesi (1929) che contribuiscono, di lì a poco, da una parte alla nascita dello strutturalismo, dall’altra alla diffusione in Europa e in America delle teorie formaliste. Costretto a fuggire a causa della guerra, si trasferisce in America dove compone gli studi poi inclusi in Saggi di linguistica generale (1962), nei quali la finzione poetica è analizzata all’interno di una teoria della comunicazione basata su sei elementi (mittente, contesto, messaggio, contatto, codice, destinatario). Altri formalisti sono Osip Brik, attento all’aspetto metrico (Ritmo e sintassi, 1927), Boris Ejchembaum, teorico (Teoria del metodo formalistico, 1925) e studioso di singole opere (Com’è fatto “Il cappotto di Gogol’”, 1918) ed Eleazar Meletinskij, che prosegue sulla strada indicata da Propp (Introduzione alla poetica storica dell’epos e del romanzo, 1986).
Il termine strutturalismo viene coniato da Jakobson nelle Tesi del 1929 dove, come si è accennato, il linguista russo, attraverso le sei funzioni comunicative, sembra dare un carattere di scientificità all’analisi critica linguistica dei testi (soprattutto poetici) nei suoi rapporti fonici e linguistici. Importanti riferimenti dello strutturalismo sono, insieme alle teorie di Jakobson, le tesi di altri linguisti (come i danesi Viggo Brøndal, Louis Hjelmslev) e soprattutto l’antropologia di Claude Lévi-Strauss con cui Jakobson analizza la poesia Les chats di Baudelaire; proprio questo testo, in cui viene evidenziata la stretta relazione tra il livello fonico e quello antropologico, costituisce una sorta di modello pratico dello strutturalismo. Sulla rivista francese “Communications” appaiono, così, numerosi articoli di giovani critici che si propongono di analizzare testi narrativi con lo scopo di dedurre una grammatica delle funzioni narrative applicabile a ogni racconto. Principale esponente dello strutturalismo francese è Roland Barthes che dopo i suoi primi libri, Il grado zero della scrittura (1953) e Miti d’oggi (1957), quest’ultimo un’analisi delle forme culturali diventate miti, scrive i Saggi critici (1964), il testo teorico Storia o letteratura (1960) e Critica e verità (1966), difesa del metodo strutturalista rispetto alle vecchia critica. In S/Z (1970), l’analisi di Sarrasine di Balzac, invece di confermare l’idea di una grammatica unificata di tutti i racconti, rilancia l’idea non tanto del significato unico del testo ma della sua indeterminabile “significanza”. Nei lavori successivi Il piacere del testo (1973) e Frammenti di un discorso amoroso (1977) è riaffermata la debolezza di un’organizzazione rigida dell’interpretazione già emersa nel precedente saggio. Il bulgaro Tzvetan Todorov applica i metodi strutturalisti ai racconti brevi (Poetica della prosa, 1971), poi al problema dei generi (La letteratura fantastica, 1970). Nell’ambito dello strutturalismo, un posto particolare occupa la narratologia, sistematizzazione della grammatica e retorica della narrazione, il cui maggior esponente è il francese Gérard Genette (Discorso del racconto o Figures III, 1972), e ha tra i suoi rappresentanti Seymour Chatman (Storia e discorso, 1978) e Gerald Prince (Narratologia, 1982); ricordiamo inoltre Julia Kristeva che utilizza metodi desunti dallo strutturalismo, dal marxismo e dalla psicanalisi lacaniana nell’analisi del fenotesto (testo comunicativo) e genotesto (luogo della significanza). Nata dallo strutturalismo, la semiotica (scienza dei segni), si occupa dell’analisi del testo letterario come una forma di comunicazione facente parte specifica del sistema dei segni; Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij elaborano il concetto di sistema modellizzante secondario, grazie al quale si possono identificare e definire varie strutture culturali che si differenziano da quella primaria, il linguaggio (La struttura del testo poetico, 1970); famosi inoltre gli studi Tipologia della cultura (1973) e La cultura e l’esplosione (1993), dove i sistemi semiotici sono analizzati nel loro farsi e nel contesto del rapporto tra testo e storia. Si ricordano poi Algirdas J. Greimas (Semantica strutturale, 1966), Claude Bremond (Logica del racconto, 1973) che analizza il testo letterario in chiave proppiana e Lubomír Dolezel (Heterocosmica, 1998). In Italia i critici vicini allo strutturalismo e alla semiotica si radunano intorno alla rivista “Strumenti critici”: il filologo romanzo Cesare Segre (I segni e la critica, 1969), quello medievale Silvio d’Arco Avalle (Modelli semiologici nella “Commedia” di Dante, 1975) e Maria Corti (Metodi e fantasmi, 1969); Umberto Eco è il critico che più ha approfondito le tematiche semiotiche, in rapporto alla cultura di massa (Apocalittici e integrati, 1962), al ruolo del lettore (Opera aperta, 1964) e in saggi di carattere generale (Trattato di semiotica generale, 1975; Semiotica e filosofia del linguaggio, 1984).
Teorie della ricezione
Dalla seconda metà degli anni Settanta, le correnti critiche basate sull’analisi stilistica, formalista e strutturalista sono messe in discussione da una parte per la loro pretesa di scientificità, dall’altra per un rinnovato interesse nel ruolo del lettore, agente attivo nella definizione del significato di un testo letterario. L’ermeneutica, la metodologia dell’interpretazione, nata all’inizio come esegesi biblica, era già divenuta nel periodo romantico, soprattutto a opera di Friedrich Schleiermacher, la disciplina che tenta di spiegare qualunque messaggio verbale. Mentre tra Otto e Novecento, Wilhelm Dilthey (L’origine dell’ermeneutica 1900) sottolinea il compito del critico di ricostruire la storicità della comprensione del testo, il filosofo Martin Heidegger identifica nell’appartenenza a determinati mondi linguistici una componente essenziale della storicità del singolo autore. Hans Georg Gadamer, allievo di Heiddeger e figura fondamentale dell’ermeneutica novecentesca, esprime in Verità e metodo (1960) la sua idea secondo cui la comprensione di un testo si basa su un proficuo dialogo tra gli orizzonti di credenza dell’opera stessa (il passato) e quelli dell’interprete (il presente) che, traducendo l’opera nella propria prospettiva esperienzale, viene trasformato dal testo stesso; i punti di vista dei vari interpreti si dovrebbero conciliare in una prospettiva sovraindividuale, la tradizione (intesa non dogmaticamente ma come successione storica), che costituisce la base per ogni futura interpretazione. Per lo storicismo dialettico di Gadamer dunque da una parte il testo letterario non è mai totalmente spiegabile, dall’altra ogni personale interpretazione, per rimanere collegata all’essere stesso dell’opera, deve mantenere comunque un rapporto con la storia, cioè la tradizione, dell’interpretazione. In Francia, Paul Ricoeur (Il conflitto delle interpretazioni, 1969) delinea una fenomenologia dell’interpretazione del singolo e dà un’impronta sistematica all’ermeneutica che riconosce le possibilità per chi legge, attraverso un confronto-scontro tra le diverse e differenti interpretazioni, di avvicinarsi alla verità attraverso l’analisi delle varie forme simboliche. In La metafora viva (1975) e Tempo e racconto (1983-1985), egli considera la metafora uno strumento per dare una nuova interpretazione della realtà, mentre la narrazione è vista come una forma attraverso cui la temporalità dell’esperienza umana può risultare condivisibile, alimentando un continuo dialogo tra realtà artistica e realtà del mondo. Ancora, ricordiamo l’ungherese di origine ebraica Peter Szondi (Teoria del dramma moderno, 1956) e Hans Blumenberg, che ha studiato le metafore assolute. In Italia il più raffinato interprete delle metodologie ermeneutiche è Ezio Raimondi che, oltre che di problemi metodologici (Tecniche della critica letteraria, 1967; Ermeneutica e commento, 1990), si è occupato del periodo manieristico-barocco, del Novecento (I sentieri del lettore, 1995) e di Dante, Torquato Tasso, Manzoni, d’Annunzio, Renato Serra.
Hans Robert Jauss, allievo di Gadamer, in una conferenza del 1967, edita poi con il titolo Perché la storia della letteratura, analizza la questione di quanto il successo di un’opera d’arte dipenda dall’orizzonte d’attesa del lettore che dunque, a seconda dei tempi e dei luoghi, può determinare la fortuna o meno di un testo. Si comincia così, negli anni Settanta, a parlare di una teoria della ricezione (Rezeptionstheorie) i cui rappresentanti, in primo luogo Jauss, fanno parte della cosiddetta Scuola di Costanza. Tra di loro Wolfgang Iser (L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, 1976), per il quale il significato di un testo è dato dalla cooperazione del “lettore implicito” che deve per così dire completare e dotare di senso le parti lasciate indeterminate dall’autore, valorizzando la polisemia e le potenzialità dell’opera sulla base della sua competenza e delle sue illusioni, intese come le immaginazioni di realtà che il testo stesso produce.
Nel 1967 il filosofo francese Jacques Derrida pubblica La scrittura e la differenza e Della grammatologia, nei quali sottolinea l’infinita equivocità e dunque reinterpretabilità del linguaggio, tanto che ogni singola lettura di un testo letterario ha pari dignità rispetto alle intenzioni che l’autore ha nello scrivere il testo in questione; le critica letteraria, scrittura a sua volta, deve così procedere verso la decostruzione del testo, per svelare l’imprevedibilità e l’inconsistenza di un significato già dato a priori; la rilettura che fa Derrida di molti autori, tra cui Baudelaire, Poe e Joyce (Ulysse gramophone, 1985-1987), non punta tanto a rivelare un significato o un concetto unico, quanto a individuare le ambiguità e dunque la disseminazione del senso. L’elaborazione critica ispirata dalle teorie del filosofo francese, svoltasi specialmente all’Università di Yale, prese il nome di decostruzionismo; tra i suoi rappresentanti l’americano Geoffrey Hartman (Beyond formalism, 1970) e John Hillis Miller (L’etica della lettura, 1987). Nell’ambito del decostruzionismo si distingue per l’acutezza delle analisi anche il belga, poi trasferitosi negli Stati Uniti, Paul de Man (Cecità e visione, 1971) per il quale, data l’inconciliabilità tra il significato letterale e quello figurato, ogni interpretazione, sorta di testo sul testo, non porta ad alcun senso se non al nichilismo e Stanley Fish che con il pamphlet C’è un testo in questa classe? (1980) sancisce la convenzionalità delle letture del testo letterario, determinata dalla predominanza di una specifica interpretazione in un preciso periodo storico, arrivando a dire che il lettore non solo decodifica il testo, ma lo crea egli stesso. In Italia il decostruzionismo ha trovato lettori attenti in Remo Ceserani, Maurizio Ferraris e Franco Brioschi, che ne ha criticato attentamente le modalità.
Tra gli altri critici che si sono distinti per l’originalità delle loro posizioni, spesso supportate da un’attenzione specifica alla scrittura, si ricordino: il francese Maurice Blanchot (Lo spazio letterario, 1955) che acquista notorietà per le sue tesi sulla letteratura come spazio della morte e le riflessioni sul rapporto tra letteratura e male (Lo spazio letterario, 1955; Il libro a venire, 1959; L’infinito intrattenimento, 1969); George Steiner, ebreo austriaco nato a Parigi, che guarda con pessimismo alla condizione della cultura nell’epoca della società di massa (Tolstoj o Dostoevskij, 1959; Morte della tragedia, 1961) e approfondisce gli studi sui classici delle letterature occidentali (Le Antigoni, 1984) e le riflessioni sul senso della lettura nel mondo contemporaneo (Nessuna passione spenta, 1996); Piero Camporesi, di formazione storico-erudita, che ha introdotto negli studi letterari l’ottica della cultura materiale, fermandosi su fenomeni antropologici come la fame, la povertà, la scoperta di realtà marginali, in un ambito cronologico tra Medioevo e Seicento.
Benché non si tratti di una scuola, ma più che altro di un’applicazione dei vari metodi critici, ricordiamo infine la cosiddetta critica tematica, che studia appunto la rielaborazione e la presenza di temi, intesi nel senso più ampio come figure, contenuti o situazioni, in diversi testi letterari. Dopo gli studi del positivismo che hanno portato alle compilazioni di repertori tematici nell’ambito della letteratura folklorica (si veda Gaston Paris), la critica tematica è attaccata soprattutto da marxisti e idealisti ma continua a essere praticata fino ad avere un periodo di rifioritura a metà degli anni Ottanta del Novecento quando, in ambito anglosassone, viene anche coniato il termine thematology. Importantissimi per gli studi sui generi e sul romanzo sono i lavori del russo Michail Bachtin che esordisce nel 1929 con Problemi dell’opera di Dostoevskij (1929), dove teorizza il carattere dialogico e polifonico del romanzo, basato sulla stilizzazione dei linguaggi; in L’opera di Rabelais e la cultura popolare (1965), lo studioso approfondisce la tradizione dei testi di tipo carnevalesco e, infine, in Estetica e romanzo (1975), delinea una storia delle forme romanzesche contrapposte all’epica, utilizzando anche il concetto di cronotopo, l’unità spazio-tempo. In Francia gli strumenti psicanalitici sono utilizzati da Jean Starobinski che cerca di spiegare la presenza delle immagini tematiche più significative nella produzione di un autore (Da Baudelaire al surrealismo, 1933) e ripercorre la rappresentazione del clown nelle arti tra fine Ottocento e inizio Novecento (Ritratto dell’artista da saltimbanco, 1970). Mentre Gaston Bachelard si interessa in chiave psicanalitica alla presenza in letteratura dei temi archetipici junghiani (La psicanalisi del fuoco, 1938), il connazionale Charles Mauron tenta di analizzare la portata inconscia della ripetizione di elementi identificabili, come ad esempio le metafore (Dalle metafore ossessive al mito personale, 1963). In Italia ricordiamo il fortunatissimo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), dove l’anglista Mario Praz analizza la presenza di alcuni temi estrapolati da testi di vari autori del periodo preso in esame, creando un rapporto di continuità tra l’immaginario romantico e quello simbolista europeo. In Italia ricordiamo poi tra gli studiosi di oggi gli anglisti Piero Boitani (L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, 1992) e Nadia Fusini, allievi dello studioso jamesiano Giorgio Melchiori, la francesista Jacqueline Risset, studiosa di Dante, e, per la sua posizione fuori da correnti e scuole critiche, Pietro Citati, indagatore delle grandi figure centrali della cultura europea (Goethe, 1970; Tolstoj, 1983; Kafka, 1987; La colomba pugnalata. Proust e la Recherche, 1995).