Lavoro
di Igor Piotto e Mario Rusciano
LAVORO
Organizzazione del lavoro di Igor Piotto
sommario: 1. Introduzione. Le vie di uscita dalla crisi del taylorismo. 2. I principî essenziali del just in time. a) Eliminazione degli sprechi e 'fabbrica minima'. b) Rapporto dell'impresa con i suoi fornitori. c) Polivalenza professionale dei lavoratori e gerarchie intermedie. d) La qualità totale. 3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di lavoro: dalla 'mansione' alla 'missione'. 4. Dalla lean production alla produzione modulare. 5. Conclusioni. Problemi e prospettive. □ Bibliografia.
1. Introduzione. Le vie di uscita dalla crisi del taylorismo
Con il concetto di 'organizzazione del lavoro' si vuole indicare la concomitanza di tre ordini di fattori necessari a conseguire gli obiettivi produttivi desiderati: la divisione tecnica delle attività lavorative (suddivise in compiti), la loro integrazione e attribuzione a uomini e macchine in relazione alle caratteristiche professionali dei primi e ai vincoli tecnologici delle seconde, e infine il loro coordinamento (funzionale, temporale e spaziale) in ragione delle interdipendenze presenti nel processo produttivo.
L'integrazione delle attività prevede che singoli compiti siano incorporati in specifici ruoli organizzativi per quanto riguarda sia le relazioni di subordinazione che percorrono la catena del comando, sia le relazioni orizzontali di cooperazione tra ruoli appartenenti allo stesso livello gerarchico. Il coordinamento interviene sulle interdipendenze tra le attività lavorative attraverso meccanismi gerarchici operanti su linee verticali o attraverso meccanismi di adattamento reciproco basato su decisioni congiunte.
La divisione del lavoro è una "caratteristica ineliminabile dell'impresa industriale" (v. Pichierri, 1979, p. 135); le diverse e articolate forme attraverso cui si esprime sono date dalla natura e dalla combinazione di questi due concetti. Nel taylorismo - che rappresenta l'estremizzazione 'scientifica' degli studi precedentemente avviati da Smith (v., 1776) e da Babbage (v., 1833) circa la correlazione tra efficienza e specializzazione della prestazione lavorativa - tale combinazione produce un modello organico finalizzato a irreggimentare il lavoro in mansioni ripetitive, parcellizzate, standardizzate e integrate in rigide catene di comando gerarchico-burocratiche (v. Bonazzi, 1998).
In questa sede, partendo dalla definizione data di organizzazione del lavoro, si procederà con l'analisi dei nuovi modelli produttivi emersi con la crisi del taylor-fordismo; una crisi, annunciata negli anni settanta e proseguita sino alla metà del decennio successivo, che ha segnato la fine di una condizione di egemonia sulle culture organizzative delle società industrializzate durata più di mezzo secolo.
In questi anni la produzione su vasta scala di beni standardizzati, la cosiddetta produzione di massa, subì una battuta d'arresto causata principalmente dalla differenziazione dei mercati e dal conseguente ampliamento dell'offerta di prodotti non più soddisfacibile con l'architettura dell'organizzazione scientifica del lavoro (ibid.), la quale, per via delle sue intrinseche rigidità, non era più in grado di assorbire le incertezze economiche generate da un ambiente di mercato in continua trasformazione; le decisioni organizzative non potevano più fare riferimento a routines e certezze consolidate (v. March e Simon, 1958). Per far fronte a tali incertezze, il management aziendale fu così costretto a ricorrere a misure di flessibilità in grado di mettere le imprese nelle condizioni di rispondere ai tempi stretti delle fluttuazioni ambientali, rappresentate da una crescente diversificazione della domanda di prodotti/servizi sino agli estremi di una loro 'personalizzazione' in base alle specificità del cliente. L'introduzione delle nuove tecnologie meccatroniche - dai sistemi CAD/CAM (Computer Aided Design/Manufacturing) alla CIM (Computer Integrated Manufacturing) - aveva alimentato la convinzione che si potesse configurare un sistema produttivo, particolarmente nel settore industriale, ad alta automazione e ridurre con il supporto delle tecnologie informatiche la rigidità dei programmi di produzione. Si andava così diffondendo l'idea che le imprese avrebbero potuto conseguire alti livelli di efficienza quanto più consistenti fossero stati gli investimenti di carattere tecnologico; questo orientamento avrebbe consentito anche una riduzione degli organici e un conseguente allentamento del potere vulnerante dei lavoratori, specie in contesti ad alta conflittualità sociale.
L'automazione non richiama solo processi meccanizzati, ma rimanda anche a proprietà di autoregolazione da parte delle tecnologie; questo passaggio, oltre a costituire un fattore di indiscusso vantaggio, fu anche all'origine delle difficoltà che la fabbrica ad alta automazione incontrò nel corso della sua sperimentazione.
L'intreccio delle tecnologie meccatroniche e di quelle informatiche si rivelò efficace nell'inglobare parti della complessità nel processo produttivo, il quale richiedeva interventi di regolazione che non potevano avvenire per via automatica; in altre parole, era necessaria una valorizzazione del lavoro vivo quale risorsa di controllo e di conduzione degli impianti. In termini più generali, la via ipertecnologica alla flessibilità organizzativa comportava forme di decentramento decisionale per i lavoratori esecutivi incompatibili con la concezione taylor-fordista di gerarchia affermatasi sino a quel momento (v. Bonazzi, 1993).
L'utopia tecnocratica della fabbrica ad alta automazione non divenne mai una prospettiva realizzabile; la sua architettura non mutò gli assetti gerarchici precedenti e lasciò irrisolto il legame tra la complessità dei processi automatizzati e le interdipendenze che si venivano a determinare al loro interno. Questa esperienza mise in luce come il lavoro umano non avesse affatto il ruolo residuale ipotizzato nell'orientamento iniziale, soprattutto nelle fasi in cui risultavano determinanti gli interventi di regolazione del processo produttivo.
Lo spostamento verso una prospettiva antropocentrica (v. Brödner, 19852) di organizzazione della produzione favorì la ricerca di vie d'uscita dalla crisi del taylorismo. È in questo contesto che l'organizzazione del lavoro adottata negli stabilimenti automobilistici della Toyota - definita just in time - riuscì ad attrarre l'attenzione del mondo manageriale dei paesi a capitalismo avanzato e - grazie alla concettualizzazione elaborata principalmente da Taiichi Ohno (v., 1978) e Yasuhiro Monden (v., 1983) su queste esperienze organizzative - a esercitare su di esso una ormai indiscussa egemonia culturale.
A partire dal lavoro di ricerca di James P. Womack, Daniel T. Jones e Daniel Roos (v. Womack e altri, 1990), che per primi analizzarono le ragioni del successo del modello giapponese in particolare nell'industria statunitense, l'espressione just in time trovò un'altra definizione e venne convertita in quella di 'produzione snella' (lean production) - una differenza non puramente terminologica. Il just in time sperimentato alla Toyota giapponese costituisce l'idealtipo, weberianamente inteso, di una politica dell'organizzazione della produzione in cui la dimensione sociale e quella tecnologica convergono nel definire un modello considerato capace di assorbire la varianza di mercati dinamici. Quando è stata esportata al di fuori del contesto giapponese, questa 'politica organizzativa' ha richiesto modifiche di 'riaggiustamento', non tali, peraltro, da snaturare la concezione originaria; il concetto di 'produzione snella' denota così il carattere ibrido che di volta in volta può assumere il just in time a seconda delle specificità dei sistemi locali (v. Negrelli, 2000), nazionali e dei settori industriali in cui trova applicazione (v. Abo, 1994; v. Kochan e altri, 1997).
I nuovi modelli di organizzazione del lavoro e della produzione, maturati con la crisi del taylorismo, si sono affermati inizialmente nel settore industriale; specificamente, sono state le grandi imprese automobilistiche (GM, Chrysler, Toyota, Volkswagen, Opel, FIAT, Renault) a trainare la loro espansione. Solo successivamente il just in time è diventato un riferimento organizzativo per altri settori produttivi, in particolare il terziario. Dati i limiti imposti da questo articolo, non potremo analizzare la diffusione del modello just in time nelle imprese non industriali. Pertanto, focalizzeremo l'attenzione esclusivamente sul lavoro industriale e la sua organizzazione.
2. I principî essenziali del just in time
Il just in time può essere definito come un "sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra l'offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato" (v. Monden, 1983; tr. it., p. 7); l'incontro tra le due curve avviene grazie a una razionalizzazione dei processi organizzativi che si compone di quattro aspetti essenziali (v. Gohlar e Stamm, 1991): eliminazione degli sprechi e snellimento dei processi organizzativi, rapporti con i fornitori, polivalenza professionale dei lavoratori e qualità.
a) Eliminazione degli sprechi e 'fabbrica minima'
La strategia dell'eliminazione degli sprechi consiste nella progressiva riduzione di tutte quelle risorse che risultano ridondanti o che hanno una funzione marginale nella produzione di valore. Si delinea una sorta di 'fabbrica minima', nella quale tendono a scomparire, o ad assottigliarsi in modo consistente, gli stocks di magazzino e i relativi costi di gestione. Gli stocks nella produzione di massa costituivano certamente una fonte di costi, ma consentivano anche di assorbire sia le criticità interne, dovute a problemi di rallentamento, guasti e perdite di produzione, sia quelle esterne, derivanti dalle oscillazioni di mercato.
L'obiettivo del just in time è quello di utilizzare i fattori di produzione (materiali, tecnologie e forza lavoro) in modo strettamente circoscritto a quanto viene richiesto dal cliente in un dato momento, e più estesamente dal mercato. Da qui deriva una complessiva ridefinizione dei tempi organizzativi dell'impresa. In primo luogo, sulle linee di produzione devono giungere semilavorati e componenti nella misura e nei tempi previsti; il sincronismo dei tempi di lavoro e di movimentazione delle risorse materiali diventa un vincolo organizzativo che struttura l'intero impianto del just in time.
Inoltre, negli impianti industriali questo sincronismo viene favorito da una disposizione spaziale degli impianti (layout) che riduce i problemi di incertezza nei flussi produttivi. Le singole unità produttive vengono strutturate secondo una forma a 'U', accentuando la dimensione orizzontale del coordinamento nei gruppi di lavoro e favorendo sia la mobilità dei lavoratori tra le postazioni dell'unità - con un utilizzo efficace delle risorse umane, specie nei momenti di maggiore criticità (v. Suzaki, 1993) - sia una distribuzione dei tempi di lavoro non più imposta, come nel sistema tayloristico, attraverso un'analisi 'scientifica' di microgesti e microtempi, ma piuttosto ripartita nel gruppo di lavoro a seconda delle necessità produttive che si presentano in un dato momento (v. Coriat, 1991).
Infine, l'assottigliamento dei 'tempi morti', determinato dalla contrazione dei tempi di attrezzaggio e di quelli di attraversamento del prodotto, contribuisce ad alleggerire il carico dei magazzini necessario a garantire continuità nella fornitura di materiali alle fasi del processo produttivo.
La riduzione dei tempi morti e delle scorte non va unicamente intesa come operazione di bilancio aziendale, finalizzata all'eliminazione degli sprechi e quindi dei costi ridondanti; essa è inseparabile dalla strategia del 'miglioramento continuo' (in giapponese, kaizen), ovvero dalla mobilitazione di tutte le risorse, prevalentemente umane, impegnate nel processo produttivo e chiamate a un'attività di individuazione e sperimentazione di interventi migliorativi del processo di lavoro e del prodotto (v. Bonazzi, 1993). Questa specifica correlazione disegna un modello organizzativo nel quale i flussi produttivi sono costantemente impegnati a integrare - secondo l'efficace formula della innovation mediated production suggerita da Martin Kenney e Richard Florida (v., 1993) - innovazione e produzione, lavoro manuale e lavoro intellettuale in modo pressoché indissolubile.
b) Rapporto dell'impresa con i suoi fornitori
Il sistema del just in time comporta anche un'inversione della direzione del processo produttivo: nel fordismo, attraverso piani consistenti di programmazione produttiva a medio e lungo termine, l'impresa era in grado di determinare con largo anticipo il volume e la qualità dei consumi; ora mercati frammentati e fortemente variabili non consentono più produzioni standardizzate su grande scala. La crescente domanda di prodotti diversificati 'traina' il processo produttivo, offrendo margini molto ristretti per la programmazione temporale degli ordini. Come rimarcato da Monden (v., 1983), la simmetria tra domanda e offerta richiede un'organizzazione non dispersiva e fortemente adattabile ai mutamenti nell'indirizzo delle richieste. In questo contesto, la catena di fornitura di un prodotto viene profondamente modificata; i rapporti tra l'impresa e i suoi fornitori non si risolvono unicamente nella scelta dell'economicità della fornitura. La richiesta rivolta dal cliente è quella di una prestazione che coinvolga il fornitore, soprattutto quello di primo livello, anche nella 'ingegnerizzazione' del prodotto. Vengono richiesti alti livelli di cooperazione che spingono le imprese di fornitura più a ridosso dell'impresa finale nella progettazione del prodotto, oltre che nella sua fabbricazione; l'obiettivo è trasferire sul terreno delle relazioni di fornitura una strategia di incremento degli standard di qualità e una riduzione di quei costi causati dall'utilizzo ridondante delle risorse.
La progettazione congiunta dei prodotti presenta anche il vantaggio di alimentare economie di apprendimento; ovvero la produzione di "quasi-rendite relazionali" (v. Aoki, 1988) rappresentate dal patrimonio di conoscenze, specifiche e localizzate, che provengono dal rapporto di collaborazione tra le imprese, le quali però non possono essere assimilate unilateralmente da uno dei partners contrattuali senza mettere a rischio la riproduzione di comportamenti cooperativi.
Sul versante organizzativo interno della singola impresa, l'inversione della direzione del processo produttivo necessita di un "sistema di informazione per controllare armoniosamente le quantità da produrre in ciascuna fase di lavoro" (v. Monden, 1983; tr. it., p. 5). Questo spiega perché la semplificazione dei criteri di approvvigionamento introdotta dal kanban costituisca una delle innovazioni più radicali del just in time sul piano della logistica e della struttura aziendale di incanalamento ed elaborazione delle informazioni.
Letteralmente kanban significa 'cartellino', e sta a indicare una scheda che viene applicata su particolari raccoglitori di componenti per regolare il flusso di materiali allo scopo di evitare le ridondanze e gli sprechi. È un sistema di semplificazione dei criteri di approvvigionamento che può avere ripercussioni sui rapporti tra le unità produttive: infatti, i lavoratori dislocati in una unità produttiva a valle del processo produttivo diventano i clienti dell'unità produttiva situata a monte. Questa disposizione logistica rende praticabile la sincronizzazione dei processi, proprio perché consente alle singole unità di lavoro di modulare la quantità della produzione attraverso i continui feedback provenienti dalle unità successive, le quali instaurano reciprocamente rapporti di cooperazione e competizione improntati alla logica di mercato di cliente e fornitore: tale relazione entra in concorrenza con il criterio gerarchico che invece vantava un indiscusso primato nei meccanismi di strutturazione dell'impresa taylor-fordista.
c) Polivalenza professionale dei lavoratori e gerarchie intermedie
La gerarchia non scompare, ma l'organizzazione si trova costretta, per esigenze di competitività, a riconoscere una maggiore autonomia decisionale alle strutture periferiche dell'organizzazione, soprattutto quelle con funzioni esecutive. Verso la fine degli anni ottanta cresce nel management aziendale la consapevolezza che gli interventi di risoluzione dei problemi devono essere elaborati il più possibile a ridosso dei contesti in cui si manifestano le maggiori criticità.
La tecnica logistica del kanban si inserisce in questo nuovo orientamento, rendendo possibile il decentramento di compiti di micro-regolazione giornaliera del flusso produttivo, i quali erano, nel taylorismo, prevalentemente concentrati in strutture centralizzate di staff non direttamente coinvolte nel processo produttivo (uffici di programmazione e avanzamento della produzione). Questo spostamento decisionale (dal livello di stabilimento al livello di officina), per quanto sempre parziale, richiede che il lavoro esecutivo venga investito di una maggiore discrezionalità e sia accompagnato da richieste sempre più frequenti di polivalenza professionale.
La decentralizzazione di alcuni dei compiti di regolazione rende impraticabile la parcellizzazione del lavoro in 'microgesti', che aveva determinato per decenni il controllo sulla gestualità operaia, mettendo in tal modo in discussione uno dei principî fondanti la visione tecnocratica del taylorismo, quello della presunta oggettività scientifica dei criteri di formazione delle decisioni.
Si afferma, invece, nell'indirizzo manageriale, una prospettiva gestionale che stempera il modello decisionale autoritario e tende a sostituirlo con la sperimentazione di forme di lavoro di gruppo ritenute maggiormente efficienti sul terreno della flessibilità produttiva.
Al gruppo di lavoro sono demandati compiti gestionali che si estendono alla manutenzione ordinaria degli impianti, all'elaborazione delle procedure di lavoro, alla gestione di parti del processo produttivo. Il team è considerato una 'cellula produttiva' nella quale, sotto la supervisione di una struttura di coordinamento individuata nel team leader e nei tecnici (tecnologi, metodisti, manutentori), si combinano professionalità polivalenti in grado di governare la domanda di qualità e diversificazione dei prodotti che proviene da mercati variabili.
L'obiettivo organizzativo del lavoro di gruppo è quello di favorire la socializzazione di compiti e funzioni che prima erano demandati a strutture tecniche di staff laterali al processo produttivo, con risvolti rilevanti sullo stesso profilo professionale del management intermedio (capireparto, capisquadra), non più riconducibile, almeno sotto il profilo teorico, al ruolo di 'vicariato' della direzione aziendale o di shock absorber (v. Walker e altri, 1956) delle tensioni tra management e lavoratori esecutivi.
Il ricorso a espressioni anglosassoni come quella di team leader in sostituzione del più noto termine 'caposquadra' richiama certamente la natura indiscutibilmente autoritativa del ruolo, ma mette comunque in rilievo la dimensione collegiale dell'attività decisionale che queste figure del management intermedio assumono nel sistema just in time. Il responsabile del team mantiene un ruolo di 'comando' soprattutto nell'allocazione delle risorse (definizione dei percorsi professionali e di mobilità interna al gruppo, sistemi premianti e di incentivazione), ma a tale ruolo si affiancano competenze di coordinamento dei gruppi di lavoro e di gestione degli interventi di miglioramento incrementale (processo/prodotto).
d) La qualità totale
L'ultimo tassello che compone il complesso sistema del just in time è la qualità totale. È questo il concetto che percorre tutta l'elaborazione teorica e la prassi del modello giapponese.
L'attenzione manageriale per il sistema della qualità non nasce con la scoperta del modello giapponese, verso la fine degli anni ottanta, ma si focalizza prevalentemente sul ricorso a metodi di natura statistica quali strumenti privilegiati per verificare la qualità della performance aziendale.
Le tecniche statistiche non sono state trascurate da quanti hanno più marcatamente contribuito a elaborare il concetto di qualità totale in chiave organizzativa (v. Juran, 19743; v. Deming, 1982); piuttosto, tali tecniche diventano operative all'interno di una struttura organizzativa ampiamente modificata. Il mutamento è prima di tutto di ordine culturale: l'incremento di prodotti progettati e ingegnerizzati in base alle richieste di gruppi ristretti di clienti richiede una competitività che non è conseguibile solo attraverso un abbassamento dei costi, ma deriva anche dall'offerta qualitativamente superiore a quella dei concorrenti di mercato.
In questa prospettiva la ricerca della qualità non può essere ancorata a una specifica funzione aziendale di cui si compone un'impresa. Essa è un principio organizzativo - sintetizzato nel lessico manageriale dall'espressione total quality management - che struttura l'organizzazione, è il criterio di riferimento nella progettazione dei processi e dei prodotti, e costituisce pertanto il nucleo fondante di tutto il just in time. Ciascun sottosistema aziendale (logistica, produzione, marketing, servizi, approvvigionamenti, sviluppo delle tecnologie e delle risorse umane) deve attivare al proprio interno misure tese a ridurre il saldo negativo tra la prestazione attesa e quella effettivamente realizzata.
Sul versante dell'organizzazione del lavoro, il risalto dato alla qualità trova riscontro nel concetto di autocontrollo: con esso si indica la gamma di nuove responsabilità assegnate ai singoli lavoratori, anche quelli che ricoprono ruoli esecutivi, di monitoraggio e verifica di standard qualitativi circa i prodotti e parti specifiche del processo produttivo. Con l'autocontrollo si rafforza l'obiettivo di assegnare alla riduzione di scarti e difetti un ruolo determinante nell'integrazione delle funzioni e delle attività dell'impresa.
3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di lavoro: dalla 'mansione' alla 'missione'
La diffusione della produzione snella comporta che il lavoro operaio sia prevalentemente caratterizzato da attività di 'micro-regolazione' degli impianti e della gestione di obiettivi produttivi, e questo può essere considerato l'archetipo della configurazione emergente del lavoro esecutivo industriale (v. Kern e Schumann, 1984; v. Cerruti, 1994).
La conduzione di processi sincronizzati comporta un arricchimento del contenuto delle informazioni da elaborare insieme a un ampliamento delle competenze possedute. Con il just in time il singolo lavoratore deve sviluppare un rapporto attivo con il sistema informativo, che implica la convergenza di due specifiche "logiche di incremento" (v. Rieser, 1992).
Da un lato, si estende la discrezionalità del lavoratore nella scelta di soluzioni non programmabili per via gerarchica, o non totalmente incorporabili nelle tecnologie di processo. Un esempio è dato dal concetto di 'autonomazione', neologismo ricavato dalla contrazione di automazione e autonomia, col quale si indica la possibilità da parte degli operatori di arrestare automaticamente la linea di produzione ogni qual volta si presentano delle criticità. Questo potere di interdizione riconosciuto agli operatori è di estrema importanza per comprendere la logica che ispira siffatto modello organizzativo; esso assegna un ruolo attivo al lavoro esecutivo e lo colloca in una posizione cruciale nel perseguimento delle strategie di controllo di qualità. Nonostante l'entusiasmo con cui è stato accolto il principio dell'autonomazione, esso resta in molti casi scarsamente perseguito, per il permanere di una rigidità temporale dei programmi di produzione, ma anche per ragioni che vanno ricercate nella difficoltà, soprattutto dei quadri intermedi, di emanciparsi dai condizionamenti culturali del taylorismo, i quali portano a guardare con sospetto qualsiasi modifica organizzativa che vada nella direzione di un riconoscimento di discrezionalità al lavoro esecutivo.
Dall'altro lato, aumentano le informazioni che il singolo è chiamato a gestire. La 'de-gerarchizzazione' del flusso di informazioni, di cui il sistema kanban è l'espressione più visibile, richiede al lavoratore un ruolo di 'microterminale attivo' nello scambio delle informazioni, che si esplica essenzialmente nella capacità di micro-regolazione degli impianti e nell'individuazione dei segnali deboli che possono provenire dal processo produttivo (v. Rieser, 1992). Quello informativo diventa dunque il 'sistema nervoso' di tutti i processi produttivi. Strutturato secondo una logica di "concentrazione senza accentramento" (v. Bennett, 1994), il sistema informativo nel just in time richiede sedi decentrate di incanalamento ed elaborazione delle informazioni. Questa tendenza però non comporta, realisticamente, la completa destrutturazione del monopolio di competenze riconosciuto nel taylorismo alle figure gerarchiche elevate o di staff, quanto invece il restringimento, variabile, del loro raggio di intervento. Ma soprattutto, attraverso l'utilizzo delle tecnologie informatiche, la visione complessiva del circuito informativo dell'impresa viene concentrata in specifiche memorie tecniche e monitorata in 'presa diretta' con l'andamento della produzione.
Nel just in time vincoli di ordine tecnologico, organizzativo (la sincronizzazione dei processi produttivi tra le unità di lavoro) e informativo (il sistema kanban) delineano il profilo di una prestazione sempre meno focalizzata sul controllo della 'dimensione materiale del lavoro', a vantaggio del controllo sulla 'dimensione processuale del lavoro' (v. Kern, 1991), determinando un cambiamento di prospettiva che va nella direzione di quello che Kazuo Koike (v., 1988) ha definito come "white-collarization of blue collars". Questa tesi può risultare eccessivamente ottimistica, ma il dato importante è che il mutamento delle caratteristiche qualitative della prestazione, in particolare industriale, costituisce la rottura più significativa rispetto ai vincoli che l'organizzazione tayloristica, incardinata sulla disciplina della corporeità operaia, imponeva al lavoro esecutivo. In quel caso la scarsa variabilità delle mansioni era accompagnata dalla ricerca da parte del management intermedio di soluzioni operative finalizzate, attraverso la proceduralizzazione delle operazioni imposta per via gerarchica, a ridurre in modo crescente i margini di libertà riconosciuti al lavoro esecutivo.
Come è stato messo in rilievo dalla Scuola delle relazioni umane (v. Roethlisberger e Dickson, 1939), anche nell'organizzazione più restrittiva le maglie del controllo gerarchico non sono in grado di trattenere tutte le relazioni sociali che prendono forma al suo interno. Ulteriori studi hanno sottolineato che l'informalità nelle relazioni di lavoro non contiene unicamente aspetti di "disfunzionalità" (v. Crozier, 1963): l'informalità, nell'impresa tayloristica, ha fornito al lavoratore maggiori possibilità di negoziazione delle condizioni di lavoro con la gerarchia aziendale e, al tempo stesso, ha consentito all'organizzazione di mantenere una condizione di stabilità rispetto alle criticità esterne e interne a essa.
Nel sistema just in time il singolo lavoratore non è più chiamato a rispettare 'vincoli espliciti di obbedienza' definiti dalla direzione e dagli staff tecnici secondo una logica di 'conformità alla regola'; da qui deriva che la qualità della prestazione di lavoro non può essere correlata allo scostamento del comportamento umano dalle regole formali. L'aspetto prescrittivo della norma non cessa di esercitare la sua influenza, ma si traduce in 'obblighi impliciti di produzione' (v. De Terssac, 1992), ovvero in regole 'invisibili', implicite, che sono in grado di assicurare una cooperazione attiva nella gestione degli obiettivi di produzione (normalizzazione degli stati di criticità e continuità del processo produttivo). Queste 'regole invisibili' costituiscono un tessuto di significati condivisi, che indirizzano il singolo lavoratore nelle sue scelte di 'attenzione' e svolgono così una funzione 'metaregolativa dell'azione'.
La dicotomia formale/informale si rivela, dunque, inadeguata a cogliere il mutamento qualitativo della prestazione di lavoro, soprattutto alla luce dell'indebolimento del concetto di mansione, intesa come aggregato di compiti e considerata dal sistema tayloristico come l'unità elementare nella progettazione dei compiti esecutivi, a vantaggio di quello di 'missione', che denota una maggiore complessità organizzativa. La missione richiede un elevato grado di cooperazione attiva e la disponibilità ad attivare in modo continuativo interventi specifici e polivalenti, difficilmente programmabili nelle singole fasi operative e quindi meno soggetti a un monitoraggio parcellizzato. Tale attività micro-regolatrice fa emergere un patrimonio variegato di astuzie conservate in forma tacita e maturate nel corso dell'esperienza; questa visibilità fornisce al management la possibilità di appropriarsi di quella conoscenza produttiva che, nel sistema tayloristico, i lavoratori custodivano e utilizzavano quale risorsa difensiva rispetto alla pervasività del controllo gerarchico.
Il merito di Ohno (v., 1978) fu quello di comprendere che gli incrementi di produttività non erano conseguibili frantumando le mansioni degli operai professionali, con la degradazione del loro ruolo organizzativo e sociale, ma sovraccaricando il loro impegno lavorativo. Tale sovraccarico, unito all'eliminazione degli stocks di magazzino, avrebbe causato una tensione del processo produttivo, richiesto un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle attività di regolazione, e conseguentemente esteso le prerogative manageriali di controllo sul sapere produttivo.
Infatti, il lavoro subisce un processo di "simbolizzazione pubblica dell'esperienza" (v. Zuboff, 1988): astuzie nascoste ed esperienze professionali vengono alla luce e, attraverso il supporto di tecnologie informatiche, codificate in artefatti cognitivi, incorporate nelle memorie tecniche dell'organizzazione, favorendo così l'aggiornamento continuo delle conoscenze utilizzabili. Anzi, l'attivazione di circuiti virtuosi di conversione della conoscenza da tacita a esplicita è stata assunta quale elemento distintivo di superiorità della produzione snella sul modello taylor-fordista (v. Nonaka e Takeuchi, 1995).
Il lavoro è sempre il prodotto della combinazione dinamica di vincoli e autonomia nella divisione tecnica, nell'integrazione e distribuzione delle attività. Nel just in time i dispositivi di controllo aziendale divengono più pervasivi che in passato (v. Sewell e Wilkinson 1992; v. Baremberg, 1994; v. Delbridge, 1998). Il modello autoritario, fondato sul principio dell'organizzazione gerarchico-burocratica, è stato sostituito da un nuovo modello di autorità che si avvale di forme di comando meno visibili, non più espresse in forma imposta ma attraverso l'interiorizzazione, da parte dei subordinati, di quei vincoli impliciti di obbedienza che Gilbert De Terssac (v., 1992) ha individuato quale criterio strutturante i modelli flessibili di organizzazione del lavoro.
Il rafforzamento del controllo aziendale sui comportamenti umani non avviene più tramite la funzione disciplinare della norma, ma attraverso le 'politiche di produzione' (incentivi di natura economica e psicologica, responsabilizzazione). Viene aggredita la natura intrinseca della norma esplicita, quella di essere da un lato strumento di pressione ma, dall'altro, anche un vincolo all'arbitrio nelle relazioni di potere; non è infatti casuale che la definizione delle norme esplicite sia stata uno dei terreni di maggior conflitto nelle relazioni industriali fordiste. Si affermano relazioni di potere capaci di condizionare i comportamenti umani in modo più restrittivo di quanto non accadesse nel taylorismo, senza però riproporre la struttura verticale e autoritaria della trasmissione degli ordini.
Finora si è parlato indistintamente di polivalenza, ma non si tratta di un concetto che rimanda a condizioni di lavoro e professionali omogenee. Il just in time contiene almeno due tipologie di polivalenza: verticale e orizzontale.
La prima rimanda a competenze necessarie alla conduzione di impianti appartenenti a diverse famiglie tecnologiche e a svolgere funzioni eterogenee per contenuto tecnico (v. Cerruti e Rieser, 1989). Qui la polivalenza verticale consente al lavoratore di interagire in misura decisiva sia all'interno del proprio gruppo professionale di appartenenza, con attività di problem solving, sia al di fuori di esso, con relazioni di interscambio informativo con il personale di staff (tecnologi, metodisti, manutentori, uffici tecnici e di progettazione), garantendo così una continuità tra gestione della produzione e innovazione. In questo frangente l'aumento di discrezionalità, spesso rafforzato da un ampliamento delle opportunità di formazione e apprendimento, è accompagnato dalla intensificazione dei ritmi di lavoro (v. Parker e Slaughter, 1995).
Sull'altro versante la polivalenza orizzontale richiama competenze deboli, che permettono al lavoratore di muoversi entro uno scenario più limitato di postazioni, caratterizzate da un contenuto tecnico affine e da impianti che fanno parte di una stessa "famiglia tecnologica" (v. Cerruti e Rieser, 1989). La forza lavoro è dislocata in contesti statici di apprendimento, con scarse possibilità di rigenerazione del patrimonio professionale e cognitivo, da cui deriva un restringimento delle opportunità di mobilità interaziendale.
Questa distinzione aiuta a capire la natura ibrida dell'organizzazione. L'egemonia culturale esercitata da un modello di riferimento (è questo attualmente il peso del just in time nell'orientamento manageriale) convive con segmenti organizzativi ancora strutturati secondo modalità tayloristiche di subordinazione della forza lavoro, spesso sottoposta a processi di spersonalizzazione soffocante. È questo il caso di imprese che hanno uno scarso ruolo nella catena del valore del prodotto, mentre conservano un ruolo non marginale nella catena del processo; ad esempio, le migliaia di piccole imprese che rimandano all'esperienza delle maquiladoras messicane dislocate ai confini con gli Stati Uniti e impegnate in produzioni fortemente standardizzate, nelle quali opera una forza lavoro altamente intercambiabile, di sesso femminile e con limitate possibilità di crescita professionale.
D'altra parte, non va trascurata la pluralità di forme organizzative e di prestazioni lavorative che si sono sviluppate all'ombra dell'impresa a produzione di massa, ma che non si sono mai affermate come alternativa praticabile al taylor-fordismo. È questo il caso, nel contesto italiano, del modello della "specializzazione flessibile" (v. Piore e Sabel, 1984; v. Barca e Magnani, 1989; v. Brusco, 1989), caratterizzato dalla maggiore elasticità posseduta da piccole e medie imprese nell'utilizzare competenze professionali e tecnologie in modo sufficientemente versatile da soddisfare bisogni crescenti di diversificazione della domanda (introduzione di nuovi prodotti, personalizzazione dei prodotti/servizi e modifiche dei processi di lavorazione).
Nel contesto internazionale una potenziale alternativa all'organizzazione del lavoro taylorista, ma implicitamente anche al just in time, è stata quella sperimentata in Svezia, sul finire degli anni ottanta, negli stabilimenti della Volvo di Uddevalla e Kalmar. In quell'occasione venne adottato come criterio di progettazione organizzativa il principio della 'ricomposizione delle mansioni', in aperta polemica con la logica della parcellizzazione dei compiti e dei movimenti di origine tayloristica. Vennero formati gruppi di lavoro dotati di ampia autonomia nella ripartizione dei compiti e dei tempi di lavoro (pur all'interno di programmi produttivi definiti dalla direzione), composti da operai altamente qualificati in grado di gestire interi segmenti del processo produttivo. Il progetto venne interrotto all'inizio degli anni novanta, per ragioni di competitività del prodotto non tanto sul versante della qualità, quanto su quello dei tempi di consegna dei prodotti e dei costi. Quell'esperienza, anche per la nicchia di mercato in cui andava a inserirsi (la fascia alta della produzione automobilistica), non riuscì mai a proporsi come alternativa praticabile rispetto al modello giapponese del just in time.
Non va sottovalutato il legame che unisce la polivalenza nella specializzazione flessibile e nel caso svedese con la filosofia della gestione delle risorse umane avanzata dal just in time, soprattutto sul versante della progressiva "risoggettivazione del lavoro operaio" (v. Revelli, 1997). Sottolineare questa continuità è utile per far luce sulle molteplici esperienze organizzative e produttive che sono maturate tra gli interstizi del modello taylor-fordista, ma è altrettanto necessario mettere in rilievo che la valorizzazione delle risorse umane e delle capacità cognitive e professionali che queste esprimono, pur con consistenti differenziazioni interne, ha potuto rappresentare un'alternativa quando ha soddisfatto esigenze di rinnovamento organizzativo nelle grandi imprese finali di produzioni di beni e servizi, emancipandosi dall'ambito ristretto della sperimentazione di mercati periferici o di nicchia.
4. Dalla lean production alla produzione modulare
Il riconoscimento del mercato quale principio di strutturazione degli assetti aziendali costituisce una delle svolte più innovative introdotte dal modello giapponese, in aperta rottura con quello esclusivamente gerarchico di matrice taylor-fordista. L'introduzione dei principî del just in time ridisegna il profilo della prestazione lavorativa sottoponendola a nuovi vincoli esecutivi e a gerarchie intermedie, mentre sul fronte dei rapporti con le imprese di fornitura la sincronizzazione logistica (movimentazione materiali, incanalamento informazioni) si traduce in una crescente necessità di integrare i rapporti tra cliente e fornitore attraverso l'intensificazione dei momenti di 'progettazione congiunta' dei prodotti e dei servizi.
Nei primi anni novanta, quando il modello just in time si trovava in fase di piena espansione, il concetto di 'riduzione degli sprechi' - che aveva aperto una breccia innovativa nella riflessione manageriale - è stato nuovamente rielaborato, proseguendo e intensificando la strategia dell'alleggerimento delle funzioni e degli organici aziendali. Un primo tentativo risale all'elaborazione del concetto di re-ingegnerizzazione dei processi organizzativi (v. Hammer e Champy, 1993), che vede nella 'esternalizzazione' (outsourcing), ovvero nell'affidamento all'esterno delle attività che non risultano cruciali nella catena del valore dell'impresa, la via più efficiente per conseguire un vantaggio competitivo sul mercato.
Quello dell'outsourcing è un concetto poliedrico che può rimandare a significati tra loro molto differenti a seconda dell'oggetto che viene esternalizzato (che cosa), delle modalità contrattuali di trasferimento (come), delle ragioni che ispirano tale strategia (perché). Tuttavia, nella comunità scientifica c'è una sostanziale convergenza verso una definizione piuttosto versatile; per outsourcing si intende quel processo che accompagna la decisione delle imprese di cedere a fornitori la proprietà o la gestione operativa di parti del processo produttivo.
Soprattutto con la cessione della proprietà di parti del processo produttivo, che rappresenta la modalità più radicale di esternalizzazione, il ciclo produttivo dell'impresa cedente viene scomposto in una rete di proprietà distinte; quello che prima veniva realizzato all'interno di una struttura aziendale autonoma, sotto il profilo dei confini societari, ora è l'esito di attività che sono riconducibili al concorso di aziende giuridicamente autonome. La ricomposizione del processo produttivo viene garantita da un fascio di contratti di appalto, stipulati dall'impresa cedente e dall'impresa che acquisisce o gestisce le attività esternalizzate.
A seguito di queste considerazioni, si può definire 'multisocietaria' quella impresa che si configura come un 'contenitore' di realtà societarie diverse e autonome impegnate a condividere un comune 'spazio' di produzione; con questo termine si intende descrivere quel modo di organizzazione della produzione, adottato da una singola impresa, che consiste nella cessione a imprese esterne, prevalentemente tramite contratto di compravendita, della proprietà di funzioni aziendali (outsourcing), prossime al core business, e nella internalizzazione operativa (insourcing), tramite un contratto d'appalto di fornitura, delle loro attività nel sito produttivo originario, mediante il ricorso a un'architettura modulare del prodotto, dei processi e della catena di fornitura.
La modularizzazione è la soluzione organizzativa che rende possibile il trasferimento delle attività esternalizzate nell'area operativa dell'impresa cedente, e può riguardare la configurazione dei processi e la progettazione del prodotto. Sul versante dei processi, la modularizzazione prevede che interi sistemi di componenti vengano prodotti e combinati da fornitori specializzati operanti nel sito produttivo dell'impresa finale su linee di sotto-assemblaggio. Ciò determina un riposizionamento spaziale del fornitore 'sulle linee del cliente finale', insieme a una nuova configurazione degli assetti organizzativi e della dotazione tecnologica. Più articolata risulta la modularizzazione del prodotto. Infatti, il 'prodotto' viene inteso come un 'sistema di componenti', ciascuno dei quali può essere a sua volta scomposto in sotto-unità, e le loro interdipendenze tecnologiche sono definite da una comune logica di progettazione. Il baricentro dell'attività produttiva diventa il modulo, che rappresenta l'unità elementare, quindi non ulteriormente scomponibile, dell'intera architettura del prodotto. La combinazione variabile dei moduli indipendenti, che interagiscono attraverso interfacce standardizzate di connessione (v. Sanchez e Mahoney, 1996), può così determinare un ampliamento dell'offerta e dare origine a diverse soluzioni dello stesso prodotto.
La simultaneità dei processi di esternalizzazione e internalizzazione descrive un doppio movimento contraddittorio e rappresenta un elemento distintivo rispetto alle strategie di decentramento produttivo e deverticalizzazione degli assetti aziendali adottate dalle grandi imprese italiane nella prima metà degli anni settanta (v. Barca e Magnani, 1989); in quel caso, infatti, l'impresa cessionaria e quella cedente non condividevano lo stesso spazio produttivo, non si verificava, cioè, la condizione di internalizzazione delle attività cedute.
Con l'esternalizzazione l'impresa cedente sposta sui fornitori parti del rischio di impresa legato a un prodotto, ma allo stesso tempo chiede agli stessi di operare in prossimità o all'interno dei suoi impianti produttivi. Il passaggio della internalizzazione del fornitore nel sito dell'impresa finale rende possibile la riduzione dei costi, ma soprattutto favorisce il trasferimento di conoscenze esperte; qui la relazione di fornitura non riguarda solo lo scambio di prodotti o semilavorati, ma concerne l'instaurazione di economie di apprendimento e innovazione che derivano dalla fusione di due sistemi tecnologici.
Sul piano propriamente organizzativo del lavoro, con l'impresa modulare la prestazione non subisce radicali mutamenti; tuttavia, l'offuscamento dei confini dell'impresa stessa e, sull'altro versante, l'aumento dei punti di integrazione tra le attività aziendali generano nuove richieste di professionalità, ovvero aree di compiti che si espandono nei ruoli preesistenti e si vanno a innestare sulle trasformazioni già introdotte dal modello giapponese. In particolare, diventa cruciale la presenza di 'produttori di integrazione' (management intermedio, operai e impiegati altamente qualificati privi di ruolo gerarchico), i quali operano ai confini dell'impresa, intrattengono comunicazioni tecniche con clienti e fornitori, e hanno il compito di elaborare efficacemente informazioni e dati in modo da facilitare la collaborazione tra le imprese (v. Butera e altri, 1997). Queste professionalità di integrazione sono il segno di una 'sfasatura' tra le attività del sito produttivo, che può essere ricomposta se l'integrazione non incontra ostacoli, ma che in taluni casi può causare diseconomie organizzative dovute alla presenza di relazioni competitive tra ruoli ridondanti o sovrapposti.
Il profilo di questa popolazione lavorativa si compone di due aree distinte di competenza. In primo luogo, essa svolge attività di 'integrazione organizzativa', che consistono nel mettere in collegamento studi progettuali, saperi specialistici, risorse umane e finanziarie; in secondo luogo, essa costituisce una risorsa di supporto nella gestione dei contratti commerciali tra le imprese del sito produttivo; infatti, questo lavoro di scambio e integrazione di risorse non è facilmente governabile attraverso i contratti, i quali tutelano solo in parte le imprese dai rischi di opportunismo (pre- e post-contrattuale) degli altri partners aziendali, rendendo così necessaria la presenza di altre figure professionali, come il management intermedio, o, in un numero minore di casi, lavoratori altamente qualificati esterni alla catena di comando aziendale.
I produttori di integrazione definiscono un insieme di professionalità che vanno a integrare il modello giapponese di articolazione delle competenze, qualificandosi come una sorta di ulteriore specificazione della polivalenza verticale.
5. Conclusioni. Problemi e prospettive
Il primato della dimensione processuale del lavoro nei nuovi modelli di produzione ha determinato il passaggio della relazione di lavoro da una condizione contrassegnata dallo 'scambio di certezze' (gesti, movimenti, operazioni, ritmi, orari) - espressione di una visione onnicomprensiva della razionalità produttiva - a una condizione sempre più caratterizzata da uno 'scambio di impegni' (impegno attivo nel raggiungimento di sotto-obiettivi produttivi, connessione di più fonti informative, intervento sui fattori di criticità), dove invece si afferma una visione limitata della razionalità, proprio perché tali impegni non sono facilmente programmabili e comportano continui aggiustamenti in fase esecutiva. La prestazione di lavoro, pur con le sue profonde differenziazioni in termini di competenze possedute, richiede l'impiego continuo di risorse specifiche (conoscenze esperte), che costituiscono una delle leve più importanti per far fronte alle criticità che scaturiscono da processi produttivi complessi e - per i loro vincoli organizzativi (sincronizzazione tempistica e progettuale, integrazione delle attività interaziendali) - fragili. Allo stesso tempo, una quota consistente dei contenuti della prestazione di lavoro viene sottratta alla possibilità di standardizzazione e programmazione capillare, determinando così un indebolimento degli strumenti tradizionali di valutazione del lavoro erogato (v. Goldthorpe, 2000).
Certamente, il just in time e successivamente l'impresa multisocietaria hanno favorito, con il decentramento decisionale, la creazione di nuovi spazi di discrezionalità per il lavoro esecutivo e lo sviluppo di prestazioni polivalenti. Questo non è stato sufficiente ad accelerare la sperimentazione di nuove forme di umanizzazione del lavoro, spesso contrastate dall'emergere di condizioni di subalternità e di catene di comando non più incardinate sul 'ruolo', ma sul sapere posseduto e sulle opportunità di apprendimento e accrescimento delle competenze.
All'interno di un'impresa, o di un sistema di fornitura, convivono 'destini' professionali e condizioni di lavoro sempre più determinati dal divario tra una popolazione lavorativa impegnata nelle attività strategiche dell'impresa, inserita in circuiti virtuosi di apprendimento, a cui vengono richieste prestazioni specifiche difficilmente standardizzabili e per questo soggette a rapporti fiduciari da parte del management, e una popolazione lavorativa a polivalenza debole, che opera in condizioni di continuità con la tradizione tayloristica e si trova maggiormente esposta alla precarietà del rapporto di lavoro. Tenuto conto dei limiti analitici delle schematizzazioni dualistiche, questa divaricazione delle traiettorie professionali e delle condizioni di lavoro può essere indicativa di una polarizzazione che rischia di sostituire, come ha fatto notare Aris Accornero (v., 1997), quella taylor-fordista tra colletti bianchi e colletti blu.
Tuttavia, tale polarizzazione non va intesa in modo deterministico e non ripropone una prospettiva pessimistica circa le conseguenze che la razionalizzazione produttiva dell'impresa capitalistica genererebbe, con una complessiva tendenza all'impoverimento dei contenuti e delle condizioni di lavoro (v. Braverman, 1974). La traiettoria della produzione snella, come abbiamo visto, va in una direzione opposta e sollecita piuttosto la regolazione di un nuovo rapporto tra lavoro e conoscenza, soprattutto per quanto concerne i rapporti di lavoro e la gestione delle risorse umane nell'impresa.
Infatti, la regolazione del rapporto di lavoro, calibrata sull'organizzazione taylor-fordista, si rivela inadeguata a comprendere e regolare la prestazione di lavoratori impegnati in attività di gestione di micro-obiettivi, conduzione di impianti, integrazione organizzativa; e questo vale non solo per le figure ad alta professionalità, ma anche per lavoratori meno qualificati. Il rapporto tra lavoro e conoscenza viene sempre più determinato dallo scambio di beni immateriali, e ciò genera un crescente indebolimento dell'efficacia dei contratti, a partire dalla capacità di aderire alle condizioni materiali dell'organizzazione del lavoro e quindi alla fenomenologia della prestazione individuale.
Inoltre, la divisione tecnica del lavoro produce sempre una stratificazione del potere organizzativo; nei modelli snelli di organizzazione del lavoro l'accesso al sapere può determinare i confini entro i quali maturano nuove disuguaglianze e quindi nuovi assetti di dominio, non più basati sulla standardizzazione delle mansioni, ma sulla inclusione o esclusione dei singoli lavoratori da opportunità di arricchimento del loro patrimonio cognitivo e professionale. Questo rischio viene ulteriormente aggravato dal ritardo nell'introduzione di nuovi criteri di valutazione delle competenze professionali all'interno degli stessi contratti di lavoro.
Sul versante della gestione delle risorse umane, occorre ricordare che il lavoro contiene una particolare specificità: la prestazione lavorativa è fisicamente inseparabile dalla persona che la eroga, e questo rende cruciale il tema del consenso e della cooperazione dei singoli. Il comportamento manageriale risulta fortemente condizionato da questo 'vincolo' strutturale del lavoro vivo, soprattutto alla luce del ruolo crescente e strategico assunto dalla conoscenza nel governo dei processi produttivi. Si determina nel management aziendale un mutamento nelle strategie di costruzione del consenso, sempre meno orientate a oscurare i fattori di conflitto che possono derivare dalla erogazione dello sforzo fisico - come aveva efficacemente messo in rilievo Michael Burawoy (v., 1979) osservando i "giochi di produzione" - e sempre più impegnate a creare condizioni favorevoli per convertire il sapere tacito dei singoli lavoratori (informazioni, pratiche, metodologie) in conoscenze esplicite utilizzabili da tutta l'organizzazione, attivando così un processo di espropriazione del patrimonio professionale individuale.
Complessivamente, la debolezza dei meccanismi di regolazione del rapporto tra lavoro e conoscenza e, non da ultimo, i ritardi nella modifica dell'istituto contrattuale, hanno agevolato l'impegno delle imprese nel riconfigurare unilateralmente i sistemi di gestione delle risorse umane, prime fra tutte le misure di 'fidelizzazione' dei lavoratori come parte integrante di una strategia più complessiva di produzione del consenso aziendale. A fianco del filone classico della scuola motivazionalista - che trae nuovamente vigore dalla prospettiva del comunitarismo aziendale, anche in relazione al fascino esercitato dalla prospettiva giapponese dell'impresa-comunità (v. Dore, 1987), dove non è trascurabile il ruolo che la cultura aziendale esercita nel rafforzare il controllo normativo sui comportamenti individuali - si sviluppano interventi finalizzati a produrre comportamenti cooperativi per mezzo di un coinvolgimento dei dipendenti in 'processi distributivi' di natura economica e finanziaria. Questo determina una accentuazione della flessibilità retributiva: una parte del rischio di impresa viene incorporata nel salario - attraverso forme di azionariato dei dipendenti, oppure, più diffusamente, tramite l'agganciamento del salario a parametri variabili di produttività, qualità e redditività dell'impresa - quale contrappeso alla incertezza, da parte del management, circa i risultati della produzione.
Più limitata è l'esperienza della costruzione del consenso attraverso modelli di coinvolgimento dei dipendenti tramite la partecipazione collettiva ai 'processi decisionali' dell'impresa o del sito produttivo (nel caso dell'impresa multisocietaria), che invece presuppongono trasferimenti di quote di autorità dal management ai dipendenti e consentono a questi ultimi di esercitare un ruolo attivo nella determinazione delle scelte organizzative, con conseguenze sulla qualità della vita di lavoro (v. Baglioni, 2001).
La sfida della partecipazione nelle sue diverse articolazioni, distributiva e decisionale, raccoglie insieme i nodi cruciali dei mutamenti che hanno investito il lavoro e la sua organizzazione. In particolare, il legame tra consenso e sapere ridefinisce i contorni della conflittualità e della cooperazione nell'impresa, ma apre anche la via alla sperimentazione di modalità organizzative capaci di accrescere il potenziale di apprendimento, arginare nuove disuguaglianze e riconoscere al lavoro vivo spazi di autonomia ed emancipazione rimasti sinora allo stato di potenzialità.
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Diritto del lavoro di Mario Rusciano
sommario: 1. Il paradosso della fine del lavoro e il cambiamento del diritto del lavoro. 2. Specialità del diritto del lavoro e immutabilità del suo codice genetico. 3. Lo scenario del cambiamento. a) Innovazione tecnologica, trasformazioni economico-produttive e flessibilità. b) II ruolo del sindacato. c) Dalla 'contrattazione' alla 'concertazione'. 4. Terziarizzazione del conflitto e limiti allo sciopero nei servizi essenziali. 5. Europeismo e regionalismo nel diritto del lavoro. 6. L'evoluzione del sistema delle fonti. 7. Unione Europea e diritto del lavoro. 8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e delegificazione. 9. Nuove funzioni del contratto collettivo. 10. Il primato della Costituzione a difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori. 11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici, arbitri e Authorities. 12. L'estensione del diritto del lavoro. a) Tutela nel contratto e nel mercato del lavoro. b) Dal lavoro ai lavori. c) Diritto del lavoro e pubblico impiego. 13. Flessibilità delle tecniche giuridiche. a) Norma inderogabile. b) Controllo sindacale. c) Norma incentivante. d) Autonomia individuale. e) Soft law. □ Bibliografia.
1. Il paradosso della fine del lavoro e il cambiamento del diritto del lavoro
Nel passaggio dal XX al XXI secolo, alla svolta del millennio, non manca chi, specie tra i sociologi, arriva a profetizzare la 'fine del lavoro' e, dunque, del diritto del lavoro, quale insieme di regole (legali e convenzionali) che disciplinano il fenomeno del lavoro nella sua moderna complessità: dai rapporti individuali a quelli collettivi e sindacali, dai meccanismi del mercato del lavoro ai rischi esistenziali dei lavoratori durante e dopo la vita lavorativa. Partendo dall'idea secondo cui l'innovazione tecnologica (delle comunicazioni, dell'informatica, ecc.) determinerà la progressiva sostituzione del lavoro umano con macchine sempre più complete e perfette in quasi tutti i settori produttivi, si giunge a ipotizzare un "mondo senza lavoratori", tale da lanciare "la comunità mondiale nella Terza grande rivoluzione industriale" e nell'"era post-mercato" (v. Rifkin, 1995; tr. it., pp. 15-16).
Un'ipotesi del genere è paradossale: se non altro perché il superamento di un certo modo di lavorare non elimina la necessità del lavoro umano e non può, quindi, tradursi nella scomparsa dei milioni di persone che, nelle diverse attività produttive o nei servizi, rispondono a questa necessità, impiegando le proprie energie alle dipendenze (o, comunque, nell'interesse) di altri, allo scopo di ottenere in cambio non solo un reddito, ma anche identità, inclusione e promozione sociale. Tuttavia, quell'ipotesi fa riflettere su un fenomeno evidente: il rapido cambiamento della morfologia del lavoro, provocato dal cambiamento radicale dell'organizzazione economica e produttiva, in corso da una ventina d'anni (v. Accornero, 1994). Ovviamente, il cambiamento del lavoro produce il cambiamento del diritto del lavoro. Mutando modalità, quantità e qualità della prestazione d'opera, mutano pure le condizioni economico-sociali e giuridiche dello scambio tra lavoro e retribuzione: sia sul piano individuale, sia su quello collettivo. Un cambiamento epocale, come vedremo.
2. Specialità del diritto del lavoro e immutabilità del suo codice genetico
Per la verità, in Italia, il diritto del lavoro, nato dalla rivoluzione industriale (fine Ottocento-primi Novecento), ha conosciuto nell'arco di un secolo altri cambiamenti, analoghi se non eguali, dovuti all'intrinseca natura di ramo del diritto capace di registrare i fatti economico-politici e socio-antropologici legati all'uso delle energie lavorative, per temperare, e non vanificare, le istanze del sistema capitalistico del quale esso costituisce un effetto e, nello stesso tempo, uno strumento essenziale (v. Ascarelli, Norma..., e Ordinamento..., 1959).
La subalternità del diritto del lavoro (soprattutto) all'economia, se per un verso lo costringe a cambiare spesso 'pelle', a ridefinire i suoi confini, a rivedere costantemente le sue tecniche, per un altro verso ne rende immutabile la ratio naturale: proteggere chi, non possedendo altro che energie psico-fisiche, le offre a chi, potendo invece permettersi economicamente un'organizzazione produttiva o personale, domanda di 'comprare' o 'affittare' (secondo le concezioni dei giuristi di inizio Novecento) le medesime energie per utilizzarle a propri fini. È vero che, dal punto di vista giuridico, questo scambio avviene con un contratto, ma è vero pure che, nel contratto di lavoro, i soggetti contraenti solo formalmente sono eguali; sostanzialmente, invece, il lavoratore è, per definizione, contraente debole: se vuole lavorare, deve accettare le condizioni del datore di lavoro, il cui 'dispotismo contrattuale' nasce dal fatto che molte persone sono disposte a lavorare a quelle condizioni. Inoltre, a differenza degli altri rapporti obbligatori, nel rapporto che nasce dal contratto di lavoro come contratto di durata, anzitutto, sono implicati non soltanto valori economici, ma anche la persona del lavoratore, dato il carattere personale dell'adempimento, nel tempo, dell'obbligazione lavorativa; e, in secondo luogo, è il creditore a decidere - quasi momento per momento - la prestazione del debitore. Il lavoratore, infatti, è "legato da un vincolo che, fra tutti i vincoli di contenuto patrimoniale, è il solo a porre, sia pure per necessità istituzionale, un soggetto alle dipendenze di un altro soggetto" (v. Santoro Passarelli, 1985, p. 17). Questa specialità del rapporto (non a caso concepito, all'inizio, come locatio operarum) spiega la specialità del diritto del lavoro (v. Scognamiglio, 1960), caratterizzato dalla penetrante ingerenza della legge (e della contrattazione sindacale) nell'autonomia negoziale individuale. E spiega la compresenza, in esso, di modelli e logica sia del diritto privato, sia del diritto pubblico. Inoltre, siccome l'organizzazione produttiva richiede l'impiego di molti lavoratori, particolare rilievo assume la dimensione sociale del rapporto di lavoro: quanti, per vivere, sono legati da un rapporto di lavoro con un imprenditore, ben presto si coalizzano per rivendicare più denaro e più potere, sostituendo così alla debolezza del singolo la forza del gruppo. Dalla sintesi degli interessi individuali di un gruppo omogeneo nasce l'interesse collettivo, pietra angolare dell'organizzazione sindacale nelle sue varie articolazioni (di azienda, di mestiere, di categoria e confederale), la quale mira appunto a contrattare collettivamente con la controparte migliori condizioni di lavoro e di vita: se necessario, sostenendo le rivendicazioni con la lotta, anche aspra (sciopero, ecc.).
Con un fenomeno sociale di queste proporzioni devono fare i conti tutte le ideologie politiche del XX secolo. Ecco perché, storicamente, nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista (instauratore, dal 1926, dell'ordinamento corporativo) e poi, da questo, allo Stato sociale, fondato sulla Costituzione repubblicana del 1948 - frutto dell'intesa antifascista tra cattolici, comunisti, socialisti e liberali -, ciò che cambia, nel diritto del lavoro, è il segno, l'intensità o, se si vuole, la filosofia della tutela, ma resta inalterato, almeno in linea teorica, il suo codice genetico di ordinamento protettivo di quanti traggono dal lavoro i mezzi di sussistenza: insomma, un "diritto a misura d'uomo" (v. Romagnoli, 1995, p. 19). In tal senso il diritto del lavoro serve a tenere sotto controllo l'antica questione sociale, che cambia storicamente, ma continuamente si ripropone e costringe il legislatore a intervenire per motivi di ordine pubblico, per evitare, cioè, che le insopprimibili tensioni tra datori di lavoro e lavoratori in merito a una distribuzione equa (tra profitti e salari) della ricchezza prodotta sfocino in veri scontri sociali, sempre deleteri per la crescita economica e civile di una democrazia industriale.
3. Lo scenario del cambiamento
a) Innovazione tecnologica, trasformazioni economico-produttive e flessibilità
Le trasformazioni del diritto del lavoro negli ultimi vent'anni, oltre che alla crisi economica di fine anni settanta-primi anni ottanta - la quale ha reso predominanti, per le imprese, gli obiettivi della riduzione del costo del lavoro e dell'aumento della produttività - sono da imputare alla diffusione delle nuove tecnologie che hanno provocato ristrutturazioni e riconversioni aziendali senza precedenti. L'innovazione tecnologica, come è noto, incide pesantemente sulla prestazione di lavoro. Gli strumenti elettronici e informatici o si sostituiscono del tutto al lavoro umano, oppure, pur semplificando e velocizzando il processo produttivo, impongono ai lavoratori nuovi ritmi, sottoponendoli, per giunta, a nuovi e penetranti controlli che spesso ne compromettono la privacy. Di conseguenza, o i lavoratori vengono espulsi da tale processo, oppure la prestazione diviene meno faticosa in senso tradizionale e più faticosa in senso moderno, aprendo nuovi problemi di sicurezza del lavoro. In ogni caso, si verificano straordinari sommovimenti sociali: chi conserva il lavoro deve accettare ritmi e vincoli nuovi; chi lo perde deve riciclarsi per trovare altra occupazione, magari facendo, anziché l'operaio metalmeccanico, il maestro di tennis!
Ma la diffusione delle nuove tecnologie, per intuibili reazioni a catena, incide sul sistema economico anche in altri sensi. Col superamento dei confini geografici e delle barriere nazionali, essa rivoluziona i mercati di beni e servizi, ne favorisce la globalizzazione e provoca fusioni societarie, decentramenti produttivi, trasferimenti d'azienda ed esternalizzazioni, tutte iniziative capaci di fronteggiare - si ritiene - la spietata competizione mondiale tra imprese e, persino, tra sistemi produttivi nazionali. Non esistendo autorità sovranazionali e regole universali di governo della globalizzazione, sono le grandi società multinazionali, guidate dalla logica privatistica della convenienza, a dettare legge in materia, attraverso scelte economico-finanziarie che sconvolgono mercati e occupazione.
Si tratta infatti di scelte che, oltre ad accendere nuove conflittualità sociali da un capo all'altro della Terra (si pensi al fenomeno del movimento no global, ecc.), comportano di solito esuberi di manodopera, spesso professionalmente 'vecchia', e licenziamenti per riduzione di personale. Parallelamente, le migrazioni di proporzioni bibliche dall'Est e dal Sud del mondo verso l'Occidente consentono lo sfruttamento di ingenti masse di immigrati, disposti a fare qualunque lavoro (regolare o irregolare, e soprattutto i lavori umili) che i cittadini della società opulenta si rifiutano di fare, sebbene si tratti spesso di lavoratori espulsi dal sistema industriale in età matura e quindi incapaci di apprendere un nuovo mestiere per mantenersi attivi. Senza contare che, negli ultimi trent'anni, il mercato del lavoro ha visto, in tutti i settori, un incremento della presenza (non più irregolare) delle donne, grazie al cambiamento culturale di fine anni sessanta.
Si tratta di processi di enorme portata, che stanno generando vere e proprie mutazioni socio-antropologiche, con notevoli costi umani. Tra di essi, due meritano una particolare attenzione, se si vuol comprendere il cambiamento del lavoro e del diritto del lavoro. In primo luogo, la sostituzione della grande impresa taylorista-fordista con piccole unità produttive che utilizzano pochi addetti, spesso temporanei. In secondo luogo, la terziarizzazione dell'economia, con il conseguente spostamento dell'occupazione dall'industria ai servizi. Al centro di questi fenomeni sta l'esigenza di flessibilità del lavoro (mansioni, tempi e luogo della prestazione, ecc.), indispensabile al nuovo modo di produrre e di organizzare i servizi (dal commercio al terziario avanzato, ai servizi del tempo libero, ecc.).
Tutto ciò rivoluziona non solo modi e tempi di lavoro, ma anche stili di vita, fino a mettere in discussione i modelli culturali fondati sulla stabilità del lavoro in fabbrica. Tramonta la classica figura sociale del 'lavoratore' - maschio-capofamiglia, occupato a tempo pieno e indeterminato nell'industria privata, per lo più di dimensione medio-grande - da sempre tipica destinataria della tutela del diritto del lavoro (v. D'Antona, 1998), e con essa tramonta il diritto del lavoro nato nell'industria, mentre prendono forma nuove regole plasmate sulle esigenze produttive più diverse. Si apre così la 'stagione della flessibilità'.
b) Il ruolo del sindacato
Prima ancora che sulla politica del diritto del lavoro, la stagione della flessibilità ha pesanti effetti sul sistema dei rapporti sindacali, concepito in Italia, dagli anni sessanta in poi, come ordinamento autonomo rispetto all'ordinamento dello Stato (seppure con questo collegato). Tale concezione si basa su una lettura, realistica e avanzata, del 1° comma dell'art. 39 della Costituzione - secondo cui "l'organizzazione sindacale è libera" - e sulla mancata attuazione dei commi successivi al primo, nei quali si disegnava un meccanismo di riconoscimento statale dei sindacati, mediante registrazione di quelli 'democratici', e di rappresentanza unitaria proporzionale dei medesimi, per la stipulazione di contratti collettivi erga omnes (v. Giugni, 1960). La centralità del sistema sindacale autonomo, nel diritto del lavoro, costituisce un dato indiscusso (per il legislatore, per la dottrina e per la giurisprudenza) finché le maggiori Confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL) riescono ad aggregare gli interessi collettivi di milioni di lavoratori delle grandi imprese industriali e delle grandi categorie operaie. Grazie all'omogeneità, di massima, degli interessi rappresentati, non è difficile l'identificazione dell'interesse del singolo lavoratore con un interesse collettivo ampio, che per tradizione il sindacato difende, seguendo soprattutto il paradigma degli operai dell'industria. Ma la scomparsa della grande fabbrica e della figura antropologica del lavoratore standard, nonché l'atomizzazione del lavoro fuori della fabbrica diversificano e frammentano gli interessi di chi lavora, rendendo assai difficile il compito di aggregarli. A questa difficoltà si aggiunge la comprensibile ritrosia dei lavoratori flessibili a iscriversi al sindacato, ritrosia dovuta alla diffidenza, alle discriminazioni e alle rappresaglie da parte dei datori di lavoro. Precarietà del lavoro e moltiplicazione di nuovi mestieri, gruppi e categorie professionali abbassano l'indice di sindacalizzazione, dando vita, però, a nuove conflittualità, tanto da far prevedere che in futuro più diversificato, diffuso e precario sarà il lavoro, più spontaneo, multiforme e incontrollabile sarà il conflitto. In altre parole, è difficile pensare che i modelli variabili di organizzazione del lavoro e di uso delle risorse umane - tra i quali il datore di lavoro può scegliere a suo piacimento, aggravando la solitudine e la debolezza contrattuale del lavoratore - non finiscano col rompere la coesione sociale cementata da eguaglianza e solidarietà, pilastri dell'esperienza collettiva del lavoro e dell'ordinata convivenza civile.
Logicamente, il superamento della grande impresa, la diffusione di piccole unità produttive (con pochi addetti e assenza sindacale), la terziarizzazione dell'economia e la gestione più flessibile di criteri e regole di scambio della forza-lavoro rendono ormai inutile o impraticabile il controllo sindacale dei poteri del datore nei luoghi di lavoro (previsto dallo Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, e plasmato sul ricordato modello di relazioni industriali nella grande impresa di quarant'anni fa), vera linfa del potere sindacale. Ciò mette in crisi quel congegno, tipico del diritto del lavoro (e fissato, appunto, nello Statuto), per cui tutela individuale e tutela collettiva dei lavoratori interagiscono in un sistema circolare: attraverso il potenziamento del sindacato, come contropotere nell'impresa, si arriva a rendere effettivo l'esercizio dei diritti individuali e, attraverso la garanzia legale dei diritti individuali dei lavoratori, specie del diritto alla stabilità reale del posto di lavoro (art. 18 dello Statuto), si rafforza l'attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Ora la crisi del sindacalismo operaio fa vacillare lo storico ruolo sociale del sindacato (v. Cella, 1999, p. 111). In effetti esso vive oggi una crisi senza precedenti - e, secondo alcuni, addirittura irreversibile - anche a causa di vecchi nodi non risolti. Primo fra tutti il problema della rappresentanza sindacale (v. Rusciano, 2003, pp. 216 ss.), al quale il legislatore ha tentato di rispondere in un primo tempo, negli anni settanta, attraverso il ricorso alla figura del sindacato maggiormente rappresentativo, e poi, vista la crisi di tale criterio (culminata con l'abrogazione referendaria, nel 1995, della lettera a dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori), attraverso la recente introduzione della figura del sindacato comparativamente più rappresentativo. Tuttavia, queste figure sono adatte a fasi in cui la rappresentatività è indiscussa o abbastanza accettata dalla coscienza collettiva; ma quando è messa in dubbio la legittimazione stessa del sindacato, è giocoforza andare alla ricerca di nuovi criteri, tanto di aggregazione degli interessi collettivi, quanto di acquisizione e misurazione del consenso (democrazia sindacale). Non meraviglia, allora, che il sindacato stesso fatichi, oggi, a trovare la strada per farsi portatore di interessi più ampi, non solo tra i lavoratori occupati, ma anche tra quelli aspiranti a un'occupazione e persino tra i pensionati.
A queste figure standard vanno inoltre aggiunti i lavoratori flessibili, nonché quelli para-subordinati o coordinati e continuativi. Per questa via, il sindacato finirà col rappresentare l'istanza protettiva del "lavoratore in quanto cittadino" (v. Romagnoli, 2001, p. 818). Del resto, già da qualche tempo, esso si atteggia anche a erogatore di servizi (assistenza legale, fiscale, ecc.). Questa penetrazione sindacale nel nuovo mondo del lavoro non scioglie di per sé i nodi della rappresentatività e della democrazia sindacale, per risolvere i quali occorre un (non facile) intervento legislativo, da tempo atteso. Perciò lascia perplessi la strada del tutto diversa, imboccata dal legislatore con la legge 14 febbraio 2003, n. 30, e con il relativo decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276: che, senza nulla stabilire circa i criteri di misurazione della rappresentatività e di sostegno della democrazia sindacale, assegnano comunque al sindacato nuove funzioni istituzionali, le quali richederebbero, invece, proprio la fissazione di codesti criteri. E infatti, prevedere la partecipazione 'insieme' alla contrapposta rappresentanza datoriale, a 'enti' od 'organismi bilaterali' - con compiti di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, di formazione, di certificazione del tipo di rapporto di lavoro e di attestazione dell'esercizio, da parte del lavoratore, del potere dispositivo dei propri diritti, ecc. - significa affidare al sindacato funzioni parapubbliche. Le quali, oltre a essere estranee al nostro attuale sistema (evocando, anzi, la passata esperienza corporativa), trovano il sindacato medesimo non attrezzato giuridicamente. In realtà, per essere esercitate con efficacia, tali funzioni esigono appunto certezza giuridica sulla rappresentatività e sulla democrazia sindacale.
c) Dalla ' contrattazione' alla 'concertazione'
L'inserzione del sindacato in un ente bilaterale, con funzioni parapubbliche, esprime bene la metamorfosi e la confusione della rappresentanza degli interessi generate dalle trasformazioni del lavoro. La stessa inserzione, peraltro, è coerente con una stagione politica incline a ridisegnare il ruolo del sindacato, alterandone l'identità: nell'ente bilaterale, l'alterità delle posizioni rappresentative dei contrapposti interessi si smarrisce nella forzosa ricerca di posizioni comuni. Insomma, le difficoltà, per il sindacato, di svolgere il ruolo genuino di rappresentante degli interessi collettivi omogenei dei lavoratori (di una categoria, di un'impresa), secondo il modello della partecipazione conflittuale, lo caricano, per uno strano gioco di compensazione, di ruoli nuovi, per lo più istituzionali: da quello di semplice interlocutore dei pubblici poteri a quello di gestore di funzioni, nell'ente bilaterale. E difatti nell'ultimo decennio, mentre prende corpo, come vedremo, una tendenza legislativa a investire di nuove funzioni la contrattazione collettiva, si diffonde pure il metodo della concertazione sociale: i pubblici poteri mirano ad acquisire consenso sulle impopolari decisioni di politica economica, con il coinvolgimento responsabilizzante del sindacato e delle associazioni imprenditoriali. Il cosiddetto 'modello neocorporativo' si comincia ad affermare proprio con la conclusione di grandi accordi triangolari (per lo scambio politico-economico tra governo, imprenditori e sindacati), i cui contenuti influenzano poi legislazione e contrattazione.
Negli accordi di concertazione dell'ultimo decennio (il Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, del 23 luglio 1993; l'Accordo per il lavoro, del 24 settembre 1996; il Patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione, del 22 dicembre 1998, il cosiddetto 'Patto di Natale'; il Patto per l'Italia - Contratto per il lavoro, del 5 luglio 2002) temi cruciali, come la politica dei redditi e di contenimento dell'inflazione, si intrecciano con nuovi obiettivi e priorità: dalla politica della spesa pubblica e dell'occupazione, alla riforma del mercato del lavoro (e, più in generale, del Welfare State), dalla previsione di assetti della contrattazione collettiva (con una precisa distinzione di competenze tra contrattazione nazionale e decentrata), sino alla formalizzazione delle procedure della stessa concertazione (nel 'Patto di Natale' del 1998). Alla fine degli anni ottanta e negli anni novanta, poi, la concertazione, oltre che a livello 'macro' (di sistema economico), si è sviluppata a livello 'meso' (di categoria) e 'micro' (di impresa), dando vita sia a una contrattazione aziendale, orientata alla partecipazione dei lavoratori, sia a una nuova contrattazione territoriale, che si traduce nei patti territoriali e nei contratti d'area.
Il modello neocorporativo, se mantenuto entro confini sorvegliabili, ha dei vantaggi: basta ricordare che, senza gli accordi del 1992-1993 tra governo e parti sociali, l'Italia non avrebbe raggiunto una situazione economica compatibile con i parametri di Maastricht per la realizzazione dell'unità monetaria europea. Ma con questo modello, mentre si rafforza il sindacato-istituzione, fatalmente si indebolisce il sindacato-movimento: lo squilibrio tra queste due anime, specie in una stagione politica che presenta i tratti prima richiamati, è socialmente nefasto, perché accentua sia l'antagonismo sociale di aggregazioni spontanee o extrasindacali (Cobas, Rappresentanze di base, ecc.), sia i conflitti endosindacali, fino a spaccare l'interesse dei lavoratori: un tempo divisi da ragioni ideologiche, oggi divisi da un bipolarismo politico all'italiana, non privo di contraddizioni (si veda il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002, firmato dalla CISL e dalla UIL e contestato duramente dalla CGIL).
4. Terziarizzazione del conflitto e limiti allo sciopero nei servizi essenziali
La terziarizzazione dell'economia, di cui si è detto, comporta la terziarizzazione del conflitto sociale: l'asse del conflitto si sposta dall'industria ai servizi. Qui la frammentazione degli interessi collettivi è vistosa: fioriscono più sindacati autonomi, di taglio corporativo, magari con pochi iscritti, ma con grande potere vulnerante, dato il tipo di organizzazione del lavoro. Ora, quando il conflitto tocca servizi pubblici essenziali, dove l'utenza è più vulnerabile, oltre che inerme, la necessità di tutelare l'interesse generale diviene ineludibile (v. Treu, 2001, p. 221). Fallito il tentativo delle Confederazioni sindacali, vent'anni fa, di raggiungere, con l'autoregolamentazione, l'ambizioso obiettivo di contemperare diritto di sciopero (ex art. 40 Cost.) e diritti dei cittadini costituzionalmente tutelati, è intervenuta la legge 12 giugno 1990, n. 146 (in parte modificata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83). Una normativa di grande rilievo politico-sindacale e tecnico-giuridico: in essa si sceglie un meccanismo di regolazione adeguato alla complessità e delicatezza del fenomeno da regolare e all'esigenza di rispetto concreto delle regole. Quelle legali sono ridotte al minimo (preavviso di sciopero, comunicazione della durata, delle modalità di attuazione e delle motivazioni), mentre il compito più importante, cioè l'individuazione delle prestazioni indispensabili in caso di sciopero, è affidato alla contrattazione (ai cosiddetti 'accordi sulle prestazioni indispensabili'), la quale, riferendosi a specifiche realtà organizzative, produce regole diversificate (per settore, azienda, ente, categoria) aderenti al contesto e accettate dai destinatari. Completa il meccanismo regolativo l'istituzione di un'apposita Commissione di garanzia dell'attuazione della legge, cui spetta valutare l'idoneità degli accordi, dettare una provvisoria regolamentazione (quando mancano gli accordi), segnalare all'autorità amministrativa le misure necessarie, da adottare con apposita ordinanza (la vecchia precettazione), per evitare "un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati" (art. 8, l. 146), e infine comminare sanzioni, collettive e individuali, in caso di violazione delle regole.
5. Europeismo e regionalismo nel diritto del lavoro
Sul diritto del lavoro degli ultimi anni hanno inciso anche i cambiamenti del quadro politico-istituzionale, dovuti alla parallela crescita, nella vita economica e sociale, della dimensione europea e della dimensione locale (tendenze solo apparentemente contrastanti, perché l'ampliamento dei confini geografici accresce, nelle persone, tanto l'aprirsi al mondo, quanto il rinchiudersi nei confini della propria realtà territoriale). Da una parte, dunque, il processo di integrazione comunitaria (culminato a Maastricht, nel 1992, con l'istituzione dell'Unione Europea, e rafforzatosi ad Amsterdam, nel 1997, e a Nizza, nel 2000) comporta l'apertura delle frontiere del diritto del lavoro, non potendo certo esso restare, nell'era della globalizzazione, un diritto esclusivamente nazionale, chiuso entro i confini dello Stato. Dall'altra parte, il progressivo affermarsi, a livello nazionale, della cultura del federalismo - basata sull'idea che lo sviluppo economico e sociale deve contare prevalentemente sulle risorse (economiche, umane) delle comunità locali ed essere gestito dai poteri locali - fa sempre più sentire, negli ultimi anni, l'esigenza di una maggiore rilevanza delle realtà territoriali anche nel diritto del lavoro.
L'istanza di federalismo trova il suo sbocco politico-istituzionale nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che riforma, in modo tecnicamente criticabile, il titolo V, parte II, della Costituzione nel duplice senso: a) di realizzare un nuovo e paritario riparto di competenze legislative tra Stato e Regione, attribuendo a quest'ultima un'ampia potestà legislativa, nonché la potestà regolamentare (art. 117); b) di costituzionalizzare il 'principio di sussidiarietà' (art. 118), con l'ampliamento delle funzioni amministrative di Regioni ed Enti locali (il cosiddetto 'federalismo amministrativo'; v. Mariucci, 2001). La Regione assume una posizione centrale nel nuovo assetto istituzionale, con ripercussioni sulle fonti del diritto, anche del lavoro, e col rischio di aumentare, anziché ridurre, antichi divari territoriali.
6. L'evoluzione del sistema delle fonti
I mutamenti del quadro istituzionale si ripercuotono sulle fonti del diritto, sebbene il diritto del lavoro ne risenta meno, in quanto in esso, accanto alle fonti in senso formale (Costituzione, legge, normativa subprimaria), hanno da sempre notevole peso le fonti in senso materiale: dalle prassi sindacali di partecipazione e concertazione - al centro delle quali si collocano contratti collettivi e accordi sindacali - alla giurisprudenza. A dire il vero, nell'ultimo ventennio, pure i metodi e i contenuti delle fonti in senso materiale vengono messi a dura prova dalle trasformazioni del lavoro e dalla frammentazione degli interessi che ne deriva, perché si reggono proprio sulla coesione e su un certo stabile equilibrio degli interessi. Ciò rende complicate tanto la contrattazione, quanto le decisioni giurisprudenziali, condizionate dalla realtà economico-produttiva, ma nello stesso tempo tese a incidere, a loro volta, su tale realtà, onde evitarne pericolose distorsioni sociali. Sta di fatto che, in un contesto del genere, l'operazione non è semplice, sebbene soltanto la contrattazione e la giurisprudenza possano davvero ricondurre a sistema armonico tante regole, originate dall'intreccio di atti formali e comportamenti materiali. Specie in tempi critici, il piano formale prevale, benché talmente affastellato (per il moltiplicarsi di 'atti', 'fatti' e 'livelli' di formazione delle regole) da mettere in difficoltà gli interpreti e gli operatori più esperti. A ogni modo, può dirsi che oggi, alla stregua dell'intera produzione giuridica (formale e materiale), il diritto del lavoro si presenti a tre dimensioni: europea, regionale e nazionale (che resta comunque la più consistente).
7. Unione Europea e diritto del lavoro
Nella produzione giuridica sul lavoro è penetrata una logica europea, in virtù dei condizionamenti dell'Unione Europea, a partire dai contenuti dello stesso Trattato istitutivo della Comunità Europea, nella versione modificata dei Trattati di Maastricht, nel 1992, di Amsterdam, nel 1997, e di Nizza, nel 2000 (come, per esempio, la compatibilità delle regole nazionali sul lavoro col diritto comunitario della concorrenza: in proposito, v. Sciarra, 2000). Condizionamenti che aumenteranno (assieme alle difficoltà politiche) con l'allargamento dell'Unione ai paesi che attendono di farne parte e che hanno ordinamenti diversi, oltre ad avere differenti caratteristiche socio-antropologiche ed economiche e, in genere, più bassi standard di tutela del lavoro (retribuzioni, ecc.). Ma, già oggi, il diritto del lavoro deve adeguarsi ai minimi di tutela, dettati dalle direttive comunitarie - sempre più numerose negli ultimi anni, e riguardanti una varietà crescente di profili del rapporto e del mercato del lavoro (per esempio: pari opportunità, congedi parentali, sicurezza nei luoghi di lavoro, trasferimenti d'azienda, rapporti flessibili, ecc.) -, per le quali esiste, per gli Stati membri, l'obbligo di trasposizione negli ordinamenti interni.
Questa influenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro nazionale, iniziata nella seconda metà degli anni settanta - in coincidenza con una maggiore sensibilità della Comunità per la tutela del lavoro nelle crisi economiche e ristrutturazioni industriali - si è intensificata negli ultimi anni, con l'apertura dell'Unione Europea alla politica sociale, realizzatasi dapprima col Protocollo sociale allegato al Trattato di Maastricht del 1992, e in seguito con le modifiche al Trattato istitutivo della CE, contenute nel Trattato di Amsterdam del 1997 e nel Trattato di Nizza del 2000 (v. Roccella e Treu, 2002). Ormai l'influenza comunitaria sugli ordinamenti nazionali (che, come vedremo, riguarda contenuti e tecniche giuridiche) si può considerare diffusa, sebbene talora politicamente strumentalizzata: non più solo circoscritta, cioè, al rispetto di regole e limiti, posti da fonti vincolanti, ma esercitata, da una parte, mediante la stessa azione comunitaria - che spesso è accompagnata dalla predisposizione di atti e documenti di varia origine ed efficacia (raccomandazioni, libri bianchi, ecc.) - e, dall'altra, mediante la promozione del cosiddetto 'dialogo sociale europeo', considerato uno strumento privilegiato con cui perseguire l'equilibrio di interessi richiesto per contemperare competitività e socialità a livello comunitario (v. Treu, 2001, p. 91). Del resto, l'unica controindicazione all'adeguamento al diritto comunitario del diritto nazionale - l'eventuale abbassamento del livello delle tutele previste da quest'ultimo - viene evitata mediante il 'principio di non regresso' (inserito nelle direttive sociali), per cui il diritto nazionale prevale, in tal caso, su quello comunitario.
8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e delegificazione
Nell'ordinamento interno del lavoro, il cosiddetto 'policentrismo normativo' prende forma insieme all'affermarsi del livello europeo della produzione di regole e all'esigenza di una nuova distribuzione del carico legislativo tra i livelli nazionale e regionale: distribuzione che modifica il tipico tratto statuale e nazionale del diritto del lavoro, per effetto della non felice riforma del titolo V della Costituzione. Ma, sforzandosi di guardare in positivo tale riforma, la valorizzazione del livello regionale può offrire l'opportunità di un avvicinamento di alcuni aspetti del diritto del lavoro alle realtà economico-sociali dei diversi territori, cosa che in precedenza avveniva soltanto attraverso la contrattazione locale (patti territoriali, contratti d'area, ecc.), oppure attraverso la devoluzione alle Regioni di potere normativo attuativo e tramite il decentramento di funzioni e compiti amministrativi.
Sia chiaro: il nucleo duro del diritto del lavoro - vale a dire la disciplina del contratto individuale e le garanzie minime di tutela del lavoro - continua a essere di competenza 'esclusiva' del legislatore nazionale (facendo parte dell'"ordinamento civile" e dei "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale": così, testualmente, l'art. 117, comma 2, lett. l ed m della Costituzione), mentre le Regioni acquistano competenza legislativa 'concorrente' in talune materie, riconducibili ai profili amministrativi della "tutela e sicurezza del lavoro" (v. Rusciano, 2001), e competenza 'esclusiva' per altre (come, per esempio, la formazione).
Il nuovo ruolo che si va delineando per le Regioni in materia di lavoro, se da un lato, come già detto, consente di dar vita a discipline più rispondenti a specifiche esigenze territoriali, dall'altro comporta qualche rischio: quello, in particolare, di una 'balcanizzazione' del diritto del lavoro, risultante da talune letture troppo audaci e disinvolte del principio di sussidiarietà, le quali conducono alla disuguaglianza regionale eletta a sistema (a discapito delle regioni meridionali), che può risultare assai insidiosa per la coesione sociale e, in ultima analisi, per gli stessi interessi economici nazionali.
Oltre che della spinta verso la regionalizzazione, il policentrismo normativo è conseguenza della tendenza alla delegificazione, all'attribuzione cioè, da parte del legislatore, del potere di regolare materie prima disciplinate dalla legge a fonti subprimarie (i regolamenti 'autorizzati' o 'di delegificazione'). È vero che gli obiettivi di questo processo - diversificazione, semplificazione e snellezza normativa - sono apprezzabili sul piano della tecnica legislativa in generale, e quindi anche per il diritto del lavoro, ma è altrettanto vero che il medesimo processo contiene il germe della frammentazione, assai pericoloso per un ordinamento che voglia garantire un certo livello di eguaglianza sostanziale, solidarietà e pace sociale, in un delicato equilibrio di interessi e valori.
9. Nuove funzioni del contratto collettivo
Quando si parla di delegificazione, nel diritto del lavoro, si allude anche all'attribuzione di potere normativo ai contratti collettivi. Questo metodo, nella sua versione moderna, viene utilizzato a cavallo degli anni settanta e ottanta e si afferma pienamente nella seconda metà degli anni ottanta e negli anni novanta, come conseguenza sia dei cambiamenti economici, organizzativi e produttivi - che richiedono discipline concordate e differenziate, secondo le diverse situazioni concrete -, sia della valorizzazione di principio degli accordi sindacali a opera della legislazione promozionale degli anni settanta (in primis, dello Statuto dei lavoratori). E così, sempre più spesso il legislatore, invece di intervenire direttamente in una materia, delega agli accordi sindacali la funzione di attuare, integrare o sostituire la normativa di determinati istituti, per lo più in tema di mercato del lavoro e di gestione delle crisi aziendali, talora riconoscendo al contratto collettivo la facoltà di introdurre discipline peggiorative rispetto a quelle di legge. Tale orientamento nasce, per un verso, dalla necessità di coinvolgere il sindacato nell'adozione di misure forse vantaggiose per l'economia, ma non vantaggiose, almeno nell'immediato, per i singoli lavoratori (v. Mengoni, 1988, p. 25), e, per altro verso, dalla natura della contrattazione collettiva, che oltre a costituire il luogo naturale del contemperamento delle esigenze dell'impresa e di quelle dei lavoratori, riesce anche a soddisfare il bisogno di elasticità e di adattamento delle regole alle diverse situazioni particolari.
Il contratto collettivo, da strumento di autoregolazione degli interessi delle contrapposte parti sociali, nato per svolgere la funzione normativo-acquisitiva, assume allora anche nuove funzioni (v. Persiani, 1999): da quella definita 'di autorizzazione', che concede alle parti individuali di scegliere un tipo contrattuale flessibile (per esempio, art. 23, legge 28 febbraio 1987, n. 56, sul contratto a termine; legge 24 giugno 1997, n. 196, sul lavoro interinale; legge 18 dicembre 1984, n. 863, e decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, sul part time), a quella chiamata 'gestionale' o 'ablativa', per la gestione di crisi e ristrutturazioni aziendali che hanno inevitabili ricadute occupazionali (per esempio, il contratto di solidarietà difensivo, ex art. 1, legge 863 del 1984; gli accordi sindacali sui criteri di scelta dei lavoratori da licenziare collettivamente, ex art. 5, comma 1, legge 23 luglio 1991, n. 223); dalla funzione di individuare le prestazioni indispensabili in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali (legge 12 giugno 1990, n. 146), a quella relativa alla disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni (decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165); a quella, infine, più recente e assai importante, di attuazione delle direttive comunitarie (ex art. 137, par. 3, del Trattato CE in precedenza citato).
Il moltiplicarsi delle funzioni del contratto collettivo conferma la rilevanza, nel diritto del lavoro, del ruolo svolto dalla fonte extrastatuale autonoma, accanto alle classiche fonti eteronome. In molti casi, il contratto collettivo viene a essere lo strumento tecnico-giuridico di acquisizione del consenso a politiche legislative che avrebbero avuto difficoltà a realizzarsi compiutamente nella sola dimensione eteronoma, al di fuori cioè della tipica espressione dell'autonomia sociale. In queste ipotesi, però, è evidente che la cura degli interessi pubblici (o, se si vuole, il perseguimento dell'interesse generale, richiesto alla contrattazione) comporta inevitabilmente la riduzione, da parte del legislatore, degli spazi di tale autonomia, che appare così vincolata nei fini. La contrattazione, indirizzata dalla legge nello svolgimento dei compiti regolativi a essa delegati, non di rado viene, per così dire, funzionalizzata: emblematico l'esempio del contratto collettivo del pubblico impiego ex decreto legislativo 165 del 2001 (v. Rusciano, 2003) o quello degli accordi sulle prestazioni indispensabili ex legge 146 del 1990.
È appena il caso di notare, a questo proposito, che l'arricchimento dei contenuti e delle funzioni del contratto collettivo non è privo di paradossi: oltre a quello, già segnalato, di sottolineare il ruolo istituzionale del sindacato, va ricordato il paradosso della sproporzione tra il ruolo sostanziale di fonte giuridica del contratto collettivo e la sua natura privatistica, che molti si ostinano a qualificare 'di diritto comune' perché in alcuni casi ha un'efficacia limitata ai soli aderenti alle associazioni stipulanti. Infine, va segnalato il paradosso dell'inadeguatezza delle soluzioni di volta in volta adottate provvisoriamente dal legislatore, mentre si avverte sempre più la necessità di individuare criteri certi di legittimazione dei soggetti sindacali, al fine di evitare, per esempio, che l'intensificarsi della contrattazione gestionale (ablativa) mini alla base la funzione di rappresentanza del sindacato, quando i lavoratori si oppongono, in sede giudiziaria, alle previsioni contrattuali derogatorie o peggiorative dei preesistenti standard di trattamento.
10. Il primato della Costituzione a difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori
Il rischio che la moltiplicazione e diversificazione dei livelli di produzione normativa - sommati alla precarizzazione del lavoro e a qualche cedimento sindacale - conducano alla dispersione, se non alla perdita, delle principali garanzie dei lavoratori viene comunque scongiurato dal primato della Costituzione, che, essendo 'rigida', occupa formalmente il vertice nella gerarchia delle fonti statuali e impone il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, espressamente sanciti. Il lavoro occupa un posto centrale nella Costituzione italiana del 1948: è elevato a fondamento stesso della Repubblica democratica (art. 1) e sancito come diritto-dovere del cittadino (art. 4), in un quadro di solidarietà sociale (art. 2) e di eguaglianza formale e sostanziale (art. 3). Nel titolo III della parte I della Costituzione, dedicato ai "Rapporti economici" - che si apre con la solenne affermazione della tutela del lavoro "in tutte le sue forme e applicazioni" (art. 35) -, sono previste le principali situazioni giuridiche (individuali, collettive e sindacali) relative ai lavoratori: dal diritto all'equo trattamento economico e normativo (art. 36: su retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale e ferie) al diritto alla parità tra lavoratori e lavoratrici (art. 37, comma 1); dalla tutela del lavoro dei minori e dei disabili (artt. 37, comma 3, e 38, comma 3) ai diritti di sicurezza sociale (art. 38, commi 1 e 2) e alla formazione professionale (art. 35, comma 2); dal diritto di organizzazione sindacale e di sciopero (artt. 39 e 40) al diritto di partecipazione dei lavoratori alle politiche aziendali (art. 46), fino all'ipotesi che a "comunità di lavoratori" venga affidata la gestione di imprese (di "servizi pubblici essenziali", di "fonti di energia" o in "situazioni di monopolio") con "carattere di preminente interesse generale" (art. 43). In ciò la Costituzione italiana - pur in una rilettura moderna, adatta alle trasformazioni del quadro strutturale - si pone all'avanguardia tra le Costituzioni europee, con un modello originale di economia sociale di mercato la cui filosofia è racchiusa nell'art. 41, là dove viene sancita la libertà di iniziativa economica privata, precisando però che essa "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana".
La modernità del dato costituzionale trova riscontro nell'ordinamento comunitario, che tende a una tutela forte (rectius, di tipo costituzionale) dei diritti sociali. Dopo importanti decisioni, in materia, della Corte di Giustizia, si è giunti all'emanazione, nel dicembre 2000, di una Carta dei diritti fondamentali dell'UE: in vista della Costituzione dell'Unione, tra i diritti fondamentali dei cittadini europei hanno trovato grande spazio i diritti del lavoro, sempre più riconducibili ai diritti di cittadinanza (v. Ballestrero, 2000).
11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici, arbitri e Authorities
Nel diritto del lavoro, un ruolo importante, spesso 'creativo', viene da sempre svolto dalla giurisprudenza, annoverata ormai comunemente tra le fonti extralegislative. È sufficiente ritornare alle radici della disciplina e riflettere sul ruolo decisivo dell'esperienza dei 'Collegi dei probiviri', che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, hanno prodotto principî e regole (non solo sui rapporti individuali di lavoro, ma anche sulle nascenti relazioni sindacali e sulle prime forme di contrattazione collettiva) che sono stati poi in gran parte recepiti nella successiva legislazione e, infine, nel Codice civile del 1942. Anche in seguito, la giurisprudenza, soprattutto con la sua interpretazione evolutiva, spesso anticipa linee poi accolte dalla legge o dalla contrattazione, talvolta esercitando una sorta di supplenza di un legislatore inerte o di un sistema sindacale non maturo. L'attività interpretativo-creativa dei giudici risulta preziosa anche perché soddisfa l'esigenza di una produzione di regole aderenti alla realtà dei rapporti sociali. Basti dire che vi sono addirittura intere aree della materia rimaste per molto tempo regolate esclusivamente dalla giurisprudenza, la quale viene perciò considerata una delle sedi parallele di produzione del diritto del lavoro, sebbene nel sistema italiano (non basato sulla common law, e quindi sul valore vincolante del precedente) essa non sia stricto iure fonte del diritto e al giudice spetti soltanto il compito di interpretare e applicare la norma.
Ciò nonostante, il diritto giurisprudenziale ha accompagnato le metamorfosi del lavoro anche negli ultimi vent'anni e tuttora continua a svolgere una funzione determinante nella produzione delle regole: o perché lo stesso legislatore, in una determinata materia, formula norme in bianco e/o norme elastiche che solo il giudice può completare, valutando il caso concreto (dall'individuazione del lavoro subordinato, alla precisa distinzione concettuale tra 'giusta causa' e 'giustificato motivo' di licenziamento, dalla nozione di 'condotta antisindacale' al requisito delle 'ragioni produttive' per stipulare contratti a termine, ecc.), ovvero perché la stessa giurisprudenza individua l'utilizzo innovativo di strumenti processuali (quale, per esempio, l'art. 700 del Codice di procedura civile) capaci di ripristinare con urgenza i diritti del lavoratore, nel fondato timore di un loro grave e irreparabile pregiudizio.
Non c'è da meravigliarsi che, in una società complessa, conflittuale e caratterizzata dalla segmentazione degli interessi, cresca il ruolo del giudice. In fondo è inevitabile - benché in astratto sia auspicabile il contrario - che tanto le parti sociali quanto il legislatore tendano a rimettere al giudice la soluzione di molteplici nodi giuridici; questi ultimi, infatti, non possono essere sciolti in sede di contrattazione oppure tramite lo strumento legislativo a causa del carattere spesso compromissorio - e, perciò, equivoco e contraddittorio - delle regole (contrattuali o legali) e, più in generale, a causa della difficoltà di emanare norme che contemplino una vastissima varietà di ipotesi e situazioni. D'altronde questo problema, se nel diritto del lavoro è eclatante, non è sconosciuto agli altri rami dell'ordinamento: la complessità della 'società postindustriale' richiede la presenza di sedi e di soggetti, più o meno istituzionali, preposti alla composizione dei conflitti, soprattutto collettivi, in grado di dettare regole certe, condivise e accettate perché vicine alla realtà da regolare. Perciò, oltre che quella dei giudici, cresce l'importanza (sebbene discussa) sia dei 'Collegi di conciliazione e di arbitrato', sia delle Authorities, che toccano pure i lavoratori, o direttamente, come la Commissione di garanzia della legge sullo sciopero, o indirettamente, come il Garante della privacy e l'Antitrust (v. Rusciano, Utenti senza..., 1996, p. 73). Sorprende, piuttosto, che a tale importanza legislatore e governo non abbiano adeguato, in proporzione, l'organizzazione della giustizia, le cui disfunzioni finiscono per vanificare il riconoscimento formale delle garanzie dei lavoratori, contenute nelle norme elastiche di origine legale o contrattuale, e la particolare tutela processuale, introdotta con la legge 533 del 1973 sul processo del lavoro. Ma questo problema riguarda ormai tutti i cittadini, fino a investire la stessa tenuta dello Stato di diritto.
12. L'estensione del diritto del lavoro
a) Tutela nel contratto e nel mercato del lavoro
Le metamorfosi del lavoro, oltre a incidere sul sistema delle fonti, ampliano i confini del diritto del lavoro. Va sottolineato anzitutto che, di fronte ai problemi pressanti della disoccupazione, specie nel settore dell'industria - problemi derivanti dalle trasformazioni produttive e dalla crisi economica della seconda metà degli anni settanta, più volte ricordate -, l'obiettivo primario degli anni ottanta e novanta, non solo a livello nazionale ma anche in ambito comunitario, è stato quello di incrementare, o almeno mantenere, i livelli occupazionali. Un obiettivo che permane e che anzi, in Italia, è quanto mai attuale a seguito della crisi, per esempio, di un settore trainante come quello automobilistico (e del suo indotto) e dei connessi rischi di un lento ma inesorabile declino del sistema industriale nazionale. Ciò significa che il diritto del lavoro, nato per la tutela del contraente debole circoscritta al rapporto di lavoro, estende il suo raggio d'azione al mercato del lavoro, ampliando così la sfera dei destinatari della tutela: il prototipo di essi non è più solo il lavoratore occupato, ma anche chi aspira a un'occupazione, in quanto è 'non ancora' o 'non più' occupato. Il punto di partenza di siffatto processo sta nell'acquisita consapevolezza che il contratto di lavoro, diversamente dagli altri contratti, si costituisce, si modifica e si estingue dentro una ben definita (benché ampia) struttura economico-sociale, appunto il mercato del lavoro, che risente dell'andamento del ciclo economico. Non si può allora trascurare che la persona umana è direttamente implicata anche in tale struttura: prima dell'instaurazione o dopo l'estinzione di un rapporto di lavoro. Sicché l'esigenza di tutela di quanti non sono ancora lavoratori dipendenti, o non lo sono più e aspirano perciò a un'occupazione, è pressante né più né meno di quella di coloro che hanno un rapporto di lavoro. Anzi, forse è maggiore, perché la posizione dei primi è certamente più debole.
Il diritto del lavoro, dunque, va configurandosi come un insieme di regole volte a correggere non solo il dispotismo contrattuale del singolo datore, ma anche la manifestazione totalmente libera e spontanea delle forze e degli interessi nel mercato del lavoro, al fine di evitare quelle distorsioni sociali che possono derivare dal perenne e naturale squilibrio tra domanda e offerta. Peraltro, questa nuova funzione trova pur sempre titolo nel codice genetico del diritto del lavoro: se esso, per principio, tende alla tutela del lavoratore, è naturale che consideri quest'ultimo non solo quale contraente debole, ma anche quale persona economicamente subalterna e socialmente sottoprotetta. E non c'è bisogno di dire che tali condizioni sono, di solito, due facce della stessa medaglia.
La legislazione sul mercato del lavoro degli ultimi vent'anni - dopo una fase iniziale in cui, a causa delle congiunture economiche, ha assunto i caratteri di una legislazione dell'emergenza e, in seguito, di una legislazione della crisi - si pone l'obiettivo di rendere le regole del lavoro rispondenti alle nuove e mutevoli esigenze dell'organizzazione dell'azienda, in una logica di contemperamento tra esigenze protettive ed esigenze produttive, supponendo che una maggiore attenzione a queste ultime incentivi gli investimenti delle imprese e, in tal modo, crei nuove occasioni di lavoro. È questa la ratio della legislazione sulla flessibilità, che cerca di rispondere alla domanda delle imprese di rendere flessibili i rapporti e le condizioni di lavoro (v. Treu, 2001, p. 25). In tale legislazione rientra, da una parte, la disciplina dei rapporti di lavoro 'flessibili' o 'atipici' (part time, lavoro a termine, lavoro interinale, lavoro 'a chiamata', lavoro occasionale e accessorio, job sharing, apprendistato, contratti 'formativi', ecc.), i quali si discostano dai canoni del rapporto di lavoro 'tipico' o standard, a tempo pieno e indeterminato (la 'flessibilità in entrata'); da un'altra parte, la previsione di tutele del lavoro dipendente, ridotte e differenziate a seconda delle diverse realtà organizzative e delle caratteristiche concrete del lavoro (per esempio, l'allentamento dei vincoli e limiti all'estinzione del rapporto di lavoro consente, a volte, maggiore flessibilità in uscita, come nel caso del superamento della "reintegrazione nel posto di lavoro", di cui all'art. 18, legge 300 del 1970: sull'argomento, v. Accornero, 1999; v. Napoli, 2002).
Accanto all'obiettivo della flessibilità, la legislazione sul mercato del lavoro si pone quello del potenziamento degli strumenti per favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, adatti cioè a creare nuove occasioni e opportunità d'impiego. Viene anzitutto privatizzato, oltre che decentrato, il vecchio collocamento, facendone un servizio non burocratico, con l'apporto anche delle società fornitrici di lavoro interinale (legge n. 196 del 1997), oggi superate in seguito al decreto legislativo n. 276 del 2003, che ha istituito varie 'Agenzie per il lavoro' (art. 4) e ha, in particolare, introdotto la cosiddetta 'somministrazione di lavoro' (alla quale è dedicato l'intero titolo III). Si tenta inoltre di realizzare, negli interventi sull'occupazione, l'integrazione tra servizi per l'impiego, politiche attive del lavoro e politiche formative, con una particolare attenzione al ruolo della formazione professionale, da intendere come formazione continua e permanente, capace di rimettere sul mercato del lavoro soggetti espulsi per l'obsolescenza della loro professionalità. Un'esigenza, in Italia, sempre trascurata, ma sempre più sentita, date le ricorrenti riconversioni produttive, le quali, per la maggior parte dei lavoratori, rendono illusoria l'idea di fare lo stesso lavoro per tutta la vita e li costringono a imparare mestieri diversi, in archi temporali più o meno definiti.
È evidente che tali misure tendono a valorizzare, almeno in teoria, le caratteristiche peculiari delle differenti realtà territoriali, dovendosi sempre più tener conto dei vari mercati del lavoro, alimentati da risorse (umane e finanziarie) locali, con interventi differenziati di politica attiva del lavoro, molti dei quali di competenza, ovviamente, delle Regioni e degli Enti locali. Così, per esempio, la crisi dell'automobile nell'area torinese spinge a ipotizzare l'utilizzazione, nella stessa area, in agricoltura o nell'agroalimentare (settori anch'essi modernizzati dalle nuove tecnologie), degli operai espulsi dal settore automobilistico. In altri casi, invece - specie nel Sud, dove esiste una grave disoccupazione strutturale -, l'espulsione di lavoratori dall'industria, per la chiusura di un'impresa, spesso si traduce nella definitiva disoccupazione dei medesimi e nella necessità di ricorrere ad ammortizzatori sociali, cioè a mezzi di sostegno (di almeno una parte) del reddito, finanziati dalla collettività (cassa integrazione guadagni, indennità di mobilità breve o lunga, prepensionamenti, ecc.).
Certo, la rimodulazione della tutela sull'andamento del mercato (o dei mercati) del lavoro, piuttosto che sul contratto (e sul rapporto), pone il problema - a volte enfatizzato, a volte sottovalutato - dell'interdipendenza e dell'equilibrio, in termini di costi aziendali e/o pubblici, tra tutele nel rapporto e tutele nel mercato. Problema che non ha 'una' soluzione e, tanto meno, una soluzione una volta per tutte. La complementarità di ambedue le tutele è la sfida più ardua che attende il diritto del lavoro nel XXI secolo.
b) Dal lavoro ai lavori
L'esigenza di una maggiore flessibilità del lavoro, imposta dall'innovazione tecnologica e dalla globalizzazione dei mercati, viene soddisfatta dalle imprese soprattutto grazie all'allentamento dei vincoli nel lavoro subordinato. Non manca però un'altra strada, forse anche più comoda e conveniente economicamente: quella del ricorso a prestazioni di lavoro non subordinato. Si è parlato molto, negli anni novanta, di una vera e propria 'fuga dalla subordinazione', per indicare la notevole diffusione non solo del lavoro autonomo e del lavoro in cooperativa, ma soprattutto del lavoro prestato in collaborazione coordinata e continuativa e, in generale, del lavoro 'parasubordinato'. Tali forme di lavoro vengono anch'esse denominate, sempre con termine improprio e ambiguo, 'lavori atipici', perché, in astratto, si allontanano dal 'lavoro subordinato tipico', che sarebbe contemplato nell'art. 2094 del Codice civile. In realtà, tale articolo, più che prevedere una "fattispecie tipica" di contratto di lavoro, definisce il "prestatore di lavoro subordinato" colui che "si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro [...] alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore".
Ovviamente, in questi casi, non si deve parlare tanto di flessibilità, quanto di assenza di tutela: se si sta fuori della fattispecie (o della definizione) del lavoro subordinato, non si applica il diritto del lavoro. In realtà, però, proprio gli sviluppi degli ultimi anni - ossia il patologico intensificarsi del ricorso al 'lavoro non subordinato' - fanno dubitare della possibilità di pensare ancora il diritto del lavoro come un ordinamento applicabile soltanto in presenza dell'unica fattispecie legale ex art. 2094. È il problema della legalizzazione e della disciplina di queste forme altrettanto atipiche di lavoro - entrate indirettamente e quasi di soppiatto nell'ordinamento, grazie all'elaborazione fattane in trent'anni circa da dottrina e giurisprudenza, valorizzando l'art. 409 del Codice di procedura civile (riformulato, nel 1973, dalla citata legge 533 sul processo del lavoro) - per garantire a esse alcune tutele e compensare così, almeno in parte, la situazione di debolezza e di sottoprotezione in cui, in assenza di norme, spesso versano questi lavoratori atipici.
L'alternativa è, in sostanza, tra due modelli: la creazione per legge di un tertium genus, il lavoro 'coordinato' - accanto al lavoro 'subordinato' e 'autonomo' - cui riconoscere alcune tutele, riguardanti rapporto individuale (salute e sicurezza, malattia e maternità, libertà e dignità, divieto di discriminazioni, criteri d'uso della prestazione e calcolo del corrispettivo), diritti sindacali e previdenziali; oppure l'allestimento di uno statuto dei lavori che individui uno zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali, di garanzie minime da applicare a tutte le forme di lavoro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto, e la creazione di un sistema di tutele ulteriori, a geometria variabile, modulate e diversificate a seconda del grado effettivo di subordinazione (v. Treu, 2001, p. 196). Oggi il legislatore, non so quanto felicemente, ha scelto la prima strada, legalizzando il cosiddetto 'lavoro a progetto' (artt. 61-69 del decreto legislativo n. 276 del 2003): una nuova fattispecie il cui riscontro nella realtà del lavoro sarà tutto da verificare.
In realtà, la questione ha una rilevanza soprattutto sul piano formale, in quanto la subordinazione continua a essere il principale modello di utilizzazione del lavoro altrui, di modo che la qualificazione di un rapporto giuridico avente a oggetto il lavoro difficilmente può uscire dalla dicotomia 'autonomia/subordinazione'. Non ci si riesce neppure escogitando nuove formule, come quelle della legge 3 aprile 2001, n. 142, sul rapporto di lavoro del socio di cooperativa, ove si ritrova un ambiguo intreccio tra rapporto associativo e rapporto di lavoro "in qualsiasi forma", in linea con i tentativi di destrutturazione normativa dei rapporti di lavoro.
In fondo, è questo il senso della sentenza n. 121 del 1993 della Corte costituzionale: proprio per frenare la diffusione di rapporti di lavoro "in frode alla legge", la Corte afferma che il quadro dei diritti costituzionali dei lavoratori impedisce comunque (e persino al legislatore) di non qualificare formalmente come subordinati quei rapporti di lavoro che sostanzialmente ne hanno tutte le caratteristiche. Una posizione così chiara non può essere scalfita neanche dalla 'certificazione', nella quale l'organo pubblico o l'ente bilaterale qualifica la relazione di lavoro sulla base delle dichiarazioni delle parti. Sarà sempre e soltanto il concreto svolgimento del rapporto a fornire al giudice, ex post, i dati per la sua esatta qualificazione giuridica. In un'epoca in cui l'obiettivo della qualità totale, in un sistema di forte competizione globale, induce l'imprenditore a esigere dal lavoratore massima collaborazione e assoluta fedeltà, senza dare in cambio alcuna stabilità, non è priva di effetti l'esistenza di un invalicabile limite costituzionale alla flessibilità dei rapporti di lavoro.
c) Diritto del lavoro e pubblico impiego
Un ampliamento eclatante, nell'ultimo ventennio, del diritto del lavoro è costituito dalla legislazione che unifica con i rapporti privati, nell'ordinamento comune del lavoro, i rapporti nelle amministrazioni pubbliche (persino quelli dell'alta burocrazia), prima rientranti nel diritto amministrativo e disciplinati, in via esclusiva e unilaterale, da leggi e da fonti subprimarie statali, nonché da atti amministrativi, per garantire, in applicazione del principio di legalità, l'imparzialità dell'azione amministrativa, secondo una lettura un po' datata dell'art. 97, comma 1, della Costituzione. Si tratta, in realtà, di un processo lungo, complesso e stratificato, iniziato circa a metà degli anni settanta. Un processo che però - dopo la tappa intermedia della legge-quadro 29 marzo 1983, n. 93, ispirata a una logica compromissoria e non priva di contraddizioni - ha cominciato a realizzarsi in toto con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, attuativo della delega contenuta nella legge 23 ottobre 1992, n. 421, e che ha continuato a svilupparsi nell'arco dell'ultimo decennio, con varie modifiche e integrazioni dell'impianto originario (dai decreti del 1993, correttivi del decreto legislativo 29/1993, a quelli attuativi della delega 15 marzo 1997, n. 59, cioè i decreti legislativi 4 novembre 1997, n. 396, 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387; fino, poi, al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che riordina l'intera disciplina, benché pur esso modificato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145, in talune parti riguardanti, in particolare, la dirigenza statale).
La riforma realizza due obiettivi, caldeggiati negli ultimi decenni dalle confederazioni sindacali e condivisi anche dal mondo imprenditoriale e da quanti lamentano, guardando ai parametri europei, la proverbiale inefficienza della burocrazia italiana, per via di privilegi, scarsi controlli e anche eccessiva stabilità del personale. Il primo obiettivo è la 'unificazione normativa', di cui si è detto - capace di introdurre eguaglianza tra lavoratori privati e pubblici e controllo sociale della burocrazia -, con l'applicazione al rapporto di lavoro pubblico della disciplina del capo I, titolo II, del libro V del Codice civile e delle leggi sul lavoro nell'impresa, pur, naturalmente, con il mantenimento di alcuni tratti di specialità della disciplina, dovuti alle peculiarità del lavoro pubblico rispetto a quello privato, scontata la diversità dell'interesse perseguito (interesse generale, nel primo caso; interesse privato, nel secondo). Il secondo obiettivo è la 'contrattualizzazione' del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, vale a dire la relativa regolazione tramite contratti individuali e collettivi, anche se, come già detto, le peculiarità del pubblico impiego spingono il legislatore a disegnare un modello di contratto collettivo dai tratti molto singolari, quanto a natura, struttura ed efficacia, per l'importanza della funzione a esso affidata (v. Rusciano, 2003). Coerentemente con la contrattualizzazione, completa la riforma il passaggio alla cognizione del giudice ordinario delle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti, dopo più di settant'anni di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Si tratta, evidentemente, di un grande processo di trasformazione dei rapporti di lavoro pubblico. Un processo che affonda le sue radici, anzitutto, nel dato politico-istituzionale (visto il ruolo che, nella società, riveste non da oggi la burocrazia, e che la legge vuole tenere ben distinto da quello della politica), ma che comporta cambiamenti di tipo economico-sociale, sindacale e, in senso lato, culturale, e che, probabilmente, influenzerà in futuro l'evoluzione stessa di tutto il diritto del lavoro, rafforzandone le caratteristiche di "diritto della gestione delle risorse umane in ogni tipo di organizzazione" (v. Rusciano, 1993).
13. Flessibilità delle tecniche giuridiche
Quando nel linguaggio corrente si parla di 'flessibilità del lavoro', si allude all'aumento della discrezionalità offerta dall'ordinamento al datore di lavoro: quest'ultimo può infatti scegliere tra diversi modelli di rapporto e gestire contenuti e tempi della prestazione d'opera, secondo la convenienza dell'impresa. È naturale che siffatto obiettivo, per la sua complessità, venga raggiunto mediante la predisposizione di vari strumenti (o tecniche giuridiche). Certamente ogni tecnica è frutto del contesto storico-giuridico nel quale l'ordinamento interviene, ma ciò non vuol dire che una tecnica nuova si sostituisca del tutto alla vecchia; vuol dire piuttosto che si arricchisce il ventaglio degli strumenti tra i quali scegliere il più appropriato alle diverse esigenze che l'ordinamento medesimo vuole soddisfare. Si può così parlare anche di una 'flessibilità delle tecniche giuridiche' di tutela del lavoro.
a) Norma inderogabile
Poiché il diritto del lavoro nasce per correggere lo squilibrio tra le parti del contratto di lavoro, la tecnica tradizionale è quella della inderogabilità (da parte delle clausole individuali, tranne se più favorevoli al lavoratore), attribuita alle norme, legali e collettive, di tutela del lavoratore, e della sostituzione automatica, a opera di queste ultime, delle eventuali clausole difformi (artt. 1339, 1418, comma 1, 1419, comma 3, e 2077 Cod. civ.). Si blocca così l'eccessivo potere contrattuale del datore di lavoro, limitandone l'autonomia negoziale e, per altro verso, si invalida l'esercizio, da parte del lavoratore, del potere di disposizione dei propri diritti (art. 2113 Cod. civ.; v. De Luca Tamajo, 1976).
b) Controllo sindacale
La tecnica della norma inderogabile ha una sua rigidità formale, non appropriata alla tutela sostanziale del lavoratore. In effetti, nella relazione giuridica tra datore e lavoratore ha maggiore rilevanza il rapporto come concreta esecuzione del contratto, che è atto formale contenente il regolamento degli interessi (integrato dalle norme inderogabili). Ora, tale tecnica, imperniata più sul contratto che sul rapporto, rivela la sua efficienza solo quando, concluso il secondo, venga (eventualmente) affidata al giudice la valutazione della regolarità del primo. Ciò non è nell'interesse del lavoratore, che ha da essere tutelato giorno per giorno durante il rapporto, ma (forse) non è nell'interesse neppure del datore di lavoro, che, magari a distanza di anni, si vede chiamato davanti a un giudice cui spetta riscrivere regole e cifre di un vecchio contratto. Nasce così, negli anni settanta, la tecnica del controllo sindacale: piuttosto che prevedere norme inderogabili, che limitano in modo astratto il potere imprenditoriale, il legislatore affida alle rappresentanze dei lavoratori in azienda - secondo la logica di politica del diritto dello Statuto dei lavoratori - il compito di concordare con la controparte imprenditoriale i contenuti della tutela e di verificarne l'effettiva applicazione (v. De Luca Tamajo, 1978). Questa tecnica presenta dei vantaggi cui si è già avuto occasione di accennare: anzitutto, la tutela viene plasmata sulle reali esigenze dei lavoratori in un determinato contesto produttivo; in secondo luogo, si valorizza e si promuove l'attività sindacale nei luoghi di lavoro; infine, si apre la strada, prima, alla 'partecipazione conflittuale' in azienda e, poi, alla 'concertazione sociale' anche fuori dell'azienda, fino ad arrivare alla 'concertazione legislativa'. Una prassi, quest'ultima (diffusasi soprattutto negli ultimi vent'anni), di negoziazione preventiva, tra legislatore e rappresentanze degli interessi, del contenuto di futuri provvedimenti legislativi (riguardanti specialmente problemi di rilevanza politico-economica e sociale), sul quale il legislatore vuole dettare regole condivise (o addirittura concordate) con i destinatari delle stesse, al fine di garantirne l'effettività applicativa ('leggi negoziate').
c) Norma incentivante
Negli ultimi anni, la crisi della inderogabilità (oltre che per le ragioni appena dette, anche per l'avanzare del lavoro irregolare e sommerso cui i datori ricorrono per sfuggire alle norme inderogabili di tutela dei lavoratori), il ridimensionamento del controllo sindacale in azienda (per le ragioni più volte ricordate) e la prevalenza dei problemi del mercato del lavoro e della flessibilità (per la riduzione dell'occupazione) hanno spinto ad adottare la tecnica della norma incentivante: quest'ultima, anziché imporre limiti al potere imprenditoriale (con norme inderogabili e/o col controllo sindacale), prevede benefici e sanzioni promozionali per incentivare comportamenti e realizzare obiettivi voluti dalla legge (ad esempio, bonus per assunzioni, incentivi all'imprenditorialità, specie giovanile e femminile, azioni positive, ecc.; v. Ghera, 1979, p. 362).
d) Autonomia individuale
Di recente, poi, sempre per soddisfare le crescenti esigenze di flessibilità, piuttosto che l'autonomia collettiva, è stata rilanciata l'autonomia contrattuale individuale: in pratica si è ridotto e modificato il ruolo del contratto collettivo (e, dunque, del sindacato). Questa scelta del legislatore, che si rinviene, per esempio, nelle discipline dei lavori flessibili degli anni 2000-2001 (decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, sul part time; decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sul contratto a termine), lascia perplessi, perché i casi in cui il lavoratore può scrollarsi di dosso i panni del contraente debole (in pratica: è subordinato dal punto di vista tecnico-funzionale, non lo è dal punto di vista personale e psicologico) sì da poter regolare da solo i propri interessi, non sono molti (essi sono circoscritti per lo più ad alte e sofisticate professionalità). Se allora il prevalere dell'autonomia individuale si limita a questi casi, se ne può ammettere la legittimità (oltre che l'utilità), essendo evidente che l'aumento della professionalità fa diminuire la subordinazione. Altrimenti, esso non fa altro che accentuare la debolezza e la solitudine del lavoratore e, quindi, non può sottrarsi alla censura di incostituzionalità.
e) Soft law
Infine, è importante registrare la tendenza a importare nel nostro ordinamento strumenti regolativi propri dell'ordinamento comunitario o di altri paesi europei, come le soft laws e i codes of practice (v. Snyder, 1993): regolamentazioni leggere, non cogenti (somiglianti, ma non paragonabili, alle nostre norme dispositive), le quali, più che altro, si limitano a fissare obiettivi o ad auspicare in alcune aree 'buone pratiche' per orientare l'attività dei soggetti destinatari senza costringerli a uno specifico comportamento. Si tratta di una tecnica abbastanza distante, dunque, da quella della norma inderogabile, la quale, invece, non lascia spazio a libere pattuizioni, se non in senso più favorevole al lavoratore. Sulla capacità di tale tecnica - nata in contesti giuridico-culturali assai diversi dal nostro, fosse anche solo per i livelli etici più elevati che ne costituiscono il terreno naturale di coltura - di realizzare una compiuta tutela del lavoro è difficile ora pronunziarsi, perché non ancora abbastanza collaudata. Nel collaudo, comunque, andrà valutata la legittimità costituzionale di siffatto mezzo rispetto al fine (di tutela del lavoro), che verrebbe sicuramente a mancare, se esso dovesse rivelarsi incapace di garantire l'effettività dei diritti costituzionali dei lavoratori.
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