Le corporation e il sistema economico mondiale
In Italia il termine multinazionale viene di solito utilizzato per indicare una grande impresa, cioè quella che in inglese è definita corporation: una società di capitali, dotata quindi di personalità giuridica, che la legge considera come separata e distinta dai soci che in effetti la possiedono, i quali rispondono per le obbligazioni assunte dalla società soltanto nei limiti delle azioni o quote sottoscritte. Poiché le passività e i debiti di una società di capitali non sono considerati come appartenenti alle persone che li creano, in caso di insolvenza della società i creditori non possono rivalersi sul patrimonio personale dei singoli soci: tale condizione è detta di responsabilità limitata. Quando si parla di multinazionali si dovrebbe allora parlare di transnational o (più raro) multinational corporations, cioè di associazioni transnazionali o multinazionali: espressione che indica una società di capitali o un’impresa che operano in almeno due distinte nazioni. La definizione comunemente accettata è quella proposta dalla United Nations conference on trade and development (UNCTAD), un organo delle Nazioni Unite fondato nel 1964 allo scopo di incrementare le opportunità commerciali, d’investimento e di crescita dei Paesi in via di sviluppo e di assisterli nel processo d’integrazione nell’economia mondiale su basi di equità.
Il progetto nasceva dalla preoccupazione per un’economia sempre più rapidamente globalizzata espressa dai Paesi in via di sviluppo. Per questo alla presidenza si sono alternate figure provenienti da nazioni extraoccidentali. L’UNCTAD, con sede a Ginevra, conta 193 Paesi membri, produce un rapporto annuale sullo stato delle cose e organizza una conferenza ogni quattro anni: l’ultima si è svolta nell’aprile del 2008 in Ghana. Secondo la definizione dell’UNCTAD accettata dalle Nazioni Unite, una corporation transnazionale, per essere tale, deve avere il controllo di almeno una filiale all’estero, giustificato dal possesso di un minimo del 10% del suo capitale. Secondo il trend registrato negli ultimi anni dall’UNCTAD, nel 1995 esistevano 44.500 multinazionali con 227.000 filiali in tutto il mondo; nel 2000 esse sono salite a 63.000, con 690.000 filiali. Questo dato indica che, nel giro di cinque anni, le filiali sono cresciute due volte e mezzo rispetto al numero delle case madri. L’ultimo rilevamento, aggiornato al 2005, mostra una tendenza alla contrazione delle multinazionali che, pur crescendo, si attestano sulla cifra di 77.175, e le filiali a 773.019: nel periodo 2000-2005 esse hanno quindi registrato una crescita quasi dimezzata rispetto al quinquennio precedente. Questo dato si spiega con l’affermarsi di una tendenza alle fusioni societarie, sintomo di un accentramento del potere economico nelle mani di gruppi sempre più ristretti. Difatti, per quanto il numero assoluto sembri molto alto, bisogna considerare che una multinazionale non equivale, di per sé, a un colosso dell’economia mondiale. Nel novero complessivo sono infatti incluse, proprio a causa del criterio classificatorio definito dall’UNCTAD, anche molte cosiddette micromultinazionali: piccole e medie imprese che fino a tempi recenti avevano vocazione fortemente locale, ma che la competizione globale ha spinto a investire sempre più in Paesi stranieri; senza contare che l’economia legata all’avvento di Internet ha fatto sì che numerose piccole società, soprattutto dedicate al settore terziario (gli studi professionali – di medici, avvocati, architetti e così via – ricadono in questa categoria), siano naturalmente portate a un business senza forti confini nazionali. La differenza tra le micromultinazionali e le grandi multinazionali è immensa; ma sono soltanto le prime a essere cresciute in numero, a fronte della contrazione delle seconde: un fenomeno importante, che tuttavia statistiche come quelle dell’UNCTAD, per quanto utili, faticano a mettere in luce come sarebbe opportuno.
Per quanto concerne la natura degli investimenti, l’UNCTAD afferma che il Foreign direct investment (FDI), cioè l’investimento diretto estero, si ha quando una corporation investe capitali in un rapporto a lunga scadenza, nel quale si riflette un interesse duraturo e una volontà di controllo esercitata da un’entità in un’economia altra da quella di residenza. Questo interesse duraturo si manifesta attraverso l’acquisto di porzioni dell’impresa estera: tali quote rappresentano un equity capital; tuttavia, le corporation transnazionali agiscono anche attraverso investimenti che sono definiti dell’UNCTAD non-equity investments. Essi si verificano quando gli investitori stranieri ottengono un ruolo in una compagnia non acquistandone una parte alla luce del sole, bensì servendosi di subappalti, franchising, contratti di management e così via.
Nonostante la crescita economica e il nuovo peso negli scenari internazionali di Paesi come la Cina, l’India e il Brasile, le corporation transnazionali che contano rimangono saldamente ancorate al mondo occidentale. Secondo le statistiche fornite nel 2007 da «Forbes» – basate sull’incrocio dei dati inerenti le vendite, i profitti, gli assetti societari e il valore di mercato – per trovare una multinazionale cinese bisogna arrivare al 41° posto, occupato dalla PetroChina (petrolio e gas); la Cina ne piazza altre cinque fra le prime cento, nel settore bancario (Industrial and commercial bank of China, ICBC; China construction bank, CCB; Bank of China, rispettivamente al 53°, al 69° e all’82° posto), ancora nelle risorse petrolifere (Sinopec-China petroleum, al 71°) e nelle telecomunicazioni (China mobile, all’89°). Non è un cattivo risultato, se si pensa che – con l’esclusione del Giappone – l’Asia può annoverare tra le prime cento imprese soltanto la sudcoreana Samsung (semiconduttori), al 63° posto. Ai primi dieci posti della statistica «Forbes» troviamo ben sei corporation statunitensi: le prime due, Citigroup e Bank of America, sono nel settore bancario al pari della quinta, JPMorgan Chase; la General electric, quarta, è un conglomerato (cioè una compagnia divisa in branche che si occupano di affari diversi, spesso in settori completamente differenti tra loro); l’American international group, sesta, opera in campo assicurativo; la Exxon Mobil, nel settore energetico, è settima. Per avere un’idea della distanza che ormai separa la condizione economica di una nazione dalla ricchezza delle sue multinazionali, è opportuno riflettere sul fatto che, a fronte di questa statistica, il debito pubblico complessivo degli Stati Uniti si aggira ormai (e secondo diversi analisti ha ampiamente superato) sui 40 miliardi di dollari, un terzo dei quali in passivo rispetto alla Cina.
Ma torniamo alla classifica del 2007: tra le altre compagnie incluse nel novero delle prime dieci figurano la britannica HSBC holdings (settore bancario), l’olandese Royal Dutch Shell (risorse energetiche), la svizzera UBS (prodotti finanziari diversificati) e ancora un’altra olandese, la ING group (Internationale Nederlanden Group) nel settore assicurativo. Il criterio classificatorio cambia se si è interessati solo ad alcuni parametri: per es., il colosso statunitense della distribuzione Wal-Mart, diciassettesimo nella classifica generale, è al primo posto nelle vendite, con un introito lordo di 348,65 miliardi, ma con un profitto netto di 11,29 miliardi. Se si guarda al solo valore sul mercato, la Exxon Mobil è al primo posto, valutata 410,65 miliardi di dollari; e Microsoft, solo sessantaseiesima nella statistica complessiva, diviene terza per valore sul mercato in quanto valutata 275,85 miliardi di dollari.
Per avere un’idea del peso economico assoluto delle corporation, si deve considerare che il valore sul mercato di questi colossi supera il PIL di numerose nazioni. Non ci riferiamo solo alle aree del terzo mondo, bensì a Paesi come la Danimarca, che con i suoi 200 miliardi circa di PIL si vedrebbe superare da oltre una decina di multinazionali.
Guardiamo ora con maggiore attenzione alla distribuzione nazionale delle corporation, sempre seguendo il criterio di «Forbes», ma riferito questa volta alle prime 500: in testa con 162 multinazionali troviamo gli Stati Uniti; al secondo posto il Giappone con 67; al terzo la Francia con 38; appena sotto la Germania con 37; segue la Gran Bretagna con 33; la Cina con 24; il Canada con 16; tra 10 e 15 si piazzano, in ordine decrescente, Svizzera, Paesi Bassi, Italia e Corea del Sud. È quindi evidente che il cosiddetto blocco occidentale, costituito da Stati Uniti, Giappone ed Europa, ha una preminenza assoluta sul mercato (arrotondando, quasi 400 su 500: vale a dire i 4/5). Come già detto a proposito del rapporto economico fra Cina e Stati Uniti, il peso assoluto di un Paese nell’economia non è direttamente proporzionale al numero e alla forza delle sue multinazionali: negli ultimi anni il prodotto interno lordo della Cina ha colmato una parte considerevole della distanza rispetto agli Stati Uniti, passando dai 3422 trilioni di dollari ai 7043 del 2007, contro i 13.794 statunitensi (un trilione corrisponde a mille miliardi). Eppure il peso dell’azione delle multinazionali rimane a distanze elevate: ancora un segno di come il discorso sulle multinazionali vada considerato in modo almeno in parte indipendente da quello sulle nazioni. Un’ultima considerazione da fare in base alle cifre brute della statistica riguarda i settori in cui le multinazionali sono impegnate: quello bancario-finanziario la fa ampiamente da padrone, fornendoci il chiaro quadro di un’economia dominata non dalla produzione, ma dalla gestione del denaro. Seguono il settore delle risorse energetiche e, a debita distanza, quelli alimentare e farmaceutico (legati entrambi dall’interesse comune per le biotecnologie), delle tecnologie (dell’informatica, della comunicazione, degli armamenti), della distribuzione. La produzione industriale (con l’eccezione dei colossi dell’automobile entrati tuttavia in crisi nella prima metà del 2009), risulta scarsamente rappresentata.
Una fra le prime conseguenze della transnazionalità, e per le imprese una delle prime convenienze, risiede nella gestione del mercato della forza lavoro. A partire dagli anni Ottanta, e con maggiore intensità nei Novanta, la combinazione di pratiche come l’outsourcing, ossia il subappalto a partner esterni per alcuni settori del processo produttivo o per l’offerta di servizi, e l’offshoring, che si ha quando tale subappalto viene affidato a partner all’estero, ha caratterizzato le pratiche di numerose multinazionali. L’outsourcing serve a trasferire alcune fasi della produzione a imprese in grado di svolgere tali lavori a costo competitivo rispetto a quanto la sede centrale dovrebbe pagare producendo in casa; l’offshoring moltiplica le possibilità di risparmio, e quindi di guadagno, in quanto l’esternalizzazione avviene in mercati dove il costo del lavoro è infinitamente più basso. Il fenomeno ha riguardato inizialmente soprattutto gli Stati Uniti: per es., con il trasferimento, effettuato dalla General motors (poi seguita dalla Ford) negli anni Ottanta, di intere fabbriche per la produzione di automobili oltre il confine messicano; in Messico la General motors impiegò circa 72.000 operai che costruirono parti di automobile con salari minimi che variavano tra 1 e 2 dollari l’ora per i lavori di basso livello; nel 2007 il salario minimo negli Stati Uniti era fissato a 5,85 dollari l’ora, ma i dipendenti delle fabbriche automobilistiche percepivano stipendi superiori al minimo. Le decisioni di Ford e General motors in materia di trasferimento di fabbriche ha irreversibilmente impoverito intere aree degli Stati Uniti provocando preoccupanti situazioni di disagio e d’insicurezza.
Nel 2001, l’adesione della Cina alla World trade organization (WTO) ha aperto il mercato a un’ondata di esternalizzazioni per quanto concerne la produzione industriale nordamericana ed europea. Non bisogna però sottovalutare, soprattutto per quanto riguarda il settore dei servizi, le potenzialità che vengono offerte ai Paesi ricchi anglofoni dall’India, dove l’inglese è parlato correntemente. Anche in questo caso, gli Stati Uniti ne hanno approfittato per primi, esternalizzando tutta una serie di settori del terziario che vanno dai call centers ai laboratori d’analisi, all’elaborazione di dati: tutti servizi che non hanno bisogno di trasporti, e dunque di costi aggiuntivi, e che di conseguenza l’informatizzazione ha reso pratici ed economici per le società appaltatrici.
Ma se i profitti per le compagnie sono evidenti, quali sono le conseguenze per i lavoratori? Le voci favorevoli all’offshoring affermano che i vantaggi sono reciproci: le corporation risparmiano, ma i dipendenti ottengono comunque impieghi che consentono loro di migliorare la propria situazione economica. Naturalmente, i primi a lamentarsi sono i lavoratori dei Paesi che trasferiscono la propria produzione all’estero: il caso citato della General motors agli inizi degli anni Ottanta lasciò nel Michigan 30.000 disoccupati nel giro di pochi mesi; in generale, l’offshoring ha certamente prodotto una crisi dei processi produttivi incardinati nei Paesi occidentali. È da notare tuttavia un recente fenomeno di ritorno: nel senso che alcune corporation, per es. quelle nipponiche dell’automobile, hanno a loro volta seguito la pratica, aprendo impianti di produzione negli Stati Uniti e in Inghilterra; difficile dire se questo fenomeno potrà in futuro ampliarsi. Il problema di fondo, tuttavia, riguarda la questione dei diritti dei lavoratori e la polemica sull’inadeguatezza dei controlli effettuati sui luoghi di lavoro: in pratica, la manodopera dei Paesi in cui approdano i processi produttivi sarebbe meno tutelata proprio per la natura stessa delle società di capitali transnazionali, che non rispondono ai governi nazionali allo stesso modo di una società completamente incardinata nel Paese in cui agisce, o che hanno un potere d’influenza smisurato, al punto che nei loro confronti non è possibile adottare misure coercitive di sorta. Un esempio classico di ciò è quello dello sfruttamento della manodopera infantile, denunciato in Africa e in Asia, che ha dato origine a diverse polemiche con numerosi marchi internazionali: per es., uno studio effettuato nel 1998 mostrava come marchi di abbigliamento quali Adidas, Nike, Ralph Lauren, pagavano la manodopera una media di 13 centesimi di dollaro l’ora, nonostante la media per sopravvivere fosse calcolata a 87 centesimi l’ora, per lavori che negli Stati Uniti sarebbero costati circa cento volte quella cifra, cioè 10 dollari l’ora (Klein 2000).
Ancora più grave il fatto che una politica di risparmio può portare alla perdita di vite umane: il caso più eclatante è rappresentato dalla strage di Bhopal, città indiana dove, il 2 dicembre del 1984, la fuoriuscita di 40 tonnellate di isocianato di metile stivate in uno stabilimento della Union carbide (aperto nel 1980, ma già in disuso e privo di personale specializzato per adeguati controlli) causò la morte di circa 8000 persone solo nella prima notte, quella di 20-30.000 nei mesi successivi, con circa mezzo milione di intossicati molti dei quali destinati a morire successivamente o a portare per sempre i segni dell’avvelenamento. La scia di sentenze seguite al disastro ha trovato una conclusione solo agli inizi del nuovo secolo. Nel 1985 il governo indiano, per paura che le corporation straniere ritirassero i loro investimenti dal Paese, si assunse con un decreto legislativo (il Bhopal gas leak disaster act) la responsabilità di avviare azioni legali estromettendo da tale diritto sia le vittime sia i loro familiari. I manager responsabili dell’impianto, nel frattempo, si erano rifugiati negli Stati Uniti e, nonostante vi sia un mandato internazionale nei confronti del top manager Warren Anderson, nel 2002 questi è stato segnalato a New York dove ha continuato a vivere indisturbato. Nel 1989 il governo indiano accettò un risarcimento complessivo di 470 milioni di dollari, contro i 3,3 miliardi chiesti originariamente (quindi, circa un settimo della cifra chiesta in un primo tempo): le azioni sul mercato della Union carbide risalirono immediatamente; tolte le spese legali, a ciascuna vittima spettarono 500 dollari; nessuna iniziativa per la decontaminazione fu presa in considerazione. Nel 2001 la Union carbide confluì nel gigante Dow chemical, dando vita alla più grande impresa chimica del pianeta: per conseguenza, l’azione legale si estese al nuovo soggetto, anche perché la Union carbide non aveva più sussidiarie in India sulle quali eventualmente rifarsi, mentre la Dow chemical commercializza prodotti su quel mercato (per es., il pesticida Durstan, proibito negli Stati Uniti per la sua pericolosità). Familiari dei defunti e movimenti per la difesa delle vittime provarono dunque a promuovere un’azione che si estendesse alla Dow chemical che tuttavia, mentre nel 2002 accettò di farsi carico di una serie di cause intentate negli Stati Uniti contro la Union carbide da dipendenti esposti all’avvelenamento da amianto, rifiutò ogni responsabilità per la tragedia di Bhopal. Dal 2004 ogni possibilità residua di ulteriori azioni legali è sembrata tramontare.
Anche nell’ambito dell’Unione Europea (UE) l’influenza esercitata sulla gestione del mercato del lavoro dalle società di capitali transnazionali è ampia. Nel 2007 in Italia l’incidente all’impianto ThyssenKrupp di Torino ha gettato una luce cupa sulla questione. Gli impianti di Torino e di Terni sono parte della ThyssenKrupp acciai speciali Terni s.p.a., che dopo una serie di passaggi societari ha assunto questo nome, ma che è l’erede di una fra le prime imprese siderurgiche italiane, la Società degli alti forni, fonderie e acciaierie di Terni, fondata nel 1884. Acquisito con il resto del gruppo dalla multinazionale tedesca nel corso degli anni Novanta, l’impianto torinese ha funzionato per molto tempo a pieno regime: ma di recente la Thyssen ne ha annunciato la chiusura, portando a una riduzione degli organici che, a parere degli esperti, sarebbe la causa dei turni di lavoro eccessivi e del cattivo mantenimento degli impianti che ha condotto all’incidente del 6 dicembre 2007 nel quale hanno perso la vita sette operai. Ebbene, la decisione di chiudere l’impianto torinese non deriva da una crisi del settore, bensì da scelte puramente strategiche della multinazionale, che per l’anno 2006 ha dichiarato un guadagno netto di 47 miliardi di euro (che la rendevano la tredicesima multinazionale in Germania e la centounesima nel mondo secondo le statistiche del 2007) e che, nell’anno successivo, ha annunciato l’apertura di un nuovo impianto siderurgico nel Sud dell’Alabama (dove confluiranno semilavorati dal Brasile) che nel 2010 dovrebbe impiegare 29.000 operai per la costruzione degli impianti e 2700 nella fabbrica.
Più che ai singoli casi, comunque, è interessante guardare alla politica complessiva dell’Unione Europea nei confronti del tema del lavoro. Il 25 febbraio 2004 è stata presentata dalla Commissione europea una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa relativa ai servizi del mercato interno, nota in genere come direttiva Bolkestein, nella quale si legge: «Al fine di eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei servizi la proposta prevede il principio del Paese d’origine, in base al quale il prestatore è sottoposto unicamente alla legislazione del Paese in cui è stabilito e gli Stati membri non devono imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro». Il timore per quello che è stato definito un esempio di dumping sociale (cioè un volontario stimolo al ribasso per depauperare le forze lavoratrici) ha condotto nel 2005 al clamoroso referendum che, tanto in Francia quanto nei Paesi Bassi, ha momentaneamente bloccato il progetto di ratifica della Costituzione europea. Tuttavia, il 12 dicembre 2006, una versione modificata della direttiva è stata approvata: in apparenza, il principio del Paese d’origine dovrebbe riguardare – secondo quanto annunciato – soltanto alcune materie, lasciando da parte il diritto del lavoro, che continuerebbe in larga parte a essere regolato dalla direttiva 1996/71/CE, la norma comunitaria in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito delle prestazioni transnazionali di servizi (recepita in Italia con il d. legisl. 25 febbr. 2000 n. 72). Tuttavia, da più parti si sono denunciate alcune ambiguità di fondo, visto che nel testo della direttiva si legge che i «servizi di interesse generale non economici» sono esclusi (art. 2, Campo di applicazione), mentre «i servizi di interesse economico generale sono servizi che, essendo prestati dietro corrispettivo economico, rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva», con l’esclusione di alcuni settori quali la sanità, i trasporti ecc. (direttiva 2006/123/CE). Sulla base di queste ambiguità, alcune recentissime sentenze della Corte europea contraddicono di fatto la normativa. Nel caso Laval-Vaxholm una ditta lituana ha aperto una filiale in Svezia (Paese in cui il minimo salariale non esiste) dove ha impiegato i propri operai nella costruzione di una scuola, pagandoli al prezzo d’ingaggio valido nel Paese d’origine, molto più basso della media svedese; i sindacati del Paese scandinavo avevano bloccato i lavori, ma la Corte europea ha dato ragione agli imprenditori lituani (Pallini 2006). In Finlandia, nel cosiddetto caso Viking, una compagnia marittima ha cambiato bandiera a un proprio vascello per sostituire l’equipaggio con marinai estoni, pagati al costo del lavoro del loro Paese d’origine. Infine, l’ultimo contenzioso è sorto intorno all’appalto per la costruzione del penitenziario di Göttingen-Rosdorf, in Bassa Sassonia, vinto dalla Object und Bauregie. Secondo la legge le imprese, incluse quelle subcontrattate, devono applicare almeno il salario minimo previsto dal contratto collettivo vigente, pena una multa dell’1% sul valore dell’appalto. Ma un’impresa polacca subappaltata ha versato ai suoi dipendenti impegnati nel cantiere meno della metà del salario minimo: per questo motivo il governo regionale ha chiesto 85.000 euro di penale alla Object und Bauregie; tuttavia, agli inizi dell’aprile 2008 la Corte europea ha decretato che le disposizioni regionali sul salario minimo non sono compatibili con la direttiva sui lavoratori distaccati transnazionali.
La deregolamentazione nel campo del diritto del lavoro favorisce quindi le società a carattere transnazionale che nell’Unione Europea trovano un terreno particolarmente fertile: soprattutto dopo l’allargamento ai Paesi dell’Est europeo, nei quali la mano d’opera ha costi relativamente bassi rispetto agli standard eurooccidentali. In effetti sono stati soprattutto questi Paesi, alleati con l’Inghilterra, da anni promotrice del liberismo economico, a spingere in tale direzione. Inoltre, all’interno delle sedi del Parlamento europeo le multinazionali hanno da anni personale incaricato di promuovere atti in grado di favorire politiche di liberalizzazione transnazionale in campo economico-finanziario. Lo strumento che viene utilizzato prende il nome di lobbying.
Negli Stati Uniti il lobbismo è diventato una professione; i lobbisti rappresentano i gruppi che vogliono esercitare pressioni e a tale scopo incontrano politici, legislatori e amministratori; oppure istruiscono i membri di un’associazione in modo da dare l’impressione che le richieste vengano dalla base (per es., casalinghe o lavoratori che parlano direttamente ai membri del Congresso in rappresentanza dell’associazione cui appartengono). La pratica, oggi molto in voga, viene detta grassroots lobbying: in queste forme, il lobbismo finisce per essere un elemento quasi naturale della politica, nella quale gruppi di cittadini consociati possono sperare di avere un peso maggiore piuttosto che individualmente. Diverso, tuttavia, è il caso del lobbismo promosso non da associazioni e comunità, ma da aziende e imprese, che è poi quello oggi prevalente. Nel 2006 si calcolava che le lobby sborsassero una media di 2 miliardi e mezzo di dollari all’anno per influenzare il mondo della politica. Se negli Stati Uniti la pratica è radicata e accettata, in Europa è altrettanto diffusa ma soggetta a un acceso dibattito: in particolare dopo che nel 2005 la Commissione europea ha accantonato un progetto di legge volto a regolamentare in senso restrittivo l’operato delle lobby. A Bruxelles pare siano in azione circa 15.000 lobbisti in rappresentanza di oltre 2500 fra imprese e gruppi di interesse. Il 90% rappresenta imprese e solo il 10%, invece, ‘gruppi di base’; si calcola che essi spendano, per conto delle imprese, circa 750 milioni di euro annui per influenzare il governo europeo. I lobbisti agiscono nei confronti di tutti gli organi di governo dell’Unione: Parlamento, Consiglio dei ministri e Commissione. Al momento attuale, il solo controllo consiste nella sottoscrizione di un codice etico che consente al lobbista libero accesso per un anno al Parlamento europeo; tuttavia dovrebbe essere discussa una norma più restrittiva in materia.
La richiesta di un maggior controllo è emersa soprattutto alla luce della constatazione che diversi parlamentari europei, una volta lasciato l’incarico pubblico, vengono arruolati nelle fila delle corporation: è stato il caso di Rolf Linkohr, parlamentare tedesco che ha lavorato per anni in una commissione sulle questioni energetiche e in seguito è stato ingaggiato dal Center for European energy strategy, uno studio che si occupa di lobbying per conto di numerose corporation del petrolio; oppure del francese Jean-Paul Mingasson, ex ministro delle Finanze francese, membro della Commissione europea e oggi consigliere generale per l’UNICE (UNion of Industrial and employers’ Confederations of Europe), la federazione europea degli imprenditori; o come dell’inglese Jim Currie, direttore generale della Commissione europea per le questioni ambientali, passato nel consiglio direttivo della British nuclear fuels limited.
L’azione di lobbying delle multinazionali ha avuto un peso in alcune decisioni molto discusse del Parlamento europeo. Prendiamo in considerazione la questione del cioccolato, una delle poche ad aver avuto una qualche esposizione mediatica. Nel 1973, all’epoca dell’adesione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito alla Comunità economica europea, si constatò che questi Paesi avevano leggi che consentivano l’utilizzo di prodotti alimentari diversi dal burro di cacao nella produzione di cioccolato, contrariamente a quanto avveniva in altri Stati della nascente UE. La direttiva li esentò quindi dal conformarsi alle consuetudini degli altri Stati membri, che invece fissarono a una soglia minima del 19% la quantità di burro di cacao da usare nel cioccolato. Con adesioni successive, a quei tre Paesi si aggiunsero anche Finlandia, Austria, Portogallo e Svezia: nazioni abituate ad avere un cioccolato di minor valore. Si era dunque creata una disparità nel mercato interno. Dinanzi a ciò la Commissione, invece di optare per un innalzamento complessivo della qualità, scelse la soluzione contraria: dal 2000 in poi i consumatori europei hanno a disposizione una scelta di cioccolato industriale di qualità inferiore rispetto agli standard cui erano abituati. Le responsabilità vanno cercate nelle pressioni esercitate dalle lobby che rappresentano le principali industrie che hanno il monopolio del commercio e della produzione del settore, e che in tal modo risparmieranno almeno 200 milioni di dollari sugli acquisti di cacao. A spese, fra l’altro, dei produttori africani, che da queste scelte usciranno ancor più impoveriti: basti pensare che l’esportazione del burro di cacao rappresenta quasi il 40% del PIL del Ghana, il 38,7% della Costa d’Avorio e il 18% del Camerun. La direttiva ha insomma ottenuto l’effetto perverso di peggiorare la qualità del cioccolato che mangiamo, di ridurre drasticamente le esportazioni africane di cacao, di costare al bilancio comunitario (e dunque a noi cittadini dell’Unione) tra i 150 e i 200 miliardi di lire: il tutto a beneficio esclusivo di pochi raggruppamenti industriali. Il processo è stato facilitato dal fatto che, in questo come in molti settori, manca ormai un vero regime di concorrenza. Le corporation che si spartiscono il mercato sono infatti ormai solo quattro: la Archer Daniels Midland, la Cargill, la Barry Callebaut, la Nestlé, firmatarie nel 2001 del protocollo Harkin-Engel, che nel 2005 avrebbe dovuto portare alla soppressione dello sfruttamento infantile nelle piantagioni dalle quali acquistano la materia prima; ma esso alla scadenza del termine previsto non era stato rispettato, il che condusse a un nuovo impegno delle parti in causa.
Anche negli Stati Uniti il lobbying nel campo dell’alimentazione ha dato risultati eclatanti, con quello che è stato definito scherzosamente cheeseburger bill (decreto cheeseburger). Le multinazionali dell’industria alimentare hanno fatto pressione sul Congresso perché passasse una norma che impedisce ai cittadini di far loro causa per i danni alla salute provocati dal junk food, il cibo spazzatura. La norma è stata approvata nell’ottobre 2005: oggi, le industrie del settore non rischiano più di far la fine della Philip Morris, costretta a pagare i danni a ex fumatori malati di cancro. Allo stesso modo le industrie farmaceutiche hanno ottenuto la detassazione dei farmaci inviati in beneficenza: una norma che spesso nasconde la pratica di svuotare i magazzini dei prodotti scaduti, scaricandoli in questo modo dalle tasse.
Il settore dell’alimentazione è uno fra quelli in cui, in anni recenti, le multinazionali hanno fatto maggiori progressi nel campo delle fusioni e nell’eliminazione della concorrenza: e, per ovvie ragioni, è anche quello che desta più immediate preoccupazioni. Una delle sfide maggiori sul campo riguarda la gestione delle acque e l’approvvigionamento idrico: l’acqua è una risorsa naturale sempre più cara perché in via di assottigliamento a causa dell’inquinamento e degli sperperi. Il World water forum, svoltosi a L’Aia nel marzo 2000 e organizzato dalla World commission on water ha dichiarato che l’acqua deve essere considerata «bene economico»: di conseguenza, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale premono sui Paesi in via di sviluppo perché vendano la loro acqua alle multinazionali al fine di ridurre il debito nazionale. Ne approfittano le corporation transnazionali del settore che acquistano dai governi le sorgenti d’acqua potabile sottraendole così alle popolazioni locali che non possono permettersi l’acquisto a prezzi di mercato. In diversi Stati dell’America Latina, per es., i governi hanno cominciato a vendere la gestione delle risorse idriche a ditte private. In Bolivia, per effetto di tali privatizzazioni, il prezzo dell’acqua è aumentato nel giro di pochi anni del 300%. Il processo non riguarda solo gli acquedotti cittadini, ma le stesse sorgenti: al punto che persino ai contadini sono state imposte tassazioni per attingere l’acqua ai pozzi che, tradizionalmente, servivano per bere e innaffiare i campi. Di conseguenza, per una famiglia che dovesse sostentarsi con meno di 100 dollari al mese, almeno 30 andrebbero spesi sotto la voce acqua potabile.
Tuttavia, in Bolivia le cose hanno preso una svolta inaspettata: forti di una coesione sociale che viene loro da una vita ancora molto legata al senso comunitario, le cittadinanze e i contadini hanno cominciato a organizzarsi. Nel 2000 a Cochabamba, terza città del Paese, è scoppiata una rivolta che è andata avanti senza tregua per cinque mesi, finché gli abitanti non sono riusciti a ottenere nuovamente il controllo del loro sistema idrico, strappandolo all’americana Bechtel, sussidiaria della Halliburton. Altre città hanno seguito l’esempio: com’è accaduto a El Alto, dove ormai per l’allacciamento alla rete idrica venivano chieste somme che superavano i 400 dollari. Alle proteste per l’acqua si sono aggiunte mano a mano quelle per altre risorse: gas, petrolio, elettricità.
Anche se il problema dell’acqua potrebbe aprire gravi scenari di crisi nel prossimo futuro, nel corso del 2008 è stata l’emergenza-cibo, dovuta all’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità, a provocare moti sociali in diversi Paesi (fra i quali Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine, Pakistan, Thailandia e Haiti). Secondo i dati forniti dalla FAO (Crop prospects and food situation, febbr.-apr. 2008), 36 nazioni fra quelle in via di sviluppo sono a rischio di carestie e, di conseguenza, di rivolte. Quali sono le ragioni di questa situazione e in che modo essa si lega ai colossi dell’industria alimentare? I fattori alla base della recente crisi sono principalmente quattro: a) il cambiamento climatico che, a prescindere dalle sue ragioni, ha causato raccolti scarsi; b) una quantità crescente di terre in passato utilizzate per prodotti agricoli destinati all’alimentazione viene oggi riservata a monocolture per la produzione di agrocombustibili; c) l’aumento del prezzo del petrolio ha reso più dispendiosi i trasporti, fra cui anche quelli di derrate alimentari; d) la crescita nel consumo di carne su scala mondiale, dovuta all’aumento della domanda da parte di Paesi emergenti come la Cina, fa sì che sempre maggiori quantitativi di prodotti agricoli non vengano immessi sul mercato per il consumo diretto, ma finiscano invece per venire impiegati nell’alimentazione animale. Il risultato complessivo dato dall’intreccio di questi fattori ha determinato un calo nelle riserve mondiali di generi di prima necessità (calcolabili approssimativamente in 405 milioni di tonnellate di cereali nel 2007-08, ossia il valore minimo negli ultimi 25 anni, con 21 milioni di tonnellate in meno rispetto al livello già ridotto registrato nell’anno precedente). Questa situazione ha favorito manovre speculative e ha condotto anche alla decisione di alcuni Paesi grandi produttori (come l’Egitto per il grano) a porre un freno alle esportazioni, innescando in questo modo ulteriori processi inflazionistici.
Come si è detto, molte fra le scelte che hanno contribuito in varia misura a determinare questa situazione sono state frutto di politiche favorite dalle multinazionali e dalle loro lobby. I prodotti agricoli hanno, per definizione, uno scarso valore aggiunto: è cioè molto difficile far lievitare i prezzi oltre una certa soglia. Per aumentare le rendite economiche le corporation che commercializzano il cibo (e che sono ormai ridotte a un cartello di poche imprese, con il colosso statunitense Cargill in testa) hanno la possibilità di orientare il mercato nella direzione delle monocolture intensive, per es. indirizzando verso la produzione in funzione dell’allevamento animale, più redditizio, e recentemente dei biocarburanti. Di qui la lotta contro la piccola proprietà privata, che dal continente nordamericano ha toccato sempre più ampie regioni del mondo e, in particolare, i Paesi in via di sviluppo, dove i governi sono più facilmente ‘orientabili’: soprattutto perché la WTO impone loro l’attuazione di politiche neoliberistiche e contrasta il sistema delle scorte in nome della competitività e del liberoscambismo. In tale campo, i Paesi più deboli non hanno possibilità di contrattare: al contrario di colossi come gli Stati Uniti, l’UE e il Giappone, che applicano misure protezionistiche sulla loro produzione. È il caso del cotone per gli Stati Uniti o dei sussidi agli agricoltori in molti Paesi dell’Unione Europea. Negli ultimi decenni il governo indiano, con l’alibi dell’obiettivo dello sviluppo, ha espropriato terre coltivabili ai contadini destinandole alla produzione industriale e alle monocolture; i piccoli coltivatori che ancora resistono sono economicamente svantaggiati rispetto alle monocolture a più buon mercato, ma in tal modo l’autosufficienza alimentare, faticosamente raggiunta dal Paese negli anni Settanta, sta divenendo nuovamente un miraggio.
L’introduzione degli Organismi geneticamente modificati (OGM) nel mercato agricolo, da più parti presentata come il rimedio per la crisi agricola, è una manovra in cui le multinazionali hanno giocato un ruolo importante. Il mercato degli OGM è monopolizzato da un unico gigante, la Monsanto company, originaria degli Stati Uniti, ma operante anche in Europa già dagli anni Venti del Novecento; dopo l’acquisizione della Seminis Inc., nel 2005, la Monsanto è divenuta anche il principale produttore mondiale di sementi convenzionali. La critica più diffusa agli OGM è legata alle preoccupazioni circa i possibili effetti sulla salute: soprattutto da quando nella primavera del 2005 è stato diffuso dalla stampa inglese un rapporto interno alla multinazionale, destinato a restare segreto, nel quale si legge che le ricerche della stessa industria hanno messo in evidenza malformazioni negli organi interni delle cavie nutrite con mais geneticamente modificato. La Monsanto ha fatto sapere di non ritenere troppo rilevanti i dati contenuti nel rapporto, ma la notizia ha avuto l’effetto di far emergere notizie simili, forse dimenticate troppo in fretta. Come quella del ricercatore inglese di origini ungheresi Árpád Pusztai, che alla fine degli anni Novanta aveva condotto analoghi esperimenti, nutrendo cavie di laboratorio con patate geneticamente modificate e riscontrando, nel giro di pochi mesi, alterazioni al sistema immunitario, al cervello, al fegato, ai reni. L’annuncio televisivo di questi risultati provocò contro Pusztai le aspre critiche delle grandi associazioni scientifiche britanniche e dello stesso governo (la Gran Bretagna è stata fra le principali promotrici dell’introduzione degli OGM nella UE), al punto che il ricercatore fu costretto a dimettersi e i dati delle sue ricerche confiscati e distrutti. In Italia due ricercatori, Marco Biggiogera e Manuela Malatesta, hanno condotto lo stesso genere di studi, pubblicati a partire dal 2002, constatando che si rilevano alterazioni visibili al microscopio elettronico negli organi delle cavie nutrite con il mais della Monsanto. Ma ormai in diverse località del pianeta si denunciano casi di contaminazione: le colture geneticamente modificate entrano in contatto con colture ‘normali’ e le contaminano; il rischio è che succeda qualcosa di simile a quanto accade con l’introduzione di specie animali aggressive in ambienti nuovi, nei quali esse distruggono i concorrenti locali, con ovvi danni per la biodiversità. È opinione di molti ricercatori che la nocività per le cavie potrebbe non derivare direttamente dalle modifiche genetiche dei cibi loro somministrati, quanto piuttosto dall’alto uso di pesticidi con i quali gli OGM vengono inondati. Difatti, quasi il 70% degli interventi che si fanno sui geni è mirato proprio a rendere le piante insensibili ai pesticidi. La soia della Monsanto porta il nome di Roundup ready, cioè «pronta al Roundup», perché Roundup è il nome del pesticida che la stessa multinazionale produce e vende, insieme alle sementi, ai contadini che accettano di piantarle. In pratica, le piante resistono a quantitativi maggiori di pesticidi, possono venire inondate molto più che in passato e hanno dunque rese più alte. Poi, però, i prodotti che hanno subito tale trattamento finiscono in tavola oppure in pasto ad animali da macello (è il caso della soia).
In conclusione, si deve sottolineare come le carestie e le malnutrizioni non derivino da una scarsità generalizzata di cibo, ma dalle scelte agricole e produttive che vengono fatte nei Paesi in via di sviluppo, sotto la costante pressione della finanza internazionale. È infatti il mercato che oggi impone rigorose monocolture a Paesi che, per clima e risorse naturali, se adottassero una coltivazione tradizionale potrebbero sfamare le popolazioni che ci vivono. Il prodotto di queste monocolture finisce sulle piazze estere: e, in caso di un ribasso di prezzi, l’economia di un intero Paese rischia il tracollo. Gli OGM non pongono rimedio a questo problema, perché le sementi sono sterili e i contadini che convertono a esse i loro campi sono costretti a riacquistarle continuamente dal produttore, che è libero di imporre i suoi prezzi dal momento che agisce (come si è visto per la vicenda della Monsanto) in regime di monopolio.
Un altro fra i temi più discussi in questo principio di nuovo secolo è quello che riguarda risorse energetiche quali gas e petrolio. Come si è detto, alcune fra le società transnazionali più ricche del pianeta sono legate allo sfruttamento dei giacimenti e alla commercializzazione dei combustibili; sovente esse agiscono in aree che, per questo motivo, vengono considerate strategiche e che negli ultimi anni hanno registrato livelli di conflittualità molto elevati (Capelluto, Palumberi 2006). Nel 1991 il crollo dell’URSS ha portato alla formazione di nuovi stati nell’area a nord dell’Afghānistān: il sottosuolo di questa regione è straordinariamente ricco di petrolio e gas. Tutte le principali compagnie petrolifere hanno cominciato a investirvi subito somme ingenti. Nel solo Kazakistan, sino al 1997 le compagnie internazionali avevano speso circa 35 miliardi di dollari. Le aspettative sono alte, ma il problema da risolvere è il trasporto del petrolio. Ci sono gli oleodotti dei russi che passano attraverso la Siberia, ma sono giudicati troppo cari. L’alternativa – escludendo per ragioni di convenienza sia politica sia economica anche l’Irān, che pure avrebbe gli oleodotti già pronti – è far passare i condotti attraverso l’Afghānistān e il Pakistan, dal quale si potrà raggiungere l’Oceano Indiano.
Con questa prospettiva la compagnia petrolifera Unocal, servendosi della consulenza di Henry Kissinger, firmò un contratto con il Turkmenistan per esportare 8 miliardi di dollari di gas naturale, attraverso oleodotti valutati per altri 3 miliardi. Con la saudita Delta Oil, inoltre, la Unocal aveva dato vita alla CentGas, al fine di costruire un oleodotto attraverso l’Afghānistān. Un’altra compagnia, la Enron, si era accordata con l’Uzbekistan per 1300 milioni di dollari; il governo americano, sotto la presidenza di Bill Clinton, aveva versato 400 milioni di dollari per sostenere l’impresa. Nel 1993 la Enron era giunta a un accordo con il governo indiano per costruire un impianto per la produzione di energia, situato sulla costa occidentale, che avrebbe dovuto fornire un quinto di tutto il fabbisogno nazionale; la compagnia ne sarebbe stata proprietaria per il 65%, grazie al gas uzbeko. Nel 1997 un’altra compagnia americana, la Halliburton, aveva sottoscritto un contratto con il Turkmenistan per fornire infrastrutture al Paese: il futuro vicepresidente Dick Cheney ne era al tempo uno degli uomini di punta. Intanto, nel 1996 i Ṭālibān avevano conquistato Kābul; nel 1998 la resistenza era ridotta a un mero 10% del territorio. Ufficialmente i Ṭālibān non erano ancora riconosciuti da nessuna nazione, ma i rapporti con gli Stati Uniti si andavano intensificando: mentre il futuro presidente George W. Bush era governatore del Texas, una delegazione afghana si era recata nello Stato per discutere con la Unocal la questione dell’oleodotto. E Bill Richardson, ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, era andato a sua volta a Kābul per stabilire migliori rapporti e definire i programmi futuri. Fra il 1999 e il 2000 si svolsero colloqui fra le parti, con i Servizi segreti pakistani come intermediari, ma le trattative si arenarono. Con l’elezione di Bush le cose sembravano destinate a un nuovo cambiamento. Segno del rinnovato sforzo di giungere a un accordo fu la visita di un emissario del Mullah Omar, Sayed Rahmatullah Hashimi, che compì un tour americano nel marzo del 2001, proprio all’indomani della distruzione delle statue dei Buddha di Bāmiyān.
Nel frattempo, però, gli Stati Uniti stavano anche pensando a un piano alternativo, presumibilmente perché rapporti così altalenanti con il regime ṭālibān non davano garanzie sul futuro dei progetti per gli oleodotti. L’idea era quella di chiamare in causa l’anziano re in esilio e di far accettare ai Ṭālibān una condivisione del potere con gli altri gruppi all’opposizione: anche perché questi agivano nelle aree del Nord-Est da cui gli oleodotti sarebbero dovuti entrare. Vi furono due colloqui a Berlino, nel luglio 2001, ma al terzo i rappresentanti dei Ṭālibān non si presentarono. Dopo l’11 settembre 2001 la prospettiva della guerra avrebbe dovuto aprire la via del petrolio: ma niente è andato secondo i piani e a tutt’oggi gli americani e il neopresidente Hamid Karzai (in passato consulente per la corporation del petrolio Unocal) controllano di fatto una parte minima del territorio afghano. Un contraccolpo immediato si è avuto con il caso Enron: la centrale indiana progettata dalla compagnia è entrata in funzione, ma il mancato arrivo del gas a buon mercato (quando il governo indiano aveva già gli oleodotti pronti dal confine pakistano sino a Mumbai) ha costretto a costi molto alti: la compagnia faceva pagare dal 1993 all’India rate fuori mercato, che hanno indotto il governo a porre fine all’accordo. La perdita economica che ne è conseguita è stata una delle concause della bancarotta – dichiarata nel dicembre del 2001 – della Enron e dello scandalo finanziario che l’ha accompagnata, sfiorando alcuni membri dell’entourage del presidente Bush, e in particolare Cheney (Montesano 2004).
L’interesse petrolifero della regione mesopotamica è anche più evidente. Prima dell’invasione del 2003, gli Stati Uniti importavano dall’Irāq circa l’8,6% del loro fabbisogno globale; i giacimenti durante il regime ba῾tista di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn) erano nazionalizzati, mentre il governo instaurato sotto l’occupazione successiva all’aggressione del 2003 ha privatizzato i pozzi e la commercializzazione delle risorse. Si deve aggiungere che in tutte le aree colpite dai bombardamenti a tappeto, anche la fase della cosiddetta ricostruzione ha dato vita a un giro d’affari tutt’altro che secondario, sia per l’importo economico, sia per i suoi legami con l’ambito politico, come mostra questa rapida analisi delle società coinvolte nell’affare: nelle forniture di armi si distinguono la Lockheed Martin (amministrata tra il 1994 e il 2001 dalla signora Lynne Cheney, moglie dell’ex vicepresidente statunitense), la Boeing (finanziatrice della società Trireme, della quale è dirigente Richard Perle, consigliere neoconservatore), la Northrop Grumman, la General dynamics (che ha acquistato la Gulfstream, amministratore della quale era Donald Rumsfeld, segretario della Difesa dal 2001 al 2006), la Raytheon (per una filiale della quale, la Hughes electronics, ha lavorato nel 2000 Paul Wolfowitz, presidente della Banca mondiale dal 2005 al 2007), la United technology. Ancora, la XE (prima American Blackwater) è nata sostanzialmente come compagnia che offre servizi di mercenari: i contractors di cui il governo statunitense si è servito massicciamente in ῾Irāq, ma che sono comparsi anche nelle strade di New Orleans all’indomani dell’uragano Katrina, con lo scopo di controllare la popolazione.
Il caso più clamoroso però risulta quello della Halliburton (la società cui è lungamente appartenuto Cheney), che si occupa di forniture e di consulenze sulle prospezioni minerarie. Essa ha ricevuto senza alcuna gara d’appalto un contratto per 2,5 miliardi di dollari (somma coperta con ipoteche sulle future estrazioni petrolifere irachene) per la ricostruzione in ῾Irāq e le forniture al personale americano di stanza nel Paese: ma è stata colpita da uno scandalo per una serie di ‘sovrafatturazioni’ che hanno fatto lievitare i costi contrattualmente previsti.
Fra i vari settori d’interesse delle corporation, quello finanziario è uno fra i più importanti e, allo stesso tempo, fra i più difficili da seguire nelle fluttuazioni di questi ultimi anni. Il mercato finanziario, dato dalla congiunzione d’interessi bancari e assicurativi, assicura alle multinazionali profitti molto alti, ma le costringe ad affrontare anche notevoli margini di rischio. In questo settore le fusioni hanno portato alla nascita di gruppi dominanti, come la statunitense Citigroup, nata nel 1998 dall’unione di Citicorp e Travelers group. Nonostante gli altissimi guadagni e un assetto societario in apparenza sanissimo, Citigroup è rimasta coinvolta nella crisi dei mutui subprime (che negli Stati Uniti alla fine del 2006 aveva già condotto a espropri valutati in oltre un milione di dollari), e ha venduto 8 miliardi di obbligazioni ad alto rischio perché legate a potenziali insolvenze (come nel caso dei mutui ipotecari).
Ma se il colosso vende, chi compra? Tra gli acquirenti si possono segnalare gruppi come la Carlyle, legata agli interessi finanziari della famiglia Bush, ma anche petrolieri arabi, Osama bin Laden (Usāma ibn Lādin) incluso, e la JPMorgan Chase, che hanno emesso obbligazioni di questo tipo per – rispettivamente – 500 e 450 milioni di dollari; la Carlyle è stata sostenuta nell’operazione dalla Deutsche Bank, dopo che una affiliata della società capogruppo, la Carlyle capital, non è riuscita a far fronte a perdite legate al mercato dei mutui calcolate in 150 milioni, nonostante dichiari un attivo di 27 miliardi di dollari. Siamo insomma dinanzi a manovre speculative estreme che coinvolgono tutto il mercato finanziario, a fronte di coperture monetarie effettive che probabilmente non esistono. La spregiudicatezza di tali operazioni appare più evidente dinanzi alla considerazione che, dal 2000 in poi, il mercato bancario e finanziario ha registrato una serie impressionante di frodi e crack come quelli Enron e WorldCom negli Stati Uniti, o Cirio e Parmalat in Italia.
Negli ultimi anni a livello internazionale si è discussa una possibile regolamentazione degli hedge funds (fondi speculativi), nati negli Stati Uniti negli anni Cinquanta del Novecento, ma senza che si sia mai giunti a un accordo. Al contrario, le manovre speculative hanno coinvolto a partire dagli anni Ottanta fasce sempre più ampie di popolazione nei Paesi occidentali. Al sistema finanziario è stato consentito di rimuovere vecchie limitazioni sul tetto degli interessi e si è incentivata una politica di spostamento di fondi dei privati dai conti di risparmio verso investimenti considerati maggiormente produttivi, quali quelli legati al mercato azionario, a quello assicurativo o a quello dei mutui, portando gli istituti assicurativi a divenire centri di produzione di immensi profitti.
È in questo momento che le corporation della finanza superano in profitti quelle legate alla produzione; e le ricchezze ottenute sovvenzionano, attraverso le pratiche lobbistiche, campagne elettorali e più in generale la vita politica. Si tratta però di settori che, per la natura altamente volatile di ciò che trattano, aprono voragini di rischio per gli investitori medi e piccoli: di qui la crisi dei mutui e, ancor prima, quella dei tanti fondi pensioni inghiottiti dagli investimenti inopinati di istituti finanziari finiti in fallimento (MacDonald, Hughes 2006).
In conclusione, se si accosta questo dato al crescere di emergenze reali quali sono quelle inerenti alla produzione agricola, al reperimento di acqua potabile e all’assottigliamento delle riserve energetiche, è facile comprendere che lo strapotere delle multinazionali a scapito degli interessi legittimi delle comunità potrebbe essere giunto, all’inizio del nuovo secolo, a compromettere in modo definitivo gli equilibri sui quali si regge l’economia globale.
Tra la seconda metà del 2008 e i primi mesi del 2009 la crisi finanziaria e industriale ha colpito il mondo intero. Alcuni segni della sua incombenza erano già facilmente avvertibili, e se ne è parlato nelle pagine precedenti: dalla crescita dei prezzi dei generi alimentari, all’insolvibilità dei mutui subprime, al crack di alcune corporation del settore finanziario. Si tratta di una crisi contingente o di una crisi strutturale? È presto per dirlo; alcuni analisti prevedono una ripresa nel 2010, assecondando la prima ipotesi, altri, invece, prevedono conseguenze gravi e di più lunga durata. Allo stato attuale delle cose risulta dunque estremamente difficile prevedere quali effetti la crisi è destinata ad avere sul sistema delle corporation; è possibile soltanto, alla luce dei dati esistenti, cercare di comprenderne le conseguenze immediate.
In linea generale, si può affermare che la crisi non ha procurato crepe profonde nel sistema; alcune multinazionali hanno perso, altre hanno approfittato della crisi per salire nel ranking mondiale. Quest’ultima situazione sembra aver riguardato le imprese che all’inizio della crisi presentavano due caratteristiche fondamentali: l’ampiezza delle dimensioni e grandi riserve di contanti, che in un momento difficile consentono l’acquisizione a prezzi favorevoli di altre compagnie e di nuove tecnologie, nonché l’ingresso e la scalata in nuovi mercati. Una condizione che ha favorito, per es., le compagnie cinesi: fra 2007 e 2009, nel settore bancario, la Bank of China è passata dall’82° posto al 30°, la CCB dal 69° al 23°, la ICBC dal 53° al 12°; in quello petrolifero, la Sinopec-China petrol è salita dal 71° al 33°, la PetroChina dal 41° al 14°.
Sarebbe tuttavia errato pensare che sinora la crisi abbia procurato un terremoto; è vero che i gruppi del complesso finanziario-bancario hanno perso dei colpi, generalmente a vantaggio di quelli del settore delle risorse (elettricità, petrolio), ma sono ben lontani dall’esser spariti dalla scena. La britannica HSBC Holdings, prima nella classifica Forbes del 2008, è scesa al 6° posto; la vetta della classifica è ora occupata dalla statunitense General electric; la banca americana JPMorgan Chase, che avevamo visto in crisi per la questione dei mutui subprime, rimane comunque al 16° posto. Un po’ diverso il caso del colosso Citigroup, nel 2005 primo nella classifica degli assetti, terzo in quella dei profitti, che in seguito ai problemi cominciati nel 2006 è uscito dalla classifica «Forbes» delle prime cento per il 2008, con una perdita di oltre 30 miliardi di dollari; rimane comunque all’8° per quanto concerne gli assetti societari, al 41° nelle vendite. Ancora peggiore la sorte dell’American international group, del settore assicurativo, caduta dal 3° posto occupato nel 2005 all’attuale 968°, con una perdita di 105 miliardi di dollari.
Se per le corporation la crisi ha colpito in modo difforme, i suoi effetti sociali sono stati più pervasivi, con licenziamenti nell’industria e sfratti forzati per gli inadempienti in seguito al problema dei mutui. Non sempre, però, la reazione è stata direttamente proporzionale all’impatto. Negli Stati Uniti, per es., le proteste sono state limitate, anche se probabilmente la sconfitta elettorale di Bush ha avuto la sua prima ragione nella crisi economica; in Europa, al contrario, il conflitto sociale si è inasprito, soprattutto in Paesi come l’Irlanda nei quali la crescita esplosiva dell’ultimo decennio è stata seguita da un tracollo economico che ha portato lo Stato ai limiti della bancarotta. Ma anche in Paesi più stabili, come la Francia e la Gran Bretagna, si sono registrati casi eclatanti: dal sequestro temporaneo dei manager delle corporation, nel primo caso, per rilanciare la trattativa su licenziamenti e ammortizzatori sociali, alle proteste contro l’impiego di manodopera straniera nel secondo. A proposito del caso inglese, bisogna ricordare che queste proteste si collegano al nodo irrisolto della direttiva Bolkestein: tra gennaio e febbraio del 2009, nel Lincolnshire sono scoppiate proteste contro l’impiego di lavoratori italiani e portoghesi da parte della francese Total nelle raffinerie locali, seguite da altri episodi in differenti zone del Paese. Nonostante le infiltrazioni di formazioni nazionaliste nelle proteste, come il British national party, il problema riguarda l’impiego, da parte delle corporation, di contingenti di lavoratori non residenti in loco, ma ‘importati’ dai Paesi d’origine, che vivono su navi o compounds separati dal resto della popolazione per il tempo previsto dal contratto e poi rientrano nei Paesi d’origine. Per le imprese il vantaggio è chiaro: i lavoratori italiani o portoghesi costano meno rispetto a quelli inglesi, e anche se si fornisce loro vitto e alloggio, il risparmio per la corporation rimane alto. È sostanzialmente quanto prevedeva la direttiva Bolkestein, che in teoria l’Unione Europea avrebbe rigettato in seguito alla presa di posizione di quelle nazioni che, come la Francia, erano state chiamate a votare; evidentemente però, come dimostra quest’ultimo esempio, essa è ancora operativa e destinata presumibilmente a dar luogo a nuovi conflitti sociali.
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