Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La descrizione dell’universo metropolitano, se da un lato eredita dalla letteratura ottocentesca una forte connotazione morale (la città come regno dell’inautentico, in opposizione alla provincia), dall’altro registra la pluralità di mondi e di stili in opera nella vita urbana – e il processo si complica con l’ingresso nel postmoderno. Inoltre, il Novecento enfatizza il dissidio tra centro e periferia, esprimendo da un lato nuove espressioni urbane (la Londra multietnica di oggi), dall’altro la paralisi nel passato delle antiche capitali (su tutte, la Dublino di Joyce e la Vienna di Musil e Bernhard).
Londra
Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse, era là: cinque piani, più il mezzanino. Intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali dovevano essere una miriade: pescecanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott’acqua d’appetito e di sensazioni fagiche in genere, il grigiore o certa opalescenza superna del giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo riavesse l’oro e l’argento. Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agenti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità. Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d’una rete protettiva di biciclette.
C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 2000
La scrittura del primo Novecento europeo recupera dal secolo precedente la capacità di convogliare l’azione dei personaggi nel ritmo frenetico e coinvolgente delle spazialità urbane. La metropoli assurge così, come già nel romanzo di Balzac e Flaubert, e nelle poesie di Baudelaire, a regno ambivalente del Bene e del Male, teatro di vertiginose ascese sociali come di cadute progressive del singolo verso la povertà e l’insuccesso. Le spire della città tentatrice promettono l’evasione dal mondo confortevole ma insonnolito della provincia (basti pensare a quello che avviene di un personaggio come la Bovary di Flaubert, corrotta dalla seduzione del bel mondo cittadino), per riproporre, sostanzialmente immutato, un rapporto di sproporzione tra la verità dei sentimenti custoditi dalla campagna e il mondo di finzione, dell’inautentico costituito dalla dimensione urbana. Quello che verrà sottoposto a modificazioni, nella rappresentazione letteraria della città nel Novecento, non è la complessità, parola chiave per comprendere l’universo metropolitano, ma l’immagine stessa della città, ridefinita, talora stravolta, dai flussi migratori, dal nuovo disegno impresso dalle architetture postmoderniste, da un fenomeno come la globalizzazione, che tende a imprimere omogeneità alle diverse immagini nazionali e metropolitane del mondo.
Se si osservano le lente ma inesorabili trasformazioni nella percezione della città da parte degli scrittori, un ruolo di primaria importanza in questo processo è rivestito da Londra. Nel 1922, il poeta americano Thomas Stearns Eliot, attratto dal cuore della vita culturale londinese, il gruppo di Bloomsbury capeggiato dalle sorelle Woolf, dà alle stampe il poemetto La terra desolata (The Waste Land), nel quale accanto a elementi mitici e a una promessa di rigenerazione finale, i versi si susseguono bombardando il lettore di immagini, suoni, proiezioni scritte della nevrastenia di singoli personaggi comuni ritratti sullo sfondo di una Unreal City, una città irreale che è la stessa Londra, con le onde del Tamigi e la sua vita irrespirabile. Spogliata di qualsiasi trasfigurazione mitica, la capitale britannica funziona come rete complessa di relazioni sinestetiche, di percezioni sensoriali, dello spazio e del tempo dissonanti, nel personaggio di Mrs Dalloway (1925) di Virginia Woolf: Clarissa Dalloway cammina per le strade della città in un tempo scandito dal Big Ben (originariamente il romanzo doveva intitolarsi The Hours, “Le ore”), nel quale si affastellano ricordi, rimpianti, pensieri rivolti ai preparativi del banchetto serale. La stessa città incantata della upper class, di splendidi teatri, strade, negozi, ricevimenti e amori clandestini è catturata lungo il monologo della splendida attrice di mezz’età Julia Lambert in Theatre (La diva Julia, 1937) di William Somerset Maugham: sospeso nella magia dello sdoppiamento tra arte e vita, il romanzo non pare risentire dei prossimi echi del secondo conflitto mondiale. Sarà l’Inghilterra urbanizzata del dopoguerra a essere tematizzata come luogo delle illusioni perdute, come sfondo per esistenze contrassegnate dal fallimento e dallo sconvolgimento dei rapporti sentimentali: in un testo teatrale considerato il capostipite della produzione dei “giovani arrabbiati”, del cosiddetto kitchen-sink drama (teatro di ambientazione domestica, pedestre), Look Back in Anger (Ricorda con rabbia, 1956) di John Osborne, le vicende si spostano da Londra a una città industriale delle East-Midlands, luogo emblematico della disoccupazione e della sottoccupazione dell’epoca. La capitale e le sue periferie multietniche ritornano con urgenza sulle scene letterarie e cinematografiche dalla seconda metà degli anni Sessanta (gli anni di una swinging London, una città ruggente, giovane, alla moda, ritratta, tra gli altri, dal Michelangelo Antonioni di Blow Up, 1966) in avanti. Gli ultimi anni del secolo vedono imporsi così opere di grande vitalità, ritratti di famiglie e storie di formazione individuale che sottendono l’integrazione difficile tra le origini e la vita nei quartieri della metropoli. Due esempi significativi sono rappresentati dai romanzi, i racconti e le sceneggiature dell’anglo-pakistano Hanif Kureishi, il cui Il Budda delle periferie (The Buddha of Suburbia, 1990) è proprio incentrato sugli incontri, le scoperte sessuali, i variopinti personaggi in cui si imbatte l’adolescente Karim, e dal divertente, irriverente Denti bianchi (White Teeth, 2001) dell’anglo-giamaicana Zadie Smith (1975-), romanzo che segue le vicende di due amici, l’inglese Archie e il bengalese musulmano Samad, lungo l’arco della seconda metà del secolo.
Parigi
Contraltare per eccellenza di Londra e culla della modernità europea, Parigi conserva nel Novecento il carattere, acquisito e consolidatosi tra Sette e Ottocento, di città labirintica, tentacolare, con i suoi passages (le gallerie di ferro, scintillanti di negozi, che si aprono tra i palazzi, lette dal filosofo Walter Benjamin come emblema del moderno), i caffè, i tanti quartieri che la compongono. Con l’imperativo alla modernizzazione, i grandi boulevards al posto delle stradette e, di conseguenza, scomparsi definitivamente i passages (un motivo, questo, già al centro di Il paesano di Parigi - Le paysan de Paris, 1926 di Louis Aragon), la metropoli assume nuovi significati, divenendo ora teatro del caso, dell’assurdo, ora del comico, ora della disperazione su cui si chiude una certa immagine del secolo. Con Nadja (1928) di André Breton, in pieno surrealismo, la città si trasforma in una rete di incontri casuali; il narratore si apposta dietro al personaggio per seguirne le traiettorie mutevoli, alla rinfusa (il modello è quello della flânerie, già studiata da Benjamin nelle figure della poesia baudelairiana). Ne deriva un senso euforico di caoticità, di celebrazione dei nessi imprevedibili tra gli spostamenti di Nadja e il ritmo della vita urbana (in questo, la critica ha ravvisato un influsso dell’analisi dei sogni compiuta da Freud, alla base della poetica surrealista). Nei romanzi di Raymond Queneau diviene elemento tematico fondamentale il contrasto tra la forma monumentale, da guida turistica, di Parigi e la banlieue, l’anonimato della periferia: in Pierrot amico mio (Pierrot mon ami, 1942), per esempio, o in Suburbio e fuga (Loin de Rueil, 1944), dove l’esperienza della città e delle sue tristi propaggini si accompagna alla descrizione di personaggi straniti e sognatori; ma è con Zazie nel metró (Zazie dans le métro, 1959) che Queneau organizza un congegno narrativo tutto basato sugli spostamenti, le fughe dell’adolescente terribile Zazie, consegnata in città alle cure dello zio Gabriel. Il romanzo procede così a zig zag per corse in taxi, visite ai caffè, mercatini rionali, inseguendo la vitalità irresistibile della ragazzina e la sua ricerca spasmodica dell’emozionante metró, destinata a rimanere delusa per via di uno sciopero: ne viene un quadro colorato e ambiguo, una città derisa nei suoi luoghi comuni e popolata di buffi loschi figuri, che Zazie sa mettere in fuga con la sua inventiva e il suo repertorio di improperi. L’ultimo quarto di secolo viene poi riletto sulla base di un’attenta ricostruzione dei non-luoghi di Parigi e della Francia in Le particelle elementari (Les particules elementaires, 1999) di Michel Houellebecq, che segue in parallelo le vicende di due fratelli, uno scienziato in odore di Nobel e l’altro insegnante, destinati a incontrarsi. Camping, supermercati Monoprix ma anche pasticcerie tunisine, quartieri popolari segnati dal razzismo, da una convivenza difficile (illustrata al cinema da film come L’odio - La haine, di Mathieu Kassovitz, 1995, o da La schivata - L’esquive, di Abdellatif Kechiche, 2003), emergono dal romanzo, uno dei più acclamati e controversi degli ultimi tempi.
Roma
Un’altra capitale che ha costruito e promosso nel tempo una propria immagine distintiva è Roma: nel Piacere (1889) di Gabriele d’Annunzio aveva reso omaggio alla sensualità della città barocca, ospitando le passioni del protagonista Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta tra salotti raffinati, palazzi di antica nobiltà (la scena si sposterà da Roma alla Venezia decadente della morte di Wagner, per lo Stelio Effrena protagonista del Fuoco, del 1900). Nel Novecento l’immagine di Roma oscilla tra l’evocazione della gloria antica e un’inquietudine tutta contemporanea, la contrapposizione tra mondi inconciliabili. È così nel romanzo-rompicapo di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (uscito in rivista nel 1946, apparso modificato in volume nel 1957), dove l’omicidio, avvolto dal mistero, della ricca nubile Liliana Balducci nel “palazzo degli ori” della centrale via romana conduce il commissario molisano Ciccio Ingravallo a inseguire, nei mille rivoli della città, le figure nascoste e i mondi periferici dell’illegalità, contrassegnati da un impiego espressivo del romanesco. E allo stesso romanesco, allo stesso mondo delle periferie, del sottoproletariato strappato alle campagne e consegnato a quartieri ai margini della vita metropolitana si rivolge Pier Paolo Pasolini, nei suoi primi romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Dalla zona di Donna Olimpia fino ai bagni nell’Aniene, alle incursioni dei giovani sottoproletari nel centro della città, Pasolini mette in scena una geografia di miseria e di espedienti, insieme a un quadro fortemente intriso di nostalgia per le origini contadine, per i margini della città ora fagocitati da un incessante fervore edilizio. Il senso di oppressione che la Roma presente provoca nel personaggio è in seguito acuito nell’epoca della stagnazione politica, del terrorismo e dei grandi scontri ideologici: se ne possono vedere testimonianze narrative nel Comunista (1976, postumo) di Guido Morselli, dove la crisi di coscienza dell’onorevole emiliano Walter Ferranini si consuma tutta tra appartamenti, trattorie, dibattiti, comizi – i luoghi della Roma politica opposti alla fede ingenua della “base” elettorale –, in Un borghese piccolo piccolo (1976) di Vincenzo Cerami, incentrato sulla vendetta di un padre di fronte agli uccisori del figlio, e soprattutto in L’odore del sangue di Goffredo Parise, scritto nel 1979, ma rimasto incompiuto e pubblicato solo dopo la morte dell’autore. Nel romanzo la crisi matrimoniale tra Filippo e Silvia, intellettuali di mezz’età, si apre sullo scenario di una Roma in preda alla barbarie giovanile, a movimenti di estrema destra che rievocano il mito fascista di una purezza e una supremazia del corpo giovane interpretata dal giovane amante di Silvia, mai descritto frontalmente, sempre alluso, che trascina la donna in una spirale di masochismo e di perdita di sé – e questo in parallelo al processo di disfacimento morale della città eterna.
Vienna, Budapest e Praga
L’idea di una capitale europea soggetta a crisi, deperimento organico e perdita di centralità storica è pienamente visibile nel primo quarto di secolo di Vienna. La capitale imperiale, centro di irradiazione dello squisito gusto Jugendstil, in arte e in architettura, è in quegli anni il luogo di una sperimentazione scientifica, filosofica e culturale senza pari (basti pensare al solo nome di Freud); eppure si avvertono, al suo interno, un diffuso senso di decadenza, il rancore degli emarginati, l’ironia feroce degli intellettuali circa questo mondo chiuso e stagnante (presente sin dall’esordio del capolavoro incompiuto di Robert Musil, L’uomo senza qualità – Der Man ohne Eigenschaften, 1919-1943). Ritroviamo tali atmosfere nel languore che promana dalle maggiori opere narrative di Joseph Roth, La marcia di Radetzky (Radetzkymarsch, 1932) e La cripta dei cappuccini (Die Kapuzinergruf, 1939), che ripercorrono le fasi del declino della potenza austriaca, o in raffigurazioni di individui marginali e animati dalla sofferenza come Giobbe (Hiob, 1930), o il protagonista clochard di un fortunato racconto, La leggenda del santo bevitore (Die Legende vom heiligen Trinker, 1939). Nei romanzi, nelle novelle e nell’opera teatrale di Arthur Schnitzler, invece, rifulgono ancora immagini della spettacolare Vienna imperiale, ma in aperto contrasto con le aspirazioni e gli slanci sentimentali dei personaggi: il romanzo Verso la libertà (Der Weg ins Freie, 1908), il dramma Amoretto (Liebelei, 1895), le novelle Fuga nelle tenebre (Flucht in die Fisternis, scritto negli anni Dieci ma pubblicato nel 1931) e Doppio sogno (Traumnovelle, 1926) propongono la scissione tra l’io dei protagonisti e la realtà esterna, il dominio dei desideri al limite della rottura psichica e la vita associata della città con le sue regole, le sue convenienze. Il processo di isolamento, di chiusura in un mondo pacifico e remoto dell’Austria postbellica verrà ripreso per essere poi stigmatizzato nei romanzi di Peter Handke e Thomas Bernhard.
Ai margini dell’impero austro-ungarico, la Budapest di inizio secolo viene raccontata con toni tardo romantici, vicini a quelli riservati da Schnitzler alle peripezie della La signorina Else (Fräulein Else, 1924), una giovane suicida per amore, in Danubio blu (Egy gazdatlán csónak története, 1902 – ma il titolo originale suona “Storia di una barca senza padrone”) di Ferenc Molnár. La ragazzina Pirkó viene seguita lungo i luoghi emblematici di Budapest, le strade, i ritrovi, l’isola Margit, fino a che non scopre la relazione del giovane brillante di cui è innamorata, con sua madre, e si getta infine tra le acque del fiume che taglia emblematicamente in due la città. Ancora, la coscienza di un mondo chiuso, dominato dalla vetusta amministrazione austro-ungarica, emerge nella Praga descritta da Jaroslav Hašek nelle Avventure del buon soldato Svejk durante la guerra mondiale (Osudy dobreho vojáka Svejka za svetové války, 1920-1923), dove la vita militare, le zuffe nelle taverne, i luoghi dell’oppressione imperiale nella città vengono rivisitati attraverso la forza comica del personaggio Svejk, idiota di genio, per convertire la difficoltà delle situazioni in esiti rocamboleschi e buffi. La città resta invece sullo sfondo, quasi intangibile, nelle opere narrative del massimo scrittore boemo, Franz Kafka, in particolare nei racconti La metamorfosi (Die Verwandlung, 1912) e Il processo (Der Prozess, 1914-1917, rimasto incompiuto e pubblicato postumo, nel 1925, a cura dell’amico Max Brod): al centro sono le preoccupazioni borghesi della famiglia di Gregor Samsa risvegliatosi insetto, nel racconto, tutto ambientato in un interno, o, nel Processo, la squallida pensione della signora Grubach dove il protagonista, Josef K., reo di una colpa inconoscibile, viene prelevato a inizio di romanzo per attraversare le sedi più cupe e misteriose della città per essere sottoposto a un processo avvolto dal più fitto mistero.
Pietroburgo e Berlino
Un senso di forte decentramento, insieme alla preservazione delle tradizioni della vita cittadina, caratterizza la Pietroburgo che si affaccia al Novecento: già teatro dei grandi romanzi di Dostoevskij, città eminente dell’Europa ottocentesca, essa viene colta nei ritratti saggistici del poeta Osip Mandel’štam, compresi in Il rumore del tempo (Sum vremeni, 1925). Nei frammenti di narrazione la memoria evoca una mitologia urbana, la Pietroburgo dell’infanzia già rapita in una fascinosa trama di decadenza (e a suo tempo celebrata come mito da Puškin e Gogol’), seguendo una precisa linea autobiografica che raccorda l’esperienza della città alle origini ebree dell’autore, andando così a creare un quadro per immagini parallele della famiglia Sinani. Ponte tra Est e Ovest, città destinata a vivere un’esaltante giovinezza con la riunificazione tedesca dell’ultimo decennio del Novecento (celebrata dal cinema di Wim Wenders ed Edgar Reitz, tra gli altri, e da un’ingente opera di ridisegno architettonico), Berlino è sinonimo di un’intensa vita culturale tra le due guerre, la metropoli che Musil anteponeva alla conservatrice Vienna, e che di quest’ultima erediterà la funzione egemone nell’Europa centrale, alla caduta dell’Impero astroungarico. Con Berlin Alexanderplatz (1929) Alfred Döblin mette in scena l’angoscia dell’esperienza metropolitana, riflessa in capitoli dallo stile frammentario e disarticolato, tipicamente modernisti, montati in obbedienza alle regole della sperimentazione espressionista. Il lettore è chiamato a seguire lo snodarsi delle vicende del protagonista Franz Biberkopf (un avanzo di galera la cui donna, Mieze, è stata brutalmente assassinata) lungo un vorticoso tracciato urbano, una trama che si fa così topografica. Degli anni della separazione coatta tra Est e Ovest è testimonianza Il cielo diviso (Der geteilte Himmel, 1975) di Christa Wolf, un romanzo che accorda tonalità sentimentali e politiche, imperniato sulla separazione dei destini degli innamorati Rita e Manfred, nelle due metà di Berlino.
Le città di James Joyce e Italo Svevo
Se si fa ritorno ai primi decenni del secolo, e si confrontano tra loro i centri del modernismo europeo, appare in rilievo il senso di insularità della Dublino raccontata da James Joyce negli splendidi racconti Gente di Dublino (Dubliners, 1914), nei quali la città appare, nelle parole dell’autore, il “centro della paralisi” di un’intera nazione. La Dublino di Joyce sembrerà poi condividere più di un aspetto con le metropoli d’Europa, quando il suo Leopold Bloom, protagonista di Ulisse (Ulysses, 1922), la percorrerà in una giornata particolare, scandita dai rumori della folla e del traffico, in uno dei capolavori del secolo. Lo stesso Joyce soggiorna a lungo in un’altra “isola” del Novecento, la Trieste sospesa tra mondo mitteleuropeo, italiano e slavo dove conosce e apprezza Italo Svevo, autore di quella Coscienza di Zeno (1923) che rappresenta forse il punto più avanzato di sperimentazione narrativa in Italia, tale da avvicinare la Trieste delle mille disavventure dell’antieroe Zeno Cosini (città dei commerci, delle grandi ambizioni imperiali rivolte al Mediterraneo) alle metropoli europee dove gli scrittori sottopongono più da vicino i personaggi allo studio delle loro nevrosi e dei loro tratti moderni – e qui l’influsso delle ricerche compiute da Sigmund Freud si rivela dominante. Ma Trieste è città di grande vivacità culturale e letteraria in quel periodo, e il suo paesaggio problematico è indagato nella prosa segnata dalla “tematica tragica” che innerva un libro singolare, strutturato in forma dialogica, come Il mio Carso di Scipio Slataper (1912), le cui radici triestine si esplicitano nella scrittura sotto molteplici forme: “la passionalità romantica, il senso lirico-tragico dell’esperienza vissuta, la volontà di realizzazione, la tensione morale e pedagogica, l’esigenza di purezza e sincerità, il richiamo dellla natura selvaggia e aspra, il senso profondo dell’amicizia”, come hanno scritto Remo Ceserani e Lidia De Federicis.
Le città di Ricardo Reis e Marco Polo
La città più avanzata verso il grande continente americano, la Lisbona affacciata sull’Atlantico, si offre come ponte tra modernità e postmodernità, nel romanzo che in molti indicano come il capolavoro di José Saramago, L’anno della morte di Ricardo Reis (O ano da morte de Ricardo Reis, 1984). La città viene riscritta come una straordinaria quinta per il ritorno alla vita di un personaggio inventato dal poeta Fernando Pessoa, l’eteronimo Ricardo Reis, ritornato dal Brasile. Un intero quadro urbano degli anni Trenta si dispiega così minuziosamente al lettore, mentre Ricardo si destreggia tra le impressioni di déjà vu e le trasformazioni della Storia, la minaccia della prossima dittatura di Salazar.
In ultimo, una città non scritta, ma implicita, illumina quella che forse è la narrazione di città europea e occidentale più ardita e affascinante, Le città invisibili (1972) di Italo Calvino: mentre racconta al Kan le città del suo impero che ha attraversato, Marco Polo tradisce la sua emozione ripensando alla matrice di tutte le città possibili, la sua Venezia, mai nominata eppure sempre presente, in filigrana: “Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco”.