Le classi popolari
A volte capita di trovare, persino negli scritti più moralisti e deprecatori, degli spaccati sociali che offrono indizi, sollevano interrogativi e forniscono un buon punto di partenza per un discorso sulle culture di vita dei ceti popolari. Per esempio, del periodo in esame, colpiscono due immagini del «popolo veneziano». La prima risale agli anni immediatamente successivi all’annessione (1866-1870). Si ottiene facendo un collage di brani di articoli e lettere ai giornali, nei quali si trovano descrizioni di lavoranti maleducati, insubordinati e imprevidenti; poveri cenciosi, aggressivi e importuni. Si vedono allora: artigiani che ritardano la consegna dell’opera e impongono prezzi esagerati(1); calzolai che chiudono bottega tre volte la settimana(2); gondolieri in ozio sui pontili che gridano come se «le coltella dovessero uscire immediatamente dal taschino ed entrar nelle costole dei litiganti»(3); venditori di pesci ed erbaggi che mai hanno urlato così bestialmente(4); facchini che rubano l’orologio ai viaggiatori all’uscita della stazione(5); suonatori di organetto così insopportabili da far venire mal di pancia ad ascoltarli(6); fannulloni in agguato sotto i capitelli che scuotono il bussolotto sulla faccia dei passanti(7); bambini vagabondi vestiti di stracci che bestemmiano e giocano nei campi(8).
La seconda immagine è contenuta nella Relazione morale. Anno 1913 della Camera del lavoro. Qui si trova una Venezia in cui: la lotta di classe è attenuata dalla mancanza di un proletariato moderno che percepisce un salario e si confronta con il capitalismo privato; la maggior parte dei lavoratori o sono dipendenti in industrie di Stato, come gli arsenalotti e le tabacchine, o svolgono attività in proprio, come gli artigiani e i gondolieri; nell’organizzazione professionale «si hanno ancora o quasi le condizioni del corporativismo medioevale»; lo spirito di categoria e il separatismo tra i mestieri è diffuso; le associazioni operaie si ignorano a vicenda, le cooperative di lavoro sono chiuse ed escludenti(9); gli operai, dopo la giornata normale di lavoro, cercano di arrotondare lo stipendio con lavori supplementari, fornendo un pretesto ai padroni per mantenere bassi i salari ordinari; c’è il sistema delle mance (come si dice all’epoca: ciapàr le màndole) «che crea una specie di accattonaggio operaio» e il lavoratore non considera il salario come un suo diritto ma «come una grazia, un favore concessogli dal capitalista»; «il padrone è il paronsìn ed il lavoratore si sente servitòr suo»; i guadagni supplementari, perché non fissi, abituano «la massa lavoratrice veneziana, che pure ha ottime qualità di intelligenza, bontà d’animo e di generosità», a una certa «spensieratezza», la rendono «leggiera, facile al vizio, spendacciona, con marcate tendenze allo spagnolismo»; a tutto questo, si aggiunge l’abuso di alcool(10).
Le due immagini si collocano agli estremi cronologici del periodo in questione e sono indubbiamente diverse. Ci dicono molto sui desideri e sul punto di vista di chi le descrive. La prima viene proposta da giornalisti, «moralisti pubblici» e autori di lettere ai giornali che denunciano all’opinione pubblica quelli che sono considerati i modi di fare più fastidiosi ed immorali dei popolani(11). Nell’immediato dopo annessione c’è un atteggiamento abbastanza diffuso tra gli strati sociali non popolari (commercianti, liberi professionisti) di ripulsa e intolleranza verso ciò che è estraneo alle logiche dell’etica del lavoro e turba la città borghese, gli affari dei negozianti e l’immagine di Venezia: «vagabondaggio», «oziosità» e «questua»; «imprevidenza», «inurbanità» e «vizio». Le denunce vengono spesso accompagnate da richieste di provvedimenti che vanno dalla repressione dei vagabondi alla riforma della carità, all’educazione all’etica del lavoro, del risparmio e del self-help. Spesso queste vengono inserite nel contesto del ruolo che la città deve assumere nella nuova nazione. Viene presentata una Venezia «mendica» e «oziosa» per sostenere l’idea che deve ritornare ad essere «operosa» come all’epoca della Serenissima: industriale e commerciale. Si tratta di proteste e umori largamente presenti in un periodo che non va — in questi termini — oltre gli anni Settanta. Un certo peso, nell’assopimento della questione, forse hanno i provvedimenti presi nel creare istituzioni per risolvere il problema della mendicità, l’istituzionalizzazione delle scuole serali e festive per gli operai e le operaie, la riforma delle opere pie e la politica di incoraggiamento delle associazioni dei lavoratori. Le politiche adottate, in sostanza, sono due: verso i poveri, gli accattoni e i soggetti più marginali e deboli, delega alla polizia, ai preti e alle istituzioni di beneficenza che molto spesso sono vere e proprie industrie ma con contenuto educativo, in quanto il lavoro in sé viene ritenuto un valore morale; verso gli operai, incoraggiamento pubblico e privato dell’associazionismo e della cooperazione, educazione e istruzione, e — in seguito — anche politica pubblica della casa e finanziamenti alla Camera del lavoro, almeno fino a quando non assume contorni socialisti e forme di autonomia dalle classi dirigenti. È una politica che — più o meno esplicitamente — ambisce a separare l’operaio dal povero, integrandolo nella cultura e nei valori borghesi, e che ben si sposa con la progressiva estensione — proprio a questa classe — del diritto di voto(12).
La seconda immagine è un tentativo, da parte dei leaders della Camera del lavoro, di dare una spiegazione alle difficoltà incontrate nell’organizzare i lavoratori veneziani, nel fare emergere una coscienza di classe che li disciplini in un fronte compatto di solidarietà. La relativa assenza della figura sociale dell’operaio salariato nella grande fabbrica privata, considerato il perno del movimento socialista, induce, secondo la relazione, a una persistenza di relazioni interclassiste e paternaliste premoderne. Effettivamente la Camera del lavoro non ha vita facile. Dopo le repressioni di fine secolo, riesce a riaprire nel 1902: ha problemi finanziari e di sede. C’è sì una indubbia crescita di associati e l’assorbimento di parte delle associazioni operaie che prima gravitavano nell’orbita democratica. La Camera riesce, soprattutto dopo il 1904, a diventare il fulcro delle principali vertenze che diventano pubbliche attraverso scioperi visibili e manifestazioni, che vengono cioè portate fuori dal posto di lavoro. E, finalmente, apre una nuova sede — la Casa del popolo — al Malcanton, che presenta una discreta attività sociale. Anche il partito socialista ottiene alcuni successi. È in grado ben presto di dotarsi di un suo periodico, «Il Secolo Nuovo», e aumenta il proprio consenso elettorale entrando in consiglio comunale e guadagnandosi un deputato. Se non riesce mai a vincere le elezioni amministrative è perché i gruppi dirigenti operano una «serrata» — Venezia dal 1895 è governata da una giunta frutto di un’alleanza tra cattolici e liberali conservatori, sotto gli auspici del patriarca — e non decolla stabilmente il blocco elettorale con i democratici. Ma alla fine del 1913 il movimento sindacale legato alla Camera conta ancora soltanto circa 5.000 aderenti, suddivisi in 33 sezioni, il 7% della popolazione attiva. Si tratta delle categorie più battagliere e anche spesso più corporative, come quelle dei gondolieri, degli impiegati statali, comunali, provinciali e di enti di assistenza come ospedali e opere pie, e quella dei portuali, colonna portante dell’organizzazione camerale, anche finanziariamente(13). Questo paradosso spiega come tra i dirigenti possa esserci una tensione tra ciò che il movimento è e ciò che vorrebbe che fosse.
In tutti e due i casi, cioè nelle due immagini, ci sono delle élites che descrivono una realtà sociale che non piace. Il paradigma è quello dell’arretratezza. La situazione viene descritta come tipicamente veneziana e i comportamenti paragonati a quelli «levantini», «napoletani» o «spagnoli». Nella prima la questione è soprattutto etica o, si potrebbe dire, culturale; nella seconda si è in un’ottica marxista deterministica, si tratta perciò di un’analisi della struttura economica, si sollecita la necessità di maggiore opera di agitazione e propaganda, ma anche c’è l’idea che bisogna aspettare che l’economia crei i presupposti per una coscienza rivoluzionaria, evolvendosi in senso più marcatamente capitalistico.
Questi atteggiamenti e lagnanze non sono per nulla eccezionali. Nel primo caso, si inseriscono nel contesto del clima postunitario, del ‘self-helpismo’ italiano (Gustavo Strafforello e Michele Lessona) e dell’associazionismo laico(14). Medici, avvocati e insegnanti si elevano al di sopra delle classi sociali, giudicano e danno indicazioni etiche per la nuova Italia, usano il passato per definire gli obiettivi del futuro. Il tutto è nel quadro che ognuno gioca nell’ambito del progresso economico e, come è stato notato da alcuni studiosi come Guido Baglioni, nel quadro di una società poco mobile: l’operaio deve essere buon operaio, non aspirare a diventare un borghese(15). È come se si autodefinissero «ceto dirigente», espropriando i preti del ruolo fondamentale che avevano avuto fino ad allora nell’educazione morale (il concordato tra Chiesa e Stato austriaco aveva delegato funzioni civili al clero, rafforzandone l’autorità). Nel secondo caso, ci si inserisce nel contesto del problema della rivoluzione socialista in un paese new-comer nella rivoluzione industriale. Come è già stato detto, le condizioni del proletariato non corrispondono a quelle necessarie — secondo lo schema socialista — per creare le premesse per la rivoluzione. Questo è simile a quello che avviene altrove perché neppure a Milano e Torino c’è un capitalismo privato forte come a Manchester e il proletariato industriale si mescola con il ceto artigiano(16).
Si noti che il mondo cattolico, soprattutto dopo l’adunanza di Venezia dell’Opera dei Congressi nel 1874, si muove a sua volta per «salvare l’operaio» dai vizi e dai sentimenti d’odio che vengono addebitati alla crescente secolarizzazione, e dimostrare — fondando nuove società e istituzioni soprattutto a livello parrocchiale e tentando così di sottrarre i lavoratori all’influenza dell’associazionismo laico — come la «nera tonaca del prete sa far [loro] del bene»(17). In questo periodo dunque diverse forze, in tempi diversi, si contendono le classi popolari, cercando di educarle e correggerle.
Ritorniamo però alle due immagini iniziali, scremandole dal paradigma dell’arretratezza. In esse traspaiono culture popolari a sé stanti fatte di dignità proprie, scelte e strategie individuali, di una stratificazione di abitudini, di un modo di pensare (una «economia morale») attraverso generazioni che hanno vissuto e/o si sono arrangiate in economie urbane anche marginali o povere, tra rapporti di vicinato, casse peote, autodifese di mestiere, economie del dono e rapporti paternalistici da ancien régime(18). Si tratta di caratteristiche che forse a Venezia sono acuite dalla conformazione fisica della città che — come racconta Pietro Orsi a George M. Trevelyan, durante una passeggiata per le calli nel mezzo della prima guerra mondiale — induce a una certa «eguaglianza» tra le classi per via della costante prossimità fisica, perché è una città pedonale(19). Come si vedrà, inoltre, l’andamento demografico che presenta — rispetto ad altre grandi città — un aumento di popolazione eccezionalmente lento e una relativa scarsità di inurbati dalle campagne rafforza i conservatorismi e le difese di categoria, favorisce la tendenza al corporativismo.
Ampia evidenza attesta, soprattutto per il periodo postunitario, la presenza di una cultura del dono: il dono come risorsa possibile, considerata moralmente legittima, nell’economia degli individui. Un caso eloquente, avvenuto poco prima dell’incorporazione del Veneto nel Regno d’Italia, lo racconta il console americano a Venezia, William D. Howells. La vicenda coinvolge il console, sua moglie e un arsenalotto con baffi e pizzo alla Vittorio Emanuele, che lui chiama, non senza un certo razzismo di classe, «il topo», The Mouse. I tre si incontrano durante un viaggio in carrozza da Padova a Ponte Lagoscuro. Howells scambia due parole. Viene a sapere che è un carpentiere dell’Arsenale, poi emigrato a Trieste in cerca di lavoro, ora diretto ad Ancona per la stessa ragione. Una volta che questi ha rivelato la sua indigenza, senza però chiedere aiuto, i coniugi Howells cominciano a «rispettare la sua povertà». Si consultano e ragionano sul fatto che in Europa è molto difficile trovare lavoro e che l’artigiano disoccupato rischia di dover chiedere la carità, prima ancora che la beneficenza possa aiutarlo. Decidono di dargli cinque franchi, ma Howells vuole essere prudente: «Non gli darò questi soldi [spiega alla moglie]. Gli dirò che è un prestito che può restituirmi quando può. In questo modo adesso lo aiuto, e gli do un incentivo a risparmiare». Detto fatto. Howells allega ai soldi il suo biglietto da visita con l’indirizzo di casa, per la restituzione del prestito. L’arsenalotto s’illumina, ringrazia e lo benedice molte volte. Howells si congratula con se stesso. Senonché, appena due settimane dopo, compare a casa sua, a Venezia, una giovane donna con un bambino. È la moglie dell’arsenalotto che dice di essere stata mandata dal marito per chiedere se era possibile pagarle il viaggio per Ferrara, dove lui aveva finalmente trovato lavoro. Howells che aveva per un momento pensato che fosse lì a restituirgli i soldi, trasecola e dice no. Lei ringrazia e se ne va. Lui resta deluso del malinteso: «io, che sono un gran signore ai suoi occhi, e un insaziabile donatore di monete da cinque franchi — lo strumento di una perpetua speciale provvidenza»(20). In questo episodio abbiamo il fraintendimento tra due culture, quella dell’educatore borghese — il modo in cui osserva con distacco dà quasi la sensazione di giocare con la povertà dell’altro, con un atteggiamento che non è per nulla quello del dialogo — e quella dell’operaio che manda la moglie a riscuotere quello che a lui doveva apparire come il completamento del dono: la riunificazione della famiglia. È però significativo che il gesto iniziale sia compiuto dal console perché all’epoca, mentre si potevano vedere barcaioli, facchini e lustrascarpe chiedere la carità, soprattutto a Capodanno e alle feste, era ben difficile che lo facesse un operaio(21).
Una disquisizione linguistica di Antonio Fradeletto del 1899 invece fornisce uno spaccato del rapporto padrone-servitore e classi superiori-classi subalterne, rispondendo per lettera a una richiesta di Gabriele D’Annunzio che voleva suggerimenti sulla parlata veneziana dell’epoca per alcuni suoi personaggi de Il Fuoco: Zorzi, gondoliere, Stelio Èffrena, la persona per cui lavora, e i marinai di un bragozzo su cui Stelio vuole salire a bordo. Innanzitutto «buon giorno, signore» — suggerisce Fradeletto — va tradotto «servo suo, paròn». Quando ci si rivolge a un superiore non si dice mai «buon giorno» né «bondì». Così pure, la semplice domanda «che volete?», che diretta a persona di condizione inferiore o a un pari va tradotta «cossa voleu?», nel caso sia rivolta a persona superiore diventa «cossa vorla?», «cossa comandela?», oppure semplicemente «paròn?». Se Fradeletto ha ragione, nel linguaggio comune la distanza gerarchica viene enfatizzata continuamente e la parola paròn viene usata anche in casi in cui l’italiano non la richiede: per tradurre il «monti pure» che i marinai rivolgono a Stelio, Fradeletto propone «ch’el vegna pur» e «ch’el monta pur», ma anche «la se comoda, paròn», «co’ nol vol altro, paròn». È molto interessante però che a fianco di questo registro, che enfatizza la distanza gerarchica, ce ne sia un altro, di complicità e confidenza. Soprattutto se Zorzi è gondoliere de casada, cioè un dipendente di Stelio, Fradeletto non fatica a suggerire possibili battute maliziose, «schiettamente venezian[e]», quando il giovane padrone torna dalla notte passata con Foscarina: «forti in gamba, paroncìn» oppure «la se senta, che adesso me toca dar quatro parae mi», riferendosi all’atto amoroso. Quando il giovane poi dice al suo gondoliere di avere una gran fame, questi si potrebbe permettere persino di dire: «bon segno co’ la fa fame» di nuovo alludendo alla nottata portata a buon fine(22).
Gli esempi di autonomia culturale da parte delle classi popolari rispetto agli obiettivi dei riformatori morali e dei socialisti sono molti. L’economia liberale presuppone per esempio che l’artigiano lavori su commissione, seguendo le indicazioni del committente, presentando un preventivo che deve essere rispettato. L’artigiano invece si sente artista e non vuole essere semplice esecutore. Vuole fare il lavoro secondo quella che per lui è la «regola d’arte», secondo i suoi tempi, rifiutandosi di presentare un preventivo. Lo stesso prezzo finale non è semplicemente un calcolo delle ore di lavoro e del costo dei materiali. L’artigiano considera la propria situazione economica, quello che lui pensa sia la capacità di spesa dell’acquirente, la soddisfazione personale nel fare una determinata opera, non ultimo lo stesso coinvolgimento personale dell’acquirente e l’apprezzamento che questo esprime nei confronti del lavoro. Quello che per il riformatore morale è pigrizia o inefficienza è semplicemente cultura altra.
Il processo di educazione popolare e di organizzazione del movimento operaio e socialista non vede le classi popolari come semplici soggetti passivi, da plasmare e indirizzare. I falegnami, i muratori e i fabbri che seguono le scuole serali, lo fanno per imparare o migliorare il disegno tecnico(23). Le categorie che si associano alla Camera del lavoro sono spesso quelle che hanno già scelto lo sciopero come terreno di rivendicazione. Il Comitato degli arsenalotti si iscrive alla Camera del lavoro, nel 1910, soltanto dopo che nel collegio Castello-Dorsoduro il candidato socialista batte quello democratico, ben consapevole dell’importanza di un portavoce politico presso il Ministero(24). Gli stessi portuali — che pure sono tra i più combattivi — sono noti per il loro «pragmatismo» e per la loro autonomia dalla Camera del lavoro, tanto che in un promemoria di polizia risulta che la loro affiliazione politica è soprattutto un mezzo per difendere gli interessi delle cooperative che nel 1907 hanno ottenuto una specie di monopolio del lavoro al porto(25).
Le impiraresse scioperano in modo festoso e carnevalesco, «insieme, madri e figlie, parenti e vicine, portandosi i bambini piccoli in braccio, allattando mentre assistono al comizio […] ballano, cantano, ridono, si fanno beffe dei poveri relatori, di gendarmi e di preti di passaggio». «Il Secolo Nuovo» giustifica il disordine adducendo la miseria e l’esasperazione delle donne. I dirigenti della Camera del lavoro sono preoccupati della spontaneità delle manifestazioni e dell’immagine negativa che producono, e cercano di disciplinarle(26). Le intemperanze delle lavoratrici vanno lette, invece, come espressione del linguaggio delle donne che sovvertono l’ordine, entrando nello spazio pubblico tipico degli uomini, ma sono anche, più in generale, specchio del sociale, del vivere quotidiano, caratterizzato da solidarietà di vicinato e parentela. Non a caso si tratta di una categoria che svolge un lavoro domestico. Paradossalmente parte del successo dei socialisti sta proprio nel riuscire a dialogare con questa realtà. Ne abbiamo un riscontro negli anni del primo dopoguerra, quando nella resistenza contro la violenza fascista più che la coscienza politica pare giocare la socialità di quartiere(27).
Ritornando un’ultima volta alle nostre due immagini, c’è anche uno scarto evidente: la prima appartiene all’epoca in cui si parla di «plebe», «popolo», «miseria», «povertà»; la seconda a quella in cui si parla di «proletariato» e di «classe operaia». In quest’ultima, i poveri, i questuanti sembrano scomparire come soggetti principali nei discorsi pubblici. La stessa esistenza della Camera del lavoro — per quanto si affermi con fatica — fa la differenza. Viene da chiedersi allora come sia cambiata l’economia delle classi popolari da una all’altra fase. Considerando poi che tra il 1866 e il 1914 avvengono molte cose: il take off industriale dell’Italia e per Venezia un salto di qualità nello sviluppo economico a partire da metà anni Ottanta(28). Non si tratta solo di trasformazioni economiche: anche di eventi come la riforma delle opere pie, la legislazione sociale, lo sviluppo appunto del movimento operaio, l’allargamento del suffragio, i miglioramenti igienici e sanitari. In che modo tutto questo ha cambiato le condizioni di vita e la stratificazione sociale della città?
L’impressione è che nonostante si venga formando una «aristocrazia operaia» e si allarghi l’area del lavoro salariato, il lavoro resti per i più insicuro e incostante, molte persone continuino a dipendere dai sussidi di carità. L’insicurezza e i lavori arrangiati vanno letti anche nel quadro dell’importanza dell’industria turistica. Ma ci sono anche dei cambiamenti qualitativi. Dopo gli anni Ottanta si insediano nuovi stabilimenti industriali. La città viene segnata da landmarks tipici della «città industriale»: l’imponente Mulino Stucky ne è il segno più evidente. C’è una classe operaia «più moderna», sindacalizzata.
I censimenti della popolazione per professione o condizione sono di difficile lettura, soprattutto quando i dati vengono aggregati in macrocategorie, sia per l’arbitrarietà che per la disomogeneità con cui vengono raccolti. Non danno inoltre un quadro vero dell’occupazione, perché si limitano a registrare e catalogare il mestiere dichiarato da ciascun residente. Qualche indicazione utile però la danno. Soprattutto restano le uniche fonti che forniscono un’idea complessiva e quantitativa delle attività lavorative, della provenienza dei redditi da lavoro e della composizione sociale.
Per esempio, dalle rilevazioni fatte nel periodo in considerazione risulta un dato costante significativo: Venezia è una città nella quale prevalgono nettamente e in modo particolare i mestieri urbani. Detto in altre parole, pochi individui figurano avere come principale professione un’attività nel settore primario. La stragrande maggioranza risulta esercitare mestieri o nei servizi o nella manifattura. Si può anche essere più precisi: nelle rilevazioni del 1869, 1901 e 1911, poco più della metà dichiara professioni riconducibili alla sfera dei servizi, poco meno della metà a quella delle manifatture(29).
Secondo il censimento nazionale del 1871, quello di Venezia risulta essere di gran lunga il circondario di una città sopra i 100.000 abitanti con la più bassa percentuale di persone dedite alla produzione delle materie prime sul totale della popolazione in condizione professionale. L’area comprendente il comune capoluogo (i sestieri e la Giudecca) e quelli — allora autonomi — di Malamocco, Murano e Burano, 3.610 persone, appena il 5,7% della popolazione in condizione professionale, dichiara di esercitare un mestiere nel settore, in gran parte nella caccia o nella pesca (1.515), nell’agricoltura (1.044) e nell’orticoltura o nel giardinaggio (584)(30). I dati su base comunale degli altri censimenti confermano questo quadro: quello del 1869 riporta 899 individui pari all’1,3%, quello del 1901 — dopo l’incorporazione del comune di Malamocco — 1.654 pari al 2,4% e quello del 1911, 1.462 pari al 2%. Nel 1911 Venezia figura come il secondo comune sopra i 150.000 abitanti con la minor percentuale di «attivi» con mestiere principale nel settore primario, dopo Milano (1,6%), prima di Genova (2,8%) e Torino (3,6%)(31).
Se nel censimento del 1871 risulta che il 48,4% della popolazione «attiva» del circondario è in condizioni professionali che l’Ufficio centrale di statistica riconduce alle «produzioni industriali» e soltanto il 45,9% a commercio, trasporti, servizio, difesa, amministrazione, sanità, cultura e libere professioni, è perché nella prima categoria rientrano sia gli addetti alla produzione che quelli alla vendita di prodotti artigianali e industriali. Il dato è comunque rilevante se assunto in termini comparativi. Quello di Venezia è il circondario di una città al di sopra dei 100.000 abitanti con la più alta percentuale di popolazione «attiva» in questo settore, davanti persino a Milano (41,3%)(32). L’importanza del «settore secondario», quello che riguarda le attività di trasformazione e lavorazione della materia, viene comunque confermata dai dati comunali del 1911: Venezia è il quarto grande comune per percentuale di professioni nel settore secondario sulla popolazione «attiva» (45,2%), dopo Milano (57,6%), Torino (57,3%) e Bologna (48,7%), e il secondo grande comune con la più bassa percentuale di «attivi» con mestieri nell’artigianato e nelle industrie che lavorano e utilizzano i prodotti di agricoltura, caccia e pesca: l’8,9% del totale della popolazione sopra i 15 anni in condizione professionale, dopo Roma (7,6%) e davanti a Genova (10%), Torino (10,8%), Firenze e Milano (11,4%)(33). Questo non ci dice ancora nulla sulla modernità dell’economia veneziana, ma indica una eccezionale presenza di artigiani e operai riconducibili a settori non direttamente collegati al mondo rurale, e questo anche già prima del take off industriale dell’età giolittiana.
Nel 1911 Venezia risulta invece la quinta grande città per percentuale di abitanti «attivi» che dichiarano professioni nel settore terziario, presentando un dato del 52,8% e piazzandosi dietro a Genova (59,1%), Roma e Palermo (54,4%) e Firenze (53,4%). In coda stanno Milano (40,8%) e Torino (39,1%). Nonostante l’alta presenza di lavoratori nelle manifatture, Venezia non è tra i grandi comuni con la più alta specializzazione industriale: con 857 individui nel settore secondario ogni 1.000 nel terziario, è la sesta grande città dopo Torino (1.466), Milano (1.410), Bologna (1.167), Catania (925) e Napoli (863)(34).
Il censimento del 1869 restituisce un’immagine viva e articolata dei mestieri presenti e della loro consistenza numerica. Le categorie sono state definite ad hoc dall’Ufficio statistico del Comune, non sulla base di un modello nazionale. Essendo caratterizzati da un eccezionale tasso di empirismo, i dati forniscono una sorta di autorappresentazione della città. Si tratta di un mondo del lavoro ricco di competenze specifiche, privo di una classe operaia uniforme. Gli artigiani sono molto specializzati. Gli artieri in legno non addetti alle costruzioni navali non figurano come «falegnami» a meno che non facciano lavori generici. Sono, a seconda del ramo cui appartengono, seggiolai, stipettai, rimessai, stacciai, finestrai, ebanisti, intagliatori, tornitori. Ci sono poi venditori che trattano un’unica merce: l’olio, il burro, le uova, la sanguisuga per i salassi o le corna per scacciare la sfortuna.
Volendo dare un’idea delle professioni prevalenti, si può tentare di accorpare i dati per gruppi omogenei. Nei servizi risultano: 6.860 tra doganieri, militari, poliziotti, guardie comunali e carcerarie e personale in forza al dipartimento marittimo; 6.297 tra servi, governanti, camerieri di famiglia e custodi privati; 5.980 tra biadaioli, fruttivendoli, pescivendoli, fornai, panettieri, caffettieri, osti, vinattieri, liquoristi, negozianti, commessi di negozio, merciai, cenciaioli e venditori girovaghi; 5.035 tra barcaioli, burchiai, paeteri, facchini e port’acqua; 4.141 tra ingegneri, avvocati, impiegati di vario genere, agenti privati e di commercio, amanuensi e sensali. Mentre nel settore della produzione, fra padroni, maestri, lavoranti e garzoni, si contano: 6.827 tra sarti, cucitrici, ricamatrici, calzolai e cappellai; 6.262 tra muratori, scalpellini, terrazzai, artigiani-pittori, fabbri ferrai, falegnami, rimessai, intagliatori e tappezzieri; 4.120 tra fabbricanti e lavoranti conterie, infilzaperle e coronai; 2.521 tra acconciatori cuoio, tessitori, canapai e lavoranti tabacchi. È l’immagine di una città capoluogo amministra;tivo e militare, centro commerciale e turistico, luogo di consumo e produzione di beni di lusso, con la presenza di industrie tradizionali e marittime(35).
Due sono i luoghi di produzione nei quali c’è una notevole concentrazione di manodopera: l’Arsenale e la Manifattura Tabacchi. Entrambe aziende statali, nel 1870 impiegano rispettivamente 1.500 e 1.493 addetti. Il primo è specializzato nella costruzione, riparazione e armamento di navi della marina militare, la seconda produce trinciati per pipa, polvere da fiuto e sigari(36). Ci sono poi diversi opifici che lavorano il vetro, i tessuti, filano e pettinano la canapa, acconciano le pelli, costruiscono imbarcazioni in legno, lavorano il ferro, stampano libri e giornali, fanno mobili, birra, acquavite, amido, cipria, saponi e cera. Le loro dimensioni variano. Alberto Errera per esempio riporta che nell’anno lavorativo 1868-1869 la cereria di Antonio Luigi Ivancich dà lavoro a un direttore e tre operai, mentre il canapificio di Andrea Antonini a 250 addetti. Per la sporadicità dei dati, inutile calcolare la dimensione media. È importante invece sottolineare come questi opifici si situino anche in un contesto di piccole botteghe artigiane. Hanno la propria ditta e la propria bottega molti falegnami e fabbri e soprattutto molti calzolai. Tra questi ultimi, per esempio, il rapporto tra padroni e lavoranti è di 1 a 3(37). Inoltre, considerando anche l’isola di Murano, il solo settore della lavorazione delle conterie risulta composto da 42 ditte e 52 fabbriche, che occupano 2.326 persone(38). La Fonderia Neville (226 addetti) è l’unica azienda che produce macchine a vapore e motori(39), mentre le industrie tessili adoperano macchine circolari, telai in ferro o legno, cannatoi, torcitoi, e il canapificio più grosso usa torchi idraulici. L’Arsenale, alcune fabbriche di perle ed una conceria hanno adottato macchine a vapore(40). Spesso le macchine e le innovazioni vengono inserite in un metodo di lavoro che rimane tradizionale, come nel caso delle fabbriche di perle che hanno introdotto le macchine tagliacanne(41). Nonostante l’abolizione delle corporazioni, i maestri rimangono depositari dei segreti dell’arte e li tramandano ai figli o agli apprendisti.
La manodopera femminile consiste in oltre un quarto del totale, ma incide proporzionalmente più nel settore manifatturiero. Si tratta soprattutto di domestiche, sarte, impiraresse e tabacchine. Notevole è la presenza di lavoro minorile. I lavoranti vengono quasi sempre pagati a contratto, a cottimo o a fattura, vengono assunti e licenziati a seconda delle commissioni. Le ricamatrici, le berrettaie, le infilzaperle, le cucitrici lavorano a domicilio(42). Molti padroni non sanno neppure quanta manodopera lavora per loro perché si rivolgono ad intermediari(43). Non ci sono ancora leggi sul lavoro, né sindacati, gli operai delle fabbriche lavorano dalle 10 alle 14 ore, spesso in cattive condizioni igieniche(44). Secondo l’inchiesta industriale del 1872, un «maestro di canna», quello che prepara la tiratura della canna di vetro con cui si fanno le perle, può guadagnare da 10 a 15 lire al giorno, mentre un lavorante guadagna in media 2,50 lire ed una lavorante 1 lira(45). In quegli anni un chilo di perle costa 1,30 lire circa, un chilo di pane di seconda qualità 42-52 centesimi ed un litro di vino di seconda qualità 45-50 centesimi(46). Una paga media di 1 lira al giorno, osserva il sindaco di Pellestrina nel 1874, è insufficiente per combattere la fame, soprattutto d’inverno(47). Se è difficile valutare se la paga media degli uomini nell’industria sia a livello di sussistenza o poco sopra, sembra certo che quella delle donne sia solo in grado di arrotondare i guadagni della famiglia.
Le fabbriche chiudono per interi periodi dell’anno lasciando in strada anche gli operai stabili. La domanda di molti prodotti è soggetta a fluttuazioni stagionali per la natura degli stessi prodotti, l’afflusso estivo dei forestieri e l’abitudine dei ricchi di andare nei loro possedimenti di terraferma per un lungo periodo dell’anno. Le fabbriche dei berretti di feltro, per esempio, licenziano parte della manodopera tra novembre e marzo quando c’è un regolare calo di ordinazioni(48). Il numero di lavoranti impiegati nella produzione di amido triplica d’estate, perché il consumo è maggiore e l’asciugamento del prodotto più facile(49). Gran parte delle fabbriche di conterie chiudono per tre mesi d’estate, lasciando i propri dipendenti per strada. I più fortunati possono coltivarsi l’orto di casa ma la maggior parte deve cercarsi un’altra occupazione adattandosi «a qualunque mercede pur di campare»(50). Molti servizi dipendono dall’afflusso dei forestieri, come i 20 alberghi, i 25 negozi di antiquariato, i 18 negozi di fotografia, i numerosissimi affittacamere ed i circa 10 stabilimenti di bagni(51). Questo significa una disoccupazione ricorrente. Basta infatti la sola minaccia del colera alla fine degli anni Sessanta, e il conseguente calo nel flusso turistico, per gettare sul lastrico numerose famiglie, spingendo i più sfortunati (lo scrive il questore) alla disperazione e al suicidio(52). In questo quadro, spesso si ricorre ad altre forme di «reddito», non legato al lavoro: gli aiuti delle istituzioni di beneficenza, la questua, i furti nelle strade, nelle case e anche sul luogo di lavoro. Negli anni Settanta, per esempio, alcuni operai portano fuori dalle officine dell’Arsenale chili di ferro ed attrezzi, per venderli per proprio conto(53).
Da allora al 1911, alcune cose cambiano. In termini numerici, aggregando i dati in categorie omogenee, nei servizi risultano 9.522 addetti nel settore degli esercizi pubblici e delle vendite di merci e derrate all’ingrosso o al minuto, 6.677 nel settore dei trasporti, 6.571 domestici e lustrascarpe, 5.765 impiegati nella difesa del paese e 5.190 addetti al credito, alle assicurazioni, al commercio, all’amministrazione pubblica e privata; nella manifattura 5.898 tra sarti e addetti alla produzione di capi di vestiario e arredamento domestico, 5.574 alle costruzioni edili, stradali e idrauliche, 5.037 alle costruzioni meccaniche di vario genere, 3.391 lavoranti in legno. Nonostante la disomogeneità tra le categorie del censimento del 1869 rispetto a quelle del 1911, è possibile rilevare l’espansione della piccola borghesia in generale e del settore del commercio e degli esercizi pubblici, questi ultimi peraltro oggetto di polemiche per la crescita di bàcari, bettole e spacci alcolici(54). L’evoluzione tecnica lascia il segno nella struttura delle professioni. Nel mondo dei trasporti, diminuisce il numero di barcarioli, diventa rilevante quello dei ferrovieri. In aumento il numero di persone che dichiara mestieri nella costruzione navale e nel settore meccanico. Si affacciano le professioni legate ad attività tipiche della città moderna, come le officine elettriche e del gas. Adesso, a fianco degli artigiani che producono prevalentemente oggetti artistici e di lusso, ci sono fonditori, operai meccanici, gasisti ed elettricisti. In linea generale si è visto il passaggio da attività manifatturiere che coinvolgono soprattutto la lavorazione del legno alla lavorazione del metallo, in primis nei cantieri marittimi.
Le due più grandi fabbriche per numero di manodopera impiegata restano l’Arsenale e la Manifattura Tabacchi. Il numero di addetti nel primo si porta a oltre 2.400. Gli ultimi decenni del secolo infatti vedono grossi lavori di ampliamento(55). Il tabacchificio vede invece una contrazione occupazionale, passando a 1.079 addetti(56). Alle due grandi imprese se ne affianca ora una terza, privata, il Cotonificio Veneziano, nato nel 1883: secondo una pubblicazione statistica del 1900, a un certo punto impiega 992 addetti, in prevalenza donne(57). Quello vetrario resta un settore importante, anche se le fabbriche ormai si concentrano sempre più a Murano (il censimento del 1911 parla di 1.521 occupati tra uomini e donne)(58). C’è la quasi estinzione di alcuni settori tradizionali che negli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento erano ancora rilevanti, come canapifici, corderie e concerie, mentre non risultano più attive le fabbriche di amido. Ma la vera novità, dal punto di vista qualitativo, sono le officine meccaniche, alcune delle quali fondate con capitale straniero: la Layet (1898) che impiega tra i 50 e i 180 operai, la fabbrica di orologi Herion (1878) con 60-70 addetti, il silurificio Schwartzkopff (1883) con 180 operai, il Cantiere navale e officina navale di Vincenzo Breda (1881) con 250-425 operai. Un’altra fabbrica (190 operai) che viene aperta in questi anni è il Mulino Stucky alla Giudecca (1883)(59). A questa capacità della città di ospitare nuove iniziative economiche, fa riscontro l’espansione dei traffici del porto, che peraltro negli anni Novanta viene trasferito alla Marittima, dove vengono istituiti il puntofranco e i Magazzini generali. Nel 1902 occupa ormai 1.541 addetti e nel 1906 è diventato il secondo porto per traffico di merci, dopo Genova(60).
La concentrazione più bassa di manodopera si trova tra le industrie alimentari, del legno, lavorazione di spoglie animali, ecc. (586 imprese e 4.192 addetti, soltanto 7,1 addetti per impresa), mentre le industrie chimiche (vetrerie, ecc.) vedono la concentrazione più alta (37 imprese e 1.910 addetti, 51,6 per impresa). Il maggior numero di imprese si trova proprio nella prima categoria, la più tradizionale; mentre il maggior numero di addetti si riscontra ora nelle industrie che lavorano e utilizzano i metalli (276 imprese e 6.499 addetti). Si è visto anche un processo di meccanizzazione degli stabilimenti in generale. I settori che presentano maggior numero di forza motrice sono le industrie dei servizi collettivi, stabilimenti poligrafici, produzione di energia, luce, acqua, riscaldamento (60 imprese, 1.421 addetti, 1.421 CV) e quelle meccaniche-metallurgiche (1.207 CV). Questi due settori da soli impiegano più della metà della forza motrice censita in città. In un quadro comparativo, sulle dieci città italiane sopra i 150.000 abitanti, Venezia risulta, nel censimento industriale del 1911, settima come numero di cavalli-vapore per impresa e come numero di imprese per abitante, ottava come numero di cavalli-vapore pro capite. Dunque, nonostante le innovazioni, l’indubbia presenza di imprese meccanizzate e l’eccezionale numero di individui che professano mestieri nel settore secondario, Venezia non è ai livelli delle prime città per numero di imprese industriali né per tasso di meccanizzazione(61).
Per di più, queste trasformazioni avvengono in un quadro in cui non c’è una grande espansione del mercato del lavoro. La popolazione presente passa, dal 1871 al 1911, da circa 131.000 abitanti a 161.000. Si tratta di un aumento del 23% che però, come nota un testimone dell’epoca riferendosi al periodo 1901-1911, consiste nel più basso aumento percentuale di popolazione «di tutte le maggiori città d’Italia non esclusa Livorno»(62). Infatti sia la crescita naturale che quella migratoria risultano in questo periodo di tempo piuttosto contenute. L’aumento di popolazione avviene soprattutto dopo il 1882; nel ventennio 1882-1901 — dopo cioè la crisi agraria — è dovuto quasi esclusivamente all’apporto di immigrati; nel decennio 1901-1911 per metà all’arrivo di immigrati (considerando anche l’aumento di soldati nella guarnigione) e per metà all’eccedenza delle nascite sulle morti(63). L’immigrazione non incide quantitativamente sulla popolazione sia perché persiste un certo grado di emigrazione dalla città, sia per mancanza di spazio che possa ospitarla. Questa mancanza di spazio ha una ragione soggettiva e una oggettiva: la scelta dei gruppi dirigenti di non bonificare la laguna; l’impossibilità di creare alloggi, sviluppando gli edifici in altezza, perché le case sono costruite su tronchi d’albero conficcati nella melma e non reggerebbero l’aumento di peso. Ne consegue che le aziende hanno problemi di manodopera specializzata. A volte devono importarla loro stesse: è il caso del Cotonificio che peraltro ha lo svantaggio di voler tentare di introdurre in città una nuova industria(64). La classe dirigente che prima considerava gli immigrati una minaccia, ora li considera una risorsa(65). L’esistenza di un mercato del lavoro che, sebbene in continua trasformazione, non si espande alla stessa velocità di altre grandi città è un fatto cruciale per comprendere come sia qui possibile, forse maggiormente che altrove, la permanenza di atteggiamenti corporativi.
Nel corso degli anni, i miglioramenti igienico-sanitari abbassano il coefficente di mortalità in generale, ma di poco rispetto alle grandi città dell’Europa occidentale: l’aspettativa di vita è leggermente più lunga ma ancora a livelli da ancien régime(66). La beneficenza pubblica e privata riveste ancora un ruolo importante nel quadro di un’economia che resta caratterizzata dall’insicurezza del lavoro(67). Però alcuni miglioramenti nel tenore di vita di alcune fasce «operaie» sono intuibili, come esito dell’espansione dell’istruzione elementare e del successo dei sindacati, ma anche grazie all’ottenimento progressivo (ma ancora parziale) dei diritti elettorali che finiscono col porre la questione sociale al centro della vita politica, spingendo persino le giunte moderate a perseguire politiche «sociali». Per esempio, la giunta di Filippo Grimani prosegue e intensifica le attività di un organo comunale come la Commissione case sane, fondata nel 1893 dalla giunta progressista di Riccardo Selvatico. La sua politica di costruzione di case popolari, sebbene non adeguata ai bisogni, finisce col favorire un gruppo ‘privilegiato’ che può usufruire di case moderne a prezzo contenuto. Il Comune tra 1893 e 1913 costruisce 684 appartamenti per circa 4.000 persone, i cui capifamiglia appartengono alla classe degli arsenalotti, dei ferrovieri, dei gondolieri, dei fornai e dei facchini. Si tratta di quella parte delle classi popolari che è il nerbo del movimento socialista(68).
Francesco Fapanni, nel 1871, pare meravigliarsi che a Venezia si tenga una importante esposizione di fiori, frutta ed erbaggi ortensi: «in tale città unica singolare […] ricinta dalle salse onde del mare dove l’acqua potabile filtra quasi tutta per pioggie [...] in cui le selci e i marmi ricoprono il terreno; e dove quasi mai vedesi spuntare filo d’erba»(69). La morfologia nettamente circoscritta della città, in discontinuità e distacco fisico dalle zone rurali, sembra dunque conferirle un carattere iperurbano, incompatibile con l’idea di campagna. Si pensi solamente al fatto che qui gli abitanti del centro, se non possiedono una barca o non pagano qualcuno per portarli, non possono raggiungere i campi coltivati, e lo stesso vale per il tragitto inverso. Eppure questa immagine opera un torto a tutto quel mondo di orticultori e contadini dell’estuario che riforniscono quotidianamente di frutta e verdura i mercati di Venezia e Murano e che traggono i mezzi di sostentamento quasi esclusivamente da questa attività.
Certo, sono pochi gli orti urbani i cui prodotti vengono venduti al mercato: i più importanti si trovano alla Giudecca e a Murano(70). Ma lì vicino, tra laguna e mare, le zone verdi insulari e peninsulari costituiscono frammenti di campagna più o meno estesa, coltivata con successo a orti e frutta lottando contro il vento, l’acqua salsa, i fondi sabbiosi e la scarsità di acqua dolce(71). Nella gronda lagunare, soltanto a sud, sotto Chioggia, oltre Brondolo fino alle foci dell’Adige, si trovano altri insediamenti ortofrutticoli e agricoli. Il resto dei bordi sono quasi disabitati, a volte malarici (come — tra l’altro — certe zone del litorale, per esempio S. Nicolò del Lido), per lo più acquitrinosi, resi malsani dal mischiarsi di acque salse con acque dolci(72). Si tratta di aree spesso caratterizzate da valli da pesca, in cui viene praticata la caccia e talvolta, come nel comune di Campagna, si trovano alcune risaie; zone nelle quali i contadini della terraferma raccolgono legna da ardere, strame e fieno di qualità inferiore, canne e altre piante palustri per tessere le stuoie(73). Mentre brandelli di «laguna morta», di proprietà dei Comuni o del Demanio, sono dati in affitto per pochi soldi a privati, per lo sfalcio di erbe paludose(74). La campagna vera e propria si trova soltanto più all’interno, nelle aree più alte e asciutte, verso Cona, Cavarzere, Dolo, Mirano, Mestre o S. Donà. La situazione di quella più vicina, nel distretto di Mestre, coltivata prevalentemente a cereali e a vite, però, «lascia molto a desiderare», nonostante la presenza di una fiorente piccola industria di vacche da latte(75).
L’attività agricola dell’estuario veneziano la svolgono prevalentemente gli abitanti di Mazzorbo e Torcello (448 nel 1871), nella penisola del Cavallino (1.688), nelle isole di S. Erasmo e Vignole (243), nell’isola di Malamocco (2.096) e in quella di Pellestrina (6.253). Tre sono i tipi di coltivazione: la migliore è quella cosiddetta «a vigna» che, nei pressi dei centri abitati e concimata in modo razionale con i rifiuti e il letame urbano, produce uva mangereccia, pesche, fichi, fragole, fave, meloni e i prodotti di orto «più delicati e gentili»; poi c’è quella «a ortaglia», nelle zone più lontane dagli abitati, dove se c’è un fondo argilloso si coltivano carciofi, altrimenti si fanno crescere gli ortaggi «meno esigenti e più grossolani»; infine, i «coltivi da vanga», tra le dune, nella sabbia dissodata, concimata da alghe marine appositamente trattate e da letame da stalla, che danno patate, granturco, cipolle, cavoli, zucche, insalate, broccoli, asparagi e legumi. Tutti questi prodotti — molti dei quali prelibati e rinomati come l’uva mangereccia di Pellestrina e i meloni di Malamocco — alimentano non solo l’erberia di Rialto, ma anche la terraferma veneta, parte della Lombardia e, per ferrovia, Trieste e la Germania(76). Una relazione del 1886 per conto del Consorzio agrario addita i sistemi razionali di coltivazione in uso nel litorale veneziano (e in quello chioggiotto) come un esempio eccellente per il resto della provincia(77).
Quasi ogni giorno, all’alba, in barca, gli ortolani della Giudecca, del Lido, di Murano, S. Erasmo, Treporti, Cavallino, Lio Maggiore, Lio Piccolo, Mazzorbo, Torcello, La Cura, Malamocco, Pellestrina e Sacca Sessola portano i loro prodotti al mercato delle erbe a Rialto(78). A Venezia non vengono però venduti solo i prodotti litoranei: un pendolarismo quotidiano di donne da Mestre e Campalto porta il latte; le migliori zucchine arrivano da Mestre; da Chioggia provengono cavoli, finocchi e pomodori; da Feltre e Montebelluna, le noci; dal Polesine, Ferrara, Rimini e Brindisi, le angurie(79). Da fuori della laguna vengono pure la carne e il vino, che, anche per i viaggi che devono sopportare, creano problemi di adulterazione. Peraltro Venezia-città allora era un luogo noto per le diffuse pratiche di sofisticazione del vino(80).
Nell’estuario, gli orti e i campi sono frazionatissimi e quasi tutti di proprietà di veneziani che si astengono dalla conduzione. I proprietari di appezzamenti in comune di Burano (a Torcello, Mazzorbo e nella penisola del Cavallino), secondo un’inchiesta del 1872, posseggono in media appena 1,30 ettari a testa; in quello di Malamocco, 1,58. I campi vengono affittati a un numero ancor più grande di coltivatori, in affitto a denaro soprattutto a Treporti e Cavallino, o misto a S. Erasmo(81). Secondo quanto finora emerso, per via della «industriosità» degli agricoltori e della qualità dei prodotti, soprattutto gli orti dentro la cinta daziaria di Venezia sono in grado di produrre spesso buoni guadagni(82). Nel comune di Murano (leggi Vignole e S. Erasmo) gli operai agricoli possono guadagnare, nella prima metà degli anni Ottanta, tra le 7,50 e le 9 lire per settimana, quando in quello di Malamocco il salario medio è di circa 1,50 lire al giorno e nel distretto di Mestre di appena 1 lira(83). I prezzi medi dei beni ortali venduti oscillano tra 3.000 e 3.800 lire l’ettaro a Pellestrina, tra 3.000 e 3.500 lire a Murano, mentre per i terreni in generale tra 2.000 e 2.400 a Malamocco, tra 1.000 e 2.000 lire a Pellestrina e Burano, tra 600 e 1.200 nel distretto di Mestre(84).
La remuneratività degli orti suburbani è una caratteristica simile ad altre città. Ciò che distingue il caso veneziano è che — almeno in questa fase — i coltivatori non riescono ad accumulare risparmi per acquistare la terra che lavorano, né a migliorare le loro condizioni. Ci sono diverse spiegazioni: le (pur rare) alte maree, i cui danni al raccolto sono tutti a carico del coltivatore; gli affitti alti (probabilmente a causa della scarsità di terreni coltivabili e dell’impossibilità di aumentarne la superficie, resi impraticabili i tentativi di bonifica per la difesa della laguna e il conflitto con gli interessi della pesca); il fatto che il mercato è gestito da un monopolio di negozianti mentre gli agricoltori vengono da lontano, da luoghi divisi, in concorrenza. Soprattutto chi percorre lunghi tratti con la barca per arrivare in erberia ha più premura di intascare il denaro e tornare che di investire tempo nelle trattative; anche perché non può permettersi di non vendere e riportare la stessa merce la volta dopo, con il rischio che una parte deperisca(85).
Lo strapotere dei negozianti di Rialto, che sembrano godere persino di «un diritto ereditario» di fatto a possedere in conduzione gli stazi, è in vari momenti oggetto di discussioni e critiche in città, anche se più per la questione del caroviveri(86). C’è chi ipotizza la costituzione di spacci nei quali i produttori vendano direttamente ai consumatori, ma non se ne fa niente(87). La situazione negli anni Settanta è che il 70% dei fittavoli del litorale lagunare sono indebitati con i padroni, anche per un anno di affitto non pagato. Perciò nonostante la loro relativa autonomia, per il disinteresse dei proprietari, gli ortolani dipendono fortemente dalla loro discrezione, potendo questi ultimi chiudere o meno un occhio o troncare il contratto per mancato adempimento(88). Questo non vale per l’isola di Pellestrina, nella cui parte meridionale prevale la piccola proprietà conduttrice. Neanche questo è però preludio di ascesa sociale, perché gli 85 ettari coltivati sono divisi tra 500 proprietari che posseggono in media soltanto 0,17 ettari a testa, molti dei quali probabilmente solo per autoconsumo(89).
Nel 1871 nel circondario di Venezia risultano 1.515 persone dedite alla pesca e alla caccia (il 2,4% degli attivi), in quello di Chioggia — che include il comune di Pellestrina — sono 2.549 (11,5%). Si tratta, in grandissima parte, di uomini (3 donne in quello di Venezia, nessuna in quello di Chioggia)(90). L’economia della caccia è più marginale, svolta anche da pescatori per arrotondare i guadagni, con le reti o il fucile. Fra le cacce col fucile, c’è quella «vagantiva di laguna», prediletta dai pescatori d’inverno quando non si va a pesca: il cacciatore gira col suo sàndolo vogando alla veneta; quando vede le prede, si avvicina silenziosamente remando con un remo più piccolo detto pènola; una volta che è a breve distanza, spara con lo sciopòn «a tradimento», prendendo in genere da 2 a 10 individui o persino una ottantina, quando c’è ghiaccio. Gli animali uccisi poi finiscono, insieme ad altre cacciagioni selvatiche e al pollame, nei numerosi negozi dei galineri della città. Le cacciagioni più rinomate: le anatre e le folaghe. Non sono però sufficienti a soddisfare le richieste cittadine di selvaggina. Lo stretto legame tra caccia e pesca in laguna è ribadito dal fatto che molta caccia col fucile — tra cui anche la caccia «di botte» (il cacciatore nascosto nei tini attira gli stormi con delle finte anatre, e poi spara) — si svolge nelle valli private da pesca: alcuni piscicoltori hanno i propri scioponanti, cacciatori con lo sciopòn, o cedono il diritto di caccia in cambio di un compenso(91).
Più rilevante la pesca della caccia. Nella zona intorno a Venezia ce ne sono quattro tipi: quella di alto mare, svolta da pescatori chioggiotti nell’Adriatico e nello Ionio — circa 2.000 uomini, quattro volte l’anno, salpano da Chioggia su 500 bragozzi e tartane —, è la pesca più rischiosa e remunerativa, il cui prodotto viene venduto persino in Istria e Dalmazia, e consiste in un’infinità di pesci (tra cui dentici, sampieri, merluzzi, calamari, seppie, sogliole, canestrelli); quella lungo le coste del mare, esercitata soprattutto da chioggiotti e pellestrinotti (ma anche da buranelli, caorlesi e veneziani) su bragozzetti, che prendono tra l’altro sardine, sogliole, polipi, seppie nostrane, ecc.; quella vagantiva in laguna, esercitata da pescatori di Burano, Pellestrina, Malamocco, Venezia (Giudecca e S. Nicolò dei Mendicoli), su bragagne, granzere, batèli da mestierèto, sàndoli, che catturano granchi, cozze e anguille (queste ultime vengono esportate a Napoli per il Natale); quella nelle valli salse della laguna nelle quali si allevano diversi tipi di pesce tra cui orate, anguille, sardine, ecc.(92). La pesca segue antichissime convenzioni e diritti attribuiti alle diverse comunità (buranelli, nicolotti, pellestrinotti, ecc.), sfuggendo al controllo della legge che da un lato stabilisce la libertà di pesca e dall’altra vuole regolamentarla per evitare la distruzione di animali acquatici immaturi(93). La competizione tra i pescatori è tale che non possono permettersi di osservarla. Ricorrono all’usura per acquistare gli strumenti di lavoro, difficilmente riescono a risparmiare. Si tratta perciò di comunità molto povere, in preda all’insicurezza per i tempi e gli esiti discontinui della pesca(94).
Inoltre — come gli ortolani — i pescatori devono fare i conti con numerosi intermediari e negozianti che vengono accusati di «lucri eccessivi», anche se negli spacci a S. Pantalon e ai Giardini si esercita la vendita diretta, che però ha lo svantaggio di sottrarre momentaneamente manodopera alla pesca(95). Nel 1889, Bartolomeo Cecchetti racconta che le compravendite avvengono ancora come sotto la Repubblica. Le barche «approdano, e sbarcano i canestri nel breve spazio del negoziante al quale lo portano. Questi, contornato dai compratori, ascolta secretamente (all’orecchio) le offerte; e senza che sia noto il prezzo al quale è venduto, il pesce sollecitamente viene trasportato dall’acquirente»(96). I pescatori effettuano ancora i conteggi in lire venete: «p.es., una specie di V rovescio e tagliato in mezzo da un’asticella verticale, indica 50; un O tagliato da una linea orizzontale, 100; i soldi si indicano con altrettante lineette». Anche se «il leggere e lo scrivere meno rari» li rendono «meno primitivi»(97).
Quello degli ortolani e quello dei pescatori dei suburbi veneziani sono due mondi a stretto contatto tra loro, con un rapporto organico e di dipendenza con la città: anche la pesca alimenta un pendolarismo quotidiano verso Venezia per la vendita della merce. Ma esprimono anche una separatezza dal capoluogo. Gli abitanti dei suburbi — che hanno credenze e culture materiali proprie — vengono guardati dall’alto in basso dai veneziani. Sono radicati fortemente ai loro luoghi di origine, nei quali le famiglie sono più patriarcali e la vita è maggiormente scandita dalle feste religiose. Nelle parrocchie dei comuni di Burano, Pellestrina e Malamocco il prete ha un ruolo più centrale che a Venezia e Murano. Nell’unico comune lagunare privo di centri superiori ai 3.000 abitanti — quello di Malamocco — i possidenti terrieri veneziani mantengono una certa influenza politica, perlomeno alcuni di essi entrano in consiglio comunale, eletto — per il suffragio ristrettissimo — dai pochissimi elettori del periodo postunitario (nel 1867, 2 veneziani su un totale di 15 consiglieri)(98). Questo avviene però in minor misura rispetto a zone della terraferma nelle quali in genere gli interessi agrari sono maggiori, per le estensioni dei terreni (a Favaro vengono eletti, nel 1867, 6 possidenti e negozianti veneziani su un totale di 14 consiglieri)(99). Il centro urbano di Burano fa caso a sé perché vede l’ascesa di una classe «dirigente» autonoma, fatta di biadaioli, macellai, squeraroli e osti, in contrasto con i possidenti terrieri(100). Anche qui si tratta di una classe ristrettissima: nel 1869, su una popolazione comunale di 6.801 abitanti, 207 hanno diritto di voto dei quali solo 131 vanno a votare(101). Il conte Roberto Boldù si fa promotore del distacco della parte rurale del comune (le frazioni di Mazzorbo, Torcello, Treporti e Cavallino) dal capoluogo (Burano): la cosa finirà nel nulla, ma evidenzia rivalità e conflitti d’interesse tra un centro urbano povero e una campagna che costituisce gran parte del censo(102).
Da quanto finora emerso, nei suburbi, si può dire, al contrario di Venezia, non si sviluppano rilevanti movimenti sociali prima della Grande guerra, né rilevanti forme di associazionismo o di cooperazione, se non quelle legate alle parrocchie (un esempio per tutti, la cassa rurale fondata dal cappellano di Gambarare, Luigi Cerutti, a Treporti nel 1892)(103). Gli educatori del popolo laici non si occupano molto degli ortolani e dei pescatori, tranne il naturalista David Levi-Morenos che propone che lo Stato ceda spazi acquei a collettività di pescatori, anticipando i mezzi per l’acquisto di strumenti di lavoro, per diminuire la competizione(104). Ma i suoi tentativi di incoraggiare l’istituzione di cooperative incontra ostacoli insormontabili perché tra i pescatori esiste solo la momentanea associazione per una pesca, per una o più stagioni, ma non oltre, perché «lo spirito di solidarietà è poca cosa quando il procurarsi il vitto dipende dall’avere in minor numero possibile i compagni di lavoro»(105). La Società regionale veneta della pesca da lui fondata nel 1893 fallisce l’obiettivo di unire i pescatori in una Società di previdenza e sussidio al lavoro(106). Mentre assente, su tali questioni, appare la Camera del lavoro che, del resto, è molto ‘operaiocentrica’. Per i socialisti queste zone restano perlopiù ancora off limits. Girolamo Li Causi ricorda che a Burano, ancora poco prima della Grande guerra, «come ci accingevamo a scendere dal vaporetto, erano aggressioni a bastonate, a sassate»(107).
Per quanto o, forse, proprio perché le loro esistenze vengono descritte come «povere e oscure», viene però manifestato un certo interesse da parte di alcuni scrittori nei confronti dei pescatori(108). Giandomenico Nardo nel 1871 raccoglie alcuni canti e credenze, soprattutto di Chioggia, perché, dice, «di Burano non si conoscono o non sono rimaste vere e proprie canzoni popolari originali». Racconta di un mondo di uomini che devono affrontare i pericoli del mare, attrezzando i bragozzi «da battaglia aspra e violenta». Molti sono i santi «‘specializzati’ nel salvataggio»; le magie, i sortilegi, le stregonerie, i filtri, gli scongiuri, le letture delle carte; i viaggi con l’ammalato a chiedere preghiere e consigli ai padri armeni nel convento dell’isola; i lamenti delle vedove di pescatori morti in mare. In buona parte tramontato è il ricorso a vecchi pescatori per esorcizzare le punture dei pesci velenosi. Mentre tutta una serie di detti tramanda ancora le conoscenze meteorologiche (co lampe a ponente, no lampe per gnente) e la previsione delle maree (l’acqua sei ore la cala, sei ore la cresse)(109). Verso gli ortolani non viene invece espressa la stessa attenzione folcloristica, forse perché l’agricoltura è estranea alla «ideologia veneziana» di questi anni, tutta volta a esaltare il rapporto col mare.
I legami tra Venezia e i suoi suburbi non si limitano al rifornimento di frutta, verdura, cacciagione e pesce. Certo, con le altre isole (a parte la Giudecca) non c’è lo stretto rapporto che intercorre con Murano, i cui abitanti, a quanto ci racconta Pietro Manfrin, «passano la giornata» nei sestieri dove, fra l’altro, «vanno a finire e si smerciano tutte le sue produzioni»(110). Venezia però è anche il luogo di vendita di manufatti prodotti nel circondario e mercato del lavoro per impieghi che rendono queste aree più differenziate socialmente, non soltanto perciò dedite alla pesca e all’orticoltura. Basti citare l’esempio della Società per la manifattura veneziana dei merletti fondata da Michelangelo Jesurum negli anni Settanta che rianima un’industria quasi estinta aprendo diverse scuole e dando lavoro alle donne. Nel 1879 risultano già 1.900 merlettaie a Pellestrina e 348 a Burano, tra le quali sicuramente molte minorenni(111). Si tratta di manodopera domestica a basso costo, ma questo nuovo reddito, forse, frena in qualche misura lo spopolamento di queste isole, pur senza sradicarne la povertà. Peraltro, scorrendo tra le fonti, si trovano buranelli dediti al contrabbando e pellestrinotti impiegati nello scavo dei canali(112). A Pellestrina e Burano esistono alcuni cantieri per la costruzione di barche e nel comune di Burano, nell’isola di S. Felice, è attiva una salina demaniale, data in concessione al barone Salomon Rothschild, che nel 1886 impiega 131 operai(113).
Tra 1866 e 1915 i suburbi non sono esenti da trasformazioni. La morfologia della laguna continua a cambiare. Continua l’ingrandimento della penisola del Cavallino che, per via dei detriti del Piave, separa sempre più S. Erasmo dal mare, proteggendola dai venti e quindi rendendola ancora più prolifera (la popolazione di S. Erasmo-Vignole vede in questo arco di tempo un vistoso aumento)(114). La salina di S. Felice viene chiusa nel 1907 dal magistrato alle Acque che non rinnova la concessione(115). Mentre è in atto un processo che gradualmente cambierà l’equilibrio demografico tra le diverse parti: Pellestrina perde abitanti, Burano e Malamocco crescono di poco, mentre il Cavallino e il Lido vedono un notevole aumento(116). Il primo resta un’area principalmente dedita all’orticoltura, il secondo, invece, diventa zona turistica e residenziale estiva. Le trasformazioni più forti avvengono proprio qui: con l’apertura dell’Hotel Des Bains (1889) e dell’Excelsior (1909), l’arrivo dell’acquedotto (1901) e l’istituzione di un tram elettrico (1907)(117). Questi fenomeni e nuove funzioni sono alla base dell’allargamento dei confini comunali: il Comune di Malamocco viene soppresso nel 1883 e incorporato in quello di Venezia. Negli anni Settanta il Comune di Burano aveva chiesto l’unificazione a quello di Venezia, come occasione per migliorare le proprie condizioni. Il consiglio comunale veneziano si era opposto, 13 sì e 22 no, nel timore che questo costituisse soltanto un peso economico in più. I consiglieri avrebbero preferito annettersi il Comune di Murano, che si era invece dimostrato geloso della propria autonomia forte del proprio carattere «industriale»(118).
Nei primi decenni postunitari, come ci si potrebbe aspettare da un’economia instabile e caratterizzata da disoccupazione ricorrente, i principali conflitti sul lavoro riguardano la richiesta di lavoro e la difesa del posto. I manovali disoccupati per esempio rivendicano un diritto all’impiego nelle opere pubbliche secondo l’uso della Serenissima e dell’Impero asburgico(119). Nel 1866-1867 reclamano «pane e lavoro» davanti ai cantieri e ai palazzi delle autorità. Formano deputazioni per ottenere udienza, firmano petizioni, denunciano irregolarità negli appalti(120). A volte gli assembramenti diventano minacciosi ed una volta viene sfondata la porta del Municipio(121). Altra volta, burchiai e scalpellini disoccupati prendono a sassate un impresario(122). Il questore capisce come la mancanza di lavoro sia un’automatica minaccia alla tranquillità pubblica e già vede le prime avvisaglie del «comunismo»: tra il «popolaccio» qualcuno avrebbe detto che è giunta l’ora di mettere «il piede sul collo» ai padroni e alcuni «facchini coscienziosi» sarebbero andati da un notabile a chiedergli se fosse vero(123). I facchini, seppure non organizzati formalmente, cercano di ritagliarsi competenze territoriali e durante la crisi delle conterie del 1870, prima dell’intervento delle autorità, a quelli di Murano è impossibile cercare lavoro a Venezia per l’opposizione dei colleghi veneziani(124). Nel 1868, i gondolieri esigono l’abolizione della nuova linea a vapore tra Venezia e Lido presentando una istanza al prefetto: l’imprenditore «ride befegia […] e fa man bassa come crede» — scrivono — togliendo col suo «Vapore» il sostentamento a 220 persone che sarebbero state presto costrette a commettere «disordini più che giusti»(125).
La novità è però che con l’Unità d’Italia e l’entrata in quello che, bene o male, è un regime liberale, vengono fondate, stando ai dati raccolti da Errera, sette nuove società di mutuo soccorso «operaie» che si aggiungono a una preesistente, quella degli smaltai e perlai di Murano, fondata dal parroco di S. Pietro Martire, don Nichetti, e che però si configura più come una «confraternita» devota a s. Nicolò il cui scopo è distribuire assegni per malattia, pensione, invalidità e morte. Queste nuove società, sebbene non rappresentino che una piccola parte della classe lavoratrice, sono assai significative perché, nei casi in cui sono guidate da persone del mestiere, si fanno a volte controparte di fronte ai padroni, e sostengono interessi economici e «privilegi» dei soci nelle vertenze difendendoli dalle insicurezze e ingiustizie del «mercato». La società dei calzolai e quella dei sarti cercano di impedire, anche con minacce ai proprietari, la vendita di scarpe e di stoffe fatte a macchina che costano meno di quelle fatte artigianalmente(126). La società dei sarti e quella dei tipografi hanno come scopo l’imposizione di una tariffa unica sul lavoro(127). Alcune società appaiono come un ritorno più o meno consapevole alle vecchie corporazioni, anche sul piano simbolico: per esempio la Pescatori compra-vendi dell’Angelo Raffaele apre una vertenza contro il parroco della chiesa per ottenere l’antico vessillo dei nicolotti sostenendo che le spetta di diritto(128). E sempre tra i nicolotti nel 1877 nasce la Lega di fratellanza tra calafati e carpentieri del porto di Venezia il cui scopo è «aiutarsi reciprocamente, lavorando a turno nei diversi cantieri», ripartendosi i guadagni, ma che ben presto diventa nota in prefettura per i suoi tentativi di escludere dagli impieghi a Dorsoduro i loro colleghi-rivali di Castello e stabilire in quella zona un monopolio del lavoro(129).
Tra il 1868 e il 1878 abbiamo anche casi di società che svolgono la funzione di casse di resistenza. Per esempio la Società della libertà fondata dagli arsenalotti cerca di assegnare sussidi agli operai licenziati per indisciplina in seguito alle agitazioni per contestare la diminuzione di paga e di lavoro e le minacce di licenziamento(130). Così, ancora, la Società lavoranti sarti mette a disposizione i propri fondi per finanziare uno sciopero il cui scopo è l’imposizione di una propria tariffa di lavoro ai negozianti(131). Negli anni Ottanta invece sorgono le leghe di resistenza. La differenza tra queste e le società di mutuo soccorso è che lo statuto delle prime esclude dall’associazione gli imprenditori, dei quali non ci si fida, e pone l’accento delle attività sulla rivendicazione dei diritti degli operai, prevedendo esplicitamente anche la possibilità di finanziare gli scioperi necessari per sostenerla. Per esempio, lo statuto della Società mutua e di resistenza fra muratori, manuali e falegnami, fondata nel 1888, fissa come ragione sociale l’emancipazione dei lavoratori e la lotta «affinché il capitale passi al servizio dei lavoratori», proponendo come fini immediati: «1. La diminuzione delle ore di lavoro; 2. L’aumento del salario; 3. La retribuzione a ora anziché a giornata; 4. La sorveglianza nei lavori per garantire la vita degli operai». In caso di sciopero tutti i soci «sia muratori che falegnami devono rendersi solidali sia materialmente che moralmente». Lo statuto prevede sussidi per malattia e dichiara esplicitamente che non possono prendere parte all’associazione «né ingegneri, né proprietari di stabilimenti, né capi-fabbrica, né proprietari di qualsiasi genere, neppure in qualità di soci onorari perché sono quelli che con parole di illusione cercherebbero il loro interesse, [lasciando gli operai] sempre calpestati e oppressi»(132).
Questi esempi sono tutti riconducibili a un modello di soluzione dei conflitti nel quale gli operai contrappongono alla forza economica dei padroni la minaccia di disordini o di agitazioni, passando anche alle vie di fatto. Tuttavia, la caratteristica di tale fase è che queste vertenze restano sostanzialmente isolate, non aggregano altre categorie in solidarietà, tranne rarissimi casi.
Gli esempi citati non rappresentano che una minoranza delle società di mutuo soccorso del primo quindicennio postunificazione. Rispetto al 1868, nel 1878 il numero delle associazioni risulta ulteriormente aumentato, anche se il numero di soci è diminuito e quasi tutte le società ora hanno al loro interno dei soci onorari(133). Questi soci possono ricoprire diversi ruoli: quello di sponsor finanziario dell’associazione (le società di mutuo soccorso fanno una certa fatica a sopravvivere perché l’intermittenza del reddito da lavoro non consente neppure alle categorie con reddito più stabile, che poi sono quelle che si dedicano al mutualismo, di versare con continuità le quote), quello di tutori-educatori (come Errera e altri che guidano le società nell’alveo di un mutualismo scientifico, che fissa per esempio le quote sociali in rapporto alle probabilità del singolo di contrarre malattie), quello di semplici garanti, ma anche di veri e propri patroni(134). Persone estranee al mestiere a volte assumono il ruolo di referenti per la soluzione dei conflitti che coinvolgono una determinata arte, prestandosi a fare da intermediari, a patto che l’arte rinunci a usare lo sciopero come mezzo di soluzione delle vertenze. I casi sono molti: su tutti spicca il ruolo interpretato dai direttori dei giornali «Il Tempo», «La Stampa» e «Il Rinnovamento» nell’ottenere miglioramenti per gli operai, smorzando così gli scioperi dell’agosto 1872, e il ruolo di quest’ultimo nel prevenire in modo analogo un minacciato sciopero dei fornai che avrebbe paralizzato la fornitura di pane in città(135). Lo stesso Municipio e il prefetto talvolta intervengono nelle dispute per ottenere qualche miglioramento per gli operai. Peraltro queste due autorità non sono esenti dall’incoraggiare il mutualismo operaio, non solo per lenire le tensioni e le sofferenze provocate dalla disoccupazione, per problemi di ordine pubblico e di pace sociale, ma anche perché la cooptazione del «ceto di mezzo», le classi popolari capaci di risparmio, è ritenuta fondamentale per lo sviluppo economico e civile della città e, inoltre, per evitare che finiscano nell’alveo di forze antigovernative. Così per esempio vengono incoraggiate la cooperativa di lavoro Carpentieri e calafati e quella della società Compositori e tipografi alle quali si cerca di assegnare commesse(136). Così anche il Comune decide di dirigere il residuo del fondo disoccupati verso la promozione e il sussidio del mutualismo «operaio»(137).
Diversi democratici sono fin dall’inizio attivi nelle società di mutuo soccorso, anche come soci onorari. Negli anni Sessanta-Settanta, come i riformisti moderati, i mazziniani e i progressisti le hanno anche promosse, osteggiando anch’essi gli scioperi, ritenuti irrazionali e dannosi alle stesse classi operaie. Se i moderati pensano che le miserie e i problemi dei lavoratori debbano risolversi con l’intervento di scienziati, avvocati e imprenditori illuminati che con amorevole cura avrebbero provveduto (mutualità, casse di risparmio, cooperative, atteggiamento più responsabile degli imprenditori), i secondi puntano all’ottenimento di una legislazione e una politica più favorevole ai lavoratori. Negli anni Ottanta però l’utilità dello sciopero e della resistenza comincia a essere riconosciuta in ambienti democratici e repubblicani. Il clima è cambiato in tutta Italia e a Milano viene fondato il partito operaio che apertamente appoggia le leghe di resistenza e le associazioni esclusivamente operaie.
La fondazione della Camera del lavoro può suggerire l’idea di una continuità nel tempo della struttura dell’economia delle classi popolari (basata sull’insufficienza del lavoro) ma pure una certa continuità di intervento (solidarismo, mediazione, associazionismo), anche se i tempi sono cambiati. Dopo la fondazione delle Camere del lavoro di Torino, Milano e Piacenza, il 15 gennaio 1892, nella sede della Società generale operaia, i rappresentanti di alcune società di mutuo soccorso decidono di istituirne una a Venezia. Dieci mesi dopo votavano lo statuto e chiedevano un sussidio al Comune.
Le società che promuovono e aderiscono alla Camera del lavoro sono in parte le stesse che hanno formato il nucleo storico del mutualismo negli anni Sessanta-Settanta: la Società generale operaia, la Lavoranti sarti, la Compositori e tipografi, la Lavoranti prestinai e la Carpentieri e calafati. Nessuno dei vecchi dirigenti è però tra i «benemeriti che contribuirono alle spese iniziali». C’è stato probabilmente un ricambio generazionale.
Nell’associazionismo operaio degli anni Novanta c’è un’anima nuova, insoddisfatta del vecchio mutualismo, vicina all’operaismo economico e alle leghe di resistenza. Il primo presidente della Camera veneziana è il «democratico» Antonio Marson. In un saggio venduto per raccogliere fondi per la sua costituzione, scrive che le società di mutuo soccorso sono ormai «foglie secche»: si sono occupate solamente dei casi eccezionali della vita del lavoratore (infortuni e malattie) e non della necessità quotidiana, la difesa dell’unica merce che vende, la forza lavoro. Nonostante viga l’eguaglianza di diritto, secondo Marson, il lavoratore è vittima di una diseguaglianza di fatto. I contratti non sono liberi né paritari. Il padrone può fissare il salario e la lunghezza del lavoro e lo fa a proprio vantaggio perché ha interesse ad accrescere la produzione ed il profitto. L’operaio che invece ha interesse a vendere la propria merce-lavoro per ottenere un’alimentazione e un riposo che lo rimettano in grado, ogni giorno, di riprodurla nuovamente sul mercato, si trova indifeso. È necessario che i lavoratori si organizzino per far sì che i padroni trattino con loro «da potenza a potenza». Senza associazione il lavoratore non è in grado di vendere la propria forza lavoro vantaggiosamente né di ottenere un aumento di mercede quando la domanda di lavoro cresce. «Badino [i lavoratori] che senza Associazioni e senza la più seria organizzazione di classe, nulla potranno mai conseguire di positivamente benefico col nostro organismo sociale»(138).
Anche la Relazione presentata dalla Commissione esecutiva [della Camera del lavoro] all’Onor. Municipio di Venezia il giorno 11 Dicembre 1892, rivendica l’esperienza delle leghe di resistenza, considerandole un passo avanti rispetto alle società di mutuo soccorso che non erano state in grado di organizzare una «vera difesa razionale del lavoro». L’assenza di «coesione» tra gli operai viene considerata come una delle cause principali di miseria. La Camera vuole federare le associazioni operaie, educare i lavoratori alla fratellanza e alla solidarietà, ponendo fine alle rivalità tra di loro, disciplinarli e renderli coscienti, creare una grande famiglia, tutti uniti come un solo uomo per «il miglioramento morale e materiale del proletariato». Anche qui: organizzare «le masse operaie» perché «di fronte alle classi capitalistiche rappresentino una forza altrettanto potente e necessaria» che doveva essere trattata «alla pari»(139). La Camera così si appella: «Smettete di guardarvi arcignamente, obliate i tristi ricordi del passato e — di fronte le comuni calamità — stringetevi finalmente in un fraterno amplesso di amore, per porre un argine con l’unione solidale delle vostre forze ai mali che vi opprimono tutti».
Ora, espressioni come «organizzamento delle masse» e «organizzare la classe», l’idea di rendere gli operai «coscienti», il dire che operai e padroni abbiano interessi diversi, il fatto che la solidarietà tra operai di cui si parla non è imparare insieme a non spendere soldi in osteria, a risparmiare per aiutarsi nei momenti di difficoltà, ma quella di formare un fronte comune, per comunanza di interessi, per creare una controparte ai padroni, paiono indicare una vicinanza col socialismo classista. Significativo che nella Relazione non si parli di «confratelli» ma di «compagni». Il saggio di Marson si chiude parlando di «nuovo sole che sorge»(140). D’altronde quello che dicevano lui e gli altri non si discosta dalle critiche che il socialista umanitario del partito operaio di Milano, Osvaldo Gnocchi-Viani, muove al mutualismo. Questa vicinanza trova riscontro nel fatto che alcuni socialisti fossero attivi nella Camera e che il primo segretario fosse Carlo Monticelli(141).
Dopo un solo anno di attività la Camera, che ha organizzato leghe di resistenza e sostenuto vertenze che considera giuste, inviato telegrammi e sostenuto congressi, viene accusata di fare politica e «lotta di classe». Dopo alcuni anni le sono tolti i fondi del Municipio, sorte peraltro condivisa da altre Camere.
Detto questo, va sottolineato che, nei documenti citati, i primi leaders della Camera non esprimono un programma socialista. Non indicano come obiettivo la creazione di una società senza classi, l’abolizione della proprietà e del denaro, la socializzazione dei mezzi di produzione o più semplicemente l’azione politica autonoma della classe operaia. Secondo quanto dice la Relazione, il nemico da abbattere non è né il capitale né i ricchi, ma una dottrina economica: il laissez-faire. Il regime liberistico, con il libero scambio, la libertà del lavoro e dei contratti, ha sì accresciuto la ricchezza e la produzione, ma anche causato la miseria della classe lavoratrice e gravi problemi per la società. Gli imprenditori stessi sono vittime soggettive del laissez-faire. Per quanto animati dalle migliori intenzioni, sono costretti a non potere migliorare le condizioni dei propri dipendenti per non essere anche loro schiacciati dalla furia della concorrenza. Gli estensori della Relazione non fanno dunque una critica radicale al capitale, come fa Karl Marx con l’analisi del plusvalore. Non si pongono la questione di chi sia la proprietà dei mezzi di produzione. Più che a Marx (il cui Capitale, del resto, scritto tra il 1861 ed il 1865, non è ancora stato pubblicato integralmente in tedesco), l’analisi economica della commissione si avvicina a quella dei riformatori moderati del ‘socialismo della cattedra’ che propongono semplici correttivi al sistema del libero mercato, senza veramente minare i principi dell’economia classica, muovendosi dunque, dal punto di vista marxista, in un’ottica «ancora borghese». La Camera vuole infatti raggiungere una nuova armonia sociale sostituendo alla concorrenza la solidarietà e allo strapotere del capitale un sistema dove il lavoro acquisti piena cittadinanza e parità: capitale e lavoro, entrambi «potenti e feconde energie, fonti universali d’ogni prosperità e progresso»(142). Quest’ultima espressione sembra tratta da un qualsiasi manuale di economia politica interclassista.
Secondo Marson lo sciopero deve essere un mezzo estremo, al quale ricorrere solo dopo il fallimento di ogni accordo. Meglio sempre l’arbitrato che lo sciopero. Cita l’esempio inglese: gli sforzi per istituire corti di conciliazione e le multe che le Unions impongono ai soci che «precipitano inconsideratamente uno sciopero, e lo rendono perciò antipatico»(143). Invece che fare i soliti scioperi, lasciare il lavoro per poi cedere alle pretese padronali, col risultato di vedere peggiorate le proprie condizioni, perché non usare lo sciopero con «prudenza e interesse», attraverso organizzazioni di resistenza? L’obiettivo allora è rendere più robusti gli scioperi, ma anche diminuirne la quantità.
La Camera viene fondata in un momento di particolare crisi. Tra il 25 dicembre 1892 e il 14 gennaio 1893, 1.600 operai si trovano senza lavoro. Affamati e disoccupati minacciano l’ordine pubblico. Ci sono arresti. La giunta è preoccupata e chiede alla Commissione esecutiva provvisoria se in cambio del sussidio richiesto e di una sede si sente in grado di «sedare» (le parole sono di Marson) — mettendosene a capo — questo movimento. Il primo atto della Camera è — dice Marson — «un vigoroso appello ai disoccupati, esortandoli alla calma». Il secondo, l’esortazione ai benestanti che devono ricordarsi con intelletto d’amore delle classi povere. Apre una sottoscrizione. Sollecita lavori dal Municipio. Procura lavori. Distribuisce sussidi. Seda gli scioperi. Chiede ai politici di ottenere dal governo finanziamenti per lavori. Favorisce e organizza l’emigrazione. Ottiene per alcuni operai sussidi dalla congregazione di carità(144).
Alla fine del 1913, la Camera del lavoro è molto diversa da quella delle origini. È egemonizzata dai socialisti. È costituita da 33 sezioni per un totale di 4.631 uomini e 300 donne, tra arsenalotti, tabacchine, portuali, tipografi, elettricisti, ferrovieri, fiammiferai, facchini, gondolieri, gasisti, ghiaiaiuoli, venditori girovaghi, infermieri, tipografi, litografi, legatori, muratori, metallurgici, mosaicisti, orologiai, panettieri, postelegrafonici, spazzini, sarti, scalpellini, tranvieri comunali, tappezzieri, vetrai, ecc.(145). Incoraggia una ritualità collettiva e «di classe», come per esempio gli scioperi del 1° maggio che a Venezia decollano con il 1905, riuscendo a entrare in sintonia con la sociabilità veneziana, fornendo anzi un luogo di incontro nodale(146). Racconta Li Causi: «ogni lega aveva il suo ufficio, il suo sgabuzzino, e mi colpì il fatto che la vita sindacale si svolgesse, nei giorni feriali, la sera; il segretario della lega, al termine del proprio lavoro normale, passava quotidianamente due o tre ore nell’ufficio della lega, dove riceveva gli iscritti, dava spiegazioni, raccoglieva le quote e tutto questo lo faceva gratuitamente. La Camera del lavoro era animatissima; in tempi ordinari le assemblee si facevano sempre la domenica mattina e in quelle occasioni i saloni si riempivano. Anzi le varie leghe dovevano fare attenzione a prenotare in tempo la sala e a rispettare gli orari, per non intralciarsi reciprocamente nell’attività»(147). Attorno alla Camera del lavoro si costituisce una trama di solidarietà non solo locale ma anche nazionale, all’interno della quale si collocano le diverse agitazioni. Alcuni agitatori socialisti si occupano dell’organizzazione del movimento e il loro compito è quello del «surriscaldatore», del «suscitatore di entusiasmi» che deve mantenere «alta la pressione, la carica»(148). Il Partito Socialista Italiano ritiene la capacità di organizzazione una componente fondamentale per il movimento operaio. Di più: sostiene che negli scioperi si cementa l’unione e la coscienza di classe. In questo quadro lo sciopero diventa lo sbocco naturale delle vertenze. Con questo sistema, i lavoratori ottengono alcuni risultati e gli imprenditori vengono a patti con le associazioni «rosse». La prontezza con cui il P.S.I. risponde alle proteste sociali è qui peraltro favorita dal fatto che il partito non è mai al governo cittadino. La Camera è a volte capace di mobilitare i lavoratori in scioperi politici (come quello del 1904 contro gli eccidi operai). Ma le associazioni aderenti mantengono una loro autonomia rispetto ai socialisti e per esempio lo sciopero indetto contro l’impresa di Libia (1911) risulta un fallimento.
L’attività della Camera del lavoro è presente in molti settori dell’economia cittadina. Ci sono però conflitti che vengono ancora risolti all’interno dei luoghi di lavoro o individualmente o attraverso la mediazione di notabili. Esistono inoltre associazioni cattoliche scarsamente o per nulla conflittuali come le Unioni operaie cattoliche, costituite nel 1912, con finalità religiosa e assistenziale, peraltro rilevanti come numero di aderenti (nel 1913 si contano 3.408 aderenti)(149). Esiste ancora l’attività di radicali e democratici, come Sebastiano Tecchio, Giovanni Bordiga e Fradeletto, che esercitano un ascendente su alcune associazioni operaie, come la Cooperativa scaricatori della stazione ferroviaria di S. Lucia, o gli arsenalotti (almeno fino al 1910), ai quali Tecchio, secondo una lettera di un operaio a «Il Radicale», ha portato aumenti salariali e promozioni(150). Gli scaricatori sottoscrivono pure un manifesto contro il leader socialista Elia Musatti: «non fu come si diceva promulgatore e fautore di salde organizzazioni, ma lo fu invece degli scioperi generali: non lottò, no, per l’elevazione proletaria ma fu solo maestro […] nel suscitare odi, rancori, lotte intestine». Il modello che viene proposto è quello che trapela da un commento de «Il Radicale»: «Per ottenere miglioramenti agli operai bisogna essere deputati influenti. L’influenza si ottiene con la propria autorità»(151). È di nuovo il modello patrono-cliente. Fradeletto si scaglia, fin dal 1904, contro gli agitatori di professione: «alla vecchia aristocrazia prepotente, ma che almeno rappresentava una storia, una tradizione, si sostituirebbe oggi un’altra aristocrazia a rovescio di agitatori salariati che avrebbero il privilegio di impunità per ogni insulto? Questo non è socialismo è teppismo»(152). Contro la lotta di classe, dunque, e contro gli scioperi, se non come mezzo estremo. Anche questo risentimento contro le novità insite nella Camera del lavoro porta all’intesa antisocialista del 1912, un’alleanza politica di cattolici, liberali, nazionalisti e parte dei democratici per evitare che venga eletto nel collegio degli arsenalotti Musatti. È un preludio al blocco elettorale che porterà all’elezione di un sindaco iscritto al Fascio, già nel 1920. È la base del successo del sindacalismo fascista, che si spiega anche con l’influenza che la Camera ha ottenuto difendendo gli interessi e i diritti dei propri iscritti, a volte a scapito degli altri lavoratori e dei disoccupati. Gli avventizi e i lavoratori non iscritti alle cooperative «rosse» diventeranno, nel primo dopoguerra, grazie anche all’appoggio di alcuni imprenditori, l’ariete che finirà con l’abbattere la rete di solidarietà «operaia» locale e nazionale costruita attorno alla Camera del lavoro(153). E per vedere il ritorno alla libertà sindacale bisognerà attendere la fine della seconda guerra mondiale.
1. Lavoro e concorrenza, «Corriere della Venezia», 23 gennaio 1867, pp. 2-3.
2. Domenica, lunedì e parte del martedì, cf. Quosque tandem?, «Il Gallo», 28 aprile 1867, pp. 3-4.
3. Gondole, «Gazzetta di Venezia», 15 aprile 1868, p. 2.
4. Organetti, «Il Tempo», 25 maggio 1870, p. 2.
5. Nova guida de Venezia de Sior Tonin Bonagrazia, «Sior Tonin Bonagrazia», 4 aprile 1868, pp. 2-4.
6. Organetti di barberia, «Il Rinnovamento», 8 luglio 1867, p. 3.
7. Un po’ di tutto, «Il Rigoletto», 30 maggio 1867, p. 4.
8. Monelli per le piazze, «Il Tempo», 25 aprile 1867, p. 2.
9. Venezia-Camera del Lavoro, Relazione morale. Anno 1913, «Il Secolo Nuovo», 24 gennaio 1914, p. 4.
10. Id., Relazione morale. Anno 1913, ibid., 31 gennaio 1914, pp. 3-4.
11. Il concetto di «moralisti pubblici» viene mutuato da Stefan Collini, Public Moralists. Political Thought and Intellectual Life in Britain 1850-1930, Oxford 1991.
12. Cf. Luca Pes, Venezia s’è desta. L’educazione popolare dopo l’annessione al Regno d’Italia (1866-1881), tesi di Ph.D., University of Reading, 1992; Id., Sei schede sulle società di mutuo soccorso a Venezia (1849-1881), in Venezia nell’Ottocento, a cura di Massimo Costantini, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 115-145; Id., Obbligati al lavoro. L’Istituto Coletti e la rieducazione dei piccoli vagabondi a Venezia (1866-1876), «Venetica», n. ser., 1992, nr. 1, pp. 183-212; Id., L’economia delle classi popolari a Venezia (1866-1881), in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 235-246.
13. Popolazione attiva secondo il censimento del 1911. Venezia-Camera del Lavoro, Relazione morale. Anno 1913, 31 gennaio 1914, pp. 3-4. Per una visione d’insieme cf. Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 320-391 (pp. 317-509); cf. anche Emilio Franzina, Una ‘belle époque’ socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, ibid., pp. 275-306.
14. Gustavo Strafforello, Gli eroi del lavoro proposti all’imitazione del popolo italiano, Torino 1872; Michele Lessona, Volere è potere, Firenze 1869; Guido Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità, Roma-Bari 1981.
15. Guido Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino 1974.
16. E. Franzina, Una ‘belle époque’, p. 290.
17. Francesca Cavazzana Romanelli, Le società operaie confessionali di mutuo soccorso. Itinerari storiografici negli archivi ecclesiastici veneziani, in Ministero per i Beni e le Attività Culturali-Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Le società di mutuo soccorso italiane e i loro archivi, Roma 1999, p. 204 (pp. 197-208); Bruno Bertoli, La pastorale di fronte ai mutamenti culturali e politici della società veneziana, in La chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di Gabriele Ingegneri, Venezia 1987, pp. 78-79 (pp. 57-92).
18. E.P. Thompson ha dimostrato quanto i comportamenti apparentemente più immorali delle classi subalterne ;–- le ribellioni, il furto, il vagabondaggio –-fossero il prodotto non solo della povertà ma di una cultura, di un senso di giustizia e di una morale propri. In partic. v. Edward P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in Id., Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del settecento, Torino 1981, pp. 57-136. I suoi studi sono però applicati più alle campagne che alla città. Il primo studio sulla soggettività morale delle classi popolari in ambiente veneto è di Piero Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866, Venezia 1981.
19. George M. Trevelyan, Scenes from Italy’s War, London 1919, p. 119.
20. William D. Howells, Venetian Life, Cambridge 1880, pp. 146-153.
21. Cf. per esempio Sconcio, «Il Tempo», 2 gennaio 1867, p. 2.
22. Gabriele D’Annunzio, Il Fuoco, a cura di Niva Lorenzini, Milano 1996, pp. 118-119; cf. anche Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Venezia 1992, pp. 81-83.
23. Scuole serali, «Gazzetta di Venezia», 17 marzo 1870.
24. D. Resini, Cronologia, pp. 368-372.
25. Ibid., pp. 364-365 e 369-370; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, P.S. 1920, b. 129, D5, «promemoria sull’opera svolta dal provveditorato al porto di Venezia riguardo alla richiesta di lavoro da parte di nuove imprese cooperative», s.d.
26. Maria Teresa Sega, ‘Più perle de le perle che impiré’. Immagine e immaginario dell’impiraressa come tipo della popolana veneziana, in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, pp. 59-64 (pp. 47-66).
27. Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001, pp. 145-146.
28. Maurizio Reberschak, L’industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, p. 376 (pp. 369-404).
29. Nostre elaborazioni su Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869 per religione, condizioni, professioni, arti e mestieri, Venezia 1871; Id., Censimento della popolazione 10 febbraio 1901. Popolazione di Venezia, di Chioggia e della Provincia di Venezia classificata per professione e condizione, Venezia 1904; MAIC-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 10 giugno 1911, IV, Popolazione presente di età superiore a dieci anni, classificata per sesso e per professione o condizione, Roma 1915.
30. MAIC-Ufficio Centrale di Statistica, Popolazione classificata per professioni, culti e infermità principali. Censimento 31 dicembre 1871, III, Roma 1876, pp. 162-165.
31. Nostre elaborazioni su: Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti; Id., Censimento della popolazione; MAIC-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento della popolazione del Regno d’Italia, IV.
32. Nostre elaborazioni su MAIC-Ufficio Centrale di Statistica, Popolazione classificata.
33. Nostre elaborazioni su Maic-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento della popolazione del Regno d’Italia, IV.
34. Ibid.
35. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti; L. Pes, L’economia delle classi popolari.
36. Alberto Errera, Relazione sulla attivazione in Venezia di alcune utili imprese industriali dopo abolito il portofranco (1874), in Atti della commissione municipale di Venezia per le piccole industrie, Venezia 1872, p. XII nn. (pp. I-XXXVI).
37. 1 a 3,51. Cf. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti.
38. Alberto Errera, Storia e statistica delle industrie venete e accenni al loro avvenire, Venezia 1870, e Id., Tabelle statistiche e documenti sulla storia e statistica delle industrie venete, Venezia 1870.
39. Si tratta dello stabilimento Neville. Cf. Id., Storia e statistica.
40. Ibid.
41. Id., Le industrie del Veneto. Memoria, Milano 1868, pp. 8-9.
42. Id., Storia e statistica, e Giuseppe Toniolo, Sul lavoro delle donne e dei fanciulli nelle industrie manifatturiere di Venezia e sopra alcuni criteri di legislazione industriale in Italia. Conclusioni del Rapporto della commissione presso il comitato di studi economici di questa città [di Venezia], «Giornale degli Economisti», 2, 1876, nr. 4, pp. 109-127. In quest’ultimo studio, il lavoro femminile a domicilio viene definito «la propaggine periferica dell’apparato produttivo».
43. Atti del comitato dell’inchiesta industriale. Deposizioni orali, Roma 1873-1874, cat. 15, par. 7, Vetrerie, testimonianza di Silvio Coen all’adunanza del 5 luglio 1872.
44. A. Errera, Storia e statistica. Secondo un’indagine ufficiale le peggiori condizioni igieniche si riscontravano nella lavorazione dei fiammiferi dove nel 1881 erano impiegati in 500, 150 dei quali a domicilio e 50 adolescenti. G. Toniolo, Sul lavoro delle donne e dei fanciulli; Alberto Errera, Venezia economica nel 1881. Commercio, navigazione, lavori pubblici, Firenze 1881 (estr. della «Rivista Europea»).
45. Atti del comitato dell’inchiesta industriale, cat. 15, par. 7, Conterie, smalti, mosaici e vetri di lusso, allegato di Alberto Errera consegnato all’adunanza di Venezia del 3 luglio 1872, e ibid., Vetrerie, testimonianza di Giuseppe Zecchin nell’adunanza del 5 luglio 1872.
46. Ibid., Conterie, smalti, mosaici e vetri di lusso, allegato di A. Errera, e Municipio di Venezia-Giunta Comunale di Statistica, Statistica del settennio 1874-80, Venezia 1881, pp. 150-151.
47. Lettera di Bianchini, facente funzioni sindaco di Pellestrina al prefetto, 8 novembre 1874, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 49, 19, 4/12. Tra il 1874 e il 1880, il 28,4% dei decessi aveva avuto luogo d’inverno (Municipio di Venezia-Giunta Comunale di Statistica, Statistica del settennio, p. CLXXVI).
48. A. Errera, Storia e statistica, p. 225.
49. Ibid., p. 575.
50. Ibid., p. 312, e Atti del comitato dell’inchiesta industriale, cat. 15, par. 7, Conterie, smalti, mosaici e vetri di lusso, allegato di A. Errera. Le fabbriche di perle o vendevano in mercati difficili e insicuri (India, Africa) o erano soggette agli sbalzi della moda (a Londra, a Parigi).
51. Guida commerciale di Venezia, Venezia 1876. I domestici venivano licenziati ogni volta che i padroni andavano in villa. Le domestiche che non trovavano lavoro si prostituivano (cf., per esempio, relazione del prefetto sullo spirito pubblico primo semestre 1879, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura [1877-1881], b. 54, 19, 1/1).
52. Rapporto del questore, 15 dicembre 1867, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, e Municipio di Venezia-Giunta Comunale di Statistica, Statistica del settennio, p. CLXXIV.
53. Su questi temi cf. L. Pes, L’economia delle classi popolari.
54. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1910-1914, II-5-1, b. 29, fasc. «1913».
55. Giorgio Bellavitis, L’arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia 1983, cap. V; Comune di Venezia, Relazione sul V censimento demografico e I censimento degli opifici ed imprese industriali 10-11 giugno 1911, Venezia 1912, pp. 152-153.
56. Comune di Venezia, Relazione sul V censimento, pp. 152-153.
57. MAIC, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Venezia, «Annali di Statistica», ser. IV, 1900, fasc.II-A, nr. 5 bis, p.60.
58. Franco Mancuso, Il patrimonio di Venezia città industriale. Dalla formazione al riuso, in Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980, p. 42 (pp. 37-48).
59. M. Reberschak, L’industrializzazione di Venezia (1866-1918), pp. 377-378.
60. Id., L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 236-237 (pp. 227-298).
61. Nostre elaborazioni su: MAIC-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento degli opifici e delle imprese industriali al 10 giugno 1911, I, Dati riassuntivi concernenti il numero, il personale e la forza motrice delle imprese censite, Roma 1913.
62. Giacomo Luzzatti, Prefazione a Comune di Venezia, Relazione sul V censimento, p. 12 (pp. 9-13).
63. Comune di Venezia, Relazione sul V censimento, pp. 28-29.
64. «Società anonima cotonificio veneziano», in Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi nel 19° secolo, Venezia 1980, pp. 78-80.
65. Francesca Peccolo, Immigrazione ed assistenza a Venezia dalla fine dell’Ottocento al primo ventennio del Novecento, in Lavoro ed emigrazione minorile dall’Unità alla Grande guerra, a cura di Bruna Bianchi-Adriana Lotto, Venezia 2000, p. 228 (pp. 214-247).
66. Su questi aspetti, v. i saggi in questo volume di Renzo Derosas e di Maurizio Reberschak.
67. F. Peccolo, Immigrazione ed assistenza, p. 217.
68. Luca Pes, La commissione case sane del Comune di Venezia (1893-1913), «Ateneo Veneto», 180, 1993, pp. 129-165.
69. Francesco Fapanni, Venezia ortense, «La Scena», 17 agosto 1871, pubblicato anche in Id., Alcuni bozzetti veneziani antichi e moderni, Venezia 1881, p. 22.
70. Bartolomeo Cecchetti, Il mercato delle erbe e del pesce in Venezia, Venezia 1889, p. 51.
71. Luigi Carlo Stivanello, Proprietari e coltivatori nella provincia di Venezia. Saggio di studii economici e di una inchiesta agraria, Venezia 1872, cap. XVIII.
72. Ibid.; Raffaele Vivante, La malaria in Venezia, Torino 1902.
73. Andrea Gloria, Intorno al Comune di Campagna della Provincia di Venezia. Cenni storici, Padova 1869, pp. 42-43.
74. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1877-1881), b. 19, 14, 18/1, lettera del prefetto al Ministero degli Interni, 13 giugno 1881.
75. L.C. Stivanello, Proprietari, cap. XX.
76. Ibid., cap. XVIII; Luigi Sormani Moretti, Sulle condizioni agrarie della Provincia di Venezia. Considerazioni, Venezia 1879, p. 16.
77. Alberto Stelio De Kiriaki, Le condizioni dell’agricoltura nel sessennio 1880-1885 nella Provincia di Venezia. Relazione per il Consorzio agrario provinciale di Venezia al Ministero di agricoltura, industria e commercio, Venezia 1886, p. 8.
78. B. Cecchetti, Il mercato, p. 49.
79. Ibid., pp. 14 e 51.
80. A.S. De Kiriaki, Le condizioni, p. 11.
81. L.C. Stivanello, Proprietari, p. 261.
82. L. Sormani Moretti, Sulle condizioni, p. 16; L.C. Stivanello, Proprietari, p. 261.
83. A.S. De Kiriaki, Le condizioni, pp. 45-46.
84. Ibid., p. 42.
85. L.C. Stivanello, Proprietari, pp. 262-268.
86. B. Cecchetti, Il mercato, p. 49.
87. Ibid., p. 16.
88. L.C. Stivanello, Proprietari, pp. 262-263.
89. Ibid., p. 261.
90. MAIC-Ufficio Centrale di Statistica, Popolazione classificata.
91. Luigi Sormani Moretti, La pesca. La pescicoltura e la caccia nella provincia di Venezia. Memoria, Venezia 1887, pp. 31-41.
92. Ibid., pp. 14-31.
93. Ibid., pp. 3-14.
94. David Levi-Morenos, Condizione della pesca e pescatori in rapporto colla evoluzione del lavoro e col diritto della proprietà delle acque, Venezia 1896, pp. 3-4 e 6.
95. B. Cecchetti, Il mercato, pp. 16-18.
96. Ibid., p. 16.
97. Ibid., p. 18.
98. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 7, 5, 4/1, prospetto del consiglio comunale di Malamocco (allegato a lettera del 1867).
99. Ibid., prospetto del consiglio comunale di Favaro (allegato a lettera del 1867).
100. Ibid., prospetto del consiglio comunale di Burano al 21 settembre 1871.
101. Ibid., prospetto iscritti alle liste elettorali e numero votanti per comune nel 1866-1869.
102. Ibid., rapporto del commissario regio al prefetto, 26 agosto 1868; ivi, Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 3, 2, 7/1, lettera del prefetto al Ministero degli Interni, 19 febbraio 1872.
103. Silvio Tramontin, Luigi Cerutti (1865-1934) fondatore delle Casse rurali cattoliche, in Un secolo di cooperazione di credito nel Veneto. Le casse rurali ed artigiane 1883-1983, a cura di Giovanni Zalin, Padova 1985, p. 48 (pp. 41-62).
104. D. Levi-Morenos, Condizione, pp. 14-15.
105. Ibid., p. 4.
106. Ibid., p. 5.
107. Girolamo Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, pp. 38-39.
108. B. Cecchetti, Il mercato, p. 38.
109. Giandomenico Nardo, La pesca del pesce ne’ valli della Veneta laguna al tempo delle prime buffere invernali detto volgarmente fraima. Monologo didascalico in versi nel dialetto de’ pescatori chioggiotti colla versione nella lingua comune d’Italia, Venezia 1871, un brano del quale viene cit. in La pesca nella laguna di Venezia, Venezia 1981, alle pp. 92-114.
110. Pietro Manfrin, L’avvenire di Venezia. Studio, Treviso 1877, pp. 108-109; Vincenzo Zanetti, Sul progetto del cav. Antonio Baffo, ingegnere, architetto onorario di S.M. Cenni e apprezzamenti del cav. Prof. Vincenzo Zanetti, Venezia 1880, p. 25.
111. MAIC, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Venezia, «Annali di Statistica», ser.IV, 1886, fasc. II, nr. 5, p. 45.
112. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 3, 2, 7/1, lettera del prefetto al Ministero degli Interni, 19 febbraio 1872; ivi, Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto dei reali carabinieri al prefetto, 24 luglio 1868.
113. MAIC, Notizie sulle condizioni, 1886, pp. 19-20 e 24.
114. Vito Favero-Riccardo Parolini-Mario Scattolin, Morfologia storica della laguna di Venezia, Venezia 1988; Silvia Cavazzoni, La laguna: origine ed evoluzione, in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato-Eugenio Turri-Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 41-67.
115. Francesco Marzolo, I principali lavori eseguiti nella laguna di Venezia nel secolo XIX, in Mostra storica della laguna veneta, Venezia s.a. [ma 1970], pp. 221-223.
116. Cf. Comune di Venezia, Relazione sul V censimento, p. 34; MAIC-Ufficio Centrale di Statistica, Popolazione residente e assente per comuni, centri e frazioni di comune. Censimento 31 dicembre 1871, I, Roma 1874; MAIC-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 10 giugno 1911, I, Roma 1914.
117. M. Reberschak, L’economia, pp. 248-249.
118. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 121-123.
119. Critiche contro questo atteggiamento in Operai, «Gazzetta di Venezia», 28 gennaio 1867, p. 2.
120. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 12, 5, 8/1, fascc. 2, 6, 18, datati novembre 1866 e ibid., b. 46, 19, 4/1, rapporto del questore sullo stato degli operai, 16 gennaio 1867.
121. I disordini di questa mattina, «Il Rinnovamento», 1° dicembre 1866, p. 3.
122. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 46, 19, 4/1, rapporto del questore, 9 maggio 1867. I burchi erano barche piatte su cui venivano caricati i fanghi scavati dal fondale dei canali.
123. Ibid., b. 43, 19, 1/1, prefetto al Ministero degli Interni, 5 novembre 1867; ibid., b. 46, 19, 4/1, rapporti degli ispettori di pubblica sicurezza di Cannaregio e S. Croce, 3 dicembre 1866; ibid., rapporto del questore sullo stato degli operai, 16 gennaio 1867.
124. Ibid., b. 12, 5, 8/1, lettera del sindaco di Murano, 7 gennaio 1870.
125. Ibid., b. 27, 14, 4/1, urgente supplica dei gondolieri ricevuta il 2 luglio 1868.
126. Ibid., b. 12, 5, 8/1 (sarti) e b. 46, 19, 4/1 (calzolai).
127. Ivi, Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 15, 5, 6/1, prospetto delle società di mutuo soccorso del novembre 1868; ivi, Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 26, 13, 7/2, prospetto delle società di mutuo soccorso senza data (ma riconducibile al maggio 1868).
128. Ivi, Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 13, 5, 6/1, lettere varie maggio-giugno 1874.
129. Ivi, Gabinetto di Prefettura (1877-1881), b. 10, 5, 6/1, rapporto del questore 3 maggio 1877 e carteggio maggio-luglio 1877.
130. L. Pes, Sei schede, p. 128.
131. Ibid., pp. 128-129.
132. Statuto della società mutua e di resistenza fra muratori, manuali e falegnami, Venezia 1888.
133. L. Pes, Sei schede, pp. 124-128.
134. Ibid.
135. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1871-1876), b. 49, 19, 4/12, carteggi, agosto 1872.
136. Cf., per quanto riguarda la Carpentieri e calafati, ivi, Gabinetto di Prefettura (1877-1881), b. 10, 5, 6/1, in partic. lettera del prefetto al Ministero delle Finanze, 1° agosto 1880.
137. L. Pes, Sei schede, pp. 133-138.
138. Antonio Marson, Associazioni inglesi e Camere del lavoro. Studio popolare, Venezia s.a. [ma 1892], p. 37 e infra.
139. Relazione presentata dalla Commissione esecutiva all’Onor. Municipio di Venezia il giorno 11 Dicembre 1892, Venezia 1892, pp. 21-22.
140. A. Marson, Associazioni inglesi, p. 37.
141. Tiziano Merlin, Carlo Monticelli, primo segretario della Camera del lavoro di Venezia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 263-274.
142. Relazione, pp. 18 e 26.
143. A. Marson, Associazioni inglesi, pp. 7-9.
144. Atti del Consiglio comunale di Venezia 1893, sedute 31 gennaio e 27 novembre 1893, pp. 33-37 e 402-411.
145. Venezia-Camera del Lavoro, Relazione morale, 31 gennaio 1914, pp. 3-4.
146. E. Franzina, Una ‘belle époque’.
147. G. Li Causi, Il lungo cammino, p. 38.
148. Ibid.
149. Silvio Tramontin, Dall’alba del nuovo secolo al Concilio Vaticano II: i patriarchi, in Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, a cura di Id., Padova 1991, p. 224 (pp. 219-250).
150. Cit. in Alla vigilia della lotta, «L’Adriatico», 23 marzo 1912.
151. Cit. in Musatti giudicato dagli amici, ibid., 24 marzo 1912.
152. Violenti e timidi, ibid., 7 maggio 1904.
153. Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, pp. 63-84.