Le arti
Il 14 luglio 1902, il giorno stesso del crollo del campanile di S. Marco, il consiglio comunale di Venezia votava all’unanimità l’immediata ricostruzione della torre(1). La mitologia attribuisce a quella drammatica adunanza la creazione di un celebre slogan, facile e petulante, che sarebbe divenuto ben presto assai più che l’esplicitazione di una sintetica formula circa i ‘modi’ della ricostruzione del campanile, per assurgere a orizzonte programmatico, a linea-guida per delineare gli sviluppi e il destino della Venezia ‘moderna’: «com’era e dov’era»(2).
All’esordio quasi del secolo, l’episodio (crollo e decisione sulla ricostruzione, iniziative culturali evocative, folkloristiche e scaramantiche per ‘elaborare’ il lutto e colmare il vuoto lasciato dalla torre: «l’assenza del campanile fa un effetto terribile», scriverà quasi con ingenuità Hermann Hesse(3)), quindi, rende, in termini forse riduttivi ma non mendaci, condizioni psicologiche non meno che livello e contenuti di un dibattito che pure avrebbe potuto vantare pretese e potenzialità non banali. E ciò vale sia in campo artistico in senso stretto (cioè nel dominio così sfrangiato e variegato — e tuttavia ancora tutto leggibile — delle ‘belle arti’), sia in quello relativo ai linguaggi dell’architettura e alla forma della città, sia, infine, circa i modi e gli strumenti della divulgazione culturale, la comunicazione dei fatti d’arte, l’opportuna messa a frutto del loro potenziale ideale e ideologico, civile e politico nella stessa complessiva maturazione della compagine sociale veneziana.
«Com’era e dov’era»: Otto Wagner da Vienna(4) sbeffeggiava l’ottica della rinunzia e avanzava inquietanti dubbi circa la stessa competenza e adeguatezza professionale dei tecnici veneziani per la ricostruzione del campanile e la salvaguardia della città (per altro il campanile lo avevano fatto cadere o, comunque, non avevano saputo evitarne il tracollo…); tuttavia, nel giro di poche ore si erano saldate tutte le più disparate posizioni culturali cittadine: dissensi, dubbi e alternative saranno nei mesi successivi ridicolizzati e riassorbiti dentro a un sostanziale appello emotivo e retorico che risulterà facilmente vincente(5).
La questione dei linguaggi artistici e quella del dissenso e della contrapposizione rispetto alle correnti accademiche catalizzano un serrato dibattito culturale che si rinfocolerà via via nel corso dei decenni con significative fiammate e momenti più riflessivi e pacati(6). Tale questione s’estende su un ventaglio di esperienze che accomuna non casualmente l’architettura, le arti decorative e applicate, le arti ‘maggiori’, le stesse nuove forme dell’espressività, la ricerca di una ancora agognata unità delle manifestazioni artistiche.
Non tutto però era rimasto immobile sulla scena culturale e artistica veneziana di fine Ottocento. L’evento sicuramente di maggior spicco era costituito dall’avvio nel 1895 della Esposizione biennale artistica nazionale che, mutate le prospettive da ‘nazionali’ a ‘internazionali’, d’ora in avanti sarà universalmente nota come la Biennale(7).
Fondata sulla scia delle fortune della veneziana Esposizione nazionale artistica del 1887(8) (e delle consimili manifestazioni di portata nazionale tenutesi a intervalli regolari fin dall’Unità d’Italia in varie città del Regno), nonché sull’esempio delle grandi mostre europee figlie dei Salons e delle manifestazioni secessioniste di area tedesca, la Biennale usciva però da questi schemi per il portato di aspettative e di obiettivi non esclusivamente artistici che essa si riprometteva di perseguire, come si avrà modo di vedere.
Testimonianze coeve e ricerche più o meno recenti hanno permesso di ricostruire esordi e contesto di questa nascita; certo fu determinante l’apporto di idee e di concrete proposte di un variegato circolo d’intellettuali che gravitava attorno al poeta e autore teatrale Riccardo Selvatico, eletto sindaco di Venezia nel 1890 a capo di una giunta laico-progressista, e al suo alter ego e privilegiato interlocutore, il professore di Letteratura italiana, poligrafo e roboante retore di varia venezianità Antonio Fradeletto, primo e dispotico segretario generale della Biennale per un quarto di secolo. Ma importante fu l’apporto di alcuni artisti abituali frequentatori dell’ambiente di Selvatico: primi tra gli altri i pittori Bartolomeo Bezzi e Mario De Maria; nonché dell’assessore all’istruzione pubblica, il matematico Giovanni Bordiga, futuro presidente della Biennale, cognato del sindaco e portatore delle più inflessibili istanze laiciste nell’amministrazione cittadina(9).
Come è noto, l’occasione per bandire l’iniziativa era la celebrazione del venticinquennale delle nozze tra re Umberto e Margherita di Savoia nel 1894. Ma le difficoltà burocratiche e i ritardi organizzativi consigliarono di differire di un anno tale celebrazione, portandola all’aprile del 1895.
Le prime edizioni della Biennale son dominate «dal gusto tedesco e da quello inglese della corrente naturalista, ma soprattutto di quella simbolista»(10). La presenza nel comitato di patrocinio di artisti quali Liebermann, Moreau, Puvis de Chavannes, Alma-Tadema, Leighton, Burne-Jones, Millais non poteva certo condurre a esiti diversi. Ma, nonostante questo e nonostante il predominio esercitato «da abili accademici, da eclettici e da simbolisti», malgrado il secolare coro di lamenti per le ‘occasioni mancate’ di cui sarebbe costellata la storia della Biennale stessa (ma per buona parte questi giudizi sono frutto di equivoci e incapacità di storicizzazione), l’evento-Biennale segna una svolta nella storia della città, accende e anima un partecipato dibattito, porta alla ribalta figure e correnti, dà spazi e ragioni d’esistenza a una indagine artistica che non può essere sottovalutata. E ciò sia in termini di esemplarità assunte a modello, sia in quelli, contrapposti e speculari, di rifiuto, negazione e ricerca d’alternativa.
Se la Biennale è l’occasione e il catalizzatore di gran parte della vita artistica cittadina per quanto concerne le ‘belle arti’, da subito si presentano sulla scena anche altri interlocutori, così che la storia della Biennale diventa sì certo quella delle presenze e delle assenze di artisti e scuole e del prevalere e soccombere degli uni o delle altre nelle successive edizioni della mostra, ma non meno importante appare anche dell’altro; soprattutto, forse, il clima, le condizioni e i rapporti che si creano tra la Biennale e le altre istituzioni cittadine, con gruppi più o meno organizzati d’artisti, con consorterie, associazioni, correnti, tendenze.
Centrale nella storia culturale della città nei primi vent’anni del secolo è lo scontro latente e poi aperto e lacerante tra la Biennale e l’altro polo veneziano dell’arte contemporanea: il sistema Bevilacqua La Masa-Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Si tratta di uno scontro totale, tra differenti personalità e concezioni dell’arte; tra divergenti e contrapposte visioni della modernità e del ruolo di Venezia sul palcoscenico internazionale della ricerca artistica; tra politiche della cultura alternative e insanabili. I protagonisti sono Antonio Fradeletto e Nino Barbantini(11).
Deliberata l’istituzione nel 1897 (in occasione della donazione alla città d’un gruppo di otto dipinti acquistati alla seconda edizione della Biennale da parte del principe Alberto Giovanelli e provvisoriamente sistemati a Ca’ Foscari), la Galleria internazionale d’Arte Moderna resta per circa un decennio in una situazione pressoché di latenza. Ma lo sviluppo della Galleria è legato a un successivo lascito alla città: quello di palazzo Pesaro. Ne era autrice la duchessa Felicita Bevilacqua vedova del generale garibaldino Giuseppe La Masa: con testamento del febbraio 1898 la nobildonna lo destinava infatti alla città con una finalità precisa, perché esso andasse «a profitto specie di giovani artisti ai quali è spesso interdetto l’ingresso nelle grandi mostre». Il 31 gennaio del 1899 la duchessa moriva.
Il lascito prevedeva che l’immensa mole fosse in parte affittata e in parte concessa a condizioni assolutamente agevolate a giovani artisti poveri che vi si installassero con i loro studi. Tra incertezze e difficoltà a regolamentare la vita della indisciplinata comunità degli artisti e la preoccupazione di ottemperare ai vincoli del lascito della duchessa, si giunge al 1902, quando la Galleria viene inaugurata il 18 maggio nella sua nuova sistemazione nelle vaste sale di Ca’ Pesaro.
Ma la vera svolta si ha però nel 1905 quando viene finalmente varato lo statuto della Fondazione Bevilacqua La Masa, e nei mesi tra la fine del 1906 e l’inizio del 1907 quando la giunta bandisce il concorso per il posto di segretario delle due istituzioni (Galleria e Bevilacqua La Masa). Ne risulterà vincitore Eugenio, Nino, Barbantini che s’insedia ai primi d’agosto dello stesso 1907(12).
Dal luglio dell’anno successivo prende avvio la serie di mostre nell’ammezzato di Ca’ Pesaro volute e ordinate da Barbantini: esse avranno l’effetto di una bomba. Il giovanissimo segretario (Barbantini era nato a Ferrara nel 1885(13)) costituì il catalizzatore per il formarsi di una comunità di giovani artisti reduci da esclusioni dalla Biennale e alla ricerca di possibilità di emergere, ma bisognosi anche di un leader carismatico, di un teorico, di un critico attento e geniale, di uno spirito indipendente e battagliero come, di fatto, Barbantini seppe da subito dimostrarsi. La Bevilacqua La Masa e Ca’ Pesaro divennero immediatamente molto di più della somma di un’istituzione filantropica e di un museo: furono uno stile e una bandiera, una militanza e una cifra d’arte, un richiamo e una dimensione esistenziale. Il mondo veneziano dell’arte ne fu sconvolto: non meno gli esponenti della generazione tardo-ottocentesca che godevano di fama e prestigio che l’internazionalità simbolista e decadente, dannunziana e letteraria che gravitava attorno alla Biennale e al suo segretario Fradeletto.
Ci furono indubbiamente aree comuni e margini di sovrapposizione fra i due mondi, così come c’erano artisti che per collocazione generazionale, per esperienze vissute, per scelte stilistiche si situarono in una fascia intermedia fra questi due universi, ma non poterono (né vollero, probabilmente) mediare, né avrebbero potuto farlo: lo scontro divenne guerra aperta tra istituzioni.
La Biennale, che pure era innegabilmente una diretta emanazione dell’amministrazione cittadina, si trovava a esser contestata da un’altra costola dello stesso ente, visto che anche il sistema Bevilacqua La Masa-Ca’ Pesaro rappresentava una creazione della medesima matrice (lo rilevava con disarmante lucidità lo stesso Barbantini in una lettera a Fradeletto nell’ottobre del 1912, quindi nel corso di una delle accese dispute tra i due poli, scatenata, questa volta, da un insinuante articolo di Diego Angeli sul «Giornale d’Italia»: «Nulla sarebbe da parte nostra più scorretto e più sleale dal momento che, protetti dal Municipio in casa del Municipio, pretenderemmo di offendere un’istituzione Municipale»; vi è forse un eccesso di zelo in Barbantini nel dichiarare comportamento ipoteticamente scandaloso quel che era, in effetti, una realtà di pubblico dominio(14)).
Al mondo dell’ufficialità accademica che costituiva il milieu biennalesco e alla tradizione tardo-ottocentesca veneziana cui s’è fatto cenno appartenevano artisti come i Ciardi e Alessandro Milesi, Ettore Tito e Cesare Laurenti, quindi Mario De Maria, Bartolomeo Bezzi, Pietro Fragiacomo, Lino Selvatico: essi guardavano, se pur in maniera diversa e personale, anche al variegato mondo del simbolismo nazionale e internazionale che si articolava su una estesissima gamma di declinazioni e di linguaggi: da Sartorio a Michetti, da Whistler a Millais, da Khnopff a Böcklin, da Puvis de Chavannes a Burne-Jones fino a Hodler; che si alimentava di sensibilità decadenti e ‘nere’ (si pensi a Rops), che praticava l’allegoria, la citazione letteraria, il messaggio cifrato, la costruzione elitaria e colta, il gesto dannunziano, il materiale prezioso e raro.
Le esposizioni di Ca’ Pesaro si discostano da questa declinazione per avvicinarsi sensibilmente al mondo Sezession (quindi Monaco, Vienna, Darmstadt) in chiave anche decorativa; mettono originalmente a frutto la lezione dei Nabis e di Pont-Aven, accolgono Boccioni, alimentano la ricerca martiniana sulla scomposizione delle forme e dei volumi, ma anche Felice Casorati può realizzarvi una personale. I nomi dei capesarini sono ben noti: Wolf Ferrari, Gino Rossi, Arturo Martini, Tullio Garbari, Umberto Moggioli, Ugo Valeri; quindi Vittorio Zecchin, Ubaldo Oppi, Mario Cavaglieri, Guido Marussig, Napoleone Martinuzzi, Guido Cadorin, più tardi Semeghini e altri ancora(15).
L’esperienza dei capesarini durerà tra contrasti e opposizioni appena una dozzina d’anni (il suo momento eroico può infatti considerarsi concluso con il 1920): ma sono gli anni sconvolgenti e creativi che si dipanano attorno alla Grande guerra, che vedono, sotto l’immane tragedia, finire un mondo. Non si può disconoscere che si tratti, in Italia, di una delle poche esperienze di avanguardia artistica in anni prevalentemente dominati dalla retorica simbolista.
Gino Rossi e Arturo Martini sono unanimemente considerati le personalità di maggior spicco di quella esperienza: itinerari di formazione ed esiti di una produzione drammaticamente e prematuramente interrotta per Rossi e, al contrario, di lunga e fertile durata per Martini sono stati in questi ultimi anni puntigliosamente indagati. Non è qui il caso di ripercorrere le tappe né le declinazioni linguistiche di questi o degli altri protagonisti della ribellione capesarina. Va semmai sottolineato proprio questo carattere di secessione e di ‘rivolta’ rispetto soprattutto al clima per molti aspetti pompier della Biennale. Ma va non meno nettamente sottolineato come l’operazione Ca’ Pesaro sia stata montata e giocata con genialità e spregiudicatezza da Nino Barbantini; e, ancora, come l’azione stessa di Barbantini non avrebbe forse sortito gli effetti dirompenti che ebbe senza il fiancheggiamento amichevole e assiduo di Gino Damerini dalle colonne della «Gazzetta di Venezia».
Insomma: nei primi due decenni del secolo l’arte veneziana (ambiente, linguaggi, personalità, ceto di riferimento, collezionisti, attenzione critica e così via) viene radicalmente e irreversibilmente trasformata da una parte grazie alla finestra internazionale spalancata dalla Biennale (pur con tutte le angustie, i limiti e le manchevolezze che si son sempre dichiarate) e, dall’altra, dall’azione incisiva e qualitativamente nuova e dirompente della vicenda di Ca’ Pesaro. Ma è lo stesso Barbantini a mettere in guardia circa l’oggettiva portata — spesso enfatizzata — e i limiti stessi di Ca’ Pesaro: egli li addita allorché, alcuni anni più tardi, si trova a rievocare l’esperienza capesarina. L’uomo lo fa con ammirevole understatement — soprattutto se pensiamo alle roventi polemiche, ai continui contrasti, alla guerra aperta che lo avevano contrapposto alla Biennale — indicando tra i fattori che hanno segnato la fine della stagione capesarina proprio un’insospettabile capacità di rinnovarsi da parte della mostra dei Giardini: «A modificare poi in definitiva la natura e le funzioni di Ca’ Pesaro intervenne, di lì a poco, l’indirizzo innovato delle Biennali, che cominciarono e continuarono egregiamente ad accogliere in casa loro i giovani di merito con la fiducia più sollecita». Si deve vedere dell’ironia in questa affermazione? Non si può escludere; ma, proseguendo nel suo discorso, Barbantini aggiunge che, dopo il 1920, pareva opportuno conformarsi «alle circostanze e alle convenienze che da allora [dalla stagione eroica delle battaglie] sono dunque sostanzialmente mutate». E conclude con un abilissimo periodo tutto in raffinato ‘calando’: «Ca’ Pesaro dunque può vantare un primato [nei confronti della secessione romana e delle azioni della «Voce» e di «Lacerba»]. Se non temessimo le nostalgie e le tenerezze che rendono parziali e sentimentali, oseremmo accennare a una loro importanza storica. Limitata naturalmente alla storia artistica d’Italia o per lo meno della regione»(16).
Come critico militante Barbantini fornisce alcune pagine illuminanti; in particolare un suo breve articolo in occasione della personale di Klimt alla Biennale del 1910 resta un testo di riferimento importante e controcorrente e, in maniera indiretta, fornisce il retroterra per così dire ‘teorico’ alla sua stessa creatura militante, Ca’ Pesaro. Barbantini quindi non solo nega che Klimt sia il pittore ‘decorativo’ che la maggioranza dei critici vorrebbe; ma altresì il grande viennese gli appare espressione alta e consapevole di aderenza alla realtà e in particolare sintonia con i caratteri peculiari della cultura del momento: «è fatale che l’arte nostra sia inquieta e nervosa, perché anche il nostro tempo è così»(17).
Troveremo Barbantini impegnato in altre avventure artistiche veneziane in posizioni da protagonista, ma si tratta di un altro ordine di problemi, lontani comunque dal mondo febbrile e magmatico dell’arte contemporanea.
Non tutto il mondo dell’arte veneziana si esaurisce nella dialettica Biennale-Ca’ Pesaro. Uno dei fenomeni più interessanti è certo costituito dalla figura e dall’attività di Mariano Fortuny(18).
Fortuny significa ben di più di un artista versatile e a tratti geniale: in questo caso sarebbe troppo facile individuarne i limiti e additarne le contraddizioni; egli ha infatti rappresentato con evidente complessità e con altrettanto riconoscibile successo una dimensione della venezianità, una sua interpretazione (e un suo accorto sfruttamento, anche commerciale), anticipando attitudini e tendenze destinate a imporsi e a durare sia come visionario mito letterario, sia come straordinario mercato dell’immagine: comunque venezianocentrica.
Sarebbe imperdonabile ingenuità sottovalutare l’impatto e il credito di cui il mondo di Fortuny ebbe a godere in pratica presso tutta l’intellettualità europea più à la page del primo Novecento. Proust coglieva acutamente il viluppo di sensazioni, parole, concetti, evocazioni che sprigionava dai materiali Fortuny: «quelle vesti di Fortuny, fedelmente antiche ma potentemente originali facevano comparire come uno scenario, ma con maggior forza rievocativa, perché lo scenario restava da immaginare, la Venezia tutta impregnata d’Oriente in cui esse sarebbero state indossate e in cui erano, assai più di una reliquia del tesoro di San Marco rievocatrice del sole e dei turbanti all’intorno, il colore stesso, frammentato, misterioso e complementare. Di quell’età tutto era scomparso, ma tutto rinasceva, rievocato per collegarla tra loro dallo splendore del paesaggio e dal brulichio della vita, dal risorgere parcellare e superstite delle stoffe delle dogaresse» (La prigioniera, traduzione di Paolo Serini, Milano 1963). La sensazione finale era che questa città fosse soltanto il parto ambiguo e poetico di una qualche sensibilità collettiva e febbrile, un fantastico ‘gioco’ di società; vi partecipavano il bel mondo mitteleuropeo, la nobiltà bassodanubiana, i circoli teosofici ed esoterici, gli artisti secessionisti e klimtiani, gli architetti cimiteriali, i musicisti e gli scrittori: Robert de Montesquiou, Reynaldo Hahn, Ernesta Star, Henri de Régnier, Maurice Barrès, Ferdinand Bac, Hugo von Hofmannsthal, D’Annunzio, la Duse e una schiera pressoché infinita di personaggi votati letterariamente al culto della ‘morte’ ma ben decisi a frequentare la vita.
Il mondo di Fortuny, quello dei secessionisti di Ca’ Pesaro, l’universo dei simbolisti e dei pittori in nero (da De Maria ad Alberto Martini) fino ai dannunziani paiono — incredibilmente! — condividere un dato di fondo, una sostanziale opzione ‘nordica’: vi si impastavano la lezione di Ruskin e la passione gotico-cimiteriale; Wagner e le saghe medievali; l’ellenismo nero-oro di von Stuck; satiri, ninfe, caproni e amazzoni di Böcklin; l’avvolgente decorativismo svedese; gli enigmi di Max Klinger e il fregio beethoveniano di Klimt; realismo e preraffaellismo inglesi; i sogni inquieti di Hodler. Vittorio Pica la definiva «ossessione nordica»: «parecchi dei nostri pittori [egli scriveva] specialmente se veneti o lombardi, si appalesano profondamente influenzati dall’arte nordica, tanto da rinunciare ad alcuni tradizionali caratteri dell’arte italiana per presentarsi camuffati da Scozzesi, da Scandinavi o da Tedeschi»(19).
Ecco: il mondo artistico veneziano era profondamente influenzato da questi umori pur così contraddittori e talvolta addirittura antitetici miscelati in una pozione neoeclettica a sfondo bizantino-medievale policroma e ridondante che ammanniva in una coppa avvelenata madreperlacea e cangiante, minacciosa come un mostro di Carpaccio, «a imagine d’una smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide» per dirla con Stelio Effrena; seducente, vellutata e ingannevole come i tessuti di Fortuny. Delicata e sfrontata, «inquieta e nervosa» come una Giuditta di Klimt.
Comunque è certo possibile collocare a cavallo della Grande guerra un’ineludibile svolta anche dentro le ‘altre’ cose d’arte veneziane: di una città, oltre tutto, che si dibatteva ancora tra il ruolo di protagonista sul palcoscenico culturale internazionale e quello di semplice ‘vetrina’ per esperienze e fenomeni concepiti e sviluppati altrove. Questa vera o presunta alternativa costituirà per decenni una spina dolorosa, una parola d’ordine, uno slogan, un cauchemar, infine, per molta intellettualità veneziana e si colorirà via via di sfumature provinciali e localistiche (simili a quelle che hanno tormentato e tormentano ancor oggi con angustia a stento dissimulata un nuovo dibattito, quello circa la legittimità per la terraferma veneziana — leggi: Mestre — di autonomo e qualificante protagonismo culturale) o assumerà altra volta i caratteri di una difficile e impegnativa ricerca sulle condizioni e le ragioni di una decadenza culturale che nel corso dell’intero Novecento avrebbe condannato a una ineluttabile perifericità Venezia e la sua vita culturale rispetto ad altri più dinamici e aggiornati centri del mondo artistico nazionale e internazionale (ma anche di questo assunto, così come di altre affermazioni raggrumatesi in coriacei luoghi comuni, risulta assai arduo fornire dimostrazioni inconfutabili, a riprova, se possibile, della natura ‘ideologica’ di un ulteriore — moderno e postmoderno — mito veneziano).
Il nodo forse più complesso e rivelatore è quello che si è venuto costituendo attorno a una questione per dir così insieme di principio e di metodo: quella del rapporto del presente con la storia e, quindi, circa la compatibilità del moderno con l’antico da una parte e circa la necessità (insieme obbligo e opportunità) del rinnovamento non meno che della conservazione. Appare evidente che l’emergere di siffatte problematiche gettava una nuova luce e alimentava nuove polemiche in particolare (ma non solo) nell’ambito dell’architettura e della ‘forma’ della città concretizzandosi nelle ricorrenti controversie sul restauro (come disciplina oltre che come pratica e concreta e quotidiana operatività) e su particolari interventi di restauro sentiti e vissuti come esemplari ed emblematici dei limiti, dei vincoli e degli stessi orizzonti di professionalità e competenze emergenti.
L’ottica non era decisamente più quella pionieristica vissuta nel secondo Ottocento, anche perché andava oramai a morire la stagione degli storicismi e la stessa indifferenziata fioritura eclettica mostrava la sostanziale inconcludenza dei propri orizzonti.
Il terreno, anche in quest’ambito, appariva ricco di potenzialità da sfruttare e la sfida (modernità e/o conservazione) degna d’essere raccolta, si vedrà con quali esiti.
Se quindi la Biennale è stata, sotto molteplici punti di vista, un punto di partenza obbligato per il nostro discorso, è anche apparso evidente come sia indispensabile (anche per cogliere quanto essa esprimesse esaustivamente o meno del mondo artistico cittadino) procedere a una non piccola serie di distinguo e ampliare il giro d’orizzonte a una più estesa e complessa categoria di fenomeni. E se è anche oramai certo che essa sia nata per volontà e lungimiranza di un cenacolo scarsamente omogeneo di intellettuali impegnati nella vita politico-amministrativa della città (così come recita la giaculatoria dei ‘santini’ oramai quasi consunti della mitologia veneziana) è ancor più vero e sostanziale che essa facesse parte di un disegno di politica culturale che può esser letto nelle stesse linee amministrative della giunta laico-progressista di Riccardo Selvatico.
La creazione della Biennale, insomma, si accompagna ad altri progetti e provvedimenti che debbono essere assieme a essa valutati e che, nell’ambito della proposta amministrativa e culturale del sindaco-poeta, rivelano come una delle problematiche preferite e qualificanti dell’azione del sindaco fosse proprio quella circa la produttività della storia: né si può certo negare che essa risulti la tematica dominante dell’intero Novecento cittadino.
Tornando a Selvatico, occorre avvertire che la sua stessa azione amministrativa si dibatte tra tendenze diverse e forse contrastanti; ma è indubbio che egli sia portatore di attitudini e sensibilità complesse e problematiche. Proprio la quasi febbrile necessità di ‘far rendere’ la storia, cioè di farla risultare economicamente produttiva e rilevante, è in lui però unita alla lucida consapevolezza del pericolo costituito da un eventuale appiattirsi sulla rievocazione, e alla volontà che la città non abdichi al destino (e, anzi, alla necessità) di trasformarsi in un laboratorio della modernità: ecco allora la Biennale, ed ecco il progetto per l’istituzione di una Scuola Superiore d’Architettura; ma ecco, altresì, il rilancio in chiave storicistica della Regata storica (né l’aggettivo è meno pregnante del sostantivo!). E se da una parte la sua produzione letteraria s’innerva in maniera quasi dolente sull’oramai dilaniante contrasto tradizione/modernità, è anche vero che nel corso del suo sindacato s’avviano programmi e prendono corpo provvedimenti che paiono prendere lucidamente atto delle necessità concrete e ineludibili di una società profondamente e drammaticamente squassata da contrasti e lotte(20).
Ma è la città come luogo fisico e come forma della polis, come teatro di una storia e come essa stessa protagonista di una vicenda oltremodo complessa e, insieme, emblematica; come mito vivente di una condizione esistenziale, come conferma e negazione quotidiana di una diversità al contempo presunta e aborrita: questa città è decisamente la misura dello ‘spazio mentale’ e del ‘tempo virtuale’ in cui essa costruisce ‘anche’ una vicenda artistica a propria immagine e somiglianza, incurante del fitto petulante blaterare circa una ‘fine’ (del tempo? della storia? della coscienza?) che coincide con una celebre data, il 1797, che si connota oramai forse più opportunamente con i bagliori freddi dell’alba piuttosto che con quelli corruschi e tragici del crepuscolo.
Se a fine secolo si poteva considerare terminata la maggior parte dei lavori urbanistici ‘classici’ della cultura ottocentesca (rettifilo di strade, ampliamenti, allineamenti, nuovi passaggi attraverso compatte tessiture edilizie), avanzavano, invece, altre esigenze e differenti orizzonti metodologici e si veniva delineando con preoccupante puntualità una scontata contrapposizione: il rifiuto senza remissione, quando non anche la demonizzazione, delle ‘novità’, da un lato; dall’altro lato la più difficile e problematica attitudine critica e autocritica a favore d’una strada fatta di sperimentazioni e ricerca il cui punto d’arrivo poteva apparire fortemente oscillante e rischioso.
Mentre i più accorti studiosi della ‘tradizione’ vigilavano ringhiosi a difesa dei caratteri originali, del ‘colore locale’, dello spirito e della lettera dell’urbanistica e dell’architettura veneziane, quasi al riparo di tale poderoso ombrello ideologico veniva avviato un non trascurabile lavorio di sostituzione, integrazione, di mímesis (talora dissimulato con furbesca e accorta abilità) di una porzione tutt’altro che marginale del patrimonio edilizio storico cittadino. La contraddizione è, come sempre in questi casi, solo apparente.
C’era stato ancora nel vecchio secolo un momento nel quale la lucidità dell’analisi e la ragione positiva del progetto culturale avevano mostrato di volere e forse poter superare l’emotività irrazionale dell’invettiva e la corrosività disgregante della polemica, ma gli avvicendamenti politici seppellirono, prima ancora che potessero vedere la luce, tentativi generosi e originali.
Si è fatto cenno all’intenzione del sindaco Selvatico nel corso della sua troppo breve esperienza amministrativa a capo del Comune di Venezia, di dar vita in città a una Scuola Superiore di Architettura; progetto, come si sa, destinato a rimaner incompiuto fino alla ben più tarda creazione dello I.U.A.V. (Istituto Universitario di Architettura di Venezia)(21).
Il segnale non era certo da sottovalutare ed è l’indizio inconfutabile della originalità e dell’acutezza con cui il sindaco individuava e intendeva affrontare la grave crisi disciplinare in atto, coniugandola allo specifico della realtà veneziana. L’intuizione era lungimirante e coraggiosa: legare — coûte que coûte — la crisi dell’architettura contemporanea a quella che insidiava il volto della città, condizionandone le scelte di rinnovamento o di conservazione; una volta di più si trattava di una questione di linguaggio e di storia.
Selvatico certo raccoglie umori e sensibilità diffuse, sente il montare d’una serie di contraddizioni che già son venute segnando oltre la forma materiale della città anche la natura e i modi di una discussione che sovente è divenuta disputa; sente anche, evidentemente, l’angustia di numerose prese di posizione e la pericolosità di uscite irrazionali. Egli non partecipa alle polemiche: al contrario, avanza una proposta costruttiva e di qualità sostanzialmente diversa e più alta, tentando così di ricondurre ad ambiti propri e pertinenti un dibattito di considerevole portata.
Questa prova appare — pur nelle imprecise linee di svolgimento entro le quali è possibile ricostruirla — non meno significativa per la sua qualità che per il fatto stesso di essere stata avanzata.
Forse sull’esempio della prestigiosa Scuola Superiore di Commercio veneziana a Ca’ Foscari e sull’onda del dibattito parlamentare e giornalistico circa le Scuole d’Architettura, Selvatico e i suoi collaboratori scelgono infatti di praticare un itinerario diverso rispetto alla riforma di un ramo della vecchia Accademia di Belle Arti — che ancora sfornava professori di architettura secondo l’usato sistema — o dell’attivazione di un nuovo politecnico o d’una scuola d’ingegneria — ben presente e quotata nel vicino Ateneo padovano — ricorrendo a uno strumento nuovo e pluridisciplinare, adeguato a dibattere e a risolvere i numerosi e vasti problemi che su tutta quest’area di attività e di elaborazioni culturali si erano addensati sempre più numerosi oramai da parecchi decenni.
Né è senza significato che fosse chiamato a far parte della commissione di studio appositamente istituita proprio Camillo Boito: le radici culturali dell’operazione sarebbero quindi andate ad alimentarsi nell’humus più ricco e più fertile della riflessione e dell’indagine storico-architettonica del momento.
Tra proclamazioni d’intangibilità assoluta, gli sforzi generosi di Selvatico e del suo gruppo, l’‘indifferenza’ linguistica ed etica di molti operatori urbani, di fatto che succede in città nei cruciali, sotto molti punti di vista, primi decenni del nuovo secolo?
Il campo si presenta variegato e per molti versi contraddittorio. S’è avuto altre volte occasione di segnalare qualche — e non sempre positiva — emergenza(22). Mentre Alfredo Melani lamentava Venezia malata di «passatismo» architettonico, il direttore de «L’Architettura Italiana», Giovanni Lavini, sollecitava i veneziani a non volere il «nuovo» («Non abbiano i Veneziani aspirazioni democratiche ed industriali. Pensino unicamente a forbire questo prezioso gioiello ed a sfruttarlo nell’ammirazione mondiale»(23)). Il primo direttore della Soprintendenza ai monumenti, l’architetto Massimiliano Ongaro, auspicava, d’altro lato, l’individuazione di una via ‘nazionale’ — sull’esempio balcanico e mitteleuropeo — per la moderna architettura veneziana(24). Otto Wagner si augurava, come s’è detto, che si avesse il coraggio di erigere il nuovo campanile in una diversa ubicazione dell’area marciana e in un linguaggio architettonico moderno (e scatenava con ciò una vera bagarre).
Più sommessamente — anche se trovandosi spesso dentro l’infuriare di polemiche non di rado pretestuose — alcuni architetti venivano svolgendo il loro lavoro e la loro ricerca con professionalità e rigore. In parallelo altri — forse i più — approfittavano della situazione d’emergenza per mettere a segno operazioni di massacro edilizio biecamente speculatrici.
La linea d’interpretazione più interessante e più attendibile appare essere quella di Alfredo Melani(25); ma anche negli scritti di Ongaro vi è qualche inattesa notazione originale: a suo giudizio, infatti, appare del tutto incomprensibile che quegli stessi artisti e critici che propugnano una pittura e una scultura ‘moderne’, pretendano che «l’architettura moderna veneziana [debba] limitarsi ad una rifrittura di un’arte che mal si accorda alle costumanze della vita nostra, collo specioso pretesto che è delitto mutare il carattere di questa Città […]. Con buona pace loro io trovo che hanno torto. Venezia è bella perché fu moderna sempre […] e perché viva e prosperi deve amare la modernità che le conferì tanta gloria d’arte che le conservò giovinezza […]. Io penso che [Venezia] ha il diritto di vivere e di rinnovellarsi conservando bensì gelosamente le gioie col tempo accumulate ma ornandosi di sempre nuovi gioielli, doni appassionati di novissimi amanti»(26).
Ma attenzione: dietro le proclamazioni di apertura e di modernità si cela una visione dei problemi non propriamente rassicurante: dichiarato che non si debbano seguire i «tentativi di innovazione fatti all’estero», ci si trova pur tuttavia davanti a un dilemma: da un lato la tendenza che «cerca d’interpretare il sentimento e la tradizione antica della Nazione»; dall’altro lato la linea che «si dà alle stranezze affettando ingenuità». «Della prima offre un bellissimo esempio l’Ungheria che seppe con gli elementi bizantino-orientali creare dei tipi che realmente armonizzano con tutte le espressioni d’arte paesane, dalle sculture rozze dei contadini, alle rustiche, ma grandiose e caratteristiche fabbriche sparse nelle vaste praterie. Arti siffatte noi possiamo, anzi dobbiamo ammirarle […]. La preferenza dagli innovatori fu data alle arzigogolate stranezze ed alla rigida nudità della nuova architettura viennese e tedesca che or sembra imitare i duri movimenti a scatti dei loro soldati in parata, ora le eccentricità appariscenti delle donnine allegre».
Come si vede, discorso e argomentazioni oscillano paurosamente e pericolosamente tra inutili tautologie e contraddizioni palesi. Il tutto risulta condito e servito sul piatto avvelenato della retorica venezianista e del pressapochismo critico: questo e quella furono, di fatto, la via maestra delle peggiori storie e querelles lagunari.
Sì al nuovo, anzi: si faccia strada decisamente al moderno; ma un nuovo radicato all’antico; non imitazione ma elaborazione, non localismo ma stile nazionale: tutto e il contrario di tutto; ma non per malizioso espediente o trappola furbesca, bensì per povertà e angustia culturale, per incapacità reale di giudizio, per acquiescenza a una dimensione di conservatorismo banale, provinciale e consunta.
Simile a questa la posizione di Alfredo Melani: ma solo a prima vista.
Di fatto Melani compie un percorso esattamente antitetico, soprattutto egli è in grado di sviluppare un’elaborazione critica di singolare originalità e di non meno rilevante lucidità. Anche Melani parte dalla considerazione che il rinnovamento nei linguaggi figurativi in atto nel primo scorcio di secolo non ha coinvolto l’architettura veneziana.
Se è vero che «le innovazioni edilizie sono insostenibili a Venezia perché ne toccano l’anima», è anche vero che tali posizioni determinano, verso il nuovo, una «abitudine allo sconforto»; la città è stata condotta «ad essere un museo, una città da visitatori sentimentali, una città che si sacrifica per il suo decoro e per il decoro nazionale»(27).
«Eppure [prosegue Melani] il decoro che Venezia austeramente sostiene, potrebbe ritrovarsi in un più facile eccitamento alle cure architettoniche moderne, in una minore debolezza verso la tradizione, in una più esatta percezione del passato e delle sue finalità […]. Ebbene: perché Venezia non vuole unire alla sua corona la nuova gemma della modernità, perché vuole mostrarsi insensibile agli squilli dell’arte attuale? Ossia arte attuale no, la insensibilità di Venezia è soltanto alle pietre, ai marmi, ai mattoni […]; è soltanto all’architettura e all’arte decorativa che dovrebbe ‘apporter du neuf’ secondo l’espressione dell’Huysmans, a tutti i costi. Ché pel resto Venezia è all’avanguardia avendo fatto conoscere prima d’ogni città d’Italia i Rodin, i Puvis de Chavannes, i Whistler, i Monticelli, i Klimt, gli scultori e pittori più audaci che vanta il mondo attuale. Perciò havvi qui un errore di valutazione».
Vi sono tuttavia alcuni giovani architetti che, pur dentro una prospettiva storicistica, mostrano attenzione al nuovo: «Lenta dietro ad essi si può svolgere la linea dei modernisti, ma l’inizio è tutto. E se domani a Venezia un architetto felice erigesse una casa nello stile moderno presso una deliziosa palazzina gotica, egli avrebbe più meritato gli elogi di chi imitando bene o copiando, conseguisse il diritto alla parola amica». Questi giovani sono Giuseppe Torres, Giulio Alessandri, Ambrogio Narduzzi, Giovanni Sardi (oltre a quel Guido Costante Sullam i cui «tentativi al Lido […] sono combattuti anche se vivono lungi dalla Basilica d’Oro e dal Palazzo Ducale»)(28). Pur dentro l’ambito della «stilistica medievale» la loro opera ridonda di «speranze dell’architettura moderna ispirata ai più puri ideali di nobiltà». Tra debolezze, tentativi, studio attento e sperimentazioni, filologia e ricerca ci troviamo di fronte a fatti qualitativamente nuovi: da «queste espressioni d’arte all’architettura che io amo, che domani tutti ameremo, la distanza non scoraggi […]. La preparazione architettonica medievalistica potrà trarli [i giovani architetti di cui si parla] inconsapevolmente sul nostro cammino».
Melani, cioè, giunge a riconoscere le radici d’una possibile stagione modernista dentro una particolare cadenza della filologia storica. Di più: è lo storicismo veneto-bizantino quello che, insensibilmente e forse «inconsapevolmente», conduce all’arte nuova.
Criticamente il giudizio non era di poco conto: riconduceva infatti le piccole virtù dei ‘giovani’ veneziani a un ben più vasto e significativo filone di riletture spregiudicate e libere, si potrebbe dire ‘pretestuose’ e forse strumentali rispetto alla provocatoria pratica di linguaggi assolutamente e non casualmente modernisti. La via di questa filologia apriva quindi un — forse tortuoso — percorso verso la liberazione dalle ipoteche della storia (nemmeno l’exploit futurista di due anni innanzi — la forse troppo citata sceneggiata «contro Venezia passatista» — presentava elementi così concretamente, puntigliosamente innovatori).
In realtà figure come quella di Giuseppe Torres(29) venivano scrivendo un loro sommesso e rigoroso itinerario sospeso tra vecchio e nuovo, tra modernità e passatismo. Egli infatti tra raffinato e raffinatissimo esoterismo in chiave veneto-bizantina, tra messaggi e suggestioni cripticamente proposti in cifra, tra ricerche d’ornato religioso e la sperimentazione di composizioni policrome e polimateriche veniva coltivando un suo sogno «moderno» di considerevole qualità architettonica: il clima ‘secessione’ evocato nella serie di ville progettate per il concorso C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi) del 1914, la magica atmosfera olbrichiana di altri progetti, la ripresa wagneriana del Tempio votivo del Lido, la spoglia eleganza della sua «città giardino» ovvero gli eleganti restauri in città, tutto questo affermava con dignità di scrittura e sincero afflato di ricerca l’istanza e la possibilità del rinnovamento (e confermava, tra l’altro, la perspicuità della lettura che Melani ne veniva proponendo).
Non ci soffermeremo su altri architetti e altre opere (di essi si è altra volta avuto occasione di parlare). Va invece ricordato che mentre queste ricerche (non tutte certo del livello del lavoro progettuale di Torres, anche se non spoglie di pregi: si pensi a taluni lavori e progetti di Berti e ad alcune cadenze di Raffaele Mainella(30)) venivano prendendo corpo e producendo la piccola ma non trascurabile frangia della più qualificata edilizia studiata e prodotta nel primo Novecento, si mettevano a segno operazioni di tutt’altra qualità e natura: si considerino soltanto le profonde e insanabili riscritture che i Fano attuavano in varie parti di città, ma soprattutto la riprogettazione della fronte posteriore delle Vecchie Procuratie; il totale rifacimento dell’insula che da campo S. Luca giunge in pratica fino al Canal Grande; si consideri la palazzina a fianco del Fondaco dei Tedeschi presso Rialto. È una storia che si ripete fino ai nostri giorni: le polemiche sugli interventi di qualità creano — oggettivamente e non infrequentemente — spazio per le distruzioni e per le peggiori manomissioni o edificazioni ex novo.
La linea Melani viene contraddetta e sconfitta dalla retorica letteraria e dalla fattività degli operatori più spregiudicati. Ma, in realtà, quale fu (se ci fu) il posto del nuovo in città?
Va prima di tutto distinta l’area veneziana in senso stretto dall’anello in qualche modo periferico dell’isola della Giudecca e del Lido: se il Lido era una sorta di zona franca dove molto si concedeva alla moda e qualche spazio alla sperimentazione, la Giudecca — bilanciata tra industrializzazione e quartieri popolari — poteva, quasi per ripiego e, comunque, per forza di cose, esser considerata con occhio diverso rispetto al ‘centro’ città inteso in senso riduttivo ed esclusivo. I quartieri di edilizia sovvenzionata (per il loro carattere specifico, per il fatto di costituire realtà in qualche modo ‘tra parentesi’ rispetto al continuum del tessuto storico, per la loro destinazione non meno che per una ubicazione non propriamente emergente) aprirono a più riprese qualche squarcio nella storicità compatta della realtà edilizia veneziana: ma non si tratta quasi mai di linguaggi qualitativamente significativi (una qualche inusuale proposta di Ambrogio Narduzzi alla Giudecca — ma siamo già agli anni Venti — fu sistematicamente e tenacemente avversata e bocciata dalla commissione all’ornato)(31).
Eppure una rilevantissima, almeno percentualmente, porzione di città veniva in pratica ‘sostituita’ da nuove edificazioni e da radicali riforme: assieme alla vasta fascia edilizia tra S. Marco e S. Luca e da qui a S. Bartolomeo; assieme alle infrastrutture e ai servizi della testata occidentale della città; assieme ai «quartieri» popolari, agli interventi come quello della Pescheria di Rialto, del Mulino Stucky e di tutte le connesse e collegate iniziative, alle grandi moli degli istituti scolastici, delle banche, a qualche casa isolata, a impianti sportivi e a edilizia industriale fino all’atipico discontinuo e a tratti patetico Villaggio delle Muse(32) costituito dai Giardini della Biennale tra S. Giuseppe e S. Elena, tutto questo veniva tessendo la trama fitta e dissimulata di una città nuova e in certo senso diversa. Se l’Ottocento si era fatto in qualche misura ragione di vanto il mirare alla modernità, il primo Novecento veniva per la gran parte mimetizzando il più possibile tra edilizia antica e magari profondamente manomessa le proprie necessità d’aggiornamento funzionale, di adeguamento dei servizi, di più intensiva utilizzazione dei volumi.
Gli auspici e le prefigurazioni di Melani cadevano quindi per buona parte nel vuoto.
Nella combattutissima questione circa la conservazione del ‘volto’ di Venezia non possono essere ignorati il ruolo e l’opera di Pompeo Molmenti(33).
Figura spregiudicata di politico e di amministratore in continua oscillazione tra i partiti e gli schieramenti sia in sede locale che nazionale, ma efficacissimo studioso e divulgatore di storia e d’arte della Serenissima e inflessibile protagonista di primissimo piano di ogni battaglia a favore dell’intangibilità dei caratteri originali (veri o presunti) della città e, soprattutto, paladino agguerritissimo contro l’idea, ricorrentemente avanzata, della costruzione del ponte carrozzabile tra Venezia e la terraferma da affiancare a quello ferroviario. Se le posizioni assunte da Molmenti — soprattutto quelle legate a situazioni contingenti e connesse a fatti ed episodi della vita amministrativa di Venezia — possono risultare caduche e spesso ideologiche e anacronistiche, egli ha invece avuto un peso eccezionalmente consistente nella creazione di una diffusa sensibilità conservativa che ha ampiamente travalicato la portata e l’ambito delle belle arti e dell’architettura per divenire un abito mentale, un’attitudine capillarmente radicata per cui il rapporto con il passato non può che tracimare enfasi e rimpianto, si dibatte tra il lamento e la recriminazione; esalta saggezza, prudenza, carità, genialità dei padri; lamenta la perdita degli antichi valori e depreca quelli attuali. Linguisticamente, si tratta di un impasto di giri di frase, figure retoriche, banalità disarmanti e asserzioni indimostrabili; ma si tratta anche di un curioso sostrato da cui usciranno invenzioni rutilanti e luoghi letterari di straordinaria originalità (si pensi a D’Annunzio, che fa più volte ricorso a Molmenti — come ebbe a fare anche con Fradeletto — per aver consigli e verifiche soprattutto in ordine alle sue invenzioni veneziane, Il Fuoco prima di tutte(34)). La Venezia ‘passatista’ di Pompeo Molmenti è quindi divenuta una cifra interpretativa che ha lasciato un solco profondo nell’evoluzione dell’‘idea’ e della ‘storia’ della città: ha contribuito certo a frenare molti pericolosi o imprudenti slanci interventisti (soprattutto in ambito urbanistico); ma ha contribuito a congelare il dibattito culturale sulla modernità e sulla compatibilità di una modernità qualitativa con le legittime istanze della conservazione. Il blocco ideologico molmentiano ha, in questo senso, partorito mostri e, soprattutto, ha costretto a una condizione di marginalità ogni ipotesi che non si configurasse con i caratteri della mascherata storicistica: al di là della stessa retorica modernista, anche il rifiuto di Wright, Le Corbusier, Kahn è figlio di quest’ideologia, come lo sono gli immensi spazi concessi alla mimetizzazione e alla banalità dell’ordinario.
Ma, nonostante questo, va attentamente distinto Molmenti dal molmentismo dei seguaci e, in Molmenti stesso, il ciarpame retorico da alcune sue visioni originali e anticipatrici di una ‘politica’ del bene culturale, intesa come programma e progetto di tutela e valorizzazione del patrimonio; che questo patrimonio apprezza e di cui predica la intangibile natura di tessuto continuo, diffuso, storico, collettivo; irrinunciabile portatore di conoscenza e di autocoscienza; e, infine, la netta consapevolezza del contesto storico, territoriale e sociale da cui prendono senso e ragione l’opera, il segno, la memoria.
Dopo la Grande guerra, qua e là solo la tenacia sommessa e pregevole di qualche isolata figura d’architetto manteneva viva e praticabile la strada dell’alternativa sia all’ingegneria disastrosa di qualche pubblico funzionario ossessivamente malato di pontismo, di allargamenti stradali, di opere secolari e di realizzazioni del regime, sia alle più corrive sollecitazioni del ‘mestiere’ in anni di ritornante mimetizzazione storicista.
La figura di Guido Costante Sullam(35) si staglia su questo panorama con i caratteri più marcati della ricerca qualitativamente alta e controllata, con un’originalità di linguaggio e una coerenza etica di tutta evidenza. Egli, tra l’altro, può considerarsi una sorta di lungo ponte tra differenti generazioni di architetti, così che il suo testimone sia in termini cronologici sia come continuità e senso di una tesa ricerca disciplinare sarà raccolto addirittura da Carlo Scarpa.
Come per Torres e così come per il nucleo centrale della pattuglia dei pittori capesarini, anche per Sullam l’orientamento culturale è decisamente puntato sul mondo austriaco: Olbrich, in particolare, appare il suo termine di riferimento costante, così come lo sarà la diretta esperienza della colonia di Darmstadt.
Il mondo delle arti applicate, quello del restauro, l’attenzione alle architetture ‘indigene’, una particolare sensibilità didattica segnano il suo cammino immettendolo su itinerari talvolta insoliti e appartati. Anche Sullam sente il richiamo e le tentazioni della filologia, ma compie un’opzione radicale a favore del rinnnovamento architettonico: e ciò anche per l’area di Venezia insulare e nonostante le critiche e gli attacchi feroci cui è inizialmente sottoposto il suo lavoro. Alla fine, però, al di là di incertezze e di alcuni momentanei ripiegamenti, si impone la qualità della sua produzione: il palazzo presso il bacino Orseolo, la casa a S. Maria Mater Domini, il cimitero israelitico di Lido, alcune ville, ristrutturazioni e arredamenti, altri progetti e realizzazioni. Vi troviamo letture anamorfiche di elementi linguistici e grammaticali di certo boitismo colto e ironico; trattamento di materiali e superfici in uso a Darmstadt; conoscenze e acquisizioni che portano fino a Berlage; hoffmannismo e déco in chiave di raffinato citazionismo neo-neoclassico. Il repertorio di Sullam si dispiega con la scioltezza di una cultura internazionale sapiente e sommessa: tra Bassa Austria e Mackintosh, tra Baviera e Svezia, tra D’Aronco e Wagner. La presenza di Sullam presso l’Istituto di Architettura veneziano dove ebbe a ricoprire vari incarichi non si può dire che sia rimasta senza echi, nonostante il suo allontanamento dovuto alle leggi razziali. Richiamato dopo la fine del secondo conflitto mondiale e nominato direttore dell’Istituto, il magistero di Sullam ha durevolmente ispirato l’attività della scuola veneziana d’architettura.
Brenno Del Giudice(36) è forse il più interessante esponente di una generazione di passaggio, di un tempo di mezzo: significativamente anch’egli pratica il versante modernista della sua esperienza dopo esser transitato per una personale e raffinata acquisizione di matrici storiche (nel suo caso un esile, cifrato settecentismo veneziano, un «barocchetto» confinante con suggestioni e scritture di chiave déco). A questa scuola (Del Giudice esce dall’esperienza formativa del gruppo Torres; e qui va citato il fratello più giovane di Giuseppe, Duilio, a lungo attivo) è possibile ricollegare la parte migliore della successiva generazione d’architetti, quella che avrà poi in Carlo Scarpa la figura di più significativa emergenza.
Dal crollo del campanile di S. Marco (e dal dibattito sui criteri e le scelte per la sua ricostruzione) fino al celebre — e rifiutato — progetto Wright per la palazzina sul Canal Grande, è un cinquantennio di vita e di storia della città. Analogamente che per il precedente periodo è possibile dire che molto si è continuato a fare e a disfare, cioè a demolire ed edificare. Ancora una volta convivendo ragioni e modalità perché la città continuasse a vivere e contrapposte operazioni di morte; violenze gravi e insanabili assieme a tentativi di più corretta e lucida progettualità.
È sempre stata tuttavia la pregiudiziale dell’ambiente e dei caratteri locali, pregiudiziale intesa riduttivamente e in funzione di argine al ‘nuovo’, che ha potuto coprire e permettere scempi assai gravi ed esiti provincialmente angusti; la stessa pregiudiziale, accolta a far da platonica foglia di fico a operazioni presentate come «moderne», ha dato spazio a realizzazioni di profilo incredibilmente basso ma connotate da una grande disponibilità al compromesso (magari togliendo automaticamente spazio a ciò che, qualitativamente impegnato, avrebbe rilanciato su basi nuove e alte un aggiornato discorso sulla città).
La notorietà e il credito internazionali maturati dalla Biennale nei suoi primi venticinque anni di vita la tennero per un qualche tempo al riparo da repentini allineamenti alla politica culturale del fascismo. In realtà, quindi, la Biennale conservò un carattere che se è certo azzardato definire liberale non può non di meno essere considerato alla stregua dei più pronti e obbedienti allineamenti che istituzioni di altrettanta o simile notorietà e ufficialità ebbero a patire e a mettere prontamente in essere. Così che lo stesso innegabile — e immancabile — scivolamento verso più corrive rassegne e più docili linee di condotta avviene non come improvvisa capitolazione né come entusiastica adesione.
Nella storia della Biennale risultano cruciali alcuni passaggi: la diversificazione della struttura e la moltiplicazione degli ambiti di presenza e di attività; l’assunzione della segreteria da parte di Vittorio Pica nel 1920 (subentrando a Fradeletto e introducendo un fondamentale fattore di discontinuità rispetto agli anni ‘eroici’ dell’esordio e delle prime affermazioni); la ‘ufficiale’ segreteria di Antonio Maraini a partire dal 1928; la presidenza di Giuseppe Volpi a partire dal 1930 e la contestuale trasformazione in ente autonomo, sottraendola al controllo dell’amministrazione cittadina e giungendo, di fatto, alla realizzazione della ‘romanizzazione’ dell’istituto(37).
Su linee portanti così configurate risultano più chiaramente leggibili fatti e tendenze che ebbero a improntare di sé la Biennale e che non possono essere ricondotti unicamente a scelte d’ordine estetico o di tendenza. Tra tutte varrà forse prendere le mosse proprio dalla moltiplicazione del ventaglio di presenze biennalesche in molteplici settori d’arte e di spettacolo: operazione che si distacca decisamente dall’ambito e dalla tradizione delle prime quindici edizioni della manifestazione.
La segreteria Pica (1920-1926) aveva significato molto nel superamento dei caratteri pompiers, accademia e tardo-ottocento ancora operanti nell’era Fradeletto-Grimani. Significò altresì il definitivo distacco dai regionalismi arti-applicate che avevano furoreggiato tra pesantissimi equivoci nelle mostre prebelliche; aveva, infine, fatto registrare una correzione di rotta in senso decisamente filofrancese nelle scelte di campo culturale, rispetto alla declinazione austro-tedesca sino ad allora prevalente, come s’è visto.
Ma tale gestione — che pure non era più insidiata dalla secessione di Ca’ Pesaro (assorbiti i protagonisti nei gironi dell’ufficialità, invecchiati o scomparsi) — non appariva dotata, salvo forse le due prime edizioni del ’20 e del ’22, di quella capacità di catalizzazione di interessi e vis polemica e di qualsivoglia carica di protagonismo che forse il nuovo clima nazionale avrebbe pur apprezzato. Restava la rete di rapporti e relazioni internazionali che costituiva il vero e proprio patrimonio dell’istituzione e restava un bagaglio di esperienze e successi a garantire la possibilità e la prevedibilità di un rilancio forse imminente.
È quel che avviene attorno al 1930: l’impalcatura istituzionale della Biennale viene quindi sottratta a una gestione reputata troppo locale e troppo culturalmente e organizzativamente dimensionata su un orizzonte periferico. Trasformata in ente autonomo e traslocate le leve di comando nella capitale, essa diviene il miglior trampolino di lancio per un’operazione di politica culturale a dimensione nazionale a suo modo lucida ed efficace: la vecchia macchina biennalesca va detto che reagisce egregiamente alle violente sollecitazioni cui la sottopone il nuovo corso.
La nomina, nel 1928, a segretario generale dello scultore, scrittore e critico nonché commissario del Sindacato nazionale fascista delle belle arti, Antonio Maraini (nomina che Lionello Venturi salutava con parole destinate a risuonare più tardi come sinistre: «È un critico tra i migliori d’Italia: la sua esperienza gli impedirà di commettere gli errori del gusto di moda»), è il primo passo dell’azione intrapresa. Maraini favorirà la mutazione istituzionale di cui s’è detto; ma il suo referente immancabile e determinante sotto ogni punto di vista è costituito da Giuseppe Volpi, nominato presidente nel 1930: la nuova accoppiata reggerà le sorti della Biennale fin dentro la guerra, fino alla macabra edizione del 1942, la XXIII.
Nella generale riorganizzazione dell’intero programma espositivo nazionale, a Venezia continua a essere riservato il ruolo di vetrina internazionale(38): Volpi e Maraini, più che farsene condizionare, paiono in grado di servirsene a favore di un disegno veneziano ambizioso e di ampia portata, certo dimensionato su ragioni e interessi che trascendono l’ambito di un’operazione di politica culturale — o, meglio, che se ne servono con rinnovato dinamismo e con orizzonti enormemente dilatati — per distendersi su terreni e dimensioni partecipi di grandi aspirazioni economiche e macroscopiche strategie finanziarie, industriali e infrastrutturali. Poteri ministeriali, sottobosco politico-affaristico, mascherate storiche e disinvolte scelte speculative uniscono in una nuova miscela a potenziale moltiplicato i vecchi ingredienti della cucina lagunare: gli esiti si riveleranno sorprendenti.
Il panorama artistico veneziano si sta quindi articolando, le sue ambizioni si fanno più complesse; le finalità ultime di un disegno affascinante nel suo gioco di incastri e dipendenze non sempre possono essere direttamente esplicitate; protagonisti, mandanti, comprimari e portavoce agiscono il più delle volte al riparo di coperture retoriche e fitte trame ideologiche: immagini dogali e antiche dignità senatorie diventano i codici attraverso i quali son veicolate parole d’ordine, interessi, gerarchie.
La Biennale, Giuseppe Volpi — il suo potere e il suo carisma imprenditoriale e affaristico —, l’arte nelle sue forme classiche e moderne, il turismo, l’industria e la cultura, la storia giocano a Venezia le carte di una partita la cui posta è gigantesca: l’istituzione-Biennale diviene quindi una tessera dentro un ben più esteso mosaico. Al punto che i ‘contenuti’ delle esposizioni, le scelte estetiche e critiche paiono, tutto sommato, fattori secondari rispetto al funzionamento disinvolto e agile, economico ed efficiente della macchina-Biennale. La poesia, la musica, il teatro, soprattutto il cinema nella mondanissima spiaggia del Lido — che dal 1930 in poi ne costituiscono il nuovo campo d’azione, ulteriormente potenziato e strutturato per legge nel 1938 — dichiarano apertamente con la loro presenza tale caratterizzazione moderna, fastosa e festivaliera della nuova Biennale, la sua vocazione mondana e, appunto, una volta di più, internazionale. Mai eccessivamente rigorosa o esigente sulla ‘linea’ (tanto che le varie edizioni vedono affastellati esponenti di regime, personaggi di margine, Novecento, futuristi, aeropittori e deuterofuturisti, razionalisti incerti, metafisici, neoclassici e déco, nuova oggettività e neorinascimento, plasticismi e scuole regionali…), la Biennale fu forse più pretesto che discorso, più vetrina, più schermo, più cerimonie e feste in costume, più spettacolo che ricerca e documentazione, più occasione e più business che grande evento culturale. In questo senso nel panorama severo o miope della politica fascista delle arti e nonostante la sua ufficialità sancita e riconosciuta, essa appare un fatto sostanzialmente atipico ma non meno organico e, anzi, necessario a dar lustro — e gambe — a quella politica.
Il clima culturale tra le due guerre favorisce l’affermazione di esponenti in bilico tra Novecento e nuova oggettività: si pensi ad artisti come Guido Cadorin, Astolfo de Maria, Bortolo Sacchi, Cagnaccio di San Pietro. Ma anche figure portatrici di nuove sensibilità e nuovo clima si affacciano alla ribalta veneziana (e non solo quella biennalesca, s’intende; è tornato infatti a essere significativo il ruolo degli artisti che ricoprono insegnamenti nelle cattedre dell’Accademia di Belle Arti): si pensi a personalità pur così lontane e tuttavia cruciali come De Pisis e Guidi. Guidi, anzi, apparirà così antitetico alla tradizione locale da vedersi costretto ad abbandonare nel 1935 e per un decennio la cattedra di Pittura a Venezia in favore di Roma: egli risultava infatti troppo «distante dal tardoimpressionismo dei veneti sia delle vecchie che delle nuove generazioni» per poter essere accettato nel personalissimo itinerario dal realismo magico alla «precisa misura mentale» delle sue marine «tutt’altro che atmosferiche e tonali»(39).
Nella scultura, è Arturo Martini a compiere una straordinaria magica parabola attraverso una ricerca intima, tormentata, sofferta che giunge a mettere in forse lo statuto stesso della sua arte e gli approdi estremi del suo linguaggio che lo accosta con originalissimi esiti all’espressionismo più scabro ed essenziale, quindi al recupero della plasticità classica, a un pittoricismo narrativo ed elegiaco al limite della bidimensionalità, a una raffinata ricerca luministica (in lui è quasi un’ossessione la scrittura per pieni e vuoti e la dialettica luce/ombra nella plasticità), a un’essenzialità di forme e volumi che trasmetterà addirittura ad Alberto Viani. Questi, per altro, avrà nel secondo dopoguerra occasione di ampliare il suo già ricco e variegato orizzonte culturale con esperienze internazionali, letterarie non meno che artistiche, fino a farsi interprete di una delle più aggiornate e coerenti avventure plastiche della nostra area con suggestioni fino a Picasso, Arp e Moore.
A partire dagli anni Cinquanta compare sempre più frequentemente accanto agli artisti una figura destinata a svolgere un ruolo di grande spicco nel panorama dell’arte veneziana, della Biennale, dell’architettura contemporanea, quella di Carlo Scarpa: tanto che non infrequentemente è egli stesso a dare la chiave di lettura di ricerche, sperimentazioni, intuizioni altrimenti di non agevole decifrazione(40). Scarpa è architetto (contestato dall’Ordine per via del suo non ortodosso percorso di formazione accademica), ma è assai di più e di diverso dal semplice progettista di volumi, spazi e superfici. In un clima di forte partecipazione culturale ed emotiva, in raffinati confronti con storici e critici d’arte di differenti generazioni (si pensi al ruolo giocato da uomini come Sergio Bettini, come Giuseppe Mazzariol), nel continuo aggiornamento sulle cifre linguistiche internazionali più colte ed esclusive, nella declinazione finalmente non ambigua di una tradizione formale e decorativa di straordinaria qualità, Scarpa diventa la misura e il codice di una nuova progettualità, di una disciplina rifondata nella quotidiana elaborazione di soluzioni meditate, il maestro insieme schivo e sfrontato di una dignità ‘contemporanea’ fatta di ricerca e di mestiere, di materiali e di invenzioni, di rigore e di infrazione.
Appartata, radicale, anticipatrice Bice Lazzari (che a Scarpa è legata da vincoli di parentela) porta a Venezia — e in Biennale — con largo anticipo su tutti l’astrattismo (le sue ricerche sono documentate sin dalla metà degli anni Venti) che, invece, si imporrà come corrente o come esigenza linguistica quale uno dei problemi centrali negli anni Cinquanta e successivi.
Sempre tra le due guerre, assume una caratterizzazione nuova e non sempre adeguata il desiderio di protagonismo della Bevilacqua La Masa.
Nel 1920 la Fondazione aveva vissuto, nel clima incerto e di delusione della prima Biennale post Fradeletto, un’accesa contestazione con la defezione di tutti i nomi storici dell’avventura capesarina riuniti in una esposizione ‘secessionista’ in una galleria privata. La rottura era motivata sia dai nuovi criteri ordinatori delle mostre, governate da una giuria di accettazione eletta dagli artisti che aveva tolto in pratica a Barbantini ogni autonomia decisionale, sia dalla clamorosa esclusione di Casorati (perché non veneziano!). Una fase di transizione è costituita dagli anni tra il 1925 e il 1936 quando le mostre della Bevilacqua La Masa lasciarono Ca’ Pesaro per trasferirsi in un padiglione presso l’Hotel Excelsior al Lido. Si cercavano nuovi acquirenti e nuovi committenti (che si speravano più numerosi e generosi in una realtà balneare) dopo una stagione di incertezze e di faticosi aggiustamenti. Con il 1930 si registra ancora una svolta involutiva: «Il fatto più importante fu certamente l’uscita dalla scena della Bevilacqua La Masa di Nino Barbantini» annota Di Martino(41); questo abbandono «non fu certo un fatto casuale. Proprio quell’anno la XXI esposizione diviene infatti, certo non a caso, la I Mostra regionale veneta del sindacato [fascista] belle arti». La fascistizzazione della Bevilacqua continuerà più intensa e opprimente negli anni successivi, quando nonostante la guerra le esposizioni non vengono interrotte.
Negli ultimi anni Trenta e nei primissimi Quaranta troviamo tra i partecipanti alle mostre della Bevilacqua, ancor giovanissimi, artisti destinati a ben altro ruolo di protagonisti sulla scena veneziana e nazionale a guerra finita: Pizzinato, Turcato, Vedova.
Con la fine della guerra e del regime fascista è possibile registrare una vera e propria esplosione di vitalità culturale e artistica: anche il panorama veneziano — una volta ancora catalizzato da una memorabile serie di edizioni della Biennale (segretario generale un Rodolfo Pallucchini particolarmente felice nella scelta di collaboratori e di iniziative) volte programmaticamente al reinserimento del paese nel dibattito culturale del mondo libero con rassegne per certi versi riepilogative e «di risarcimento», come è stato scritto, rispetto a troppo lunghi anni di perifericità e di ufficialità di regime — appare configurarsi come una sorta di crogiolo in continua e ininterrotta evoluzione con aggregazioni e scomposizioni e nuove aggregazioni legate a posizioni teoriche, a linee politiche, a ricerche formali, a compatibilità e incompatibilità personali, a dislocazioni geografiche, a litigi, rotture, schieramenti, veti. L’arrivo in città di una già celebre gallerista, mecenate, promotrice, collezionista come Peggy Guggenheim è un ulteriore contributo ad arricchire il quadro culturale cittadino (e nazionale) con la presentazione in Biennale, nei musei, in private gallerie della più aggiornata produzione artistica dei prestigiosi e autorevoli esponenti delle maggiori avanguardie e correnti artistiche del contemporaneo tratti dalla sua quasi mitica collezione (da Picasso a Magritte, da Arp a Pollock, da Ernst a Klee, Brancusi, Kandinskij, Calder…)(42).
Ma l’impressione di un magma instabile, di una scottante materia in fusione, di un lavorio febbrile e appassionato si ha anche solo riepilogando in poche righe il processo cui l’ambiente artistico veneziano sta dando vita (e ‘veneziano’ non è in questo momento più identificabile con il ripiegamento ufficial-localistico dell’ultimo quindicennio della Bevilacqua; né ancora si identifica con il clima residuale delle elegie lagunari di sopravvissuti paesaggisti a Burano e dintorni).
Si segua Giuseppina Dal Canton(43) nella brillante e quasi diagrammatica ricostruzione dei movimenti e degli spostamenti dopo la brevissima stagione epica della costituzione dell’associazione culturale dell’Arco, ma, soprattutto, del Fronte Nuovo delle Arti attorno a un piccolo gruppo di artisti usciti dal clima della Resistenza e sostenuti dall’intelligente azione di fiancheggiamento di alcuni critici, tra i quali spicca Giuseppe Marchiori: «La prima mostra collettiva del gruppo […] ha luogo nel 1947 a Milano, presso la Galleria della Spiga […] dove vengono allineate opere che […] hanno in comune l’innesto dell’insegnamento postcubista, in particolare picassiano, su una base genericamente espressionista o fauvista». Marchiori quindi convince il gruppo — dove è già in atto un evidente travaglio che conduce a una serie di distinguo — a presentarsi alla XXIV Biennale nel 1948: «Se Pizzinato, con I difensori delle fabbriche e i Cantieri coniuga originalmente la scomposizione cubista col dinamismo futurista, Vedova, dopo una fase espressionistica, con opere come Morte al sole e Uragano attesta allora una preferenza per ritmi geometrici di derivazione quasi più concretista che cubista, mentre Santomaso, con la serie delle Finestre, dimostra di aver già semplificato e decantato il suo linguaggio nel solco della tradizione braqueana, sfiorando anch’egli l’astrazione». «È però alla Biennale del 1950 [continua Dal Canton] che si manifesta la diversificazione ideologica e si accentuano le differenti attitudini stilistiche dei pittori del gruppo, che in quell’occasione […] si possono ormai ripartire secondo distinti filoni: uno neorealista (per esempio Guttuso e Pizzinato), uno astrattista (per esempio Vedova) e uno intermedio, cioè in qualche caso ancora legato a stilemi neocubisti, in qualche altro piuttosto incerto sulla via da seguire. Alla Biennale del 1952 lo stacco fra le tendenze si fa più netto: anche se non compattamente raggruppati, ma distribuiti in sale diverse, da un lato ci sono i ‘realisti’, con gli ex frontisti Guttuso e Pizzinato e con Borgonzoni, Zigaina, Purificato, Mucchi e altri, dall’altro gli ‘astratto-concreti’ ossia, in particolare, gli artisti raggruppati e presentati in quello stesso anno da Lionello Venturi nella monografia Otto pittori italiani: Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova. […] Vedova, allontanatosi dalle accentuate geometrizzazioni delle due Biennali precedenti, appare intento a esprimere il proprio impegno umano e sociale con una forza espressiva e una gestualità segnica tese, violente, drammatiche, che contraddistingueranno anche tutta la sua produzione successiva (si vedano Sbarramento o Scontro di situazioni, che già preludono al Ciclo della protesta e ad altre serie famose che sfoceranno nelle nuove esperienze degli anni Sessanta, quando con i plurimi l’artista interverrà in dimensione ambientale); Santomaso invece evolve gradualmente verso quell’emancipazione dagli schemi braqueani che, attraverso una materia pittorica evocativa e lirica, lo porterà dapprima a consonanze con Afro, poi a sfiorare in maniera personale, fra il 1957 e il 1964, l’Informale e ancora a procedere ulteriormente verso la sapiente ricomposizione strutturale e le sobrie preziosità cromatiche della seconda metà degli anni Settanta».
Oltre al Fronte Nuovo nelle articolazioni, declinazioni e superamenti che si son detti, un altro universo s’affaccia con autorevolezza e carica innovativa sul nostro palcoscenico del secondo dopoguerra, è quello degli spazialisti(44). Anche in questo caso si tratta di una realtà composita e sfrangiata ben radicata nell’ambiente veneziano, che fa, per l’enunciazione teorica, capo al fondatore, Lucio Fontana; muovendo in qualche misura dal futurismo e dal suo superamento, la corrente s’avventura verso problematiche di relazione tra i fattori spazio-luministici, quelli più squisitamente segnici e materici, nei confini tra astrattismo e informale. Per differenti rami si è soliti farvi confluire addirittura Guidi, oltre ai titolari a pieno servizio: Mario De Luigi, Luciano Gaspari, Edmondo Bacci, Vinicio Vianello, Gino Morandi e, all’altro capo, un fuggevole affaccio di Tancredi. In tutti urge l’istanza di andar oltre le tradizionali impaginazioni dell’opera — sia la bidimensionalità del dipinto, sia l’utilizzo di tecniche e linguaggi consolidati, di concezioni prospettiche, di articolazioni della scena secondo leggi geometriche — con l’introduzione anche di tecnologie e strumenti ‘contemporanei’.
Il ventaglio della realtà artistica veneziana si sta a questo punto avvicinando a una sorta di punto di rottura: ogni ordinamento per scuole, filoni tematici, correnti risulta insufficiente o insoddisfacente per carenza di strumenti critici, per precipitoso evolvere del contesto politico e sociale: la Biennale darà consacrazione europea alla pop art, ma sarà travolta dagli anni della contestazione e costretta a un cammino impervio e disseminato di pericoli e trappole, fino alle successive riforme dello statuto e alla finale trasformazione in Società di cultura.
Questi eventi sono parte di un contemporaneo fatto di strumenti e materiali nuovi, di ambizioni e prospettive calibrate su un afflato di globalizzazione che ancora si interroga — paradossalmente! — su quali siano il ruolo e la collocazione di Venezia in uno scenario, a questo punto, mondiale.
Tra alti e bassi, tra esperienze di segno alto, la presenza di personalità culturali di primissimo piano, tra occasioni mancate per costruire alcune almeno delle «Venezie possibili» (mutuando il titolo di una fortunata mostra degli anni Ottanta al Museo Correr) si giunge alla individuazione della natura della storia artistica veneziana a noi vicina: ecco allora la mostra dedicata a «L’officina del contemporaneo. Venezia ’50-’60»(45) dove la peculiarità dell’esperienza veneziana con i suoi personaggi, i suoi contrasti, i litigi, i compromessi, gli atti mancati, gli errori; ma anche con il suo straordinario bagaglio di esperienze e di risultati — là indagata nel ventennio enunciato nel titolo — s’annuncia come possibile e necessaria a ricomporre una dimensione della memoria con esplicite valenze programmatico-progettuali perché dentro alla trama delle storie, scritta sulle faticose carte, salvata nella squillante perentorietà dei testi, conservata nella preziosa umbratilità dei musei e, soprattutto, nell’insopprimibile eloquenza delle opere, quella storia chiede di essere soprattutto continuata, cioè ‘vissuta’ e ‘scritta’, confrontandosi necessariamente con l’imbarazzante, intrigante e forse ambigua, ma insostituibile, invadenza della contemporaneità.
Nino Barbantini compare da protagonista anche in altri domini del sistema dell’arte nella Venezia novecentesca: ordinata la Galleria d’Arte Moderna a Ca’ Pesaro, egli vi insedia successivamente anche il Museo d’Arte Orientale; quindi è con Giulio Lorenzetti ad allestire il Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico. Come direttore delle Belle Arti inventa, tra l’altro, una serie di mostre dedicate ai grandi maestri della pittura veneziana del Cinquecento. Infine, lasciata l’amministrazione pubblica, eccolo a Monselice e poi nell’isola di S. Giorgio per metter ordine alla Rocca e, quindi, per dar forma, immagine, identità alla Fondazione Cini(46). Una volta ancora Barbantini si mostra all’altezza dei compiti affidatigli: in questo egli non è certo e solo un pur abile e dinamico funzionario pubblico; di fatto è l’inventore di generi e forme, è il grande divulgatore e mediatore di temi ed esperienze d’arte, è il gestore di un’immagine forte (si sarebbe tentati di dire: vincente) della città; l’elaboratore non meno che il disinvolto organizzatore di una politica culturale che determinerà le fortune stesse di un rilancio per certi versi fortunato e non reversibile nel destino di Venezia.
Certo quest’ottica ha limiti non dissimulati né dissimulabili: in questo consiste il debito che Barbantini paga a un orizzonte culturale non esaltante e sicuramente al di sotto del livello del gusto e delle capacità critiche e filologiche che egli aveva dimostrato di possedere e di poter sviluppare. Gli allestimenti ‘ambientali’ che Barbantini mette a segno a Ca’ Rezzonico (con Lorenzetti), al Museo d’Arte Orientale, a Monselice oscillano pericolosamente tra il pastiche e il falso, tra il trovarobato e la scenografia teatrale, tra l’esercizio di ricomposizione a freddo e lo sfoggio di abilità imitativa: hanno della genialità (vedi l’Orientale, ironico e raffinato, ricco di trovate ‘al modo di’) ma rischiano di togliere credibilità agli stessi materiali originali. È quel che avviene nei meno felici dei montaggi barbantiniani; nella stessa sistemazione semiambientale della Fondazione Cini a S. Giorgio in isola, assieme a pregevoli recuperi di spazi e strutture architettoniche rinascimentali e barocche, compaiono talvolta allestimenti degni dell’anonimato di corridoi ministeriali o enfatici montaggi da ambasciata.
Pur con questi limiti quindi, tutto sommato marginali, l’azione di Barbantini è di un’efficacia e di una qualità difficilmente contestabili.
Si sarebbe tentati di ipotizzare un interessante ed esemplare raffronto tra due operatori ambedue e a vario titolo cruciali nella storia culturale della città: da una parte Pompeo Molmenti, dall’altra parte Nino Barbantini. Due protagonisti che, seppur indirettamente e nel segno ‘tradizione/tradimento’, si sono in qualche modo passati il testimone ma che potrebbero — semplificando — essere considerati rappresentativi di due epoche antiteticamente disposte.
Pompeo Molmenti non è solo l’autore della fortunatissima Storia di Venezia nella vita privata e di una ricchissima serie di pubblicazioni di argomento storico e storico-artistico che a lungo hanno dominato il campo dell’editoria veneziana e hanno costituito l’esempio per una produzione letteraria e di costume — talora di qualità assai scadente — di dimensioni alluvionali; ma ha coperto ruoli pubblici e amministrativi fondamentali, trovandosi non infrequentemente in posizioni strategiche per la vita stessa della città e del suo patrimonio.
Molmenti e Barbantini risultano in più occasioni una sorta di crocevia per un non insignificante frammento della storia della musealità veneziana. Che è storia gloriosa e ricca anche nel Novecento, ancorché, dopo la stagione eroica del XIX secolo, le strutture museali cittadine si trovino tutto sommato in una insufficiente condizione di funzionalità oltre che di rappresentatività.
S’è visto Barbantini all’opera agli inizi del secolo per ordinare la Galleria di Ca’ Pesaro (portate qui le prime collezioni fin dal 1902, dopo una provvisoria sistemazione a Ca’ Foscari, come si ricorderà).
La successiva scadenza vede sconvolto l’ordinamento dell’intero sistema museale cittadino con lo spostamento della casa-madre addirittura delle collezioni civiche, il Museo Correr(47). Queste, che dal 1880 si trovavano nelle sale del Fondaco dei Turchi, smontato e rimontato in termini ‘interpretativi’ alla fine di un criticatissimo intervento di restauro, con l’avvicinarsi della linea del fronte dopo la rotta di Caporetto, furono imballate dentro a un migliaio di casse e trasportate in luoghi più sicuri.
Poco dopo la fine della Grande guerra intervenne un fatto nuovo: la retrocessione dai beni della corona al demanio di tutta una serie di regge monumentali in giro per l’Italia (r.d. 3 ottobre 1919): da palazzo Pitti alla Reggia di Caserta, da villa Pisani di Stra alla Villa Reale di Monza, da Capodimonte alla Favorita di Palermo, a Palazzo Reale di Milano alla palazzina di Stupinigi. Anche al Palazzo Reale di Venezia (così era entrato in uso denominare il complesso delle Procuratie Nuove e immediate adiacenze marciane dopo che da Napoleone in avanti esso era stato adibito appunto a residenza reale) toccò in sorte nel 1920 di essere dismesso, non senza ripensamenti e rivendicazioni da parte della corte. Fu allora nominato sottosegretario di Stato per le antichità e belle arti di due successivi gabinetti Nitti, appunto, Pompeo Molmenti con lo specifico incarico di «procedere al riordinamento e allo sviluppo del patrimonio artistico nazionale» e gestire le nuove destinazioni pubbliche delle strutture appena liberate(48).
Molmenti ingaggiò allora un’aspra battaglia per conservare alle Procuratie la destinazione culturale e impedire che vi si insediassero uffici comunali, come avrebbe preferito Ca’ Farsetti. Fu quindi deliberato che vi trovassero posto le collezioni civiche-raccolta Correr e vi rientrasse il Museo Nazionale Archeologico. L’Ala Napoleonica (con una destinazione anche di ufficiale rappresentanza) e le Procuratie Nuove furono consegnate al Comune nell’agosto del 1921. L’anno dopo, il 30 settembre, vi fu l’inaugurazione ufficiale del Museo nella sua nuova sede con un polemico discorso di Molmenti che rievocava proprio le difficoltà affrontate per portare a compimento l’operazione(49).
Il Museo Correr, riprendendo l’ordinamento da poco (1898) realizzato nel Fondaco dei Tedeschi nella linea ‘arti industriali’ sugli esempi soprattutto inglesi e per impulso delle ‘industrie artistiche’ veneziane (e dell’industriale del mobile d’arte Michelangelo Guggenheim, in particolare), vede una piuttosto affrettata sistemazione secondo i criteri tipici dei musei di ricostruzione ambientale per fuochi tematici e cronologici in cui prevalevano le ricomposizioni attorno alle categorie d’arti applicate (mobili, suppellettili, tappezzerie, decori, lampade e soprammobili, oggetti d’uso, intagli, ecc.). Già qualche anno appresso intervenivano modificazioni a tale assetto e nel 1935 vi furono esposti in una soluzione ancora una volta temporanea i nuovi acquisti, doni e depositi, parte dei quali destinati a Ca’ Rezzonico, appena acquistato per esser trasformato in museo e destinato alle collezioni settecentesche(50).
Un fatto nuovo e clamoroso si verificava nel marzo del 1924 per la storia della musealità veneziana: la consegna alla città di Palazzo Ducale da parte dell’amministrazione dello Stato(51). Il sistema museale civico acquista con questo museo-monumento il proprio punto di forza, una sorta di grande eredità morale e di ipoteca sul futuro: i valori simbolici non erano meno forti di quelli economici, come è facile intendere, per la fama, la qualità, la ricchezza, la visibilità dell’eccezionale manufatto.
Nello stesso periodo, in quindici piccole sale dell’ammezzato del secondo piano delle Procuratie venne anche trasferito e rimontato in un aggiornato allestimento il piccolo museo di cose risorgimentali e ottocentesche che avevano trovato una prima collocazione fin dagli ultimi anni dell’Ottocento nella casa di Teodoro Correr: si intitolava «Da Campoformio a Vittorio Veneto» e illustrava, come spiega il direttore dei Musei, Giulio Lorenzetti, un arco cronologico esteso «fra il periodo triste che segnò l’ultimo grado di umiliazione della millenaria Repubblica di San Marco e gli eventi vittoriosi della grande guerra»(52).
Nel 1927 la città si arricchisce di un nuovo gioiello museale, ancora grazie a un atto di mecenatismo. Si tratta della mitica casa dei Contarini a S. Sofia, la Ca’ d’Oro, donata allo Stato dal barone Giorgio Franchetti sin dal 1916, ancora in preda a un accidentato programma di opinabili restauri diretti dallo stesso Franchetti. In realtà la Ca’ d’Oro era stata offerta al Comune, a Molmenti in particolare, allora assessore, che, riunita la giunta, non poté raccogliere altro che un rifiuto ad accettare il dono «per non aggravare troppo l’esausto bilancio»(53). Proprio il carattere e la cultura dei protagonisti di quest’affaire veneziano fan sì che, anche in questo caso, le intenzioni ricostruttive, rievocative e ambientali si impongano nell’allestimento del palazzo: «Decorate così le pareti con grevi pitture murali di vaga ispirazione goticheggiante, i materiali, alcuni dei quali, soprattutto mobili, in gran parte non originali, furono affastellati nei più disparati accostamenti, giungendo a fissare bronzi e marmi alle pareti forando stoffe e arazzi originali»(54).
Di altra natura, pur mimetica ma certo più interessante, l’operazione Ca’ Rezzonico, che vide all’opera, come s’è anticipato, Nino Barbantini e Giulio Lorenzetti.
Il palazzo, dopo una trattativa alquanto accidentata tra l’amministrazione cittadina e l’ultimo proprietario, l’antiquario e mercante conte Lionello Hirschell de Minerbi, entra in proprietà del Comune nel 1935: è pressoché una scatola vuota, tutto infatti è stato alienato in successive ondate di vendite all’asta, cominciando da quella delle collezioni Rezzonico realizzata dagli eredi Pindemonte nel 1832.
L’allestimento del Museo del Settecento affonda le sue radici da un lato nel progressivo recupero dell’arte e degli artisti veneziani del XVIII secolo in atto intensivamente nei primi decenni del Novecento; dall’altro nel bisogno di dar dignità e visibilità a una parte importante delle collezioni civiche togliendole dalle Procuratie dove «la configurazione planimetrica degli appartamenti» e una «non felice distribuzione della luce» fan sì che «le cose belle esposte si spengano»(55). Acquisti massicci da collezioni famigliari in via di smobilitazione, alcune accorte scelte sul mercato antiquario e una intelligente politica volta a favorire donazioni e depositi fan sì che ci si trovi con una significativa massa di materiali di qualità da ordinare nelle vaste sale del palazzo, sotto i magnifici affreschi di Tiepolo e Crosato, nei deliziosi ammezzati a stucco. Il tutto si risolve in un’operazione di mimetizzazione, di riassemblaggio, di ricomposizione modulata nei tre piani del palazzo secondo una sorta di gerarchia decrescente dalla manifestazione di fasto, potenza e lusso del salone da ballo e delle sale di rappresentanza fino alle ‘intimità’ di alcove, ridotti e mezzanini. Tutte le declinazioni dell’‘idea’ di Settecento veneziano vi trovan posto: dal rococò all’esotismo, dalla maschera all’intrigo, dagli amori al teatro, dal sogno alla diplomazia, dalle spie alla cioccolata, all’Illuminismo a Pulcinella. Le sale di Ca’ Rezzonico respiravano anche atmosfera di mistero e di letteratura: percorrendo a passi lenti quei luoghi si poteva aver l’impressione che fosse la presenza del visitatore a ‘creare’ gli ambienti e che, varcata la soglia di una sala, quella precedente potesse sparire in una sorta di imbuto della fantasia e della memoria. Peraltro trova qui sistemazione il ciclo forse più affascinante e alto della pittura veneziana di fine Settecento, i più di cinquanta brani d’affresco con pulcinella, satiri e scene di villa dipinti da Giandomenico Tiepolo, strappati dai muri della villa dei Tiepolo a Zianigo e sottratti al mercato antiquario francese grazie agli sforzi congiunti della città e del governo (sotto la probabile regia di Molmenti): una delle riflessioni e delle raffigurazioni più compiute, enigmatiche e originali della coscienza insieme sarcastica e dolente della fine di un’epoca(56).
Per completare il quadro, va detto che il Fondaco dei Turchi — abbandonato dal Correr — diventava nel 1924 pittoresca sede del Museo di Storia Naturale dove confluivano collezioni di rilevante importanza (quelle civiche e altre provenienti dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), come quella dell’esploratore ed etnomusicologo Giovanni Miani, ma anche erbari e algari antichi, collezioni di flora e fauna lagunari, materiali provenienti da safari africani compiuti da notabili cittadini.
Mentre il Museo d’Arte Orientale veniva accolto all’ultimo piano di Ca’ Pesaro in una provvisoria sistemazione curata da Barbantini tra il 1925 e il 1928 per conto del Ministero della Pubblica istruzione.
Nel 1925, per la formazione della «grande Venezia», secondo l’enfatica definizione del regime, fu aggregata al Comune una serie di realtà municipali minori sia in terraferma che nel territorio lagunare. Anche a Murano toccò questa sorte.
Il Museo del Vetro aveva visto il suo esordio fin dal 1861 per iniziativa dell’abate Vincenzo Zanetti che fu — anche grazie al Museo — il vero artefice del rilancio della vetraria muranese. Insediato nel monumentale palazzo dei Giustiniani, ristrutturato con decoro tardobarocco a fine Seicento e destinato a sede episcopale e quindi divenuto palazzo municipale, ebbe un radicale restauro: vi si trasportarono le collezioni vetrarie dei Musei Civici che andarono ad aggiungersi a quelle precedenti avviate da Zanetti e ordinate a fine Ottocento dal direttore Urbani de Gelthoff. Nato su quella stessa lunghezza d’onda che aveva dato vita ai musei d’arti industriali e applicate, esso è tuttavia divenuto, soprattutto dopo la confluenza della Municipalità muranese in quella veneziana, una sorta di luogo dell’autoidentità insulare e scrigno di una millenaria tradizione di arte e di tecnica: si rammenti la non casuale enfasi dannunziana nel racconto della «bella favola» dell’«Arciorgano» di settemila canne in vetro del maestro Dardi Seguso ne Il Fuoco.
Analoga origine ha il Museo del Merletto a Burano e, come a Murano Zanetti aveva pensato e attivato anche una scuola per vetrai, qui si diede vita per iniziativa di Paulo Fambri e della nobildonna Andriana Marcello a una scuola e a un laboratorio dei merletti, perché si conservassero notizie e dati tecnici sulle tradizionali lavorazioni ad ago.
La più recente ‘ondata’ di strutture museali è quella del secondo dopoguerra e vede l’istituzione di alcune nuove sedi dotate di natura e caratteri sensibilmente diversi rispetto alle tradizioni e alle tipologie che si sono sin qui descritte.
Fin dalla fine del conflitto, per altro, l’intera struttura museale cittadina conosce un intenso lavorio di risistemazione e ristrutturazione delle varie sedi: così le Gallerie dell’Accademia, che già nel 1920 erano state riordinate da Gino Fogolari, vengono riallestite grazie all’azione congiunta di Vittorio Moschini e dell’architetto Carlo Scarpa; il Museo Correr vede ugualmente all’opera Scarpa fianco a fianco dei direttori e conservatori in due diversi momenti, per la sezione storica del Museo e per il radicale rinnovamento della pinacoteca; e, più tardi, ancora Scarpa si produrrà in uno dei suoi più felici interventi veneziani presso la Fondazione Querini Stampalia (1959-1963). Una nuova concezione museografica fa sì che buona parte del patrimonio cittadino in questo settore conosca un accelerato processo di aggiornamento e di adeguamento ai gusti, alle nuove conoscenze critiche, alle non meno nuove esigenze tecniche e museologiche. Per buona parte è, come s’è visto, Carlo Scarpa a svolgere un ruolo da protagonista. Il rigore, la fantasia, le novità di metodo e la forte e personalissima sensibilità per i materiali fanno dell’esperienza di Scarpa a Venezia un corpus museografico tra i più avanzati e compatti che sia dato conoscere. Abbandonati gli affastellamenti quantitativi e l’horror vacui di fine Ottocento, lasciati alle spalle i drappi, i mobili in stile, le mascherate teatrali e dannunziane, i visitatori dei musei veneziani si trovano di fronte a pareti chiare, illuminazioni morbide, una quantità di opere ridotte assolutamente all’essenziale, distanziate le une dalle altre su campiture geometriche e partiture evocatrici di Mondrian più che dei Salons francesi ottocenteschi. Talvolta Scarpa va addirittura al di là dell’impaginazione ed elimina cornici, chiude in telai metallici, incastona in raffinati profili d’ottone o cesella minuscoli supporti in legni preziosi, in ori bizantini, in qualche mosaico: il suo allestimento diventa ‘protagonista’ dell’avventura museale, ne costituisce sigillo raffinato ma pericolosamente chiuso e irripetibile.
La diffusa convinzione della necessità di una sorta di postumo risarcimento al grande veneziano morto in esilio, Carlo Goldoni, determinò un gruppo di studiosi e benemeriti dello studio e del culto del teatro veneziano ad acquistare la casa natale del commediografo, vicino a S. Tomà, per farne una biblioteca teatrale, un luogo di raccolta e di ricerca e un piccolo museo di cimeli del teatro goldoniano e veneziano. Così fu; dopo un lungo periodo di stasi e di incertezza, finalmente anche la Casa di Carlo Goldoni venne aperta al pubblico come sezione dei Musei Civici nel 1952(57).
Mariano Fortuny, morendo nel 1949, lascia alla città quel palazzo Pesaro degli Orfei che era stato l’affascinante sede del suo studio e dei suoi laboratori: un brano straordinario di storia culturale e artistica di Venezia e del bel mondo dell’intera Europa si era depositato tra le stoffe e i dipinti del geniale precorritore di tecniche e ricerche, di sperimentazioni linguistiche e mercato d’arte, di abile messa a frutto di memorie, suggestioni, forme e segni della storia. Il Museo che ne deriva non è un montaggio storicistico (tipo Ca’ Rezzonico) né propriamente una dimora d’artista o il semplice atelier del pittore: è un laboratorio della modernità tra le incrostazioni della storia, un apparato scenografico sospeso tra la Wunderkammer e lo studio televisivo, la camera oscura e il pulpito di una rivisitazione conclamata e leggera(58).
Anche l’ultimo erede della famiglia antica dei Mocenigo lascia morendo (1945) alla città il suo palazzo di S. Stae perché se ne faccia museo. La vedova continuerà a vivere nella storica dimora fino alla fine degli anni Settanta e a utilizzarla in tutta la sua duplice natura, di fasto e di quotidianità; e così essa vien conservata, a testimonianza, questa volta veritiera, di un impiego integrale e diffuso di una macchina architettonica d’impianto seicentesco ridecorata nel secolo successivo. Ma qui vengono altresì collocate le ricchissime e ampiamente incrementate raccolte di materiali tessili e costumi storici, soprattutto veneziani, confluiti dalle raccolte civiche o ceduti da altre istituzioni, dando vita a un inedito Centro di ricerca e documentazione su un’altra delle realtà esteticamente ed economicamente rilevanti nella storia della città(59).
S’è fatto cenno a Peggy Guggenheim: la sua collezione, divenuta museo alla morte di Peggy (1979) ma donata già dal 1969 alla Fondazione Salomon R. Guggenheim di New York purché fosse mantenuta a Venezia nel palazzo Venier dei Leoni dove la collezionista abitava e aveva sistemato le opere, è forse, negli anni recenti, l’arricchimento più sostanzioso e originale nel panorama museale e artistico di Venezia contemporanea anche perché amplia in termini certo significativi l’ambito tipologico dei musei veneziani e introduce un elemento di internazionalità sino a ora scarsamente rappresentato nelle collezioni cittadine.
Tolte le edizioni della Biennale (dal 1895) precedute, come si ricorderà, dall’Esposizione nazionale del 1887, e tolte le mostre Bevilacqua-Ca’ Pesaro («d’arti e industrie veneziane» come recitava il manifesto, dal 1908) una politica espositiva s’affaccia nel panorama dell’arte veneziana solo a partire dal 1923, e si tratta della mostra de Il ritratto veneziano dell’Ottocento di cui è curatore, una volta di più, Barbantini. Non c’è dubbio che in Italia il «ritorno di moda dell’ottocento è un discorso di qualche peso nella cultura figurativa del tempo»(60): ci sono ragioni postrisorgimentali, c’è necessità di ripristinare le dovute connessioni tra l’arte antica e il presente, connessioni criticamente inesistenti o sfilacciatesi negli anni concitati di fine secolo e del primo Novecento; c’è, infine, la necessità di trovare solidi ubi consistam da cui far partire la massiccia operazione museologica di costituzione delle gallerie e musei d’arte moderna che varie città italiane avviano negli anni a cavallo della Grande guerra. Barbantini confessa di essere egli stesso rimasto stupito della qualità di molti materiali ritrovati in tale occasione; né il fatto resterà senza seguito, visto che se ne ritroveranno gli echi nel lavoro di riordino della Galleria di Ca’ Pesaro e nella stessa stesura della piccola e preziosa guida Treves (1927)(61).
Successivamente è il Settecento a balzare alla ribalta: si tratta della mostra del Settecento italiano organizzata nel Padiglione Italia ai Giardini. Vi lavorarono, in un comitato nazionale, Lorenzetti e Barbantini: non solo pittura, ma porcellane, lacche, costumi, e così via: insomma, arti applicate e arti ‘maggiori’ in una presentazione variata e accattivante che mescolava con una certa disinvoltura i materiali più disparati nel tentativo di attirare l’attenzione del grande pubblico e di fornire una visione complessa e fortemente articolata di un secolo particolarmente fastoso e prodigo di forme e di colori. Va segnalato come la mostra quasi s’insinuasse tra due Biennali, come ad anticipare quella formula dell’avvicendamento ad anni alternati di arte antica e moderna che resterà a lungo una sorta di palinsesto programmatico per le attività espositive della città.
Se queste possono essere quasi considerate delle prove generali, spetterà poi a una celebre terna di mostre dedicate ai tre grandi della pittura veneziana del Cinquecento mettere a punto un metodo e una linea di lavoro: si tratta delle mostre di Tiziano (1935, a Ca’ Pesaro), Tintoretto (1937, sempre a Ca’ Pesaro), Veronese (1939, a Ca’ Giustinian): le prime due dovute ancora a Barbantini, la terza a un personaggio nuovo della critica d’arte a Venezia, Rodolfo Pallucchini.
Barbantini, nel realizzare le sue mostre, si preoccupava del bilancio finale delle operazioni: economico e di pubblico quasi più che di critica, aspetto questo che egli lasciava alle indagini e alle verifiche degli specialisti ‘davanti’ alle opere: aveva spiegato la sua posizione un paio d’anni prima, quando stava realizzando a Ferrara la mostra della Pittura ferrarese del Rinascimento: «l’Esposizione che Ferrara fa con tanto generoso dispendio e con tanta abnegazione, dovrà — se non si vuole andare incontro ad un disastro finanziario — curare anche il pubblico minuto, il quale più che da quadri dipinti, per quanto maestosi e meravigliosi, sarà attirato da opere plastiche che […] quando siano accortamente presentat[e], farebbero sull’animo del popolo un’impressione profondissima. Se non procureremo di chiamarlo al Palazzo dei Diamanti con qualche spettacolo che lo seduca, potremo mettere difficilmente a contatto il gran pubblico con i capolavori che, con nostra fatica e per generosità anche dei Musei stranieri, avremo potuto radunare»(62).
Pallucchini, al contrario, mostrava interesse profondo per i problemi d’ordine filologico, tanto che per la mostra di Tiziano affermava che essa consentiva di «rinnovare a fondo l’idea che ci eravamo fatti di quell’artista, ponendo la sua comprensione su tutt’altre basi e quindi permettendo un’ampia revisione filologica e critica della sua opera»(63). Per la sua prima mostra — quella su Veronese — Pallucchini sottolinea tra l’altro: «Mia cura particolare fu quella di pubblicare un catalogo che corrispondesse all’importanza della mostra, cioè che fosse uno strumento di studio utile anche allo specialista».
Ecco quindi enunciate nelle parole stesse dei protagonisti gli ambiti in cui si colloca la lunga avventura delle mostre veneziane: rivisitazione critica, analisi filologica, prestiti nazionali e internazionali, grande concorso di pubblico. Ma anche l’ambito tematico ha a lungo contrassegnato con i caratteri della sistematicità il lavoro degli ordinatori (dopo Pallucchini, toccò a Pietro Zampetti, direttore delle Belle Arti del Comune dal 1953 al 1970, organizzare le mostre; con un intermezzo: la mostra di Tiepolo del 1951 ai Giardini, avviata da Pallucchini, fu portata a compimento da Lorenzetti in collaborazione con Giovanni Mariacher): le mostre veneziane affrontarono infatti per un trentennio, e quasi esclusivamente in forma monografica, figure dell’arte veneta: Bellini (1949), Tiepolo (1951), Lorenzo Lotto (1953), Giorgione e i giorgioneschi (1955), quindi Carpaccio, Guardi, Bassano, i Vedutisti, e così via. Un passaggio metodologicamente innovativo fu rappresentato da una mostra memorabile, Venezia e Bisanzio nel 1974, coordinata da Sergio Bettini: ma a questo punto la forma-mostra si era notevolmente evoluta. Enfatizzata per dimensione e pubblicizzazione, lievitato il catalogo e riservato sovente alle dispute, anche velenose, su esclusioni e attribuzioni; guadagnato il Palazzo Ducale, perché dotato di maggior fasto e visibilità; talvolta accompagnata da polemiche per la presenza di opere provenienti dal collezionismo privato o addirittura dal mercato antiquario, la mostra è un evento e un irrinunciabile componente del sistema cultural-turistico veneziano; ma deve fare i conti con iniziative che altre città venete o comunque non lontane da Venezia vengono assumendo nel settore: Mantova, Brescia, Treviso, Conegliano, Bassano, Padova contendono al capoluogo la sua esclusività e il suo primato, provocando un diffuso sentimento di crisi.
Ma esplode anche, a metà degli anni Settanta, la stagione del mostrismo diffuso, togliendo al genere la sua iniziale efficacia o imponendo modelli di altra natura e matrice: si diffonde anche in Italia con crescente fortuna il ciclo di mostre archeologiche o di civiltà scomparse o lontane (a Venezia s’era avuta una mostra d’arte cinese nel 1951!) con impieghi spettacolari di mezzi e materiali. Rassegne storiche d’arte moderna spesso con opere provenienti da paesi lontani o di difficile accessibilità (come l’Urss, la Polonia o la Germania orientale) contendono con successo la scena alle mostre d’arte antica.
La cadenza biennale rimane anche a Venezia solo un ricordo. Naturalmente anche altri soggetti si cimentano con successo nell’organizzazione di esposizioni per il grande pubblico: la Fondazione Cini con rassegne dedicate a Piranesi o a Canaletto; palazzo Grassi, in versione ante FIAT, con varie mostre dedicate al costume, al vetro, a Picasso, Guttuso; e poi, diventato il fiore all’occhiello del sistema-FIAT con un succedersi dal 1981 di mostre di grande spettacolarità e di enorme successo di pubblico (da Arcimboldo ai futuristi, dai celti ai fenici, dai greci d’Occidente agli etruschi ai maya; ma con interessanti digressioni su Leonardo e Venezia, sull’architettura rinascimentale e su Venezia e il Rinascimento).
Anche il Comune (dopo alcune fortunate e frequentatissime rassegne ‘di civiltà’: l’Egitto, la Cina 1 e 2, gli sciti, i traci…) ritrova la strada della monografia con alcune iniziative nuovamente dedicate a figure dell’arte veneta: spiccano le grandi mostre di Tiziano (1990) e di Canova (1992), Pietro Longhi (1993-1994), quindi Splendori del Settecento veneziano (1995) e Giambattista Tiepolo (1996) precedute nel 1981 dall’ultima fatica di Rodolfo Pallucchini, la mostra dedicata al manierismo nel Veneto (Da Tiziano a El Greco) e da alcune mostre a tema di singolare fortuna: Venezia nell’età di Canova (1978), Venezia e la peste (1979-1980), Venezia nell’Ottocento (1983-1984), Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier (1985). Queste ultime, in particolare, intendevano porre su basi nuove il rapporto della città con i segni — alti e bassi — della sua storia, leggere quella storia finalmente liberi dai condizionamenti della retorica, vedere e interpretare le evoluzioni della forma come segnali di vitalità, come volontà espresse o latenti di rapportarsi al moderno, di vivere il moderno non come una condanna ma come l’irrinunciabile partecipazione alla storia che si fa, a un destino che si costruisce, a una progettualità che appare l’unico inconfondibile indizio di autocoscienza. E di desiderio di futuro; evitando quel «ritorno al passato come eterno presente» che Mario Isnenghi ha ironicamente evocato nel più recente dei suoi lucidi e fulminanti excursus ‘dentro’ la storia otto e novecentesca di questa città, traversata e sezionata come un’avventura culturale complessa e a tratti involuta ma, comunque e forse purtroppo, assolutamente coerente(64).
1. Su tutta la questione del crollo e della ricostruzione del campanile di S. Marco, si rinvia a Il campanile di San Marco. Il crollo e la ricostruzione 14 luglio 1902-25 aprile 1912, catalogo della mostra, Milano 1992, con bibliografia completa e aggiornata su tutti i vari aspetti della vicenda.
2. In partic., il saggio di Leopoldo Pietragnoli, Cronaca di una fine annunciata, ibid., pp. 35-55.
3. Hermann Hesse, Italien, Frankfurt a.M. 1983, citato dall’ediz. it. Dall’Italia, a cura di Volker Michels, Milano 1990. L’espressione sul campanile è tratta da un appunto del Viaggio in Italia del 1903, alla data del 14 aprile (p. 160).
4. L’opinione di Otto Wagner era riportata dal quotidiano triestino «Il Piccolo» del 17 luglio 1902, subito ripresa dal veneziano «L’Adriatico». Il pensiero di Wagner era infarcito, forse provocatoriamente, di giudizi e paradossi destinati a movimentare l’opinione pubblica veneziana ed europea. Altre pubblicazioni riprendono i temi dell’intervista al grande architetto viennese e li ripropongono elaborati in gustosi rendiconti così come in interpretazioni satiriche e vignette (per tutta la questione Giandomenico Romanelli, Il campanile di San Marco, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 252-259).
5. Le più ricche, problematiche e stimolanti panoramiche di storia della cultura nella Venezia otto e novecentesca sono i saggi di Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482, e Id., Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-436.
6. Una riflessione a questo proposito nel numero monografico di «Rassegna», 7, giugno 1985, nr. 2, intitolato Venezia città del moderno, con interventi di vari autori.
7. Le più recenti sintesi (con relativa aggiornata rassegna bibliografica) circa la storia della Biennale in Venezia e la Biennale. I percorsi del gusto, catalogo della mostra, Milano 1995. V. anche Enzo Di Martino, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e cultura, Milano 1995. Assai importante Maria Mimita Lamberti, 1870-1915: i mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti, in Storia dell’arte italiana, VII, Il Novecento, a cura di Federico Zeri, Torino 1982, pp. 3-172, in partic. i §§ IV, Le mostre internazionali di Venezia, e V, Dissensi giovanili e movimento futurista; Ead., Il contesto delle prime mostre, dalla fine del secolo alla guerra mondiale: artisti e pubblico ai Giardini, in Venezia e la Biennale. I percorsi del gusto, catalogo della mostra, Milano 1995, pp. 39-47. Infine, Giandomenico Romanelli, Biennale 1895-1972. Allestimento e/o travestimento, in Id., Ottant’anni di allestimenti alla Biennale, catalogo della mostra, Venezia 1977, pp. 7-19.
8. «Esposizione Nazionale Artistica», bollettino ufficiale del comitato esecutivo generale, 1886-1887; «L’Esposizione Artistica Nazionale Illustrata», 1887. Sempre su questa fase di premesse alla Biennale, oltre ai già citati interventi di Mario Isnenghi, v. Daniele Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Antonio Fradeletto e l’organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001.
9. D. Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Molto utili i sintetici profili biografici dei protagonisti dell’operazione-Biennale in Chiara Rabitti, Gli eventi e gli uomini: breve storia di un’istituzione, in Venezia e la Biennale. I percorsi del gusto, catalogo della mostra, Milano 1995, pp. 26-38.
10. Giuseppina Dal Canton, Venezia e la Biennale, una nuova internazionalità, in Venezia. L’Arte nei Secoli, a cura di Giandomenico Romanelli, II, Udine 1997, p. 860 (pp. 860-891). Sintetiche rassegne incentrate sulle partecipazioni degli artisti alle varie edizioni della Biennale si trovano in Ivana Mononi, L’orientamento del gusto attraverso le Biennali, Milano 1957; Terence Alloway, The Venice Biennale 1895-1968. From Salon to Goldfish Bowl, New York 1968; Paolo Rizzi-Enzo Di Martino, Storia della Biennale 1895-1982, Milano 1982; E. Di Martino, La Biennale di Venezia.
11. Le vicende di Ca’ Pesaro, della Bevilacqua La Masa, della Galleria d’Arte Moderna, delle mostre dei giovani artisti che vi avevano luogo, nonché dello scontro aperto Fradeletto-Barbantini (e, quindi, Biennale-Ca’ Pesaro) sono state oggetto di vari studi che ne hanno affrontato le differenti prospettive e le articolate implicazioni estetiche, etiche, politiche e socioculturali. Oltre ai contributi appena citati nelle nn. 7-10, si segnalano alcuni interventi che costituiscono termini di riferimento significativi per la ricomposizione del profilo dell’intera questione: un posto particolare spetta alle pubblicazioni sotto ogni punto di vista fondamentali Primi espositori di Ca’ Pesaro 1908-1919, catalogo della mostra, a cura di Guido Perocco, Venezia 1958; Guido Perocco, Artisti del primo novecento italiano, Torino 1965; Id., Le origini dell’arte moderna a Venezia (1908-1920), Treviso 1972. Quindi Silvio Branzi, I ribelli di Ca’ Pesaro, Milano 1975; indispensabile e ricca rivisitazione critica è costituita dalla mostra e dal catalogo Venezia. Gli anni di Ca’ Pesaro. 1908-1920, a cura di Chiara Alessandri-Giandomenico Romanelli-Flavia Scotton, Milano 1987. V. quindi Rodolfo Pallucchini, Significato e valore della ‘Biennale’ nella vita artistica veneziana e italiana, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, III, Dall’età barocca all’Italia contemporanea, Firenze 19792, pp. 387-402; Enzo Di Martino, L’Opera Bevilacqua La Masa 1908-1983, Venezia 1984 (ora Bevilacqua La Masa 1908-1993. Una fondazione per i giovani artisti, Venezia 1994); Giuliana Donzello, Arte e collezionismo: Fradeletto e Pica primi segretari alle Biennali veneziane 1895-1926, Scandicci 1987.
12. Sul concorso per la carica di segretario della Galleria d’Arte Moderna e della Bevilacqua La Masa: Flavia Scotton, Barbantini a Ca’ Pesaro. La Galleria d’arte moderna, in Nino Barbantini a Venezia. Atti del convegno, a cura di Sileno Salvagnini-Nico Stringa, Treviso 1995, pp. 15-30.
13. Su Barbantini v. soprattutto: Rodolfo Pallucchini, Nino Barbantini - In memoriam, «Arte Veneta», 6, 1952, pp. 182-183; Gino Damerini, Nino Barbantini, in Nino Barbantini, Scritti d’arte inediti e rari, a cura di Gino Damerini, Venezia 1953, pp. IX-XXX; Id., Barbantini, Nino (Eugenio), in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 37-39. Inoltre gli Atti del convegno «Nino Barbantini a Venezia» con contributi di molti studiosi su diversi aspetti della personalità di Barbantini.
14. Le parole di Barbantini son tratte da un suo biglietto autografo a Fradeletto del 7 ottobre 1912; la citazione è tratta da Maria Mimita Lamberti, La stagione di Ca’ Pesaro e le Biennali, in Venezia. Gli anni di Ca’ Pesaro. 1908-1920, a cura di Chiara Alessandri-Giandomenico Romanelli-Flavia Scotton, Milano 1987, p. 57 (pp. 41-68). Tutta la vivace reazione all’articolo di Angeli del 6 ottobre 1912 ne «Il Giornale d’Italia», ricostruita da Lamberti con dovizia di citazioni da documenti inediti, ben s’inserisce nel clima di aspra contrapposizione tra istituzioni e uomini attorno a Biennale e Ca’ Pesaro: importante fu sempre, in questa dialettica, il ruolo giocato da Gino Damerini dalle colonne della «Gazzetta di Venezia».
15. Schede aggiornate sui protagonisti dell’avventura capesarina in Venezia. Gli anni di Ca’ Pesaro, con buoni apparati critici e documentari.
16. Nino Barbantini, Mostra dei primi espositori di Ca’ Pesaro, catalogo della mostra, Venezia 1948 (ora in Id., Scritti d’arte inediti e rari, a cura di Gino Damerini, Venezia 1953, con il titolo La prima mostra di Ca’ Pesaro, pp. 265-268).
17. Id., La sala di Gustavo Klimt alla IX Esposizione di Venezia, «La Perseveranza», 24 maggio 1910 (pubblicato in estratto con il titolo Klimt).
18. Il contributo critico più recente sulla figura e sull’opera di Mariano Fortuny è costituito da: Mariano Fortuny, catalogo della mostra, a cura di Maurizio Barberis-Claudio Franzini-Silvio Fuso-Marco Tosa, Venezia 1999 (con bibliografia completa e aggiornata), in partic. Claudio Franzini L’‘opus magnum’ di un hidalgo veneziano. Biografia di Mariano Fortuny y Madrazo, pp. 49-71, e Giandomenico Romanelli, Mariano Fortuny (tra Ruskin e Proust), pp. 19-23. Di notevole interesse le pagine dedicate all’ambiente di Fortuny in Émilien Carassus, Le snobisme et les lettres françaises de Paul Bourget à Marcel Proust 1884-1914, Paris 1966, in partic. pp. 272-291 (Hauts-lieux du snobisme: la folie vénitienne). Una testimonianza allucinata ma, comunque, ricca di dettagli e informazioni è costituita dal farraginoso, ridondante, squilibrato e maniacale Gino Bertolini, ‘Italia’, I, Le categorie sociali. Venezia nella vita contemporanea e nella storia, Venezia 1912.
19. Vittorio Pica, L’arte mondiale alla IV Esposizione di Venezia, «Emporium», numero straordinario, agosto 1901, pp. 5-6. Sulla massiccia presenza della cultura tedesca alle prime Biennali, si rinvia a Giandomenico Romanelli, Il contributo tedesco alle prime Biennali veneziane, in Incontri italo-tedeschi al volgersi del diciannovesimo secolo, Venezia 1982, pp. 45-62.
20. Giandomenico Romanelli, Alle origini di una scuola: appunti per quattro profili, in Progetti per la città veneta 1926-1981, catalogo della mostra, Vicenza 1982, pp. 19-32; Id., Nuova edilizia veneziana all’inizio del XX secolo, «Rassegna», 22, 1985, pp. 10-17; Stefan Schrammel, Architektur und Farbe in Venedig 1866-1914, Berlin 1998; Guido Zucconi, Un architetto veneziano di transizione, in Giuseppe Torres 1872-1935. Inventario analitico dell’archivio, a cura di Riccardo Domenichini, Venezia 2001, pp. 11-27.
21. Gli atti relativi alla vicenda della Scuola d’Architettura sono conservati presso l’Archivio Storico Comunale alla Celestia (1890-1895, VII-6-2, Istruzione. Istituti d’Istruzione primaria) ancora inediti. Sulla figura e la teorizzazione di Camillo Boito: Camillo Boito, Il nuovo e l’antico in architettura, a cura di Maria Antonietta Crippa, Milano 1988; Guido Zucconi, L’invenzione del passato. Camillo Boito e l’architettura neomedievale. 1855-1890, Venezia 1997.
22. Paolo Maretto, Venezia, Genova 1969; Giandomenico Romanelli, Architetti e architetture a Venezia tra Otto e Novecento, «Antichità Viva», 5, 1972, pp. 25-48; Id., La cultura artistica a Venezia tra Ottocento e Novecento, in Modernità allo specchio. Arte a Venezia (1860-1960), a cura di Toni Toniato, Venezia 1995, pp. 39-57; S. Schrammel, Architektur und Farbe.
23. Giovanni Lavini, Venezia, «L’Architettura Italiana», 2, 1909, pp. 13-14 (pp. 1-24).
24. Massimiliano (Max) Ongaro, L’architettura moderna a Venezia, Venezia 1912.
25. Alfredo Melani, Architettura conservatrice a Venezia, «Italia!», 7, 1912, pp. 27-34. Dello stesso Melani paiono interessanti e utili su quest’argomento anche L’Architettura, in Il Secolo XIX nella vita e nella cultura dei popoli, Milano s.a. [ma 1899]; L’arte nuova e il cosidetto stile Liberty, «Arte Decorativa Moderna», 1, 1902, nr. 3, pp. 52-59; I nemici dell’Arte Nova, ibid., nr. 5; Due tendenze, ibid., nr. 7, pp. 210-218.
26. M. Ongaro, L’architettura moderna, pp. 22 e 30-31.
27. A. Melani, Architettura conservatrice, pp. 29-33.
28. Di questa non vasta ma variegata pattuglia di architetti in bilico tra filologia e innovazione sono forniti schede e dati essenziali in alcuni dei testi più sopra citati; in partic., si rinvia a P. Maretto, Venezia; G. Romanelli, Architetti e architetture; Id., Venezia, in Archivi del Liberty italiano. Architettura, a cura di Rossana Bossaglia, Milano 1987, pp. 227-245; Id., Dalla storia alla Modernità. Materiali per un secolo di Architettura veneziana: l’Ottocento, «Musei Civici Veneziani d’Arte e di Storia. Bollettino», n. ser., 31, 1987, pp. 5-83; S. Schrammel, Architektur und Farbe, pp. 212-369.
29. Su Giuseppe Torres v. il recentissimo Giuseppe Torres 1872-1935. Inventario analitico dell’archivio, a cura di Riccardo Domenichini, Venezia 2001 (con aggiornati rinvii bibliografici); e Giandomenico Romanelli, Il sogno secessionista di Giuseppe Torres, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 260-265.
30. Sulla figura di Raffaele Mainella, si rinvia alla scheda in Mercato e travestimento. L’artigianato d’arte a Venezia. Fine ’800 inizi ’900, catalogo della mostra, a cura di Silvio Fuso-Sandro Mescola, Venezia 1984, pp. 17-18; Giandomenico Romanelli, Per mettersi in mostra. La Biennale di Venezia e i suoi allestitori, «Rassegna», 4, giugno 1982, nr. 10, pp. 17-27.
31. V., oltre ai testi sin qui citati, Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1983; Venezia nuova. La politica della casa 1893-1941, catalogo della mostra, a cura di Paola Somma, Venezia 1983; Giorgio Bellavitis-Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985, pp. 210-240.
32. Sui padiglioni della Biennale v. Giandomenico Romanelli, I Padiglioni stranieri della Biennale, in Id., Architettura e allestimenti alla Biennale di Venezia, Venezia 1976, pp. n.n., e Marco Mulazzani, I Padiglioni della Biennale. Venezia 1887-1988, Milano 1988.
33. Su Pompeo Molmenti si rinvia a Monica Donaglio, Il difensore di Venezia. Pompeo Molmenti fra idolatria del passato e pragmatismo politico, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 45-72; Leandro Ventura, Pompeo Molmenti deputato e senatore del Regno, in Pompeo Molmenti (1852-1928). Arti e passioni di un Senatore veneziano in Valtenesi, s.n.t. [ma 1998], pp. 23-79.
34. Sui rapporti di D’Annunzio con i protagonisti della cultura veneziana (specie per consigli e conforto su citazioni in dialetto e varie curiosità e questioni locali) v. le pagine dello stesso D’Annunzio (soprattutto Gabriele D’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti-Roberto Forcella, Milano 1965); inoltre D. Ceschin, La ‘voce’ di Venezia, pp. 121-128 e 180-192; Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Milano 1943; M. Donaglio, Il difensore; L. Ventura, Pompeo Molmenti; nonché le carte dell’archivio di Riccardo Selvatico conservato presso la Biblioteca del Museo Correr: Musei Civici Veneziani, Archivio privato Selvatico. Inventario, a cura di Maria Giovanna Siet Casagrande, Venezia 1995.
35. Si rinvia ai testi già citati, in partic. alle nn. 20, 22 e 28. Utile la scheda sintetica di Gabriele Cappellato, Guido Costante Sullam, in Progetti per la città veneta 1926-1981, catalogo della mostra, Vicenza 1982, pp. 40-42.
36. V. la scheda di Id., Brenno Del Giudice, ibid., pp. 43-45.
37. Per una sintetica ricostruzione dei vari passaggi istituzionali della Biennale, si rinvia in partic. a C. Rabitti, Gli eventi e gli uomini.
38. Fernando tempesti, Arte dell’Italia fascista, Milano 1976; Paolo Fossati, Pittura e scultura fra le due guerre, in Storia dell’arte italiana, VII, Il Novecento, a cura di Federico Zeri, Torino 1982, pp. 173-259; Giandomenico Romanelli, I nuovi apparati culturali, in Italia moderna. Immagini e storia di un’identità nazionale, III, Guerra dopoguerra, ricostruzione, decollo, a cura di Omar Calabrese, Milano 1983, pp. 41-56.
39. G. Dal Canton, Venezia e la Biennale, p. 882.
40. Dei molti recenti e recentissimi interventi sulla figura e sull’opera di Carlo Scarpa, ci si limita al fondamentale Carlo Scarpa. Opera completa, a cura di Francesco Dal Co-Giuseppe Mazzariol, Milano 1984.
41. E. Di Martino, Bevilacqua La Masa, p. 61.
42. Peggy Guggenheim, Una vita per l’arte. Confessioni di una donna che ha amato l’arte e gli artisti, Milano 1982; Philip Rylands, La storia di una collezione-museo, in Capolavori della Collezione Peggy Guggenheim, New York 1994, pp. 7-13.
43. G. Dal Canton, Venezia e la Biennale, pp. 886-888.
44. Una mostra recente ha ricostruito l’avventura di questo raggruppamento artistico: Spazialismo a Venezia, catalogo della mostra, a cura di Toni Toniato, Milano 1987; ancora Giorgio Cortenova, Mario De Luigi e lo spazialismo veneziano, in Modernità allo specchio. Arte a Venezia (1860-1960), a cura di Toni Toniato, Venezia 1995, pp. 211-223.
45. L’officina del contemporaneo. Venezia ’50-’60, catalogo della mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, Milano 1997.
46. Complessivamente, sulla figura di Barbantini, si rinvia alla citata raccolta degli scritti (N. Barbantini, Scritti d’arte inediti e rari) e agli interventi raccolti negli Atti del già ricordato convegno «Nino Barbantini a Venezia». V. inoltre la testimonianza diretta di Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988.
47. Una ricostruzione dei continui movimenti, assestamenti, ristrutturazioni e riorganizzazioni del ‘sistema’ museale veneziano fin dalla sua istituzione, si trova in Una città e il suo Museo. Un secolo e mezzo di collezioni civiche veneziane, catalogo della mostra, Venezia 1988 (con bibliografia aggiornata).
48. La citazione è dal r.d. 3 ottobre 1919 nr. 1762 relativo alla retrocessione dei beni della corona al demanio pubblico; per tutta la questione v. L. Ventura, Pompeo Molmenti, in partic. il § 7, Excursus II: Molmenti sottosegretario, pp. 50-52.
49. Pompeo Molmenti, Il Civico Museo Correr nella sua nuova sede, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 9, pp. 1-8.
50. Mostra dei più recenti acquisti e doni pervenuti al Civico Museo Correr. Giugno-Settembre 1935-XIII, catalogo della mostra, Venezia 1935.
51. La consegna del Palazzo Ducale alla Città di Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 3, 1924, nr. 3, pp. 57-60.
52. Giulio Lorenzetti, [Prefazione], in Mario Brunetti, Da Campoformio a Vittorio Veneto. Guida al museo del Risorgimento, Venezia 1936.
53. Tutta la vicenda è vivacemente narrata da un testimone diretto e attendibile, Gino Damerini: G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, pp. 76-79.
54. Francesco Valcanover, Ca’ d’Oro. La Galleria Giorgio Franchetti, Milano 1986, in partic. le pp. 84-86.
55. La citazione è tratta dalla Prefazione di Nino Barbantini a Giulio Lorenzetti, Ca’ Rezzonico, Venezia 1936.
56. Sulla vicenda di Ca’ Rezzonico, v. G. Lorenzetti, Ca’ Rezzonico, e gli interventi nel volume Lo spazio virtuale della rappresentazione. Contributi per un sistema museale del ’700 veneziano, a cura di Antonio Piva-Pierfranco Galliani, Venezia 1993. Sulla rocambolesca vicenda degli affreschi di Giandomenico Tiepolo v. Satiri, centauri e pulcinelli. Gli affreschi restaurati di Giandomenico Tiepolo conservati a Ca’ Rezzonico, catalogo della mostra, a cura di Filippo Pedrocco, Venezia 2001.
57. Per Casa Goldoni v. Vittorio Orazi, La casa veneziana di Goldoni, «L’Italia», 136, 1959, pp. 13-14.
58. Immagini e materiali del laboratorio Fortuny, catalogo della mostra, Venezia 1978.
59. Doretta Davanzo Poli-Stefania Moronato, Il Museo di Palazzo Mocenigo, Milano 1995.
60. Flavio Fergonzi, Barbantini e la modernità dell’Ottocento, in Nino Barbantini a Venezia. Atti del convegno, a cura di Sileno Salvagnini-Nico Stringa, Treviso 1995, p. 48 (pp. 47-72).
61. Nino Barbantini, La Galleria d’Arte Moderna a Venezia, Milano 1927.
62. La citazione è tratta da una lettera di Barbantini a Venturi del 27 dicembre 1932 conservata nell’archivio Venturi presso la Normale di Pisa (cit. da Giacomo Agosti, Testimonianze venturiane sulle mostre d’arte antica, in Nino Barbantini a Venezia. Atti del convegno, a cura di Sileno Salvagnini-Nico Stringa, Treviso 1995, pp. 86-87 [pp. 73-88]).
63. Rodolfo Pallucchini, Le mostre d’arte antica a Venezia, «Bollettino dei Musei Civici Veneziani», 1956, nrr. 1-4, pp. 8-10. Sulle mostre e sul non sempre facile rapporto istituitosi tra le stesse e le strutture museali è assai interessante anche l’intervento di Pietro Zampetti, Pubblico Musei e Mostre, ibid., pp. 3-7.
64. M. Isnenghi, Fine della Storia?, p. 433.