Lavoro
Il termine lavoro definisce tutte quelle attività umane, individuali o collettive, intenzionali e non istintive, che si esplicano, con dispendio di energie fisiche e psichiche, per ottenere mezzi di sussistenza o prodotti di utilità individuale o generale. L'attività lavorativa, oltre a determinare un rapporto tra l'uomo e l'ambiente naturale, dà vita anche a una serie di relazioni sociali, di cooperazione, dominazione o sfruttamento, tali che la stessa dinamica dei fenomeni sociali può essere intesa tenendo conto dell'importanza e dei significati che le persone attribuiscono all'esperienza lavorativa. Lo studio delle eventuali patologie riconducibili all'ambiente di lavoro, al fine di preservare l'incolumità e la salute del lavoratore, costituisce l'ambito di una disciplina specifica: la medicina del lavoro.
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Il significato attribuito al lavoro è sensibilmente diverso se lo si considera da un punto di vista diacronico, lungo l'arco di tempo del nostro processo di civilizzazione, oppure sincronico, nel confronto tra le distinte aree geoculturali. Si tratta quindi di un fenomeno ampiamente influenzato da fattori storico-sociali. Nel mondo occidentale il significato di lavoro ha le proprie radici nel terreno della tradizione greco-latiina e giudaico-cristiana, che lo intendeva come attività servile, non degna degli uomini migliori. Con il primo cristianesimo si affaccia l'idea del lavoro come redenzione o riscatto; per il cattolicesimo, in particolare, il lavoro sembra assumere connotati più marcatamente positivi, in quanto connesso con l'integrità morale e spirituale della persona, in contrapposizione all'ozio e alla pigrizia; si deve poi alla Riforma protestante il suo riconoscimento come il modo migliore per servire Dio e per rispondere alla sua chiamata. In particolare, è di impronta calvinista la concezione del lavoro come dovere religioso e massima virtù: proprio la diffusione degli insegnamenti di Lutero e Calvino ha consentito l'affermarsi dell'etica protestante sottesa al modo di intendere la produzione, la ricchezza e il lavoro nella società industriale, come esplicitato dall'analisi di M. Weber sulla relazione causale tra etica protestante del lavoro e capitalismo.
L'influenza delle più recenti ideologie liberista e marxista, nonché del magistero sociale della Chiesa cattolica, ha ulteriormente articolato la gamma delle concezioni del lavoro, ciascuna in conflitto con le altre per la propria affermazione e supremazia. Comunque, alla fine del 20° secolo, paiono in crisi l'enfasi e l'assolutizzazione del lavoro, mentre si afferma una sua relativizzazione rispetto ad altri valori dell'esistenza. Al ruolo lavorativo vengono tuttavia riconosciute varie funzioni: economica (consente di vivere e di aver cura del proprio nucleo familiare); di sviluppo soggettivo (è fonte di identità, autostima, autorealizzazione); relazionale (consente agli individui di interagire in un sistema più ampio di rapporti interpersonali e tra ruoli); sociale (concorre a definire status e prestigio delle persone che svolgono le diverse funzioni in un dato contesto). Il lavoro, dunque, rimane centrale nella vita degli individui, anche se la sua parcellizzazione e divisione, la razionalizzazione tecnologica e la burocratizzazione delle organizzazioni, i contesti e i contenuti stessi di molte attività, lo hanno reso, in molti casi, qualcosa di poco gradevole, frustrante e insensato.
Contestualmente, l'innalzamento del livello di scolarizzazione ha elevato le aspettative verso la qualità del lavoro, mentre la diminuzione di un'educazione religiosa ha affievolito l'etica del lavoro; lo sviluppo delle opportunità connesse con il tempo libero, d'altra parte, ha messo in rilievo altri ruoli della vita; l'evoluzione delle norme sociali, infine, ha indotto a considerare il lavoro come diritto alle opportunità piuttosto che come dovere alla contribuzione. Le concezioni o le rappresentazioni del lavoro sono dunque in cambiamento, lungo un continuum che collega due polarità opposte e complementari tra loro: una strumentale e una espressiva. La concezione strumentale, prevalente nei paesi di cultura anglosassone, considera il lavoro un'attività tra le altre, il cui valore è dato dal fatto che consente, per mezzo del denaro e dello status sociale che procura, di raggiungere il modo di vita desiderato: esso perde così la sua dimensione morale, religiosa o politica, e diviene uno strumento per raggiungere fini esterni. La concezione espressiva, maggiormente presente nei paesi di cultura latina, privilegia invece il contenuto del lavoro più che la remunerazione, la possibilità di riuscita e di realizzazione personale più che il tempo libero, il soddisfacimento dei propri valori nel settore lavorativo oltre che negli altri ambiti della vita. Dal punto di vista sociologico, la centralità del lavoro sembra diminuire anche perché il tempo che vi si dedica si è notevolmente accorciato rispetto al passato, in rapporto alla durata della vita: la vita media si è allungata e si sono dilatati sia il tempo che precede sia quello che segue l'attività lavorativa; oltre al numero degli anni lavorativi, è diminuito anche quello delle giornate annue e delle ore giornaliere di lavoro. La società postindustriale viene prefigurata con meno lavoro, meno lavoratori e radicali mutamenti nella morfologia del lavoro stesso, delineando sia scenari preoccupanti e conflittuali per il diffondersi della disoccupazione, sia orizzonti più ottimistici nel segno di nuovi e migliori ritmi di vita, di inedite possibilità creative ed espressive.
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Dal punto di vista psicologico, le ricerche sul coinvolgimento lavorativo, sull'importanza attribuita al ruolo lavorativo rispetto agli altri ruoli, e in particolare sulla centralità del lavoro nella propria vita, confermano la rilevanza del tema ed evidenziano le differenze di significato che il lavoro assume in funzione di variabili individuali, situazionali, culturali (mow 1987). La psicologia dei valori lavorativi intende descrivere gli scopi relativamente stabili che le persone cercano di raggiungere mediante il lavoro; sono stati studiati l'ordine di importanza di tali valori e la loro organizzazione, esaminando le preferenze individuali per differenti aspetti del lavoro e confrontando l'importanza dei cosiddetti valori intrinseci, cioè quelli attinenti al contenuto del lavoro e al lavoro in sé, con quella dei cosiddetti valori estrinseci, cioè quelli attinenti al contesto, all'ambiente, alla retribuzione, al prestigio. I risultati di ricerche internazionali (Super-Sverko 1995) evidenziano le differenze nella struttura e nella gerarchia dei valori tra aree geoculturali diverse e tra gruppi di soggetti, distinti per tipo di scolarizzazione, genere, professione e altre variabili; sono stati così individuati cinque orientamenti di base, che rispecchiano i principali modi di rapportarsi al lavoro (Trentini 1995). L'orientamento materialistico esprime una concezione pragmatica e utilitaristica, privilegiando valori strumentali, quali la remunerazione, la carriera, il prestigio. L'orientamento al Sé intende il lavoro come mezzo di autoespressione, privilegiando valori quali l'utilizzo delle proprie abilità, lo sviluppo personale, il raggiungimento dei risultati. I valori emergenti nell'orientamento agli altri mettono in luce l'importanza che il lavoro assume come occasione di socializzazione, di rapporti interpersonali, di altruismo. Autonomia, varietà, creatività sono i valori che più connotano l'orientamento all'indipendenza. L'orientamento alla sfida indica una certa propensione al rischio, all'esercizio del potere, all'attività fisica e una concezione del lavoro di tipo competitivo-agonistico.
È stata studiata anche l'interazione tra sviluppo vocazionale e sviluppo psicologico (Super-Bohm 1970), tra maturità professionale e maturità personale, e si è rilevato come per i diversi individui, e nel corso della vita di uno stesso individuo, varino le funzioni attribuite al lavoro: condizione di indipendenza materiale, fonte di reddito per la famiglia, fondamento dell'identità e dell'immagine di sé, soddisfazione di bisogni (successo, sicurezza, potere), occasione di sviluppo cognitivo ed emotivo, conferma della propria autostima e delle proprie capacità, mezzo di espressione e di realizzazione di interessi, aspirazioni, orientamenti personali, legittimazione di ruolo, status sociale e appartenenza, opportunità di relazioni e di interazioni sociali, esercizio di discrezionalità, autonomia e responsabilità, modalità di risposta alle aspettative altrui, forma di rielaborazione delle proprie dinamiche intrapsichiche (contenimento dell'ansia, riparazione), ottemperanza a un dovere morale o sociale, affermazione del proprio diritto e dei propri valori, possibilità di lasciare una traccia del proprio passaggio.
La relazione tra personalità e comportamento lavorativo è stata esplorata utilizzando diversi modelli e classificazioni, sia di personalità sia di lavoro. Emblematici sono alcuni risultati (Holland 1966) che - distinguendo tra il tipo realista, l'investigatore, il sociale, il convenzionale, l'imprenditore e l'artista - hanno mostrato come la scelta di un'attività professionale e le aspirazioni di carriera siano coerenti con gli orientamenti individuali e come questi orientamenti si mantengano sostanzialmente stabili durante tutta la vita. Da questo punto di vista, si può ritenere che il lavoro possa rappresentare un mezzo di espressione e di realizzazione delle tendenze personali. Ciò trova una conferma negli esiti di molteplici ricerche sui fenomeni riconducibili al rapporto tra mondo interno e mondo esterno (Stella 1983), tra processi psichici e contenuti o contesti di lavoro (Lévy-Leboyer-Sperandio 1987).
Le discipline psicologiche non si sono limitate allo studio del lavoro a livello individuale, ma hanno esplorato il fenomeno anche sul piano relazionale, gruppale e organizzativo. Intendendo le organizzazioni come sistemi di relazioni tra individui e tra gruppi, possiamo considerare congiuntamente i suddetti livelli. Nell'arco del Novecento, a una concezione di organizzazione che potremmo definire meccanicistica ne è subentrata una organica, od organismica; invece, negli ultimi decenni si è affermata una concezione sistemica, più congruente con il paradigma della complessità. Tali concezioni, più o meno consapevolmente, hanno improntato il modo con cui la psicologia del lavoro ha formulato i propri ambiti di ricerca e di intervento: dallo studio dell'individuo, nella sua dimensione psicofisica in riferimento alla prestazione richiesta per l'efficacia dell'apparato produttivo, allo studio delle relazioni umane e della qualità dei rapporti interpersonali e di gruppo, all'analisi della dimensione culturale e intersoggettiva nel complesso gioco della vita dei singoli e delle organizzazioni.
Soprattutto nei primi decenni del 20° secolo - e forse ancora oggi sotto nuove forme e nuovi linguaggi - molte ricerche e interventi sono stati effettuati congruentemente con la cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro, di matrice tayloristica, e con la relativa concezione di uomo: nell'organizzazione intesa come macchina l'uomo viene considerato una variabile dipendente, adattabile alla posizione assegnatagli in modo che l'apparato possa funzionare in modo razionale ed efficace. Ciò riguarda in particolare la standardizzazione del lavoro, l'analisi delle mansioni, un certo modo di intendere la selezione e, più in generale, i sistemi operativi e gestionali. Il movimento noto con il nome di 'relazioni umane' - rivalutando sulla base di molte analisi empiriche (Mayo 1945) gli atteggiamenti, la motivazione, lo stato psicologico e le relazioni interpersonali e di gruppo tra i fattori di produzione - ha aperto la strada alle teorizzazioni e alle prassi centrate su relazione, gruppo e comunicazione, e legittimato lo sviluppo di contributi psicologici di tipo non solo sperimentale, ma anche di ispirazione umanistica e psicoanalitica. L'analisi del lavoro e delle organizzazioni ha così sempre più utilizzato linguaggi e modelli interpretativi di matrice psicodinamica e clinica, con riferimento alle dinamiche affettive, ai meccanismi difensivi, ai processi soggettivi e intersoggettivi.
Anche in Italia l'aspetto umano del lavoro vanta un'antica e ricca tradizione di studi psicologici, avviata da A. Gemelli (1944) e poi promossa da accademici e professionisti a partire dall'Università cattolica di Milano. La misura delle attitudini, l'orientamento professionale, la selezione del personale, la sicurezza lavorativa e l'ergonomia hanno costituito i primi classici ambiti di ricerca e applicazione. Successivamente, si è privilegiata la dimensione propriamente organizzativa, fondando la descrizione, la spiegazione e l'interpretazione dei fenomeni lavorativi sull'analisi psicosociale dei comportamenti e delle dinamiche relazionali, gruppali e istituzionali. Tali analisi non hanno prodotto una teoria forte e condivisa, ma hanno dato vita a nuovi modelli concettuali, più o meno adeguati per la comprensione e l'intervento di problemi/obiettivi quali la valutazione del potenziale, la diagnosi dei climi e delle culture organizzative, la leadership, la formazione per ruoli gestionali e manageriali, i processi di cambiamento, la qualità, la salute e il benessere soggettivo, la comunicazione interna-esterna e l'impatto con le nuove tecnologie multimediali. Alla comprensione di questi fenomeni concorrono anche i risultati degli studi sul rapporto uomo-lavoro, precedentemente condotti a livello individuale. Per es., l'analisi delle culture organizzative fa riferimento ai valori, riconoscendo nella loro elaborazione e condivisione da parte degli 'attori' organizzativi una precondizione per l'esistenza stessa di ogni organizzazione.
In un approccio che privilegi la soggettività, le organizzazioni di lavoro vengono considerate non soltanto come strutture razionalmente volte a finalità dichiarate, o come sistemi di condizionamento reciproco, ma anche come sistemi di significati condivisi, dove è possibile sia elaborare le ansie connesse con la vita di relazione, sia conseguire i risultati del proprio lavoro. Se pure il corpo rimane una metafora dell'organizzazione, si tratta di un corpo inteso non riduttivamente come organismo, secondo la modalità oggettivante della scienza classica, ma piuttosto - fenomenologicamente - come lo sfondo di tutti gli eventi psichici. Studiare in una prospettiva psicologica le persone in quanto, tra i vari ruoli della vita, ne svolgono anche uno lavorativo, pone di fronte a un'oscillazione radicale tra coercizione e liberazione, che si declina nella multiforme fenomenologia di conflitti fra dipendenza e autonomia, tra permanenza e cambiamento, utile individuale e qualità della convivenza, oggettività e soggettività. Oggetto di ambivalenza diviene sempre più la tecnica, intesa come potenza creatrice di mondi nuovi, nel senso che essa, nata dalla razionalità scientifica e dalla volontà occidentale di potenza, appare sempre meno come un mezzo che l'uomo utilizza per affrancarsi dalla fatica del lavoro e sempre più come un fine, un ordinatore impersonale, in funzione del quale i soggetti sono chiamati a vivere e lavorare. Eppure il dominio dell'uomo sulla terra, cioè la trasformazione della natura per adattarla alle proprie necessità, si compie nel lavoro e mediante il lavoro, e se l'essere dominatore rappresenta l'idea originaria di uomo - fin dalle più antiche radici giudaico-greco-cristiane della tradizione occidentale - proprio nel lavoro l'uomo realizza sé stesso, il progetto di sé, la propria vocazione.
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Per quanto riguarda le popolazioni di interesse etnografico, possiamo classificare a grandi linee le varie forme di lavoro in: caccia; raccolta; pesca; agricoltura; allevamento; artigianato e commercio; infine l'innovazione principale dell'epoca moderna consiste nel lavoro industriale. L'adozione di uno di tali sistemi o della combinazione di alcuni di essi, determinata dall'ambiente naturale o da eventi storici, condiziona la struttura sociale e organizzativa delle varie comunità. Il modello lavorativo ha infatti un'incidenza profonda su molteplici aspetti: densità di popolazione; tendenza alla stabilità; alla transumanza o al nomadismo; divisione del lavoro; stratificazione sociale; struttura familiare. Nelle società definite semplici, laddove non esistono ruoli professionali specialistici, ma ciascuno provvede a procurarsi i beni di cui necessita, tutti contribuiscono alla sussistenza, operando in settori lavorativi divisi sulla base di criteri sia pratici sia culturali, i principali dei quali sono: il sesso, l'età, lo status. L'apparente rigidità di questo schema non esclude, tuttavia, un'attenzione alle attitudini personali degli individui, che può portare al superamento dei ruoli imposti dalle regole sociali. La divisione del lavoro su base sessuale è senza dubbio uno dei criteri maggiormente diffusi. Esistono lavori tipicamente femminili o considerati tali, come allattare e accudire i figli; altre attività di tipo domestico, come cucinare e tenere in ordine l'abitazione, vengono attribuite alle donne a causa della loro minore mobilità (conseguente al legame con i figli); mentre il lavoro nei campi, la caccia, la pesca e la guerra sono cura degli uomini. Ciò non esime molte donne dal compiere lavori pesanti (per es. il rifornimento di acqua e di legname da ardere, che comporta talvolta lunghi e faticosi spostamenti) e dal partecipare anche ad attività considerate maschili. L'attribuzione di lavori differenti in base all'età è determinata evidentemente da fattori fisiologici, ma anche da elementi culturali. Presso alcune società sono stati istituzionalizzati sistemi di classi che raccolgono gli individui in gruppi di coetanei e mettono in connessione l'età dei vari gruppi con una serie di diritti e obblighi sociali: presso i masai (Kenya, Tanzania) la classe dei moran, che comprende i giovani di 20-30 anni, è preposta alla guerra e alla caccia in virtù del maggiore vigore fisico; mentre le classi più anziane si dedicano a compiti di tipo amministrativo e giuridico e sempre meno ad attività fisiche.
Nella società occidentale, attualmente, i bambini sono esclusi dal processo produttivo, ma ancora pochi decenni fa, anche in Italia, era normale che affiancassero i genitori nel lavoro fin dalla più giovane età.
Presso popolazioni che si dedicano alla pastorizia, essi portano al pascolo e accudiscono animali di piccola taglia, come, per es., pecore e capre; mentre tra i cacciatori-raccoglitori iniziano a emulare i genitori raccogliendo bacche e dando la caccia a lucertole e piccoli roditori. La suddivisione per età coincide talvolta con quella per status, che spesso si acquisisce proprio con il passare degli anni; in alcune società, tuttavia, come quella indiana, che è basata su un sistema di caste, lo status viene determinato dall'appartenenza a una certa famiglia e pertanto prescinde dall'età dell'individuo. Anche la schiavitù determina, o comunque ha determinato, una divisione del lavoro fondata sullo status. Molti gruppi indiani dell'America Settentrionale trasformavano i prigionieri di guerra in schiavi che lavoravano per il loro padrone, assicurando la sussistenza alla sua famiglia; l'espressione massima dello schiavismo finalizzato ad acquisire lavoro gratuito è stata l'attività dei mercanti di schiavi europei e arabi ai danni delle popolazioni africane tra il 16°-17° e il 18° secolo, che costò al continente africano la perdita di oltre 20 milioni di giovani. Nella nostra società la complessità del sistema produttivo ha portato, in epoche diverse, a una profonda trasformazione dei ruoli lavorativi, ma rimangono evidenti alcuni criteri generali comuni alle società semplici. Le distinzioni di genere non sono altrettanto rigide, ma permangono, nonostante le donne abbiano conquistato il diritto a ricoprire molti incarichi un tempo esclusivamente maschili. Anche l'età è fondamentale per l'inserimento o l'esclusione dal processo produttivo e, a sua volta, tale processo determina l'età sociale degli individui: si è vecchi quando si va in pensione. Infine lo status è stato sostituito dalle classi sociali, a ciascuna delle quali vengono attribuiti contesti lavorativi di tipologia, responsabilità e retribuzione diverse.
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La caccia-raccolta viene in genere considerata il sistema meno evoluto per procurarsi cibo e vestiario; attualmente sono pochi i gruppi che ancora vivono grazie a questo tipo di economia, che è basata sullo sfruttamento 'parassitario' della natura, senza interventi su di essa per modificarne la produttività: i boscimani !kung che abitano nel deserto del Kalahari, gli aborigeni australiani, e numerosi gruppi amerindi delle regioni amazzoniche. Per lungo tempo gli studiosi si sono espressi unanimemente sulla presunta scarsità di risorse energetiche ricavabili da un'economia di caccia-raccolta; si riteneva che tali società fossero condannate alla povertà cronica, risolvibile solo con il grande salto in avanti determinato dall'agricoltura. Considerazioni simili si fondano su un pregiudizio etnocentrico, per cui chi non possiede beni è considerato povero, quando in realtà i beni materiali, per un gruppo di cacciatori-raccoglitori che conduce un'esistenza seminomade in cerca di nuove piante e nuove prede, sono solamente un inutile fardello. Studiando i boscimani !kung, l'antropologo R. Lee (Lee-De Vore 1969; Lee 1979) ha potuto appurare che essi vivono in gruppi formati in media da 31 individui (20 adulti e 11 bambini). Ciascuno degli adulti impiega non più di 2,4 giorni alla settimana nell'attività di caccia-raccolta, procurando a tutto il gruppo cibo per una quantità pari a 2355 calorie giornaliere, una quantità superiore a quelle disponibili per la maggior parte degli agricoltori del pianeta. Il lavoro dei !kung prevede una netta distinzione sessuale: le donne si occupano della raccolta, gli uomini della caccia, e sono proprio le donne, con il loro paziente lavoro che le costringe a percorrere 2500 km all'anno e a procurare il 60% delle calorie consumate dal gruppo; gli uomini si recano a caccia ogni 3-4 giorni e contribuiscono solamente per il 19% al fabbisogno calorico della comunità. Infine è interessante rilevare come solo il 65% degli individui di ciascun gruppo è in attività e lavora il 36% del proprio tempo (circa 15 ore settimanali); di conseguenza il 35% non lavora affatto (Lee-DeVore1969, p. 67). Dati analoghi si sono registrati presso gruppi di cacciatori-raccoglitori della Terra di Arnhem (Australia settentrionale). Anche qui il consumo di calorie giornaliere pro capite è pari a 2160, mentre l'impegno lavorativo giornaliero risulta essere di 3 ore e 40 minuti per gli uomini e di 3 ore 50 minuti per le donne (Sahlins 1972, trad. it., p. 28). Alla luce di tali dati risulta difficile sostenere che le società di cacciatori-raccoglitori, sia quelle del Neolitico sia quelle contemporanee, vivessero o vivano in uno stato di indigenza. Al contrario, per quanto riguarda i beni primari, soprattutto se rapportati al dispendio di energia, possiamo pensare a tali società come a veri esempi di opulenza.
Nata 10-12.000 anni fa, l'agricoltura è ancora oggi l'attività che garantisce l'alimentazione alla maggior parte degli abitanti del pianeta. Anche se in questa sede adotteremo il termine per indicare in generale tutte le forme di coltivazione manuale, l'agricoltura propriamente detta è legata alla domesticazione degli animali e consiste nella coltivazione della terra per mezzo dell'aratro, mentre il dissodamento dei campi operato con l'impiego della sola forza umana prende il nome di orticultura. Sebbene nello studio dei processi evolutivi l'agricoltura venga generalmente associata alla sedentarizzazione dei gruppi umani, esistono forme di coltivazione che prevedono spostamenti, sebbene ridotti, dei gruppi che le praticano. Questo tipo di agricoltura itinerante, conosciuta con il nome di 'taglia e brucia', è praticata soprattutto in territori caratterizzati dalla presenza della foresta nel bacino del Rio delle Amazzoni, in alcune regioni dell'Africa subsahariana e nel Sud-Est asiatico. I coltivatori liberano dalla foresta appezzamenti di terreno, tagliandone le piante e incendiando i tronchi abbattuti, affinché la cenere funga da concime; ottengono così terreni liberi sui quali praticare forme semplici di agricoltura. Poiché il sottosuolo della foresta ha uno strato fertile poco profondo, tende a esaurire rapidamente le proprie capacità produttive e, dunque, gli agricoltori itineranti si spostano in altre aree. In generale, comunque, è possibile affermare che l'adozione dell'agricoltura, con la conseguente disponibilità di fonti di cibo permanenti situate vicino alle abitazioni, ha condotto alla nascita di comunità stabili, alcune delle quali, in seguito all'aumento della popolazione, hanno via via trasformato la loro struttura sociale e politica fino ad assumere forma di città o di Stato: nel Medio Oriente nell'8000 a.C. la popolazione era di 100.000 abitanti; 4000 anni dopo era salita a 3.200.000.
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Il termine pastorizia indica il complesso di attività che fanno riferimento alla gestione, alla protezione e all'utilizzazione di un branco di animali gregari, erbivori e addomesticati: gregge (nel caso di ovicaprini) o mandria (se si tratta di bovini, equini o camelidi). A differenza dell'allevamento, che è un'attività di tipo stanziale, la pastorizia prevede lo sfruttamento dei pascoli naturali, senza l'applicazione di tecniche di stabulazione fissa e di foraggiamento degli animali e comporta, quindi, spostamenti continui e periodici, classificati generalmente come transumanza (il movimento stagionale di mandrie o greggi dai pascoli in via di esaurimento verso pascoli più ricchi e viceversa) o nomadismo (che prevede invece uno spostamento continuo, talvolta irregolare, tra luoghi diversi e non tra due poli determinati), allo scopo di ricercare nuovi pascoli. In alcuni casi, la pastorizia è praticata in zone aride o semiaride, sulle quali sarebbe difficile o impossibile praticare l'agricoltura; in altre, le due attività si trovano a condividere gli stessi spazi e talvolta a essere svolte dagli stessi individui (economia mista). La distribuzione attuale dei pastori seminomadi si estende dallo Stretto di Bering alle coste della Mauritania e dalla tundra siberiana all'Africa orientale, con casi sparsi a sud e sud-ovest (Spooner 1971, p. 201).
Le specie allevate sono diverse e legate al tipo di ambiente: cammello e dromedario, per es., sono adatti a climi aridi, al freddo o al caldo; lama, alpaca e yak alle montagne d'alta quota; la renna alla tundra e il bufalo ai climi umidi dei tropici. Altri animali, come bovini, ovini e caprini, si adattano a un maggior numero di climi. Come la caccia-raccolta, la pastorizia comporta una densità di popolazione molto bassa e la formazione di gruppi non eccessivamente numerosi, pena il rapido esaurimento dei pascoli. Il ciclo produttivo dei pastori è più breve di quello agricolo, soggetto alla stagionalità. Il pastore può infatti trarre un apporto continuo dai suoi animali sotto forma di prodotti derivati (latte, formaggi, burro ecc.) o, in caso estremo, di carne (il consumo di carne, comunque, è generalmente basso, e viene soddisfatto per lo più dalla macellazione di piccoli ruminanti come capre o pecore; buoi e camelidi sono più utili da vivi, se teniamo conto del fatto che sono ancora gli animali a garantire la maggior parte dei trasporti e l'energia per la trazione sul pianeta); il latte, consumato fresco oppure sotto forma di yogurt o burro, è il principale alimento dei pastori, i quali, sebbene dispongano di una dieta ricca di proteine, devono spesso integrarla con cereali che ottengono tramite scambi con i diversi gruppi di agricoltori. Inoltre, gli animali allevati forniscono ai pastori sterco, usato come combustibile oppure come materiale da costruzione; pelli per confezionare abiti, otri e abitazioni; ossa per costruire tanto attrezzi quanto oggetti ornamentali.
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Una delle caratteristiche che contraddistinguono la società occidentale industrializzata è la cosiddetta etica del lavoro: lavoro e produttività sono valori che determinano non solo il ceto di un individuo, ma anche il suo status e la considerazione di cui gode nella comunità. Presso le società di interesse etnografico, invece, l'impegno nel lavoro non rientra tra i valori morali, ma è da considerarsi un'attività finalizzata unicamente a garantire la pura sussistenza. A proposito dell'economia di caccia-raccolta, si è già detto del limitato impegno lavorativo richiesto per soddisfare i bisogni primari della popolazione e dell'inutilità dell'accumulo di beni. In un'ottica occidentale ci troviamo di fronte a un evidente caso di sottoproduzione, una realtà comune anche alla maggior parte dei coltivatori delle società semplici: la densità di popolazione dei chimbu della Nuova Guinea è pari a 288 persone per miglio quadrato; le comunità chimbu, le quali praticano un'agricoltura itinerante del tipo 'taglia e brucia', sfruttano solamente il 64% della capacità agricola delle loro terre (Brown-Brookfield 1960); ancora più significativo è il caso dei cuicuru del Brasile, anch'essi agricoltori itineranti, i quali vivono in villaggi abitati in media da 145 individui; ogni villaggio dispone mediamente di 3350 acri di terra, sufficienti a mantenere oltre 2000 persone, ma ne sfrutta solo 950, quanto basta alla sussistenza dei suoi abitanti (Carneiro 1960). I boscimani !kung, pur raccogliendo grandi quantità di noci, ne lasciano altrettante a terra a marcire; tra i bemba dello Zambia gli uomini non occupano più del 45% del loro tempo nel lavoro e le donne arrivano a poco più del 30% (Richards 1962). L'attività lavorativa difficilmente si svolge con andamento continuativo, ma viene spesso interrotta da pause per dormire o per chiacchierare; inoltre, mentre nella nostra società il tempo del lavoro è nettamente separato e, come dicono gli economisti, alternativo al cosiddetto tempo libero, spesso in società di interesse etnografico il passo tra lavoro e rituale è breve. Un esempio illuminante è dato dal ciclo rituale dei tikopia (Polinesia), che nella lingua locale viene chiamato il 'lavoro degli Dei', un'espressione che conferisce pari dignità all'attività di sussistenza e all'azione divina. Allo stesso modo gli aborigeni australiani yir yiront non distinguono sul piano linguistico il lavoro dal gioco. La frenetica corsa alla produzione sarebbe quindi esclusiva delle società capitalistico-industriali; al contrario, in altre società: "l'economia è soltanto un'attività a tempo parziale oppure è l'attività di una parte soltanto della società" (Sahlins 1972, trad. it., p. 95).
La spiegazione della tendenza alla sottoproduzione in molte società non occidentali non può ovviamente essere ricercata in una prospettiva colonialista ed etnocentrica che veda i 'selvaggi' come individui 'naturalmente' pigri e indolenti, bensì nelle strutture stesse di queste popolazioni e nella loro 'filosofia' economica: nei contesti presi in esame l'economia non è un dato strutturale, ma il prodotto dell'azione concreta di gruppi e di rapporti generalizzati, che nella maggior parte dei casi sono gruppi e rapporti familiari. Il fondamento di tale forma economica è l'unità domestica, l'istituzione produttiva dominante (Sahlins 1972, trad. it., p. 85). In situazioni caratterizzate generalmente da una divisione sessuale del lavoro, i processi produttivi sono unitari e ogni individuo controlla l'intero ciclo produttivo, a differenza delle società più complesse dove tali processi sono scomposti in fasi seguite da operatori diversi. È importante inoltre tenere conto del rapporto tra l'uomo e gli utensili, poiché è proprio in questa relazione, e non nel presunto divario tecnologico, che si cela la chiave della differenza tra il modo di produzione domestico e quello dell'era industriale. Nel primo caso, l'utensile è un prolungamento del corpo umano, teso a renderne più vantaggiosa la meccanica naturale, e il rapporto uomo/utensile è sicuramente a favore del primo, mentre questo rapporto non è altrettanto immediatamente chiaro in una società altamente tecnologicizzata come la nostra: se prendiamo il caso di lavorazioni complesse, altamente robotizzate, dove l'operaio ha spesso una mera funzione di controllo, agli occhi di un osservatore alieno potrebbe risultare difficile capire chi è l'attore principale e chi è invece l'utensile. Ponendosi quindi in una prospettiva scevra da pregiudizi, si è costretti a notare come proprio nelle società semplici, alle quali spesso non viene attribuito l'utilizzo di 'specialisti' nelle varie attività, ritroviamo invece un elevato tasso di specializzazione in ogni attore produttivo. Data l'incidenza minima degli utensili nelle società semplici, risulta evidente che per intensificare la produzione di un'unità domestica esistono solo due soluzioni: far lavorare di più le singole persone, oppure impiegare più individui in una determinata attività. A questo punto, però, è necessario chiarire che, mentre la produzione domestica è finalizzata all'uso (infatti, anche se nessuna unità domestica può dirsi completamente autosufficiente, la circolazione delle merci prodotte è minima e molto semplice), in un sistema produttivo di tipo capitalistico lo scopo è costituito dallo scambio; la formula del capitale è impiegare forza lavoro per fabbricare merce la cui vendita realizzi il massimo utile possibile: non si produce per l'uso, ma per il valore d'uso. Il primo modello si pone obiettivi determinati e finiti, il secondo persegue risultati indefiniti, tesi sempre al maggior ricavo possibile. Ne consegue che, se nel sistema capitalista la produzione tende continuamente a crescere e superarsi per l'accumulo, il sistema di produzione domestico cerca solamente di riprodursi e pertanto non rende indispensabile mettere in azione tutta la potenzialità fisica dei produttori, ma si interrompe nel momento in cui la produzione è assicurata.
7.
Il lavoro dell'uomo ha inciso profondamente sulle condizioni del nostro pianeta. Alla luce delle molte catastrofi ambientali causate dalle attività svolte dall'uomo moderno, siamo spesso tentati di attribuire alle popolazioni primitive o alle società cosiddette semplici una particolare sensibilità ecologica, con il conseguente rimpianto per la perdita di tale capacità di vivere in equilibrio con il proprio ambiente. Nascono così i miti del passato, che celebrano le 'età dell'oro', del 'buon selvaggio' che sapeva vivere in armonia con la natura e che la civiltà moderna ha trasformato in un inesorabile distruttore di foreste, mari e fiumi. Osservando dal punto di vista storico e scientifico il nostro passato, ci accorgiamo però che il senso di colpa ci ha forse portato a mitizzare i nostri antenati. Per es., all'inizio dell'Ottocento, all'arrivo dei coloni britannici, in Nuova Zelanda non si trovava nessun tipo di mammifero terrestre a eccezione dei pipistrelli; i lavori di dissodamento del terreno dei coloni riportarono però alla luce molti resti di Roditori e numerosi scheletri di una varietà di Uccelli di grandi dimensioni simili agli struzzi, pesanti fino a due quintali, chiamati dai maori moa. Le prime teorie ipotizzavano che i moa si fossero estinti per un mutamento climatico e tutti i neozelandesi consideravano i maori un popolo protezionista nei confronti degli animali (Diamond 1991, trad. it., p. 389); mentre in realtà erano stati proprio i maori, giunti in Nuova Zelanda attorno al 1000 d.C., a massacrare fino all'estinzione i grandi moa, come dimostrano le datazioni al radiocarbonio effettuate sulle ossa degli uccelli uccisi. Allo stesso modo i maori, con la loro possente azione venatoria e con la messa in atto di una rapida deforestazione, sterminarono gli altri piccoli Mammiferi presenti sull'isola. Non soltanto gli animali, ma anche l'ambiente naturale ha sempre subito, nel corso della storia, le conseguenze dell'azione umana: nel Nuovo Messico si possono ancora ammirare le complesse costruzioni dei pueblos, edificati dai membri di una delle più evolute tra le città indiane, quelli che i navahos chiamano anasazi, "gli antichi". Questi pueblos, uno dei quali conta ben 650 stanze, si trovano in una regione oggi arida e desertica e viene da chiedersi perché gli anasazi costruirono tali edifici in un ambiente così ostile. In realtà il Chaco (così si chiama la regione) era ricoperto da foreste di Conifere fino a quando, all'inizio del 10° secolo, gli anasazi non iniziarono ad abbattere alberi per le loro costruzioni e ricavare legna da ardere. La deforestazione causò inoltre un'erosione crescente e anche il complesso sistema di irrigazione degli anasazi divenne inutile. L'eccessivo sfruttamento del territorio causò così un disastro ecologico tale da portare alla desertificazione un'intera regione e al forzato abbandono del territorio da parte dei responsabili. Questi e altri esempi stanno a dimostrare che l'uomo, con il suo lavoro, ha in ogni epoca attentato alla natura; attualmente, i potenti mezzi tecnologici impiegati accrescono l'intensità degli interventi sull'ambiente: si tratta quindi, rispetto al passato, di una differenza più quantitativa che qualitativa.
1.
Può essere definito ambiente di lavoro qualsiasi luogo dove si svolga un'attività lavorativa. La locuzione può riferirsi a diversi settori (agricolo, industriale, artigianale, terziario) e può essere: naturale e riguardare luoghi aperti (per es., lavori rurali, costruzione di strade, ponti, ferrovie) o chiusi (per es., cave, miniere, gallerie); artificiale e riguardare luoghi confinati (per es., impianti, negozi, laboratori, serre, uffici ecc.), semiconfinati (per es., porti, aeroporti ecc.) e chiusi (per es., sotterranei, caveaux bancari ecc.). Ogni ambiente di lavoro può essere fonte di rischi per la sicurezza e la salute degli addetti, intendendosi per salute il mantenimento dello stato di benessere, definito come integrità psicofisica dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Le prime ipotesi indicanti il lavoro come probabile fonte di rischio risalgono alla fine del 15° secolo, e acquistano maggiore consistenza nei due secoli successivi. Al medico italiano B. Ramazzini, vissuto tra il 17° e il 18° secolo, è dovuta la prima descrizione di una serie di malattie associate a specifiche professioni (De morbis artificum diatriba, 1700), nonché l'intuizione di principi ("longe praestantius est praeservare quam curare") che costituiscono la premessa storica dell'attuale medicina del lavoro, basata soprattutto sulla prevenzione. Una politica di tutela della salute richiede in primo luogo la corretta identificazione dei potenziali rischi presenti nei luoghi di lavoro e delle relative sorgenti di emissione, che può essere attuata attraverso l'analisi dell'attività lavorativa e l'individuazione dei soggetti professionalmente esposti.
a) Mappatura dei rischi. Nell'ambiente lavorativo i potenziali rischi per la salute sono riconducibili all'azione di agenti di diversa natura, classificati in: chimici, fisici e biologici. Gli agenti chimici sono rappresentati da sostanze tossiche o nocive che possono essere inalate (polveri, fumi, nebbie, gas e vapori), ingerite o assorbite per contatto cutaneo. Gli agenti fisici comprendono fattori di diversa natura (meccanica, radioattiva ecc.) in grado di interagire in vari modi con l'organismo: rumore, vibrazioni, microclima (calore, umidità, ventilazione, condizionamento), illuminazione, radiazioni ionizzanti (X, gamma) e non ionizzanti (radiofrequenze, microonde, infrarosso, visibile, ultravioletto). Gli agenti biologici comprendono virus, batteri, miceti, parassiti, che possono essere assorbiti per via inalatoria, per contatto cutaneo o per ingestione, e che possono provenire da materiale infetto di vario tipo (ospedaliero, impianti di depurazione e di trattamento dei rifiuti, impianti di condizionamento, manipolazione di ceppi e colture in laboratori di ricerca). L'esposizione ai vari fattori di rischio è inoltre in funzione di numerose variabili, tra cui gli aspetti organizzativi (con particolare riferimento al lavoro scaglionato in turni), le posture che in alcune attività (per es. nel lavoro al videoterminale) richiedono adeguata progettazione ergonomica del posto di lavoro, i fattori psicologici (ripetitività del lavoro, complessità delle mansioni ecc.). Tali rischi vanno anche sotto il nome di rischi trasversali od organizzativi.
b) Fenomeno infortunistico. L'identificazione dei potenziali rischi per la sicurezza nei luoghi di lavoro richiede anzitutto la corretta individuazione delle cause, che sono in genere da ricercare, nella maggioranza dei casi, nella struttura dell'ambiente, nelle macchine utilizzate, nell'uso di sostanze pericolose, nella non corretta realizzazione dell'impianto elettrico. I rischi da carenze strutturali dell'ambiente di lavoro sono riconducibili alle sue caratteristiche dimensionali (altezza, superficie, volume), alla condizione dei pavimenti e dei solai, all'illuminazione, al ricambio d'aria, al numero delle uscite, alla movimentazione manuale di carichi, alla praticabilità di soppalcature ecc. I rischi da impiego di macchine e apparecchiature sono essenzialmente determinati dalla ridotta oppure mancata protezione di organi di avviamento, di trasmissione, di comando, di apparecchi di sollevamento, di ascensori e montacarichi, di apparecchi a pressione o sotto vuoto (bombole di gas compresso) ecc. I rischi da manipolazione di sostanze pericolose sono legati all'impiego di componenti che riportano sull'etichettatura simboli di pericolo di natura fisica (esplosivo, comburente, facilmente infiammabile ecc.) o di natura biologica (corrosivo, irritante, tossico, nocivo ecc.). I rischi elettrici sono determinati da contatto con apparati, macchine, strumenti collegati a impianti non perfettamente realizzati e non rispondenti alle norme di sicurezza specifiche (mancata messa a terra, uso di materiali non omologati ecc.). Gli infortuni sul lavoro, in quanto prodotti da cause traumatiche, determinano conseguenze come ferite, tagli, folgorazione, cadute, ustioni ecc., da cui, a seconda della gravità, possono derivare la morte, un'inabilità temporanea assoluta che comporti l'astensione dal lavoro per almeno un giorno escluso quello dell'evento o un'inabilità permanente al lavoro (cioè tale da ridurre l'attitudine al lavoro in misura uguale o superiore all'11%), assoluta o parziale (v. infortunio). Obbligo del datore di lavoro, oltre al rispetto degli adempimenti assicurativi, è la tenuta del registro degli infortuni che comportano un'assenza dal lavoro superiore a un giorno, in cui vengono riportate, oltre alle generalità dell'infortunato, anche le circostanze e le cause dell'infortunio.
c) Valutazione del rischio. Per valutazione del rischio negli ambienti di lavoro s'intende un complesso di operazioni conoscitive e procedurali che il datore di lavoro deve attuare, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente (medico del lavoro), previa consultazione dei rappresentanti per la sicurezza eletti dai lavoratori. Tale valutazione consente di effettuare una stima (qualitativa e quantitativa) dei rischi di esposizione reali a fattori di pericolo per la sicurezza e la salute dei soggetti professionalmente esposti e di elaborare il documento della sicurezza, così come previsto dalla normativa vigente. L'individuazione dei rischi di esposizione è un processo complesso che sostanzialmente deve verificare se la presenza di potenziali sorgenti di rischio, precedentemente identificate, siano in grado di comportare, nell'espletamento dell'attività lavorativa specifica, un reale rischio per la sicurezza e la salute degli addetti. Allo scopo, rivestono un ruolo di non trascurabile importanza: le modalità con cui si svolge l'attività lavorativa (a ciclo chiuso, segregato o comunque protetto) od operazioni specifiche (manuali, semiautomatiche, automatiche), i tempi di lavorazione, la contemporanea presenza di altre lavorazioni nel medesimo ambiente, l'esistenza di misure di sicurezza oppure di sistemi di prevenzione necessari ai fini dello svolgimento dell'attività lavorativa. La stima dei rischi di esposizione, che segue alla loro individuazione, richiede inoltre: la verifica del rispetto delle norme di legge e di un'efficace tecnica prevenzionistica, la verifica dell'accettabilità delle condizioni igienico-ambientali per mezzo della misura, e quindi quantificazione, dei parametri di rischio nei casi previsti dalla normativa vigente.
2.
La prevenzione costituisce un aspetto essenziale della medicina del lavoro, in quanto comprende tutte le misure di tutela predisposte e messe in atto per la sicurezza e la protezione della salute dei soggetti professionalmente esposti. Convenzionalmente si distinguono una prevenzione tecnica e una prevenzione sanitaria.
a) Prevenzione tecnica. Per mezzo della prevenzione tecnica (detta anche primaria) vengono poste in essere tutte quelle misure di ordine tecnico atte a eliminare o, quanto meno, a ridurre il rischio. Essa comprende tutti gli accorgimenti tecnico-progettistici realizzati a livello delle sorgenti del rischio: 1) adeguata scelta e progettazione dell'impianto e del ciclo tecnologico, rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, utilizzo limitato di agenti chimici, fisici e biologici, sostituzione di sostanze pericolose con altre o loro limitazione d'impiego; 2) tutti gli interventi di protezione dell'ambiente comprensivi delle misure tecniche, concretamente attuabili in relazione alla tipologia del processo lavorativo, quali schermature di macchine, sistemi di insonorizzazione, dispositivi di abbattimento o di aspirazione di inquinanti corpuscolati e gassosi, controllo del microclima e dei sistemi di filtrazione dell'aria ecc.; 3) valutazione qualitativa e quantitativa delle emissioni e delle esposizioni attraverso misure degli inquinanti effettuate nei punti di emissione o a maggior rischio e nelle postazioni lavorative (tali valutazioni, dette monitoraggio ambientale, vanno riferite ai valori limite che, generalmente, sono quelli dell'ACGIH, American conference of governmental industrial hygienists, e vanno ripetute nel caso di mutamenti del ciclo tecnologico, o quando occorra verificare l'efficacia degli accorgimenti di prevenzione realizzati); 4) impiego di dispositivi di protezione individuale (DPI) dei lavoratori, utilizzati quando i pericoli non possano essere eliminati oppure sufficientemente ridotti con altre misure di prevenzione (tali dispositivi possono essere di diversa tipologia in funzione dei rischi dai quali devono proteggere i soggetti esposti - per es., tute, cinture di sicurezza, elmetti, inserti acustici, cuffie e caschi antirumore, maschere, autorespiratori, guanti, pomate-barriera, scarpe, stivali, occhiali ecc. -, e devono possedere requisiti essenziali: essere adeguati al rischio da prevenire, non dannosi, ergonomicamente accettabili e adattati all'utilizzatore). A tali interventi fondamentali di prevenzione tecnica si aggiungono altre misure preventive altrettanto importanti, tra cui l'adeguata manutenzione degli impianti, delle macchine, degli strumenti e dei dispositivi di protezione individuale, l'etichettatura delle sostanze pericolose, la segnaletica di sicurezza, il divieto di fumare, la predisposizione di servizi igienici adeguati, una valida organizzazione del lavoro, l'informazione e la formazione delle maestranze in materia di sicurezza e di salute e in funzione del tipo di lavoro e della mansione svolta.
b) Prevenzione sanitaria. Per prevenzione sanitaria si intende l'insieme dei controlli sanitari mirati in funzione dei rischi specifici cui sono esposti i soggetti per motivi professionali. Più nota come 'sorveglianza sanitaria', essa costituisce un aspetto fondamentale della protezione della salute dei lavoratori, in quanto consente di valutare la presenza o meno di effetti riconducibili ai fattori di rischio relativi alla mansione svolta, attraverso accertamenti sanitari e impiego di indicatori di dose e di effetto misurabili nei liquidi biologici (monitoraggio biologico) e confrontabili con gli indicatori di esposizione impiegati nel monitoraggio ambientale. Essa viene effettuata dal medico competente (dotato di requisiti professionali specialistici in materia di medicina del lavoro, come previsto dalla normativa vigente) e comprende accertamenti preventivi intesi a constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, ai fini della valutazione della loro idoneità alla mansione specifica, e accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica. La tipologia degli accertamenti sanitari, nonché la loro periodicità, ove non contemplato da norme specifiche, è affidata alla discrezionalità del medico competente sulla base dei risultati emersi dalla valutazione del rischio. Il medico competente, inoltre, istituisce per ciascun lavoratore, sottoposto a sorveglianza sanitaria, una cartella sanitaria e di rischio che viene aggiornata in occasione dei controlli periodici.
3.
Le norme di riferimento in materia di tutela igienico-sanitaria del lavoro attualmente vigenti in Italia sono particolarmente numerose e comprendono norme di carattere generale (come il d.p.r. 27 aprile 1955, nr. 547, "Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro", e il d.p.r. 19 marzo 1956, nr. 303, "Norme generali per l'igiene del lavoro") e norme di carattere particolare (come il d.p.r. 20 marzo 1956, nr. 320, "Norme per la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro in sotterraneo", il d.p.r. 20 marzo 1956, nr. 321, "Norme per la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro nei cassoni ad aria compressa", il d.p.r. 10 settembre 1982, nr. 962, "Attuazione della direttiva CEE nr. 78/610 relativa alla protezione sanitaria dei lavoratori esposti al cloruro di vinile monomero", il d. legisl. 17 marzo 1995, nr. 230, "Attuazione delle direttive Euratom 80/836, 84/467, 84/466, 89/618, 90/641 e 92/3 in materia di radiazioni ionizzanti"). A esse si aggiungono, inoltre, alcune norme con indicazioni di carattere sia generale sia particolare, cioè riferite a fattori di rischio specifici. Tra queste si ricordano i recenti decreti legislativi di seguito elencati: d. legisl. del 15 agosto 1991, nr. 277, "Attuazione delle direttive 80/1107/CEE, 82/605/CEE, 83/477/CEE, 86/188/CEE e 88/642/CEE in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212" che indica altresì le misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori esposti a rischi derivanti da piombo metallico, da amianto e da rumore; d. legisl. del 19 settembre 1994, nr. 626, "Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro" e successive modifiche (d. legisl. nr. 242 del 19 marzo 1996) in cui, oltre a disposizioni di carattere generale in materia di prevenzione e protezione nei luoghi di lavoro, sono contenute misure di tutela specifiche, relative alle esposizioni lavorative ad agenti cancerogeni e biologici, nell'uso di attrezzature munite di videoterminali e nella movimentazione manuale dei carichi.
In ambito assicurativo si ricorda il d.p.r. del 13 aprile 1994, nr. 336, contenente un aggiornamento delle tabelle delle malattie professionali nell'industria (58 voci) e nell'agricoltura (27 voci). A tale proposito, la Corte costituzionale si era pronunciata con le sentenze 179/1988 e 206/1988, precisando che dette tabelle non sono rappresentative di tutte le possibili malattie professionali e che pertanto patologie di presumibile origine lavorativa e non tabellate possono essere riconosciute alla stregua di malattie professionali, purché vengano fornite prove in grado di dimostrare l'esistenza di un nesso di causalità con l'attività lavorativa svolta. A fronte delle innumerevoli norme che tutelano la sicurezza e la salute dei lavoratori esistono ancora carenze legislative inerenti all'impiego di specifiche tecnologie (quali, per es., i sistemi laser e i campi elettromagnetici) in rapporto alle quali esistono invece raccomandazioni e proposte di autorevoli organismi internazionali, tra cui l'Unione Europea, l'IRPA (International radiation protection association), l'INIRC (International non-ionizing radiation committee), l'NCRP (National council on radiation protection and measurement), l'NRPB (National radiological protection board).
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