Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Seicento iniziarono a diffondersi in Europa nuove ideologie del diritto e l’esigenza, fortemente sentita nel Settecento, di un diritto semplice e chiaro. Si andò pertanto affermando l’idea di codificare il diritto, creando un sistema di norme giuridiche accomunate dall’unità della materia; a partire dal Code Napoléon del 1804, in Europa si diffondono una serie di codificazioni in materia civile, commerciale e processuale e anche il diritto penale viene profondamente rinnovato.
La semplificazione del diritto e le opere sistematiche di diritto civile
La prima ideologia del diritto secentesco risaliva a Samuel Pufendorf, secondo il quale il diritto è volontà dell’autorità suprema, alla quale gli individui delegano il potere in virtù di un pactum subjectionis: poiché la volontà è mutevole nel tempo, il diritto del presente può essere diverso e prevale sul diritto del passato. Questa ideologia, denominata volontarismo giuridico, introduceva una limitazione temporale e nello stesso tempo una delimitazione spaziale all’efficacia del diritto, circoscritta all’ambito territoriale del potere politico dell’autorità legiferante; essa, inoltre, sconvolgeva i principi dell’ideologia giuridica tradizionale che concepiva il diritto immutabile nella sua essenza.
A fronte delle complesse costruzioni ideologiche esistevano esigenze concrete, infatti negli Stati d’Europa del Seicento e del Settecento la vita giuridica era regolata in prevalenza dal diritto comune – di provenienza medievale – in cui una pluralità di fonti normative (consuetudinarie, municipali, feudali, corporative) coesistevano con compilazioni giuridiche più ampie, come quelle emanate dagli Stati, e con le fonti del diritto romano e del diritto canonico.
La complessità di questo sistema di diritto comune determinava diffuse incertezze interpretative, ricondotte – soprattutto nelle polemiche illuministiche – agli “abusi” della giurisprudenza, in particolare di giudici, dottori e avvocati che interpretavano le norme a sostegno degli interessi clientelari e corporativi di cui di volta in volta si facevano garanti. Molto sentita era quindi l’esigenza di introdurre un quadro di certezza normativa, per disciplinare e razionalizzare la varietà dei rapporti che derivavano sia da istituti tradizionali come quello della proprietà privata, sia da fatti nuovi come la produzione e la circolazione di beni connessi alla produzione industriale. In questa direzione, in particolare, iniziava a manifestarsi una convergenza di interessi tra gli Stati, ancora non sufficientemente forti per sradicare il sistema di diritto comune, e una borghesia sempre più tesa all’eliminazione di privilegi e ostacoli tipicamente feudali.
Già alla fine del Seicento, nella Francia di Luigi XIV, erano state emanate alcune ordinanze dirette a disciplinare organicamente interi istituti giuridici ed erano state promosse opere sistematizzanti, come Le leggi civili nel loro ordine naturale (1689-1696) di Jean Domat (1625-1696). Nel Settecento, si fece serrato il dibattito intorno alla necessità di consolidazioni – intese come organiche raccolte di leggi già esistenti in un’unica opera – e di codificazioni – intese come creazione di sistemi legislativi prevalentemente nuovi – contro chi invece insisteva per il recupero della genuinità della tradizione giuridica, segnatamente di diritto romano, sfrondata dagli eccessi della prassi giudiziale e forense.
In Italia un primo tentativo di consolidazione venne effettuato nello Stato sabaudo con la pubblicazione delle Leggi e costituzioni di Sua Maestà nel 1723, seguite da una nuova redazione nel 1729. In questo stesso periodo, nel saggio inedito De codice Carolino (1726), Ludovico Antonio Muratori pensava di rivolgersi all’imperatore Carlo VI d’Asburgo nella speranza che egli procedesse a una vera e propria codificazione. Nel 1742, dopo la morte di Carlo VI (1740), perse le speranze di ottenere una riforma radicale, Muratori si rivolse a Benedetto XIV con un libro destinato a restare famoso, Dei difetti della giurisprudenza. In esso Muratori non proponeva più una vera e propria codificazione, ma sottolineava l’esigenza di un nuovo insieme di leggi, da realizzarsi attraverso una rigorosa e attenta selezione dei materiali normativi esistenti. L’opera, diretta contro gli abusi dei giuristi, in realtà colpiva lo strumento prevalente della loro attività interpretativa, il diritto romano.
Vent’anni più tardi, nel sottolineare l’esigenza di un codice nuovo, Pietro e Alessandro Verri e Cesare Beccaria avrebbero riproposto, con toni molto più aspri, la polemica contro il diritto romano, ritenuto un retrivo ostacolo al rinnovamento giuridico di una società molto più progredita di quella antica.
Il problema del rapporto tra sopravvivenza del diritto romano e introduzione delle codificazioni restò centrale lungo tutto il Settecento, e nella seconda metà del secolo furono pubblicati una serie di codici, anche se privi dell’importanza e dei contenuti innovativi che avrebbe avuto il Code Napoléon (Codice napoleonico) del 1804.
Il Codice Napoleonico e la tradizione romanista
Durante la Rivoluzione francese ebbe breve vita il droit intermédiaire, cioè tutto un complesso di norme tra la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 e la promulgazione del Codice Napoleonico, fondato sull’abrogazione delle fonti di diritto diverse da quelle statali, sull’eguaglianza dei cittadini e quindi dei soggetti giuridici, sulla libertà della circolazione dei beni e sull’autonomia privata. Questo diritto, la cui introduzione fu caratterizzata anche da vivaci dibattiti antiromanistici, si diffuse in Italia alla fine del Settecento tra le repubbliche giacobine. Solo dopo una lunga e difficile gestazione, nel 1804 il Codice Napoleonico viene alla luce con un nuovo testo che, secondo il consigliere di Stato e oratore del governo Portalis trova il suo fondamento in quei principi che costituiscono la “ragione scritta” del diritto romano e della sua continuità come scienza. Tutti i principi della Rivoluzione, dall’ideologia egualitaria all’eliminazione della pluralità di status soggettivi, dalla libertà personale alla laicità dello Stato, dalla centralità della volontà nel negozio giuridico all’assolutezza del diritto di proprietà, trovano puntualmente riscontro – secondo le relazioni ufficiali del Codice – in passi della compilazione giustinianea. Si tratta di passi accuratamente selezionati e interpretati in modo da far perdere il senso complessivo di un’opera giuridica che rappresenta al contrario una società sostanzialmente fondata sulla schiavitù e sulla diseguaglianza.
Questi principi di libertà civile e personale contenuti nel Codice, che mirano a realizzare le idealità proprie dell’Illuminismo settecentesco, costituiscono in realtà un vero sconvolgimento rispetto al passato. Il vecchio sapere forense, costruito sul rapporto e sulla scelta tra le varie fonti normative e sulla mediazione delle esigenze del presente con la saggezza e l’autorità del passato, perde ogni ruolo di fronte alla codificazione napoleonica, che vuole però avere un fondamento nel passato mediante un mistificante collegamento al diritto romano.
In tal modo il Codice e con esso tutte le codificazioni moderne che lo seguono, pur essendo espressione della volontà riformatrice di fine Settecento, si presentano come una sistematizzazione del diritto antico e la loro normativa innovativa vuole apparire come un insieme di proposizioni giuridiche sempre esistite.
Le codificazioni di diritto civile in Europa
Nel 1806 il Codice Napoleonico, tradotto in italiano, entra in vigore nel Regno d’Italia, seguito dai codici di procedura civile e di commercio (1806) e da quello penale (1811). Nel principato di Lucca i codici napoleonici entrano in vigore tra il 1806 e il 1813, mentre nel Regno di Napoli sono introdotti nel 1808 e in Piemonte nel 1837. A Parma vengono anche promulgati un codice austriaco (1811), un nuovo codice estense (1812) e i Cinque codici (1820). L’esistenza di queste codificazioni preunitarie rende poi facile l’introduzione nell’Italia unificata del Codice civile del 1865, anche perché – come i codici che l’avevano preceduto – esso si ispira al modello del Codice Napoleonico sia nella forma sia nei contenuti.
Anche in Olanda la codificazione civile è preceduta da un vivace dibattito, a seguito del quale vengono predisposti numerosi progetti che, però, si spengono sul nascere e comunque hanno breve vita. Con la Costituzione del 1815, viene sancita la necessità di incorporare tutte le leggi in codici settoriali, nell’intento di evitare i rischi della reviviscenza delle norme locali o dell’eccessiva libertà di interpretazione da parte degli operatori del diritto; il primo progetto di Codice civile (1820) viene tuttavia respinto e il suo unico merito è l’avere dato inizio agli studi su quel tipo di legislazione. Solo successivamente, sulla falsariga del codice francese, sono emanati il Codice civile, il Codice commerciale, il Codice della procedura civile e penale. Ad eccezione di materie particolari come successioni e matrimonio, dove prevale il diritto locale, esse rappresentano mere trasposizioni delle codificazioni napoleoniche senza nessun riguardo per la legislazione olandese preesistente.
In Germania la necessità di provvedere a una legislazione di natura codicistica viene avanzata, tra i primi, da Anton Thibaut – professore a Heidelberg – che nel 1814 pubblica un pamphlet dal titolo Sulla necessità di un codice generale civile per la Germania, dove nel commentare a fosche tinte il sistema in vigore, residuo delle leggi romane, denunzia l’urgenza di un codice in lingua tedesca. Ma solo dopo lunghi dibattiti, in cui ha larga parte – soprattutto a partire dagli anni Venti – la scuola storica tedesca che fa capo a Savigny, nel 1863 in Sassonia si perviene alla pubblicazione di un Codice delle leggi civili, mentre rimangono senza risultato i progetti di codificazione civile in Baviera e, più tardi, in Prussia. L’elaborazione di un vero e proprio Codice civile tedesco ha inizio nel 1874 con l’istituzione di una commissione di cinque giudici, cui viene affidato il compito di individuare i criteri per la redazione di un progetto di codice. Un secondo progetto viene portato in discussione al Consiglio federale nell’ottobre del 1895 e promulgato il 18 agosto 1896, ma con lo stesso atto la sua entrata in vigore viene posticipata al 1° gennaio 1900.
La riforma del diritto civile in Spagna inizia con una serie di leggi emanate dalla Corte di Cadice in tema di diritti della persona e della proprietà, cui seguono in tutto il Paese interventi legislativi per modificare radicalmente il diritto di proprietà. Il primo progetto completo di Codice civile (dopo quello parziale degli anni 1843-1846) risale al 1851, ma non è approvato, così come il successivo del 1881. Solo nel 1888 un progetto di codice del 1885 diviene legge e, in una nuova edizione riveduta, entra in vigore nel 1889.
La codificazione penale
Nelle nuove codificazioni di diritto penale, a partire dal codice di Giuseppe II del 1787, iniziano a trovare seguito i principi settecenteschi che Cesare Beccaria aveva sostenuto con il suo Dei delitti e delle pene, a cominciare da quello della proporzionalità tra il reato commesso e la pena comminata. Questi principi vengono recepiti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, e trovano poi applicazione nei codici penali francesi del 1791, 1795 e nel Codice Napoleonico del 1810. In particolare, l’ideologia egualitaria rivoluzionaria si manifesta sotto forma di egualitarismo giuridico, nel senso che tutti i soggetti devono essere ritenuti uguali di fronte alla legge, senza più differenze cetuali; secondo le leggi preesistenti, infatti, le pene per uno stesso reato si differenziavano a seconda che il colpevole fosse un nobile o un semplice cittadino.
Sotto il dominio francese queste codificazioni si estendono anche all’Italia: in alcune regioni trova applicazione il Codice penale francese del 1791, in altre quello del 1795, ma maggior diffusione ha il codice del 1810 che viene adottato, fino alla Restaurazione, nel Regno Subalpino, in Etruria, nel Principato di Lucca, nel Reame di Napoli e nel Lombardo-Veneto.
La legislazione codicistica, anziché arrestarsi, ha un ulteriore impulso con la Restaurazione: da un lato l’interesse politico dei sovrani europei di sostituire alla legislazione penale napoleonica la propria (il che porta talora a una semplice reviviscenza delle leggi anteriori), dall’altro un’esigenza di rinnovamento ormai affermata portano all’emanazione di nuovi codici che hanno ormai fatto propri i principi fondamentali della legislazione illuministica, sebbene l’evoluzione della materia penale subisca un certo rallentamento ed essi non siano portatori di elementi fortemente innovativi come nel periodo rivoluzionario.