Le arti del Veneto
Unità e molteplicità, ricercata bellezza, tecnica scaltrita, materiali differenziati, consapevolezza e autoreferenzialità caratterizzano la storia delle arti venete, dove primeggia e si stacca, ma contemporaneamente trascina e diventa tracciato di riferimento, l’arte di Venezia, la Serenissima, la Regina dell’Adriatico con il capo volto a Oriente.Nel clima salmastro e poco accogliente delle lagune, pur non privo di un qualche insediamento, le popolazioni trovarono rifugio, e tra loro anche i potenti e ricchi che fuggirono dalla Terraferma sconvolta dalle invasioni, progettando e dando avvio a una città incredibile, sospesa sull’acqua e pragmaticamente capace di porsi a capo di un lungo e vasto dominio territoriale. Come la conquista romana aveva inglobato la civiltà degli Antichi Veneti, così la civiltà classica si piegò, e insieme si fuse con quella barbarica e nutrì i linguaggi delle arti visive, che nei primi secoli del cristianesimo e nel difficile e complicato articolarsi dei sommovimenti politici e sociali dell’Alto Medioevo, soprattutto nella Terraferma, hanno lasciato tracce, da cogliere nei siti di culto più antichi.
In tal senso gli affreschi dell’ipogeo di Santa Maria in Stelle a Verona, uno dei più interessanti cicli pittorici paleocristiani dell’Italia settentrionale, probabilmente del V secolo, inserito in un contesto funerario in antecedenza pagano, declinano una contiguità con il passato che, ancora nella zona veronese, divenuta longobarda, nel ciborio della pieve di San Giorgio di Valpolicella (VIII secolo) − in secoli in cui il corredo scultoreo decorativo delle chiese (già parte di recinzioni, amboni e cibori) è stato frequentemente smembrato −, rende evidente l’apporto barbarico nel generarsi ornamentale di forme geometriche, vegetali e animali, intrecciate e rincorrenti.
A date così alte il panorama pittorico resta più frammentario e diversificato tra i centri dell’entroterra e le zone costiere di influenza esarcale e bizantina: siti come Aquileia, e, in territorio veneto, Concordia Sagittaria, raccontano una storia stratificata di antichi mosaici e quindi di affreschi, che nel battistero dell’antica Iulia Concordia mostrano i caratteri di una pittura di gusto bizantino, diffusasi dall’XI secolo in avanti. Nell’entroterra circolarono modelli di seconda generazione degli scriptoria benedettini dell’abbazia di Reichenau, sul Lago di Costanza (gli affreschi più antichi dell’oratorio di San Michele a Pozzoveggiani, le miniature dell’Evangelistario di Isidoro della Biblioteca Capitolare di Padova, risalente al 1170), ma è ancora la scultura, allo schiudersi della rinascita urbana e dell’età romanica, a conoscere una prima qualificata affermazione nell’opera del Maestro Nicolò, che insieme a Guglielmo, nel portale della basilica di San Zeno a Verona, introdusse i modi appresi da Wiligelmo a Modena.
Venezia, priva di radici antiche di cui menar vanto, rivendicato il possesso del corpo dell’evangelista Marco (nell’anno 828), a partire dal IX secolo iniziò un’ascesa inarrestabile. Nel 1204, la presa di Costantinopoli e il suo saccheggio fecero affluire in Occidente e nella capitale lagunare un numero eccezionale di opere d’arte bizantine, già arrivate numerose nei secoli precedenti, tanto che i siti dogali erano stati letteralmente incrostati di marmi preziosi, come un tappeto sontuoso e percorso di venature colorate. La cappella di San Marco, intanto, veniva istoriata nelle parti alte (la cupola centrale dell’Ascensione è della seconda metà del XII secolo, di splendente mosaico: così alle soglie del Duecento le maestranze, pur pienamente consapevoli del retaggio bizantino, padroneggiano uno stile monumentale, solenne e nuovo, attingendo, nei mosaici dell’atrio, alle miniature paleocristiane della Genesi di Cotton, nota Bibbia ora conservata alla British Library. Questo manto parietale invetriato, illustrato su fondo oro, testimonia e spiega anche gli albori di una grande arte, che pose Venezia nel ruolo di leader, almeno fino ai primi decenni del Seicento, e soprattutto da quando, alla metà del XV secolo, il vetraio Angelo Barovier, con uno scatto inventivo tutto rinascimentale, mise a punto la procedura, di cui lo si crede tradizionalmente ideatore, per soffiare un vetro perfettamente incolore e trasparente, come nessuno era ancora riuscito a fare.
Questo culto della luce trascorrente, del colore vivido e scintillante, mutevole e mobile come le strade d’acqua veneziane, trovò nella Pala d’oro della basilica la celebrazione più alta e originale, congiungendo raffinati smalti cloisonnés bizantini, parte dell’inizio del XII secolo e parte giunti probabilmente dopo il 1204, a cui venne data, alla metà del XIV secolo, una nuova e preziosa cornice, ove le gemme colorate, montate con un sistema innovativo che incantò l’Europa intera, danno unità agli smalti illustranti le storie sacre e il dodekaorton (le dodici grandi storie sacre della liturgia bizantina).
Non mancarono nel Duecento a Venezia presenze al corrente di linguaggi più spiccatamente occidentali, sensibili alle influenze emiliane e al gotico dell’Île-de-France, attive soprattutto negli arconi del portale centrale di San Marco e anche, in Terraferma, nel frammentario e dismesso portale della basilica di Santa Giustina di Padova, annessa al complesso benedettino omonimo. In questo vigoroso XIII secolo presero avvio le costruzioni delle chiese degli ordini mendicanti, dove si registrò, via via, un impegno forte nell’arredo e nella decorazione pittorica, sicché divennero prestigiosi templi, sepolcreti di potenti, sedi di cappelle gentilizie, siti santuariali di venerati corpi santi, ricetto, in altre parole, delle forme più qualificate di pittura, scultura, miniatura, oreficeria, manufatti lignei, e ogni altro apparato necessario a celebrare la liturgia e rendere alla divinità l’adorazione dovuta.
Ma fu, forse, per una cappella privata, voluta da Enrico Scrovegni, che Giotto arrivò a Padova, intorno al 1302, lavorando senz’altro anche per la chiesa francescana della città, quella basilica di Sant’Antonio dove nei secoli ebbero modo di operare i migliori artisti, chiamati o di passaggio. La venuta del maestro fiorentino mutò il corso dell’arte padovana: essa irraggiò in area padana la parlata giottesca, che calava nelle realtà spazio-temporali le storie divine, ponendosi, in quel momento, molto lontana dalle preziose fragilità tardogotiche veneziane. Sicché, nel Trecento, massimo è il solco tra Paolo Veneziano, il cui vibrante colorismo diede nuova vita al linearismo bizantino, e il linguaggio di Padova, Verona, Treviso, Vicenza, dove la lezione giottesca, pur in modalità diverse, aveva attecchito, continuando o prendendo spunto dallo stile narrativo del maestro, declinandolo, via via, in toni favolosi, cordiali, eleganti, narrativi, sobriamente descrittivi, a seconda dei temi e dei luoghi: la corte carrarese a Padova, la corte scaligera a Verona, le chiese, le cappelle gentilizie e le sale capitolari dei conventi, i palazzi del potere civile, le case nobiliari. La dimensione dell’urbs picta, colorata da stesure di affreschi, è fortemente caratterizzante non solo le città, ma anche i centri minori della Terraferma, le cosiddette ‘quasi-città’, a cui, spesso, mancò solo la presenza della sede vescovile per accedere a una piena dimensione urbana: come Schio, ad esempio, o Thiene, Conegliano, Monselice, Montagnana.
La scultura nel Trecento, pur avendo registrato la presenza del goticismo toscano di Giovanni Pisano, si estese da Venezia all’entroterra grazie soprattutto all’opera di Andriolo De Santi, a capo di una bottega il cui influsso toccò non solo Vicenza e Padova, dove operò direttamente, ma anche Treviso e Verona. È qui, tuttavia, che le maestranze furono in grado non solo di lavorare a vigorosi portali istoriati, ma anche di produrre gruppi a tutto tondo di intensa plasticità, come nella celeberrima Santa Cecilia, accentuata, per le opere ora conservate nel Museo di Castelvecchio, dalla meditata e felice sistemazione museale allestita dall’architetto veneziano Carlo Scarpa nel terzo quarto del Novecento, che comprende anche la statua equestre di Mastino II Della Scala, quasi di metà Trecento, proveniente dal sepolcreto dei Signori di Verona sul sagrato di Santa Maria Antica.
L’arte veneta del Trecento, dopo il tramonto della vivace fase comunale, è difatti legata all’avvento delle Signorie, che a Verona e a Padova impiantarono corti raffinate, volte a sfruttare ogni linguaggio d’arte, in termini di arditezze formali, lusso estremo e scialo di ricchezze, per marcare ruoli e sottolineare il prestigio personale. Non sappiamo se davvero appartenne a un signore scaligero il tesoretto di gioielli ora esposto nel Museo di Castelvecchio, ma siamo certo in grado di affermare che ogni aspetto della vita, e i momenti eccezionali di essa – la nascita, il matrimonio e la morte – costituirono occasioni celebrative di musica, apparati effimeri, lusso smodato. A Padova, inoltre, la presenza qualificante dell’Università e il soggiorno di Petrarca, patrocinato da Francesco il Vecchio da Carrara, ebbero l’effetto di modulare in senso prerinascimentale l’orientamento cittadino, colto, interessato alle vestigia antiche, connotato in senso antiquariale ed erudito, documentato da una straordinaria produzione di libri manoscritti miniati, sia di uso liturgico, sia di carattere scientifico, giuridico e letterario. Artisti come Altichiero da Zevio, attivo tra Verona e Padova, insieme al fiorentino Giusto de’ Menabuoi, offrono le interpretazioni più alte di un neogiottismo equilibrato e colorato, calcolato con sapienza in scatole spaziali nitide e complesse.
Questa tensione padovana verso la padronanza dello spazio in nome dello strumento prospettico e verso il culto dell’antico reiterò, dopo centocinquant’anni, il ruolo della città come punta avanzata delle nuove idee artistiche, questa volta grazie alla scultura di Donatello. Chiamato in città probabilmente per eseguire la statua equestre di Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, sulla piazza del Santo, lo scultore, in un soggiorno lungo un decennio, lasciò, secondo la testimonianza di Giorgio Vasari, molte opere, tra cui la più imponente e complessa, innovativa e senza precedenti, è costituita dall’altare maggiore della basilica del Santo, di cui, purtroppo, i soli bronzi (sculture a tutto tondo e rilievi) sono pervenuti e sono oggi visibili montati su un altare della fine dell’Ottocento. Il risveglio quattrocentesco, moderno perché ‘all’antica’, è perciò un affaire più di Terraferma che di laguna: convivono, lungo il Quattrocento, aristocratiche eleganze, appena tinte di una patina classicista nei grandi artisti ‘umbratili’, come Pisanello, di nascita pisana, ma di aristocratica educazione pittorica compiuta tra Verona e Venezia. In laguna l’addio alle fioriture tardogotiche, ai fondi oro, alle cornici fiammeggianti di polittici, ai reliquiari architettonici in forma di microarchitettura goticheggiante, e l’adozione di un lessico pienamente rinascimentale, teso a calare le narrazioni sacre e profane entro veri paesaggi naturali, avvennero in modo più graduale. La bottega dei Vivarini, di Antonio e Bartolomeo soprattutto, si attardò su modelli tradizionali caratterizzati con acutezza e patetismi espressivi diffusi, grazie alla loro cospicua produzione, a Venezia e nel territorio. Fu invece la bottega degli straordinari Bellini, di Jacopo, il padre disegnatore, di Gentile, l’affabulatore e ritrattista richiesto anche a Costantinopoli per la sua abilità, e del fratello, il grande Giovanni, il nocchiero, a traghettare la pittura in chiave di luminosa rappresentazione del mondo reale.
A Padova il geniale e insofferente pittore Andrea Mantegna, formato sull’esempio di Donatello, esperiva un solido, scolpito, misurato linguaggio di gusto antiquariale, un amore per il colore minerale, per la preziosità delle rifiniture, in un equilibrio perfetto, affrontando e risolvendo le dispute sull’unità dello spazio, sulle deformazioni del sottinsù, sulla perfetta congruità, normata dalle leggi geometriche, tra la posizione di chi guarda e le raffigurazioni sviluppate sulle pareti della Cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova, oppure sulla pala unificata – che proprio ‘trittico’ non è più possibile definire – sull’altare maggiore della basilica di San Zeno a Verona, e più ancora negli affreschi realizzati per i signori Gonzaga a Mantova, in quella camera dove la famiglia ducale, dipinta, apprende la notizia della nomina a cardinale di Francesco Gonzaga, mentre in alto un finto oculo rotondo fa piovere luce vera sulle raffigurazioni sottostanti. Mantegna e Bellini furono cognati e il secondo guardò con attenzione il padovano innamorato delle antichità lapidee e scheggiate, ma si avviò presto su una strada autonoma, colma di sereno colore, di profondità luminose, di smussature intenerite anche quando si dovevano le arti nel veneto raffigurare dolorosi Cristi in croce. La pittura di Bellini è scandita da capolavori difficili a enumerarsi: pale d’altare unificate, sullo sfondo di cappelle architettonicamente intese, sempre più svuotate di consistenza, fino ad accedere al paesaggio puro e a una panteistica immersione degli attori in esso; allegorie erudite, ritratti di intimo sentire, modulati su quelli di lenticolare ripresa fiammingheggiante portati in laguna da Antonello da Messina, e ancora dipinti da stanza destinati alla devozione privata dei patrizi veneziani, opere di contenuto profano, ormai – Bellini morì nel 1516 – allineate sui valori formali e contenutistici della Maniera moderna. Questo sommo interprete, in grado di rinnovare sé stesso, cogliendo influssi e stimoli che in quella Venezia cosmopolita giungevano da nord, da ovest, e da sud, ebbe d’intorno, a Venezia, una serie di grandi maestri, che esportarono le interpretazioni veneziane verso l’entroterra: il principe dei narratori, Vittore Carpaccio, il poeta della campagna veneta, Cima da Conegliano, e ancora a Venezia Alvise Vivarini, dai colori smaltati, Vincenzo Catena e Marco Basaiti; a Vicenza una scuola pittorica locale, attenta alla pittura prospettica lombarda, prese avvio con Bartolomeo Montagna e con il suo allievo Giovanni Buonconsiglio, detto il Marescalco. A Verona forte fu l’impatto della pala di San Zeno e, anche in virtù di continui e facili scambi con Mantova, si formarono su quel gusto, intridendolo di umori lombardi e con un amore del tutto particolare del paesaggio, vere dinastie familiari d’arte: Domenico e Francesco Morone, Liberale da Verona, Francesco e Girolamo dai Libri, artisti che con grande facilità passarono dalla dimensione parietale dell’affresco a quella in miniatura dell’illustrazione e della decorazione libraria. La poetica di intima consonanza dell’uomo con l’ambiente che lo ospita raggiunse anche, pur senza nomi di spicco primario, Treviso, e via via le zone decentrate rispetto alla capitale, a sud, verso Rovigo e a nord, verso Belluno.
Nella scultura, sia a Venezia che nell’entroterra, l’esito ancora tardogotico di artisti come Matteo Raverti, i fratelli Giovanni e Bartolomeo Bon (vera da pozzo della Ca’ d’Oro, opere nella Cappella dei Mascoli in San Marco), Antonino da Venezia a Vicenza, addiviene a opere di cospicua ricchezza decorativa. L’arrivo, a Verona e a Padova soprattutto, di artisti toscani, anche prima della venuta di Donatello, orientò in direzione rinascimentale la plastica, tanto quella ‘per forza di levare’ che quella ‘per forza di mettere’, in terracotta, ad esempio, come le Storie di Cristo modellate da Michele da Firenze nella Cappella Pellegrini in Santa Anastasia a Verona. Il magistero di Donatello è a monte della scultura del padovano Bartolomeo Bellano e soprattutto di Andrea Briosco, detto il Riccio: figlio e nipote di orefici, fonditore in bronzo di opere su grande scala e riscopritore, in città, del genere del bronzetto, la piccola scultura, raffinata e spesso di tematica antica, che l’autore trattò con felice inventiva e gusto ironico e dissacrante.
La linea di sviluppo veneziana della scultura rinascimentale seguì evoluzioni pacate, che non sembrano aver tenuto in gran conto l’aggressiva perentorietà del monumento equestre a Bartolomeo Colleoni di Andrea del Verrocchio in campo di Santi Giovanni e Paolo a Venezia. Sia Antonio Rizzo che Pietro Lombardo, con i figli Antonio e Tullio improntarono le loro opere a un pacato classicismo. Nel caso dei Lombardo, poi, il recupero dell’uso del marmo di Carrara (che nel Veneto non fu dispiegato) contribuì a delineare quel loro fare improntato a un felice e nitido ellenismo, che ha trovato la più felice realizzazione con la Cappella dell’Arca nella basilica di Sant’Antonio a Padova, in una perfetta giunzione tra architettura, parti ornamentali, rilievi con i miracoli del Santo: una forma unitaria perfetta, a dispetto del lungo tempo di realizzazione (l’intero XVI secolo) e dei diversi artisti intervenuti, probabilmente secondo il progetto di squisita e calibrata invenzione all’antica messo a punto da Tullio Lombardo.
Né si può abbandonare questo Quattrocento artistico veneto, fiore in boccio e premessa al dispiegato affermarsi dei grandissimi maestri del Cinquecento, senza ricordare come altre arti abbiano conosciuto, in pieno accordo di stile e lessico formale, una stagione fervida di innovazione e sviluppo. È tutta veneta, e in chiave di assoluta geometria pierfrancescana, la stagione dell’intarsio ligneo, che trovò i suoi protagonisti assoluti in Cristoforo e Lorenzo Canozi da Lendinara, operosi nella messa a punto di impegnativi cori lignei e arredi di sacrestia tra il Veneto e l’Emilia. A Padova, nella basilica del Santo, un coro di 90 stalli (quasi completamente distrutto dall’incendio del 1749) cingeva il presbiterio sul davanti, riscuotendo le lodi generalizzate di autori locali e annalisti. A Venezia, Marco Cozzi, nel coro della basilica dei Frari, rarissimo esempio rimasto della collocazione normale di tutti i cori, davanti all’altare maggiore, intrideva di colore e dorature la sostanza geometrica dell’intarsio canoziano di Terraferma. Questa linea dei magistri perspectivae si spostò, agli inizi del Cinquecento, entro le comunità olivetane, visto che a quell’ordine apparteneva fra Giovanni da Verona, molto elogiato da Vasari, autore di pacate e più naturalistiche tarsie, ispirate a una luminosa e quieta temperie naturalistica, che nell’opera maggiore, il dossale della sacrestia della chiesa di Santa Maria in Organo a Verona, risentono del classicismo romano dell’inizio del Cinquecento, considerato che fra Giovanni fu chiamato a predisporre le spalliere lignee sotto agli affreschi di Raffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano. Così, come nella pittura e nella scultura, anche l’industria del vetro si avviò verso una ricerca formale contraddistinta da una pura ed essenziale armonia di forme, priva o assai parca di colore e decorazione, che tutto doveva al soffio del maestro vetraio.
Giorgio Vasari racconta che, giusto nel 1500, Leonardo fu a Venezia, e quelle sue pitture «molto fumeggiate e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro» (Vasari [1568] 1966, p. 42) rivelarono, insieme alla pittura proveniente dal Centro-Italia, un mondo diverso al misterioso Giorgione da Castelfranco: enigmatico, intellettuale, musico e in rapporto con le cerchie elitarie e colte del patriziato veneziano. Quasi assenti le opere a carattere religioso, sono invece strepitosi i suoi ritratti e le ‘poesie’ il cui contenuto è tuttora affidato a titoli di convenzione, come la Tempesta delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, i Tre filosofi e la Laura del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Ammaliatrice e rapinosa, la pittura di Giorgione, morto di peste nel 1510, lasciò il campo aperto all’irruenza di Tiziano, formatosi da presso il sentire intimistico e allusivo del maestro castellano, ma ben presto avviato verso una libera, gioiosa, vitale celebrazione del classicismo, improntata sul vivo canto del colore. Ritrattista e pittore per le corti papale, imperiale e per le minori ma non meno raffinate corti italiane, Tiziano attraversò tre quarti del drammatico XVI secolo, morendo di peste nel 1576. La grande pittura veneta conobbe, con lui e d’intorno a lui, il perfetto classicismo dei primi anni Venti, l’arrivo delle storpiature anticlassiche del poderoso Pordenone, le fantasie degli eccentrici padani come Romanino, la penetrazione della Maniera tosco-romana, con l’arrivo di Francesco Salviati e Vasari, l’orientamento cupo e drammatico, di materia pittorica crepitante e consumata, prevalente nell’ultimo quarto del secolo, il gusto per i notturni e le luci artificiali, spesso realizzati direttamente su supporti in pietra nera. Più o meno in rapporto con Tiziano sono altri grandi, frequentemente di nascita non veneziana, ma che col mondo lagunare furono sempre in rapporto e in sintonia formale: e dunque si ricordino almeno Palma il Vecchio, Sebastiano Luciani, divenuto ‘del Piombo’ al tempo dell’attività romana, l’isolato e patetico, ma non meno grandissimo Lorenzo Lotto, Paris Bordon, il visionario Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, l’olandese Lambert Sustris e Andrea Meldolla, detto lo Schiavone, legati dall’inclinazione verso la ‘grazia’ centro-italiana, l’originale Giovanni Demio (o De Mio), nato a Schio, Palma il Giovane, indiscusso protagonista della seconda metà del secolo e il comprimario ‘provinciale’ Iacopo Dal Ponte, detto Bassano, che con i suoi figli e discendenti elaborò una pittura di bruciante intensità, e dedicò attenzione a particolari tematiche pastorali, sfruttando anche la possibilità offerta da una bottega molto ben organizzata e fornita di archivi di disegni. E del resto i materiali grafici veneti − schizzi, bozzetti, studi settoriali di figure, abbozzi, modelli rifiniti, disegni d’archivio tratti dalle opere finite − presto divennero, per la loro qualità, ricercati e collezionati, tanto da essere oggi disseminati nelle maggiori raccolte grafiche museali d’Europa e d’Oltreoceano.
Questo Cinquecento veneto, di grandezza pari alla tradizione tosco-romana, è ancora differenziato, ma meno rispetto ai secoli tardomedievali, a seconda delle zone, potremmo dire anche ‘province’, della regione. Senz’altro una caratterizzazione spiccata è quella dell’arte veronese, che superò la dimensione locale e diventò un modello di riferimento grazie al suo protagonista maggiore, Paolo Caliari, detto appunto il Veronese. Formatosi nella città natale e presto trasferito a Venezia, dove lavorò per la committenza dogale, le comunità religiose e il patriziato, Paolo fu il protagonista maggiore, insieme ad altri, spesso, come lui, originari di Verona, della decorazione totale ad affresco nelle ville venete, dunque, nel cuore del Cinquecento, negli edifici di Andrea Palladio o in stile palladiano. La felice stagione della decorazione in villa, che proseguì anche nei secoli successivi, si attesta ovunque nel Veneto, dove esempi di eccellenza punteggiano, con il loro linguaggio classicista, i piccoli centri e le campagne di Vicenza, Rovigo, Padova, Venezia, Belluno e Treviso: e a Maser la candida e luminosa villa Barbaro è qualificata all’interno dall’illusionistica veste colorata degli affreschi veronesiani, il cui sapore classicheggiante, colorato e sempre graficamente sostenuto, offriva decoro, diletto e un puro canto di bellezza alla illustre e colta stirpe che commissionò l’edificio a Palladio.
Maggiormente legata alla cultura centro-italiana è l’esperienza della scultura cinquecentesca, legata all’arrivo di Iacopo Tatti, detto il Sansovino (largamente impegnato nei palazzi dogali dal doge Andrea Gritti), e di quanti gravitarono nella sua orbita, come Danese Cattaneo e soprattutto Alessandro Vittoria, autore di sciolti ed eleganti busti-ritratto, di stucchi ornamentali, di opere in terracotta, bronzo, di medaglie, ricordando altresì come un particolare sviluppo ebbe la tipologia del monumento funerario, che a Venezia, nel caso delle tombe dogali, in particolare ai Santi Giovanni e Paolo, ma anche in San Salvador e ai Frari, mise a punto sistemi imponenti e articolati in senso architettonico, scultoreo e decorativo.
Questo insieme di conquiste di eccellenza veramente superiore in ogni linguaggio e tecnica artistica, di cui talvolta, nelle seterie, ad esempio, negli arredi lignei liturgici, nelle oreficerie, nel merletto, pochi esempi sono pervenuti, a fronte di una produzione abbondante e ricercata sui mercati esteri, continuò anche nel secolo successivo, in cui non mancarono voci originali di pittori e scultori, come i vicentini Francesco Maffei e Giulio Carpioni; i veronesi che incrociarono Caravaggio con il classicismo: Pasquale Ottino, Alessandro Turchi e Marcantonio Bassetti; il padovano viaggiatore Pietro Liberi; l’ironico veneziano Pietro Della Vecchia; l’altro veneziano, di breve carriera, Carlo Saraceni. Ma il Seicento è anche il secolo in cui arrivi diversi di artisti stranieri rivitalizzarono l’ambiente veneto, che, come ovunque, deve ‘ripartire’ dopo la peste del 1630, che fu senza appello anche per chi produceva arte e decimò le presenze di pittori, scultori, decoratori e artefici vari. Dunque le suggestioni europee importanti, da Caravaggio, Rubens, la pittura olandese, convogliano su Venezia e il Veneto, grazie a pittori come il mantovano Domenico Fetti, l’oldemburghese Johann Liss, il genovese Bernardo Strozzi. Analogamente, accanto alle voci locali, anche la scultura ebbe possibilità di rinnovamento grazie ad apporti ‘foresti’ e stranieri, con il bolognese Clemente Molli, il luganese Bernardo Falconi e soprattutto il fiammingo Juste Le Court e il genovese Filippo Parodi. Sicché, per scegliere le realizzazioni più note e significative del barocco, si dovranno ricordare almeno i complessi scultorei della basilica della Madonna della Salute di Venezia, la Cappella delle reliquie della basilica del Santo di Padova, e il complesso degli altari della basilica di Santa Giustina ancora a Padova, i cui paliotti costituiscono una colorata e felice novità in terra veneta, grazie ai commessi lapidei in pietre dure della famiglia fiorentina dei Corbarelli, che da Padova esportò la propria specialità verso Venezia e verso Vicenza. Il Seicento scolpito e pittorico è anche il secolo di Belluno e di Rovigo. Nel primo caso, con la fama e la spettacolare attività di Andrea Brustolon, scultore ligneo ed eccellente creatore di sistemi integrati di arredi-scultura. Nel secondo, grazie all’evidenza scenografica del tempio della Beata Vergine del Soccorso, detto la Rotonda, la cui decorazione interna fu predisposta nei decenni centrali del secolo.
Sempre, e di nuovo con forza nella generale ripresa artistica del Settecento veneto, i linguaggi d’arte concorrono tutti a delineare una rinnovata situazione di eccellenza: vetro, merletto, editoria, incisione, pittura in affresco e su tela, scultura lignea e lapidea, tessili, arredi liturgici e profani, dimore intere colme di beni adatti per ogni uso e consumo delineano la fisionomia di Venezia, città in cui si poteva chiedere e trovare ogni cosa, dove ormai il gusto dell’esotismo estremo orientale, ma anche la disponibilità inusitata di argento, coniugata con i nuovi riti sociali del caffè e della cioccolata, richiedeva manufatti preziosi, differenziati e continuamente rinnovati. La linea portante di questa arte settecentesca è una nuova chiarità, che conquistò sempre più spazio nelle tavolozze degli artisti − pittori diversi, presenze tutte significative, come Sebastiano Ricci, Federico Bencovich, Giovanni Battista Piazzetta, Giovanni Antonio Pellegrini, Giovanni Battista Pittoni, e altri, spesso attivi per le corti europee – e che il più grande tra loro, Giambattista Tiepolo, insieme a suo figlio Giandomenico, portò a perfezione, in una resa formale della leggerezza e della luminosità di un tessuto serico, facendo splendere di crepitante colore ville, palazzi, la Scuola Grande dei Carmini a Venezia, il Palazzo Patriarcale (oggi Arcivescovile) di Udine, la residenza di Würzburg, con affreschi, pale d’altare, contenuti sacri, mitologici, storici, profani, trattati con un respiro ampio, già fin nella piccola misura dei modellini, di felice freschezza, predisposti in vista delle realizzazioni su grande scala.
La pittura settecentesca è estremamente specializzata, a seconda dei temi trattati. Ne è esempio singolare e assai celebre Rosalba Carriera, tra le poche donne pittrici che pure l’arte veneta registra: come Elisabetta Lazzarini, ad esempio, Chiara Varotari, Giulia Lama e qualche altra. Ma il caso di Rosalba è eccezionale per il respiro cosmopolita e il successo internazionale dei suoi ritratti a pastello, minuti, preziosi, tanto rispondenti al principio del tant plus petit, tant plus beau, costruiti per velature impalpabili come la cipria dei nobili e dei principi imparruccati. Né tralasciabile è il comparto del vedutismo, dall’esattezza ottica di Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto, alla frantumazione della pennellata di Francesco Guardi e alla precisa restituzione luministica e atmosferica di Bernardo Bellotto. E ancora corde diverse, legate alla quotidianità della media aristocrazia, toccò l’ironia di Pietro Longhi con la scelta di tematiche quali Cioccolata mattutina, la Venditrice di essenze, entrambe a Ca’ Rezzonico a Venezia. Così, analogamente, anche la scultura moltiplica le sue implicazioni, continuando a qualificare le architetture, determinando lo spazio liturgico delle chiese, in sintonia con il senso della partecipazione globale delle arti alla definizione del sacro: da Giovanni Maria Morlaiter, di gusto ormai pienamente rococò, soprattutto nei bozzetti in terracotta, dove la rapidità di tocco sembra rispondere alla velocità di esecuzione richiesta dal materiale, ad Antonio Gai o Giuseppe Torretto. In Terraferma le dinastie dei Marinali e dei Bonazza lavorarono soprattutto tra Venezia e Padova, attive in gruppi singoli, nell’altaristica e nelle sculture da giardino, non di rado commento ironico tra le verzure dei giardini all’italiana del mondo contemporaneo, declinato con sapido e icastico sentire.
Società amante del virtuoso, del raffinato, delle forme illeggiadrite, garbate, lievi come l’ondeggiare delle piume di un ventaglio o dei lampadari di vetro soffiato, il Settecento veneziano chiuse in modo emblematico la civiltà della Serenissima con la scultura di Antonio Canova: nessuno, al par suo, riuscì a ricreare la parvenza dell’arte antica, letteralmente rinata a nuova vita nella sottile grana del marmo. Famosissimo e celebrato in vita, capace di rinnovare il genere del monumento funebre e di far palpitare di vita sensuale sculture come la Venere italica di Palazzo Pitti a Firenze, o di bloccare in un nitore cristallino Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice, Canova fu altresì impegnato nel recupero delle opere d’arte sottratte all’Italia, dopo la definitiva caduta di Napoleone. Ma se anche il bottino in parte fu restituito, con le leggi di indemaniazione del primo Ottocento, e con l’ultima legge italiana del 1866, andò in frantumi, senza possibilità di ricostituzione, quel mondo di alta professionalità, coeso e differenziato, capace di operare su vetro, ceramica, tessuto, legno, marmo, mosaico, oro e argento, bronzo, ferro battuto, pittura su muro, su tela, su carta, su pergamena, in grado di intarsiare, ageminare, modellare, brunire, imprimere il cuoio, trattare fin i cannoni come bronzetti, di tessere le sete con oro e argento e di riempire i palazzi e le chiese di ogni sorta di bellezza. Di questa civiltà sono oggi testimonianza le realtà museali, variamente diversificate e presenti diffusamente in tutta la regione.
Non più Serenissima Repubblica, nell’Ottocento le esperienze artistiche si moltiplicano e differenziano, dando risposte locali ai movimenti europei di riferimento, in percorsi articolati e impossibili, qui, a seguire. Si concluderà, tuttavia, non con il ricordo di una china inesorabilmente in discesa, quanto con il richiamo forte sull’arte contemporanea: per seguire le ultime tendenze, è ancora a Venezia che si troveranno risposte, nella collezione di Peggy Guggenheim, nella raccolta di François Pinault e nella Biennale d’arte, avanguardia di ricerca e di promozione delle nuove tendenze dell’oggi.
G. Vasari, Vita di Giorgione da Castelfranco pittor viniziano [1568], in Id., Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, nelle redazioni del 1550 e 1568, IV, a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, Firenze 1966, pp. 41-47; R. Pallucchini, La pittura veneziana del Settecento, Venezia-Roma 1960 (nuova ed. con il titolo La pittura nel Veneto. Il Settecento, a cura di M. Lucco, 2 voll., Milano-Venezia 1994-1995); La pittura nel Veneto. Il Quattrocento, a cura di M. Lucco, 2 voll., Milano-Venezia 1990; La pittura nel Veneto. Il Trecento, a cura di M. Lucco, 2 voll., Milano-Venezia 1992; La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, 3 voll., Milano- Venezia 1996-1999; La pittura nel Veneto. Il Seicento, a cura di M. Lucco, 2 voll., Milano-Venezia 2000- 2001; La pittura nel Veneto. L’Ottocento, a cura di G. Pavanello, 2 voll., Milano-Venezia 2002-2003; La pittura nel Veneto. Le origini, a cura di F. Flores d’Arcais, Milano-Venezia 2004; La pittura nel Veneto. Il Novecento, a cura di G. Pavanello, N. Stringa, 2 voll., Milano-Venezia 2006-2008; Verona. Civiltà della bellezza, a cura di G. Baldissin Molli, Cittadella 2007; Treviso. I luoghi del colore, Cittadella 2010; Belluno. Nel regno delle Dolomiti, a cura di A.M. Spiazzi, Cittadella 2011; Rovigo. Terra tra due fiumi, Cittadella 2011; Padova. Città tra pietre e acque, a cura di G. Baldissin Molli, Cittadella 2012; Venezia. Regina del mare e delle arti, a cura di A. Dorigato, Cittadella 2012; Vicenza. La provincia preziosa, Cittadella 2012.