Lavoro e culture sindacali nel Nord-Ovest
Il Nord-Ovest, area della prima industrializzazione italiana tra fine Ottocento e primo Novecento, ha ospitato a lungo la componente più avanzata del capitalismo italiano. L’immagine del triangolo industriale Torino-Milano-Genova ha dominato i manuali di storia economica. Punta dello sviluppo in un Paese dalle forti disomogeneità territoriali, il Nord-Ovest ha concentrato il grosso delle iniziative imprenditoriali fino alla fine degli anni Settanta del Novecento, quando è emersa la ‘Terza Italia’ dell’industrializzazione diffusa nel Nord-Est e Centro. Fino ad allora, il resto d’Italia presentava qualche area industriale a macchia di leopardo. Nel 1911, contro una media nazionale del 23,6% di addetti al settore secondario sul totale della popolazione attiva, la Lombardia raggiungeva la quota del 35,6%, la Liguria il 32,7%, il Piemonte, dove ancora l’agricoltura giocava un ruolo rilevante, il 26,4%. Nel 1981, contro una media nazionale del 41,5%, la Lombardia si collocava al 52,1%, il Piemonte al 50,3, la Liguria, dato il precoce sviluppo del terziario, al 33,3%.
Il Nord-Ovest ha così plasmato a lungo la storia italiana della cultura d’impresa, delle culture sindacali e delle relazioni industriali. Non a caso il Partito socialista nacque a Genova nel 1892, la Confederazione generale del lavoro a Milano nel 1906, la Confederazione italiana dell’industria a Torino nel 1910. Da Torino partì infine anche la principale iniziativa per l’introduzione del taylorismo in Italia, con la costituzione da parte della FIAT, nel 1927, della Società italiana Bedaux, di cui assunse la presidenza Giovanni Agnelli (1866-1945) in persona. Se nella seconda metà degli anni Trenta il dirigismo fascista avviò, per la preparazione bellica, alcune iniziative industriali decentrate nel Nord-Est e nel Centro, il grosso degli apparati produttivi restò appannaggio del Nord-Ovest, che si presentò all’appuntamento della ricostruzione economica postbellica con un peso economico ancora più rilevante che in passato.
Le due guerre mondiali accelerarono i processi di concentrazione e formazione della grande impresa, che esercitava una leadership nei confronti delle piccole e medie aziende anche attraverso i legami di subfornitura, per non dire del peso politico raggiunto sotto il fascismo dalle poche grandi famiglie imprenditoriali legate ai settori trainanti della seconda rivoluzione industriale: la siderurgia, la meccanica, la chimica, l’industria elettrica.
Grandi imprese e capoluoghi del triangolo industriale crebbero congiuntamente nella seconda fase dell’industrializzazione italiana, quella urbana novecentesca, seguita alla prima fase, quella ottocentesca dell’industria tessile ad alto impiego di manodopera femminile e minorile, dislocata allo sbocco delle valli alpine verso la pianura, per sfruttare l’energia idraulica a buon mercato. Nelle grandi città industriali si formò anche quella che può essere considerata la classe operaia centrale, prevalentemente maschile, concentrata negli stabilimenti della seconda rivoluzione industriale, composta da strati operai che più di altre componenti del lavoro avevano rescisso i legami con il mondo rurale, mostravano caratteri tipicamente proletari e si facevano protagonisti del nascente movimento operaio.
Lo sviluppo del primo Novecento consolidò caratteri già in origine diversi tra le tre città. Genova era il centro dell’industria di base, della siderurgia, della cantieristica e della grande meccanica, di quei settori cioè che, per la loro importanza per l’autonomia produttiva del Paese e le dotazioni militari, avevano goduto, sin dalla nascita, del sostegno dello Stato. Le imprese che operavano con grandi impianti richiedenti investimenti massicci, rischiosi e a redditività differita, rivendicavano apertamente il sostegno dello Stato per la loro funzione nazionale. Il capitalismo delle grandi famiglie raggiunse a Genova il massimo sviluppo a inizio Novecento, quando si affermò al vertice del potere economico italiano il blocco tra siderurgici e banca mista, di cui i genovesi erano i principali attori. Dopo i salvataggi dell’Ansaldo e dell’ILVA seguiti alla loro crescita squilibrata durante la Prima guerra mondiale, e dopo la sistemazione degli sconquassi della grande crisi del 1929-33, con la costituzione dell’IRI, i centri decisionali dell’industria genovese si spostarono definitivamente a Roma, che già aveva avuto grande importanza in precedenza, dato il ruolo delle commesse statali. Mentre a Genova si passava dal capitalismo politico al capitalismo di Stato, in Italia si affermò un nuovo asse del potere economico incentrato sul settore elettrico, la finanza e l’industria milanesi, oltre che sulla FIAT, che a Torino emerse dalla grande crisi come unico potentato economico.
Torino era considerata da Antonio Gramsci (1891-1937) la capitale industriale d’Italia, la città nella quale le distinzioni di classe tra capitale e lavoro erano più nette, dove la preponderanza della grande impresa automobilistica aveva generato la classe operaia più omogenea e moderna, l’avanguardia del proletariato italiano: un’immagine certo semplificatoria, ma che rinviava alla precoce natura di città dell’automobile destinata in effetti a evolversi in pochi decenni verso la monocoltura, tanto che negli anni Cinquanta si calcolava che l’80% dell’economia torinese (compresa la produzione di pneumatici e vernici) ruotasse intorno ai mezzi di trasporto.
La vera capitale industriale d’Italia era Milano, per l’enorme dimensione delle sue attività produttive, nelle quali tutti i settori merceologici erano in larga misura rappresentati. Ma a Milano ‒ come del resto a Genova, grazie al porto ‒ il tessuto economico e sociale era più articolato che non a Torino, per l’assai maggiore diffusione delle attività terziarie, commerciali e di intermediazione finanziaria. Il mondo del lavoro milanese si presentava pertanto maggiormente differenziato, per l’ampia presenza di lavoratori salariati dei servizi e dei ceti impiegatizi: a Milano la classe operaia in senso stretto costituiva una quota meno elevata della popolazione che non a Torino. Quanto al movimento operaio, Milano era la capitale del socialismo riformista, la culla della Società Umanitaria, cui si contrapponeva, forse per reazione, una non piccola presenza di anarcosindacalisti. Questi ultimi erano presenti anche a Torino, ma destinati a perdere irrimediabilmente terreno dopo la sconfitta dell’agitazione promossa nel 1911-12, a fronte della capacità della Federazione impiegati operai metalmeccanici (FIOM) guidata da Bruno Buozzi (1881-1944), di recuperare rapidamente il rapporto con la base operaia e guidarla ad alcune significative conquiste già prima della guerra. A Genova il panorama sindacale era dominato dalla netta spaccatura tra la Camera del lavoro riformista del capoluogo, dove si era sviluppato un imponente movimento cooperativo, e la Camera del lavoro di Sestri Ponente a guida anarcosindacalista.
Sin dall’età giolittiana, i lavoratori delle maggiori imprese erano diventati il riferimento sociale più rilevante per il movimento sindacale. Lo straordinario ampliamento del mercato del lavoro industriale durante la Prima guerra mondiale portò al superamento dei residui caratteri del sindacalismo di mestiere in direzione di un moderno sindacalismo di industria, non senza che la repentina dimensione di massa assunta dall’organizzazione sindacale provocasse squilibri e incertezze sulle strategie da adottare nelle convulsioni del ‘biennio rosso’ (1919-20).
La Confindustria, rifondata su più ampie basi a Roma nel 1919, ma saldamente ancorata nel triangolo industriale, e la dirigenza riformista della Confederazione generale del lavoro (CGdL) tentarono una gestione concordata dei problemi del dopoguerra a partire dall’esperienza pluriennale di mediazione sistematica delle controversie collettive di lavoro condotta durante la guerra, in particolare nei comitati regionali di mobilitazione industriale di Piemonte, Lombardia e Liguria: ne nacque il primo contratto nazionale italiano, siglato dalla FIOM e dalla Confindustria a Milano nel febbraio 1919, che concesse la rivendicazione storica delle otto ore di lavoro senza un solo sciopero. Ma il tentativo di compromesso corporatista era destinato a sgretolarsi sotto i colpi della crisi politica e di una conflittualità sociale incontenibile nei limiti di un sistema di relazioni industriali a mala pena abbozzato, debole e posticcio. Il fascismo avrebbe impresso il suo sigillo autoritario sui rapporti di lavoro, garantendo l’autonomia organizzativa della Confindustria, pur sottoposta a una crescente ingerenza dell’apparato burocratico del regime, e mantenendo il sindacato fascista al di fuori dei luoghi di lavoro con l’abolizione delle commissioni interne, le rappresentanze elettive dei dipendenti su liste sindacali, solo tardivamente sostituite dai fiduciari fascisti, nominati dall’alto, dopo l’ottobre del 1939.
Nel 1945, la Confindustria venne rifondata e posta sotto la guida dell’imprenditore cattolico genovese Angelo Costa (1901-1976), fautore di un programma conservatore liberal-protezionista, caratterizzato dalla duplice richiesta di mani libere per l’impresa e di aiuti di Stato (Mattina 1991). Sul fronte del lavoro il rinato sindacalismo libero sperimentava un difficile tentativo unitario con la fondazione, nel giugno 1944, nella Roma appena liberata, della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL); vi confluivano tradizioni politico-sindacali nettamente demarcate: da un lato le correnti comunista e socialista, legate dal patto di unità d’azione tra i partiti di riferimento; dall’altro il sindacalismo democratico-cristiano, che si rifaceva alla tradizione bianca dell’età liberale.
La breve stagione dell’unità sindacale e della collaborazione alla ricostruzione economica si sarebbe infranta nel clima della guerra fredda. Il Nord-Ovest fu protagonista dello scontro tra due diverse culture sindacali, quella antagonista di matrice socialcomunista incarnata dalla CGIL non più unitaria e quella ‘tradeunionistica’ di impronta collaborativa della Confederazione italiana sindacato lavoratori (CISL) e della Unione italiana del lavoro (UIL). La divisione sindacale indebolì la dinamica contrattuale e fu sfruttata dagli industriali per una scelta autocratica di gestione della manodopera attraverso la gerarchia aziendale, senza correttivi sindacali. Il quadro delle relazioni sindacali si modificò all’alba degli anni Sessanta, quando la piena occupazione mutò i rapporti di forza e il rifiuto imprenditoriale di aderire alla proposta di nuove relazioni industriali avanzata dalla CISL, sulla scorta del productivity drive del Piano Marshall, spinse i sindacati all’unità d’azione. Ne sarebbe derivato un lungo ciclo conflittuale che, perdurato fino alla fine degli anni Settanta, avrebbe lasciato una lunga eredità di protagonismo sindacale nella configurazione delle relazioni industriali e nella contrattazione delle politiche sociali con le forze di governo anche oltre la fine delle grandi mobilitazioni operaie, destinate a entrare in crisi con il progressivo ridimensionamento dell’occupazione manifatturiera.
L’attuazione dell’ordinamento regionale coincise con la fase culminante del fordismo e con il suo canto del cigno. Si rafforzò così un campo di iniziativa sindacale e di rappresentanza della forze sociali nei confronti dei pubblici poteri che a partire dagli anni Ottanta assunse i contorni del dialogo e della concertazione nella gestione dei processi di riduzione della base industriale e del rilancio dello sviluppo locale nell’età dell’affermazione delle attività terziarie. Riemersero qui e si riproposero con nuova forza le differenze interne al Nord-Ovest, che assunse quasi un carattere bicefalo, con i due corni rappresentati da Piemonte e Lombardia, mentre la Liguria mostrava caratteri per un verso dell’uno per un verso dell’altro. Sotto il profilo strutturale, il Piemonte restava maggiormente ancorato all’attività manifatturiera e alla presenza della grande impresa privata, la Lombardia sviluppava invece un’economia più diversificata e dinamica progressivamente incentrata sulla media impresa, mentre la Liguria vedeva un elevato peso del terziario accanto alle permanenze della grande impresa di base pubblica. Sotto il profilo politico, si sarebbero differenziati gli indirizzi delle amministrazioni regionali, determinando un diverso peso delle pratiche concertative con le forze sociali, più elevato in Piemonte e Liguria, meno in Lombardia.
Il saggio ricostruisce le vicende storiche che hanno plasmato i caratteri del Nord-Ovest, a partire dal secondo dopoguerra, insistendo sui precedenti storici delle articolazioni attuali.
Ricostruite sulla base del patto unitario, le strutture sindacali (camere del lavoro, federazioni di categoria e confederazione) furono affidate alla gestione paritetica tra le correnti. Ma alla base, le commissioni interne ‒ nuovamente istituite il 2 sett. 1943 da un accordo tra Buozzi e Giuseppe Mazzini (1887-1961), già presidente della Lega industriale di Torino, nella loro qualità di commissari preposti dal governo Badoglio alla gestione delle organizzazioni sindacali fasciste ‒ risultavano in gran parte composte da militanti di sinistra. All’indomani della Liberazione, esse erano in grado di esercitare un controllo operaio sulla vita in officina, mentre le gerarchie aziendali erano in larga misura esautorate, specie nelle aziende affidate a commissari in attesa dei procedimenti contro i dirigenti accusati di compromissione con il fascismo. In molte grandi imprese le commissioni interne collaboravano alla ricostruzione partecipando alla gestione dei servizi sociali aziendali e impegnandosi nel far rispettare la disciplina, contro i comportamenti inconciliabili con la ripresa produttiva, praticati da minoranze di lavoratori che approfittavano della caduta dei tradizionali strumenti di controllo. Tale azione si collocava nel contesto di un forte potere operaio, con i militanti comunisti e socialisti che chiamavano alla collaborazione produttiva perché ‘ora al governo ci siamo noi’; un potere che non solo teneva alta l’occupazione oltre i limiti fisiologici, ma imponeva anche nuove assunzioni di reduci, artigiani, ex internati, persino donne, che proprio nel 1945 e 1946 raggiunsero la quota più elevata sul totale della manodopera in aziende quali la FIAT.
L’azione delle commissioni interne non poteva essere apprezzata dagli imprenditori: l’autodisciplina operaia era cosa diversa dal controllo e dalla determinazione del lavoro da parte della gerarchia aziendale. Tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, con la sospensione dei procedimenti di epurazione, il ritorno alla guida delle aziende degli industriali allontanati fu vista di buon occhio dalle componenti moderate dei lavoratori. Gli imprenditori avevano buon gioco nel promettere di risollevare la situazione delle aziende attraverso le commesse americane e l’accesso al credito bancario, entrambi negati alle imprese commissariate. Con il ritorno al loro posto degli imprenditori, tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, l’azione ricostruttiva delle commissioni interne venne scemando e tornò a prevalere il loro ruolo sindacale. La funzione collaborativa restò in capo al movimento per i consigli di gestione, che avrebbe organizzato un convegno nazionale annuale nei tre anni successivi (nel 1946 e 1947 a Milano, nel 1948 a Torino) per coordinare l’azione dei circa 500 consigli nati sulla base di accordi aziendali in netta prevalenza in Lombardia, Piemonte e Liguria e nelle imprese con oltre 200 dipendenti. Nonostante il loro carattere consultivo, i consigli di gestione furono osteggiati dalla stragrande maggioranza dei datori di lavoro, che li considerava dannosi per i rischi di ingerenza nelle prerogative imprenditoriali. L’esperienza degli organismi partecipativi era destinata a chiudersi all’indomani della sconfitta delle sinistre nelle elezioni dell’aprile 1948.
L’estate e l’autunno del 1945 furono caratterizzati dalla spinta della base operaia che chiedeva aumenti salariali a fronte dell’inflazione galoppante, mentre si susseguivano manifestazioni di disoccupati e proteste popolari per il caroviveri. In quelle difficili contingenze economiche la CGIL unitaria e la Confindustria diedero alla riorganizzazione delle relazioni sindacali un’impronta centralistica, dovuta a diversi fattori, il principale dei quali era la volontà, comune alle tre maggiori correnti sindacali, di mantenere il contratto nazionale valido per tutti, com’era stato nell’ordinamento sindacale fascista, in quanto era ritenuto un importante strumento di tutela delle componenti deboli del lavoro (Craveri 1977). Dati i rapporti di forza decisamente favorevoli alla parte operaia, l’opzione centralistica ebbe una benevola accoglienza da parte della Confindustria: il controllo centrale poteva smussare la pressione rivendicativa locale e aziendale.
La centralizzazione produsse, nel dicembre 1945 e nel maggio 1946 due accordi rispettivamente per il Nord e per il Centro-Sud, che definirono l’intero quadro nazionale delle retribuzioni, per categorie e per zone. Le paghe contrattuali non potevano essere modificate a livello locale o aziendale. Sulla scia centralistica operarono nei mesi successivi gli accordi di ‘tregua salariale’ dell’ottobre 1946 e maggio 1947: essi definirono aumenti delle paghe contrattuali in cambio dell’impegno a non presentare ulteriori rivendicazioni salariali nel semestre successivo. L’adeguamento delle paghe al costo della vita era lasciato al solo meccanismo della scala mobile, che per le modalità di funzionamento non operava un pieno recupero. La scelta della moderazione da parte sindacale era indotta dalla paura dell’inflazione e dei rigurgiti fascisti che poteva indurre nei ceti medi: la consapevolezza della necessità di risanare i bilanci aziendali portò agli accordi per lo sblocco dei licenziamenti. Dopo un primo provvedimento del settembre 1945, che restò poco più che una dichiarazioni di intenti, un accordo del gennaio 1946 disciplinò le dismissioni per scaglioni a partire da febbraio. Tuttavia, neppure questo accordo trovò attuazione: esso prevedeva il coinvolgimento delle commissioni interne nella predisposizione delle liste, ma i rappresentanti operai, sotto le pressioni e le agitazioni spontanee dal basso, boicottarono i licenziamenti, che ebbero corso solo nelle piccole aziende non sindacalizzate.
Sulla stessa linea dello sblocco dei licenziamenti la CGIL unitaria assunse una posizione favorevole alla reintroduzione del cottimo, dopo la sua abolizione all’indomani del 25 aprile. Previsto nell’accordo per il Nord del dicembre 1945, il ripristino del cottimo fu voluto dal sindacato per consentire aumenti di paga che non pesassero eccessivamente sui costi di produzione. La parte operaia non insistette neppure sulle tradizionali norme di tutela contro la revisione ingiustificata delle tariffe, dato che nelle fabbriche non si erano ancora registrati passi avanti significativi nella riorganizzazione produttiva e, soprattutto, le direzioni aziendali non avevano ripreso le redini del controllo disciplinare. La definizione dei sistemi di cottimo, con preferenza accordata al cottimo collettivo, era lasciata agli accordi aziendali: si apriva in tal modo per le commissioni interne un canale di trattativa aziendale che aveva una qualche incidenza sui livelli retributivi.
In presenza di una forte inflazione, la tregua salariale finì per soffiare sul fuoco delle spinte dei lavoratori all’accrescimento della parte aziendale del salario, vale a dire, oltre al cottimo, i premi di produttività, le varie indennità, gli aumenti di merito, i passaggi di categoria. Le commissioni interne applicarono la tattica di rivendicare miglioramenti per il gruppo che risultava al momento svantaggiato, per poi chiedere, di lì a poco, il riequilibrio a favore degli altri gruppi, innescando una continua rincorsa tra reparti: le richieste erano giustificate con le qualità professionali o i livelli di disagio di questa o quella mansione. Le direzioni aziendali, dati i rapporti di forza, si mostravano sostanzialmente arrendevoli, consentendo di fatto che le commissioni interne attuassero una sorta di cogestione del personale. Del resto, finché correva l’inflazione, gli aumenti retributivi potevano essere scaricati sui prezzi, e finché gli impianti erano in fase di riordino il controllo del rendimento operaio poteva essere lasciato agli standard dello spirito ricostruttivo dei militanti. Il protagonismo delle commissioni interne riassorbì nel gioco sindacale la carica rivendicativa e contestativa che il centralismo e le mediazioni di vertice rischiavano di lasciare insoddisfatta; ma al di sotto del tono conciliante con cui si svolgevano gli incontri tra rappresentanti operai e direzioni delle grandi imprese almeno fino a tutto il 1947, si preparava un conflitto acuto. Nella più ampia arena sindacale e politica esterna ai luoghi di lavoro, l’intervento della Confindustria assumeva toni molto decisi, a difesa del ruolo e della libertà imprenditoriale, contro la politicizzazione dei conflitti economici, contro l’istituzione per legge dei consigli di gestione.
Le paure degli imprenditori si allentarono verso la fine del 1947. In agosto un accordo interconfederale limitò le competenze contrattuali delle commissioni interne e definì prerogative e diritti dei commissari in misura decisamente più limitata delle concessioni di fatto che essi erano riusciti a strappare nelle grandi aziende, nelle quali commissari, corrispondenti di reparto e collettori di bollini sindacali approfittavano della libertà di movimento per una fitta propaganda politica e sindacale. Nell’autunno del 1947 si realizzò lo sblocco dei licenziamenti in concomitanza con la stretta creditizia decisa da Luigi Einaudi (1874-1961), che portò la disoccupazione a sfiorare, nel 1948, il 20% delle forze di lavoro. Si preparava la svolta nei rapporti di forza.
Quando fu firmato il secondo accordo di tregua salariale, a metà 1947, il clima di collaborazione ricostruttiva stava già rapidamente degenerando, anche se a livello locale proseguiva la collaborazione nella gestione ordinaria. La cacciata delle sinistre dal governo e il passaggio della CGIL dalla gestione paritetica alla gestione proporzionale al peso delle correnti ‒ che al congresso di Firenze del giugno 1947 aveva assegnato un’ampia maggioranza a comunisti e socialisti, con la corrente cristiana ferma al 13% dei consensi ‒ crearono aspre tensioni preludendo alla rottura dell’unità.
La spinta unitaria aveva tratto una prima origine dall’esperienza di gestione commissariale delle organizzazioni sindacali fasciste decisa nell’estate 1943 dal governo Badoglio, che aveva nominato commissari socialisti, comunisti e cattolici, mente alla Confindustria era stato preposto Mazzini. La comune lotta dopo l’8 settembre aveva poi spinto i partiti antifascisti a collaborare anche sul piano sindacale.
La corrente sindacale cristiana, guidata da Achille Grandi (1883-1946) e dal torinese Giuseppe Rapelli (1905-1977), era favorevole al riconoscimento giuridico del sindacato e formulò la proposta delle «associazioni libere nel sindacato obbligatorio»: il lavoratore avrebbe fatto parte obbligatoriamente del sindacato, in virtù stessa della sua collocazione professionale, mentre restava libera l’adesione ad associazioni di diverso orientamento politico e ideologico le quali avrebbero concorso a svolgere le funzioni del sindacato obbligatorio; la corrente sindacale cristiana era inoltre favorevole alla regolamentazione del diritto di sciopero (da vietare nei servizi pubblici), al referendum per indire lo sciopero, a forme di arbitrato obbligatorio per la risoluzione delle controversie; propugnava infine, in prospettiva, la partecipazione agli utili e l’azionariato operaio. Il leader della corrente comunista, Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), non era d’accordo sul sindacato obbligatorio, giudicato un organismo burocratico dello Stato; era inoltre contrario all’arbitrato e alle limitazioni del diritto di sciopero. Quanto all’organizzazione interna, le sinistre erano propense a fare delle camere del lavoro il fulcro della ricostruzione sindacale, mentre i cristiani puntavano alle federazioni di categoria, nella convinzione che la finalità primaria del sindacato fosse economica e contrattuale, mentre gli organismi orizzontali di coordinamento tra le categorie rischiavano di esaltare le istanze politiche. Il confronto tra le due componenti arrivò a una stretta al momento della definizione dello statuto della CGIL, approvato al Congresso di Napoli del gennaio-febbraio 1945, che lasciò impregiudicata la questione del sindacato obbligatorio e superò tanto l’impostazione centrata sulle camere del lavoro quanto quella favorevole alle federazioni di categoria, conferendo all’organizzazione una struttura fortemente centralistica con ampi poteri affidati alla confederazione. Le federazioni di categoria dovevano sottoporre le piattaforme rivendicative all’approvazione della confederazione prima di presentarle alla controparte; alle commissioni interne venne sottratto il potere contrattuale (che era stato loro riconosciuto dall’accordo Buozzi-Mazzini) a favore del sindacato di categoria. Le camere del lavoro, come organismi territoriali, erano intese come appendici locali della confederazione.
La scelta centralistica della CGIL fu influenzata dalla natura stessa di sindacato unitario, nel quale le necessarie mediazioni di vertice sarebbero state rese difficili da eventuali comportamenti dissonanti degli organismi periferici; inoltre, dal punto di vista della corrente cristiana, nonostante la forza del livello confederale rischiasse di potenziare l’iniziativa politica, il centralismo poteva consentire un controllo sugli eventuali comportamenti spontaneistici ed estremistici delle realtà locali.
La questione sindacale tornò alla ribalta in Assemblea costituente, dove entrambe le componenti si adoperarono per trovare una formula che consentisse il mantenimento della validità erga omnes dei contratti di lavoro, pur in un quadro di libertà e di pluralismo sindacale: l’articolo 39 stabilì che i liberi sindacati registrati, dotati di personalità giuridica, potessero firmare contratti con efficacia estesa a tutti gli appartenenti alla categoria (dunque ai non iscritti alle organizzazioni contraenti) attraverso una rappresentanza unitaria costituita in proporzione al numero degli iscritti. Seguì un compromesso anche con l’articolo 40, che sanciva il diritto di sciopero, ma nell’ambito delle leggi destinate e regolarlo.
L’accordo in sede Costituente fu raggiunto nonostante l’acuirsi dei contrasti in seno alla CGIL tra la maggioranza socialcomunista e le minoranze, che avrebbe portato all’uscita della corrente cristiana nell’estate 1948, in seguito alla sua opposizione allo sciopero generale contro l’attentato a Palmiro Togliatti (1893-1964); seguì la scissione anche delle componenti socialdemocratiche e repubblicane e, dopo vari tentativi di creare un’unica organizzazione alternativa al sindacato socialcomunista, nel 1950 nacquero CISL e UIL (Turone 1992). Sulla fine dell’organizzazione unitaria influì l’aprirsi della Guerra fredda, che avrebbe avuto non pochi risvolti nelle aspre polemiche tra le organizzazioni sindacali negli anni Cinquanta. La rottura della CGIL unitaria portò alla mancata attuazione dell’articolo 39: la CISL si oppose fermamente ai progetti di legge sindacale perché nelle rappresentanze unitarie la netta maggioranza sarebbe andata ai socialcomunisti, impedendo ogni protagonismo contrattuale autonomo alla minoranza. Del resto, sotto la guida di Giulio Pastore (1902-1969) e grazie all’influenza di Mario Romani (1917-1975), la CISL si spostò sin dal 1952 su nuove posizioni, abbandonando la concezione pubblicistica del sindacato, propria della tradizione bianca, in direzione di un contrattualismo d’impronta anglosassone e americana, che intendeva sostenere un ordinamento sindacale pluralistico e privatistico, nel quale costruire un sindacato associazione, espressione dell’autonomia del sociale (Baglioni 2011).
La sconfitta del Fronte popolare, la guerra fredda e il Piano Marshall determinarono la svolta nei rapporti di forza nelle fabbriche. La grande impresa del Nord-Ovest fece la parte del leone nella distribuzione degli aiuti dell’European Recovery Program. Quando furono avviati i piani di ammodernamento tecnologico e organizzativo resi possibili da quei finanziamenti, le direzioni d’impresa puntarono a recuperare il pieno controllo sulla forza lavoro. Nella visione degli industriali, il recupero della disciplina doveva precedere, o quanto meno andare di pari passo, con l’ammodernamento tecnologico. Il salto nel controllo sul lavoro che le aziende intendevano imporre era tanto più grande in quanto comportava il superamento di un lungo periodo nel quale aveva dominato una gestione approssimativa dei tempi di lavorazione e un crescente peso della manodopera indiretta addetta a servizi di manutenzione e riparazione. Questa situazione era iniziata negli anni di guerra, specie dalla fine del 1942, a causa dei blocchi dell’attività produttiva per i bombardamenti, le riparazioni, le interruzioni nella fornitura di materie prime ed energia, e si era protratta nel dopoguerra, quando era stata accentuata dall’indebolimento della gerarchia di fabbrica; si erano così create tra gli operai abitudini alla rilassatezza dei ritmi di lavoro e a livelli di disciplina giudicati del tutto insoddisfacenti dagli imprenditori. Finché economia e mercati erano restati disarticolati le direzioni d’impresa avevano potuto accontentarsi della gestione approssimativa garantita dalla volontà ricostruttiva del movimento operaio. Ma nel momento in cui si aprirono le prospettive di ripresa, gli imprenditori puntarono con fermezza alla ricostruzione della linea gerarchica e all’eliminazione dell’intromissione sindacale nella gestione dei dipendenti: il ridimensionamento del ruolo delle commissioni interne fu considerato una precondizione della razionalizzazione. In particolare, non si intendeva più tollerare che i militanti operai girassero liberamente negli stabilimenti a fare propaganda politica e proselitismo. La svolta si verificò tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta.
I militanti della CGIL si dichiaravano favorevoli al rilancio produttivo e al recupero di efficienza. Il produttivismo e l’etica del lavoro, l’orgoglio del mestiere erano una componente non posticcia della cultura degli operai qualificati tra i quali l’organizzazione sindacale era radicata. Tuttavia, il modello di riorganizzazione cui le imprese si rifacevano era quello taylorista e fordista: la fabbrica doveva essere retta da un potere centralizzato operante attraverso i gradi di una gerarchia in cui ciascuno doveva stare al suo posto, a svolgere una funzione esecutiva finalizzata agli obiettivi fissati dall’impresa. Nel modello di rapporti sociali e produttivi di fabbrica proposto dalla maggioranza sindacale socialcomunista, invece, era l’organizzazione operaia a garantire l’autodisciplina dei lavoratori, attribuendosi poteri di controllo e decisione sull’impiego della manodopera, e operando per la difesa della posizione economica degli operai. I due modelli non potevano che scontrarsi frontalmente, indipendentemente dall’esasperazione politica e ideologica dei conflitti provocata dalla guerra fredda.
Le grandi imprese operarono in chiave repressiva, sottraendo progressivamente gli spazi di agibilità politica che i militanti avevano conquistato nell’immediato dopoguerra; ricorsero ai reparti confino, ai licenziamenti politici, ai premi di collaborazione per chi non scioperava. Ma puntarono anche a conquistare consenso attraverso il potenziamento dei servizi sociali aziendali, che negli anni Cinquanta e Sessanta vennero sviluppati come mai in precedenza, tanto da rappresentare in molti casi una vera e propria forma di salario indiretto (Benenati 1999). Le imprese ebbero successo anche nella ripresa di controllo sulla parte aziendale del salario. Il contratto nazionale di lavoro (il primo del dopoguerra per l’industria metalmeccanica fu firmato nel 1948) fissava i minimi di categoria facendo salve le retribuzioni di fatto più elevate esistenti nelle grandi fabbriche. A fronte di condizioni retributive di miglior favore, le commissioni interne non disponevano di appigli contrattuali per le loro rivendicazioni: erano costrette a muoversi sul terreno non del diritto ma della benevola elargizione da parte dell’impresa. Le direzioni aziendali imposero, a mano a mano che i rapporti di forza mutavano a loro favore, regole e condizioni a seconda dei casi più vicine ai contratti nazionali o lasciate alla propria discrezionalità, senza più cedere alle richieste di forze sindacali divise e indebolite. L’esborso salariale aggiuntivo a quello contrattuale – aumenti di merito, indennità varie, premi di produzione ‒ venne sottratto al controllo in precedenza esercitato dalle commissioni interne e indirizzato a premiare la disciplina e il rendimento. Venne cioè collegato al successo della riorganizzazione secondo modelli tayloristi e fordisti.
La vittoria delle direzioni d’impresa fu facilitata dalla rottura dell’unità sindacale, ma fu anche favorita da alcune modalità della precedente azione delle commissioni interne e dal persistente centralismo della CGIL. Nel perseguire l’aggiramento del blocco salariale contrattuale, le commissioni interne finivano per alimentare tendenze particolaristiche tra gli operai: le richieste di indennità, aumenti di merito e passaggi di categoria, poiché venivano giustificate con le caratteristiche di questa o quella mansione, portavano a confronti tra gruppi di operai che potevano ingenerare discussioni e malumori. Ne derivavano rischi per la compattezza dei lavoratori, che restarono minimi finché i miglioramenti ottenuti interessavano un po’ tutti, ma che erano destinati a crescere quando, con la perdita del controllo politico delle masse operaie da parte delle avanguardie militanti, le direzioni aziendali non accettarono più di contrattare gli esborsi salariali extracontrattuali e gli interventi assistenziali, ma iniziarono a utilizzarli unilateralmente ai fini delle politiche di attrazione aziendalistica.
Dinamiche di questo tipo furono particolarmente presenti nella grande industria metalmeccanica. I membri di commissione interna aderenti alla FIOM, nelle loro rivendicazioni aziendali, non solo non potevano fare appello alle norme contrattuali, ma non ricevevano neppure il pieno appoggio degli organismi dirigenti della CGIL, che continuavano a difendere il centralismo, contro la contrattazione aziendale che si riteneva comportasse il rischio di creare sacche di privilegio e distacco delle maestranze delle grandi aziende dal resto del proletariato.
Tra il 1950 e il 1955 buona parte della conflittualità interna agli stabilimenti riguardò la revisione dei tempi di lavorazione. Nell’aprile 1951 la CGIL lanciò a Torino, con un primo convegno nazionale, la campagna contro il ‘supersfruttamento’, definito come intensificazione dello sfruttamento ottenuta attraverso il prolungamento dell’orario di lavoro, con il ricorso continuativo allo straordinario, e attraverso il rendimento più elevato strappato con il taglio dei tempi. Influenzata dalla concezione malthusiana del capitalismo monopolistico, ritenuto incapace di sviluppare le forze produttive, la CGIL sosteneva che la produzione industriale in Italia stava crescendo in una situazione di ristagno dell’occupazione e di insufficiente ammodernamento tecnologico, dunque con l’intensificazione pura e semplice dello sforzo operaio: su questa base, la mobilitazione contro il taglio ingiustificato dei tempi pretendeva di assumere la funzione di stimolo al progresso tecnico (Musso 2011). La CGIL poneva al centro delle preoccupazioni il problema della disoccupazione, sul quale era incentrata la proposta di Piano del lavoro lanciata nel 1949, che chiedeva una serie di interventi per il rilancio degli investimenti pubblici in edilizia, in infrastrutture ed energia. A difesa dei livelli occupazionali la CGIL rivendicava la limitazione degli straordinari e la normalizzazione dei ritmi di lavoro, da ricercarsi attraverso l’imposizione di un freno ai premi di produzione e il controllo dei criteri utilizzati per stabilire i tempi di cottimo.
L’infondata premessa malthusiana impediva alla CGIL di considerare come fossero in realtà proprio le innovazioni tecniche e organizzative messe in atto dalle grandi imprese a consentire la revisione dei tempi di lavorazione, nel rispetto delle norme, non molto rigide, di regolamentazione del cottimo introdotte nei contratti del dopoguerra. Per questo i militanti operai che contestavano le revisioni delle tariffe non erano in grado di dimostrare violazioni contrattuali.
La capacità dei militanti CGIL di mobilitare gli operai diminuì progressivamente, non solo a causa dei giri di vite sulla disciplina e dell’insuccesso delle lotte contro il taglio dei tempi, ma anche e soprattutto perché le prese di posizione contrarie ai premi di produzione e alla crescita della parte incentivata del salario, non essendo sostenute dalla capacità di imporre aumenti salariali in paga base, non riscuotevano consenso tra i lavoratori, allettati dall’opportunità di irrobustire le buste paga attraverso premi e straordinari. Il perdurare del centralismo contrattuale rendeva assai difficili gli adeguamenti delle paghe orarie, lasciati alla contingenza e a semplici aggiustamenti del contratto nazionale: nel caso della categoria di riferimento dell’industria, i metalmeccanici, il contratto nazionale del 1948 fu rinnovato solo nel 1956, in sostanziale continuità con quello del 1948, mentre in precedenza le paghe base furono ritoccate solo nel 1954, con l’accordo interconfederale sul conglobamento in paga base di parte dell’indennità di contingenza (il primo accordo separato, non firmato dalla CGIL).
La CGIL chiedeva ai lavoratori occupati comportamenti solidali con i disoccupati e li chiamava a mobilitazioni politiche, quali gli scioperi contro l’adesione italiana alla NATO, subendo con questa strategia, nei primi anni Cinquanta, una lenta erosione dei consensi tra i lavoratori, dei quali è lecito ipotizzare la stanchezza a fronte dei ben 62 scioperi politici indetti tra il 1950 e il 1954. La composizione della classe operaia era del resto in rapido mutamento. La crescita occupazionale che si stava innescando portava nelle fabbriche del Nord-Ovest lavoratori giovani, di recente immigrazione, che provenivano dalle campagne, dal Nord-Est e dal Sud, da ambienti socioculturali lontani dalla tradizionale cultura operaia, che dovevano affrontare i disagi dell’emigrazione e puntavano a guadagnare il più possibile.
Il freno alla libertà di movimento e di propaganda dei militanti sindacali in fabbrica e l’azione repressiva che portò al licenziamento di centinaia di militanti comunisti si accompagnò al sostegno più o meno esplicito concesso dalle direzioni aziendali alle componenti sindacali non oppositive. Ne derivò una svolta nel peso relativo delle organizzazioni, che vide la sconfitta della CGIL nelle elezioni per le commissioni interne alla metà degli anni Cinquanta, iniziata con la perdita della maggioranza assoluta alla FIAT, tradizionalmente detenuta dalla FIOM, che nel marzo 1955 perse ben il 27% dei consensi e si vide superata dalla CISL.
Negli anni Cinquanta la CGIL mise in atto un sindacalismo politico, che derivava da una concezione del sindacato come organizzazione di tutta la classe lavoratrice. Nella sua cultura sindacale la tutela dei lavoratori doveva avvenire pioritariamente sul mercato del lavoro, salvaguardando i rapporti di forza generali attraverso la lotta alla disoccupazione. Preoccupata innanzitutto dell’unità della classe, la CGIL chiedeva ai lavoratori occupati sacrifici in solidarietà con i disoccupati. Fu su questa linea che maturò la sconfitta del 1955.
Assai diversa, per non dire opposta, la cultura sindacale della CISL. L’organizzazione sindacale era intesa come associazione, finalizzata innanzitutto alla tutela degli interessi degli iscritti, ma non solo. La difesa degli interessi dei lavoratori era ritenuta possibile solo contribuendo allo sviluppo economico, in quanto la crescita dei salari aveva come necessario presupposto l’incremento della produttività. La CISL si proponeva come cogestore della manodopera, disposta a organizzarne la collaborazione in azienda ai fini della produttività, rivendicando in cambio immediate ricadute in termini di miglioramenti salariali. Data la grande disparità di condizioni tecnologiche e di mercato delle imprese italiane operanti in contesti territoriali assai diversificati per grado di sviluppo, il livello aziendale era considerato il solo atto a rapportare il salario all’andamento della produttività. L’introduzione, seppur a macchia di leopardo, di sacche di dinamismo retributivo economicamente sostenibili avrebbe ampliato progressivamente la domanda e il mercato interno, generalizzando poco alla volta i benefici dello sviluppo.
La CGIL declinava il problema dello sviluppo in tutt’altri termini, come massimo impiego dei fattori della produzione, il lavoro anzitutto, fattore abbondante in Italia: da qui la proposta del Piano del lavoro che faceva della lotta alla disoccupazione l’obiettivo pressoché unico, mentre il malthusianesimo ostacolava la comprensione dei mutamenti in atto e l’elaborazione di linee d’azione adeguate allo sviluppo che si stava innescando.
Il disegno complessivo delle relazioni industriali elaborato dalla CISL sin dai primi anni Cinquanta ebbe tra i luoghi di incubazione il productivity drive dell’European recovery program: un disegno di modernizzazione economica e sociale condotto dagli Stati Uniti d’America attraverso personale influenzato da istanze keynesiane, che aveva come obiettivo primario la promozione della collaborazione tra governi, imprenditori e sindacati. La costruzione di nuove relazioni industriali fondate sulla collaborazione per la produttività avrebbe avuto come contropartita la diffusione del benessere, antidoto all’influenza comunista nell’Europa sconquassata dalla guerra.
Sulla strategia degli esponenti della CISL influì una mescolanza di keynesismo, comunitarismo e volontarismo personalista. Occorreva promuovere l’industrializzazione e perseguire la modernizzazione dei rapporti di lavoro per coniugare sviluppo economico e sviluppo sociale. Su queste basi si instaurarono solidi legami tra la CISL e il Comitato nazionale italiano per la produttività, costituito nel 1950, al cui interno i membri della giunta nominata nel 1951 per occuparsi del ‘fattore umano’ erano, tra gli altri, Angelo Costa per la Confindustria, Italo Viglianesi (1916-1995) della UIL, Agostino Gemelli (1878-1959), Mario Romani, Luigi Morelli (1895-1954) e Giuseppe Glisenti (1919-2005), appartenenti al mondo cattolico.
La partecipazione di CISL e UIL ai comitati per la produttività rafforzò la propensione contrattualista dei due sindacati, alla quale si aggiunse, nell’elaborazione della CISL, una forte ispirazione comunitarista: le human relations venivano interpretate come lo strumento per una modifica dell’atteggiamento di imprenditori e manager che trasformasse l’azienda in una comunità in grado di ridare dignità all’uomo lavoratore. L’impresa andava umanizzata per trasformarla in una comunità di individui cooperanti e non vessati, una comunità di persone liberamente unite in uno sforzo creativo per la realizzazione di valori sociali. Le aziende avrebbero dovuto adottare un atteggiamento di collaborazione con i responsabili sindacali, per fondare una nuova democrazia industriale. Romani in particolare sosteneva il dialogo tra istanze tecnocratiche e personaliste. I lavoratori dovevano accettare le tecnologie più avanzate, che andavano però temperate nei loro possibili effetti nocivi attraverso l’azione del sindacato. I difetti del taylorismo stavano nella pretesa di imporre l’accettazione passiva dei modi di funzionamento dell’impresa, la quale doveva invece riconoscere l’apporto del lavoro e puntare a migliorarne le condizioni, accettando la tutela collettiva dei lavoratori. L’enfasi sul fattore umano serviva a sottolineare l’importanza della partecipazione dei lavoratori alla responsabilità dell’organizzazione produttiva, perché era maggiore l’efficacia dei sistemi organizzativi che ponevano accanto al principio gerarchico il sistema dell’autorità spontanea dei gruppi sociali.
La proposta della CISL presentava tratti innovativi. In particolare, il suo produttivismo si discostava da quello della tradizione socialista e comunista perché poneva al centro l’impresa, mentre il secondo considerava l’impresa come luogo negativo dello sfruttamento e del profitto, contrapponendole la fabbrica, liberata dal parassitismo del capitale, come luogo positivo della produzione dell’utile sociale.
I commissari interni aderenti alla CISL e alla UIL perseguirono la linea della contrattazione aziendale del rapporto tra rendimento e retribuzione, favorendo l’aumento del peso della parte incentivata del salario in confronto alla paga oraria contrattuale. Alla FIAT, per esempio, la quota dei premi legati alla produttività sulla retribuzione totale raddoppiò tra il 1949 e il 1962, arrivando a superare il 30%.
Tuttavia, il movimento per la produttività ebbe scarsa diffusione, le aziende dimostrative furono poche, le aree interessate sostanzialmente confinate al Comasco e al Vicentino. La CISL dovette presto prendere atto della scarsa disponibilità, quando non della diffusa ostilità degli imprenditori nei confronti della propria proposta. Nel luglio del 1952 gli industriali respinsero la proposta della CISL di istituire commissioni miste aziendali per la trattazione delle vertenze, con l’argomentazione che le imprese sarebbero state indotte ad accettare giudizi espressi non secondo i principi del diritto, ma secondo vaghi criteri di opportunità o magnanimità, come erano state costrette a fare nel dopoguerra.
Alla metà degli anni Cinquanta gli industriali, vittoriosi sul sindacalismo oppositivo della CGIL, restarono ancorati al tradizionale tratto autarchico dei modelli di direzione: anziché aderire alle proposte cisline di regolazione attraverso la contrattazione e il riconoscimento del ruolo del sindacato, improntarono le relazioni interne a modelli gerarchici, ai rapporti diretti tra azienda e lavoratori, alla ricerca del consenso attraverso il welfare aziendale, alla gestione dei dipendenti attraverso la gerarchia intermedia senza correttivi sindacali, salvo quelli eventualmente offerti dai sindacati aziendali (alla FIAT il Sindacato datoriale autonomo, SIDA, alla Olivetti Comunità di fabbrica-Autonomia aziendale, alla RIV la Federazione autonoma lavoratori indipendenti, FALI), oppure attraverso le commissioni interne laddove vi prevalessero le componenti moderate.
Alla FIAT, nel 1955, poco dopo la sconfitta della FIOM, venne firmato un accordo separato, il primo nella storia aziendale, riguardante i tempi di lavorazione, che prevedeva un sistema di reclamo in tre tempi, nel quale l’intervento della commissione interna era possibile solo in terza istanza: così l’operaio, costretto a rivolgersi dapprima al capo, poi all’ufficio manodopera, finiva per rinunciare per non mettersi in cattiva luce. Anche alla Olivetti, dove pure la libertà di organizzazione ed espressione sindacale dei lavoratori era garantita, e dove le teorie comunitarie di Adriano Olivetti (1901-1960) erano potenzialmente molto vicine al comunitarismo cislino, il mancato incontro tra l’azienda e la CISL – da ricondursi all’idiosincrasia di Olivetti per la Democrazia cristiana, imputata di conservatorismo ‒ finì per indurre anche a Ivrea la scelta del sindacato aziendale. Avvenne così che persino il riformismo olivettiano, con i suoi servizi sociali aziendali di prim’ordine, oltretutto cogestiti dall’unico consiglio di gestione sopravvissuto fino al 1971, fosse bollato, tanto dalla CGIL che dalla CISL, come paternalismo: per la CGIL il welfare aziendale era un ostacolo alla partecipazione degli operai alle lotte del lavoro, per la CISL costituiva un impedimento allo sviluppo della contrattazione.
Fu la sostanziale sordità degli imprenditori di fronte al modello di relazioni propugnato dalla CISL a spingere quest’ultima prima alla richiesta di distacco dell’industria pubblica dalla Confindustria, poi all’unità d’azione con la CGIL all’inizio degli anni Sessanta, che segnò la ripresa delle agitazioni sindacali.
FIAT e Olivetti si collocavano peraltro su un fronte avanzato rispetto alla politica confindustriale. Saldamente controllata dagli imprenditori lombardi riuniti in Assolombarda, la Confindustria restò improntata a un netto conservatorismo, ben esemplificato da una serie di opposizioni, più o meno nette, ma pur sempre opposizioni: al mantenimento dell’IRI nel 1948, alla costituzione dell’ENI nel 1953, al Piano Sinigaglia per la siderurgia integrale, all’apertura del Mercato comune europeo (MEC) e alla liberalizzazione degli scambi nel 1957, all’avvento del centrosinistra, alla nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962, alla programmazione e a tutto ciò che suonava come incursione dello Stato nella sfera economica, salvo la richiesta di aiuti e protezioni per questo e quel settore. Emblematica del conservatorismo confindustriale fu in particolare la promozione di Confintesa, nel 1958, un accordo tra le tre centrali datoriali (Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio), apertamente finalizzato al sostegno al Partito liberale e alle correnti di destra della Democrazia cristiana in funzione di opposizione alla prospettiva dell’apertura dell’area di governo ai socialisti (Castronovo 2010).
Sfuggivano al conservatorismo alcune grandi imprese, specie le protagoniste della produzione di massa nel miracolo economico, FIAT e Pirelli in testa, aperte alla collaborazione con l’industria di Stato per il suo ruolo di sostegno al completamento del processo di industrializzazione del Paese e favorevoli al centrosinistra in quanto sensibili alle opportunità di modernizzazione insite nell’apertura dell’area di governo ai socialisti. La FIAT, sotto la guida di Vittorio Valletta (1883-1967), che sin dal dopoguerra aveva progettato l’avvio della produzione di serie di vetture utilitarie, perseguì la sua strategia in alleanza con l’ENI di Enrico Mattei (1906-1962) e l’IRI di Oscar Sinigaglia (1877-1953): acciaio, petrolio, benzina, automobili e autostrade per la motorizzazione di massa, che avrebbe trainato il miracolo economico. Valletta appoggiò il piano Sinigaglia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, impegnandosi ad assorbire circa la metà della produzione del nuovo stabilimento FINSIDER di Cornigliano a partire dal 1953, e nel 1954 FIAT entrò con ENI, Pirelli e Italcementi nella società finanziaria per la costruzione dell’autostrada del Sole.
Intanto, le resistenze degli industriali nei confronti della proposta di relazioni industriali avanzata dalla CISL indussero Pastore e i suoi, appoggiati dalle correnti di sinistra della DC, a sollecitare e ottenere il distacco delle aziende pubbliche dalla Confindustria: dopo l’istituzione nel dicembre 1956 del Ministero delle Partecipazioni statali, nel 1957 nacquero l’Intersind, organismo sindacale delle aziende IRI, e l’ASAP per le aziende facenti capo all’ENI. Vi ebbero ruoli di primissimo piano due uomini che erano stati alti esponenti della CISL, Giuseppe Glisenti e Benedetto De Cesaris (1922-2003). Intersind e ASAP si presentarono dunque come terreni ideali per sperimentare il modello di relazioni industriali proposto dalla CISL, che valorizzava la compatibilità economica dell’azione sindacale, il pieno riconoscimento del ruolo del sindacato e la regolazione contrattuale.
Nel 1962, mentre le trattative per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici erano ancora in alto mare, l’Intersind firmò un protocollo, come preliminare del contratto, nel quale si legittimava la contrattazione aziendale, regolandola con una clausola ‘di rinvio’ che assegnava al contratto nazionale la definizione delle materie di trattativa aziendale, e una clausola di ‘pace sociale’ che impegnava il sindacato a limitare il ricorso allo sciopero.
Nell’ambito delle Partecipazioni statali alcuni accordi innovativi del sistema contrattuale erano stati firmati già prima del 1962, in particolare quello per la job evaluation a Cornigliano nel dicembre 1960, poi esteso nel 1961 a tutta l’Italsider, mentre i nuovi sistemi di inquadramento dei lavoratori venivano introdotti anche nelle aziende petrolchimiche dell’ENI. La proposta della job evaluation fu contrastata dalla CGIL, in quanto il passaggio dalla valutazione della professionalità del lavoratore fissata nella categoria di appartenenza alla valutazione del posto di lavoro, con la conseguente sostituzione delle paghe di posto al sistema delle categorie, rischiava di indebolire le tradizionali garanzie della qualifica, anche se il codice civile vietava i declassamenti: i problemi potevano nascere con gli spostamenti del posto di lavoro, che non si poteva considerare inamovibile. Il sistema delle qualifiche da cui dipendeva la paga base di categoria tendeva a diventare anacronistico con il progresso tecnologico, che accentuava l’importanza delle mansioni aziendali, le quali finivano per non corrispondere più alle competenze relative a una qualifica, perché subivano modificazioni nel quadro di dinamismo tecnico e organizzativo. L’accordo per la job evaluation del 1960 a Cornigliano fu firmato anche dalla FIOM che, in controtendenza rispetto agli orientamenti della CGIL nazionale, lasciò cadere la pregiudiziale in parte perché fu trovato un modo per armonizzare il nuovo sistema di inquadramento con le categorie contrattuali, ma soprattutto perché la regolazione contrattuale del sistema introduceva una sorta di controllo sindacale sul salario, che comportava il superamento della tanto tradizionale quanto invisa discrezionalità padronale sugli aumenti di merito. Le Partecipazioni statali contribuirono dunque al dialogo tra le culture sindacali.
La sconfitta della CGIL del 1955, la mancata apertura imprenditoriale al contrattualismo cislino, le aspre divisioni tra i sindacati determinarono una debolezza di fondo dell’azione sindacale nella seconda metà degli anni Cinquanta, così che la crescita economica avvenne a tassi di incremento della produttività più elevati di quelli dei salari. Nel 1955 i segnali della ripresa produttiva erano ormai netti. Ma sei anni addietro, quando la CGIL aveva lanciato il Piano del lavoro, lo stato dell’economia italiana giustificava una visione pessimistica e ostacolava l’abbandono del malthusianesimo. La disoccupazione era elevata e le correnti di emigrazione, dopo il blocco degli anni Trenta, erano riprese massicce, dal Sud e non solo, e si dirigevano all’estero, in Francia, Belgio, Germania, non ancora al Nord.
Se a Torino e a Milano la ricostruzione avvenne con una certa rapidità, a Genova la situazione si presentò assai più problematica. Come già all’indomani della Prima guerra mondiale, la riconversione postbellica provocò pesanti contraccolpi nel capoluogo ligure, dato il peso della produzione militare: si registrò allora un calo degli occupati nell’industria, per il difficile riposizionamento delle produzioni siderurgiche e cantieristiche (La Liguria, 1994). Furono condotte grandi mobilitazioni operaie a difesa dell’occupazione, che sarebbero riemerse nelle ondate successive di ristrutturazione; esse chiedevano riconversione anziché smobilitazione, non senza mostrare difficoltà a cogliere le necessità del cambiamento sotto il profilo dell’innovazione tecnologica, come nel caso delle polemiche nei confronti del nuovo stabilimento siderurgico di Cornigliano. La preponderanza dell’industria di base e della grande meccanica fece sì che persino nel boom, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, si verificasse un calo occupazionale nell’industria genovese, che non riuscì ad approfittare del miracolo economico: restò ancorata ai beni di base e intermedi e non avviò la produzione dei beni di consumo durevoli, quelli sui quali si incentrò in quegli anni uno sviluppo senza precedenti guidato dalla meccanica di serie.
Torino esaltò invece il proprio ruolo nazionale nel miracolo economico trainato dalla motorizzazione di massa, in quanto capitale non solo dell’auto, ma anche della produzione di serie in genere: oltre alle utilitarie, i cuscinetti a sfera della RIV, l’industria delle confezioni del GFT, la produzione dolciaria della Venchi Unica e, a pochi chilometri, le macchine per ufficio della Olivetti. L’adozione di modelli fordisti diede speciale impulso alla produzione industriale. Il settore secondario assorbì così gran parte delle risorse umane e finanziarie del capoluogo subalpino, relegando il terziario in posizione ancillare.
Nel dopoguerra le grandi lotte sindacali a Genova si svolsero compatte e con notevole sostegno popolare ma furono per lo più difensive, spese nella difficile tutela dei posti di lavoro dalle ristrutturazioni, mentre anche i portuali difesero a più riprese le prerogative della loro compagnia dai tentativi di liberalizzazione (Arvati, Rugafiori 1981). A Torino le difficoltà per il movimento sindacale nacquero non dalla crisi ma dalla crescita, che la vulgata malthusiana non sapeva interpretare. La sconfitta del 1955 alla FIAT non fu isolata, ma non si ripercosse con la stessa intensità al di fuori del capoluogo piemontese. Fu meno incisiva a Genova, dove pure difficoltà dello stesso tipo vennero sperimentate dalla CGIL nello stabilimento tecnologicamente all’avanguardia di Cornigliano, nel quale crebbe l’influenza della CISL. A Milano, il forte e variegato tessuto di imprese medie e medio-grandi e la presenza di un terziario in rapida espansione garantivano un mercato del lavoro più dinamico, aperto e ricco di possibilità, non solo in confronto all’endemica crisi genovese ma anche al monopsonio torinese. Ne derivava un’ampia differenziazione di situazioni sindacali aziendali. L’eco del 1955 arrivò così smorzato nella capitale lombarda: anche se la CGIL subì un calo di consensi in numerose fabbriche (Petrillo 1992), la sconfitta fu relativa e non ebbe la gravità di quella della FIAT, dove per quasi dieci anni non si scioperò più. A Milano fu relativamente facile la ripresa delle lotte all’apice del boom, con le mobilitazioni degli elettromeccanici che precedettero le agitazioni per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici del 1962-63.
La sconfitta del 1955 indusse considerazioni autocritiche da parte di Di Vittorio che diedero fiato, all’interno della CGIL, a chi da tempo esprimeva dubbi rispetto all’impostazione centralistica e malthusiana: furono personaggi quali Silvio Leonardi (1914-1990), dell’ufficio studi della Camera del lavoro di Milano e i torinesi Vittorio Foa (1910-2008) e Sergio Garavini (1926-2001), assieme a Bruno Trentin (1926-2007), a favorire una visione più realistica dello sviluppo tecnologico e a indurre il progressivo abbandono del centralismo: al congresso di Milano del 1960 passò la linea dei torinesi, favorevoli alla contrattazione aziendale. Le stesse componenti sul finire degli anni Sessanta, spinsero il sindacato a dichiarare l’incompatibilità degli incarichi sindacali e politici, come base per l’unità sindacale.
L’abbandono del centralismo da parte della CGIL si verificò a ridosso della ripresa delle rivendicazioni operaie in una situazione del mercato del lavoro finalmente favorevole agli operai, con il raggiungimento di livelli di disoccupazione solo frizionale nel Nord-Ovest. Al contempo, nelle fabbriche, una nuova generazione di militanti CISL fu spinta dall’intransigenza imprenditoriale ad abbracciare l’unità d’azione con la CGIL. Le federazioni industriali delle due confederazioni, e più tardi anche quelle della UIL, pur mantenendo posizioni diverse su molti aspetti, trovarono nei primi anni Sessanta un punto di coagulo in due obiettivi comuni: la contrattazione aziendale e l’ingresso del sindacato in fabbrica.
Le agitazioni operaie, riprese qua e là sin dal 1959, ebbero nella vertenza milanese degli elettromeccanici del 1960, con il Natale in piazza Duomo, un momento di inversione del ciclo, che si rafforzò nel clima di tensioni crescenti che sfociarono nella ripresa degli scioperi alla FIAT e nell’assalto del 7 luglio 1962 alla sede torinese della UIL, ‘colpevole’, assieme al SIDA, di un accordo separato alla FIAT. Nell’autunno successivo, FIOM, FIM e UILM predisposero uno schema di protocollo per accordi «precontrattuali di acconto» sul futuro contratto nazionale ottenendo la firma di tali accordi in alcune grandi imprese. Le trattative per il nuovo contratto nazionale furono lunghe e difficili a causa della resistenza degli industriali contro la contrattazione aziendale: dovettero alla fine cedere ai due livelli, anche se quello aziendale restò limitato ai premi, e accettare che il contratto aziendale fosse firmato dai sindacati, anziché dalle commissioni interne.
Gli industriali privati non vollero seguire la via dell’Intersind. La contrattazione separata nelle Partecipazioni statali fu vista come il fumo negli occhi, un grimaldello per creare precedenti e costringere i privati a concessioni indebite. Il contratto del 1963 venne considerato molto oneroso, a causa degli aumenti retributivi, della riduzione dell’orario di lavoro, della fase finale della parificazione delle paghe femminili a quelle maschili; ma ancor più che gli aspetti economici, contavano le preoccupazioni per le importanti novità inerenti la trattenuta diretta dei contributi sindacali, la comunicazione dei cottimi e, per l’appunto, la contrattazione aziendale dei premi di produzione.
Le agitazioni del 1959-63 produssero aumenti salariali superiori a quelli della produttività. Pur a crescita ininterrotta, ne soffrirono inflazione e bilancia dei pagamenti, inducendo le autorità monetarie a una frenata deflazionistica che ingenerò la breve ma intensa congiuntura negativa del 1964-65. Ne derivò un raffreddamento del conflitto, che indusse gli industriali a mantenere il timone sulla vecchia rotta, impedendo loro di vedere il fuoco che covava sotto la cenere. In particolare, la Confindustria continuò a opporsi allo sviluppo della contrattazione aziendale, riuscendo a congelarla con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1966 (La metalmeccanica torinese, 1997). La ripresa economica dopo la congiuntura favorì quella delle rivendicazioni, che ripartirono a livello aziendale nel 1967. Nell’autunno di quell’anno la Confindustria propose un accordo quadro sulla contrattazione, dopo che tre anni prima, nel 1964, non aveva accolto una proposta analoga avanzata dalla CISL. Le agitazioni si intensificarono nel 1968 per scoppiare l’anno successivo con i rinnovi contrattuali dell’autunno caldo. Le proposte di dialogo tripartito con sindacati e pubblici poteri e l’apertura alle istanze programmatorie formulate dai giovani industriali sostenuti da FIAT e Pirelli – e confluite nel documento predisposto dalla Commissione Pirelli a inizio 1970 – giunsero troppo tardi, quando si era ormai innescato il più lungo e aspro periodo di conflittualità della storia dei rapporti di lavoro in Italia (Berta 2006).
La rottura degli argini da parte di una conflittualità in buona misura spontanea travolse anche le Partecipazioni statali, dove pure un accordo del gennaio 1968 all’Italsider aveva regolato il conflitto, prevedendo la garanzia del preavviso, la continuità d’esercizio degli altiforni in caso di agitazione e il bando agli scioperi selvaggi e a scacchiera. Era impossibile che le tensioni originate nel settore privato non ne travalicassero i confini investendo l’intero mondo del lavoro, tanto più in presenza di un fenomeno di carattere internazionale, frutto di una rivolta anche generazionale contro il lavoro fordista all’interno di più ampi crogioli di conflittualità politica e culturale. A Intersind e ASAP non restò che adottare una politica di duttile resistenza nei confronti dell’azione sindacale, perseguendo il dialogo sistematico con il sindacato come una scelta di metodo, anziché come scelta obbligata dai rapporti di forza, come avvenne, per lo più, nelle aziende private.
Nel miracolo economico l’accentuata divisione del lavoro accrebbe la quota degli operai comuni addetti a mansioni semplici, caratterizzate da tempi di ciclo accorciati e ritmi accelerati. Gli operai qualificati, addetti a lavorazioni indirette, continuarono a essere ricercati e, nel grande incremento occupazionale, crebbero in numero assoluto, ma il loro peso sul totale della manodopera si ridusse drasticamente. La conflittualità degli anni Settanta ebbe le proprie radici da un lato nel fordismo dispiegato, che con la catena di montaggio diventò il simbolo del lavoro dequalificato, monotono, ripetitivo (Bigazzi 2000). Inoltre, la massa degli operai comuni proveniva dalle schiere degli immigrati più recenti, che assommavano ai disagi del lavoro di fabbrica quelli derivanti dalla carenza di case e servizi. La crescita aveva aumentato i redditi da lavoro ma in misura insufficiente rispetto alle aspettative create dall’incombente società dei consumi, alla quale ampi strati di lavoratori non avevano pieno accesso.
La pressione rivendicativa, largamente spontanea, spinse a travalicare ogni limite alla contrattazione di secondo livello, così che nelle aziende si strapparono accordi integrativi del contratto nazionale su tutte le materie, anche quelle già regolate a livello nazionale. Le commissioni interne vennero superate dai consigli di fabbrica, formati da delegati di gruppo omogeneo eletti su scheda bianca, che costituivano una rappresentanza molto più numerosa e capillare. Le agitazioni furono caratterizzate dalla contestazione dell’organizzazione del lavoro e delle mansioni a scarso contenuto professionale, dal rifiuto della ‘monetizzazione della salute’, dalla richiesta di aumenti uguali per tutti, dal controllo sui ritmi di lavoro attraverso la contrattazione ‘a lato linea’ che imponeva la regolazione della velocità della catena di montaggio sulla base degli effettivi presenti in un periodo di elevato assenteismo. I delegati parlavano di ‘applicazione dinamica’ degli accordi, che non erano considerati nel loro valore normativo, come conquiste da stabilizzare, ma come semplici punti di partenza per nuove agitazioni in direzione di ulteriori obiettivi.
Le organizzazioni sindacali, impegnate nell’unità d’azione, discussero la possibilità di addivenire all’unità organizzativa, che si limitò tuttavia alla costituzione di una federazione unitaria di coordinamento tra CGIL, CISL e UIL, mentre le categorie dei metalmeccanici e dei chimici diedero vita all’unità organica. La nuova forza dei sindacati poggiava sull’attivismo di base, e si giovava dello Statuto dei lavoratori, la l. 20 maggio 1970 nr. 300, valida per le imprese con oltre 15 dipendenti, che da un lato rese operanti anche nei luoghi di lavoro i diritti costituzionali, proteggendo i militanti da azioni repressive, dall’altro lato conferì alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative il diritto di operare all’interno degli stabilimenti, con la convocazione di assemblee, l’indizione di referendum, l’affissione di testi e comunicati.
La strategia sindacale di sostanziale acquiescenza verso l’azione dei delegati era dovuta anche al tentativo di ‘cavalcare la tigre’ e alla necessità di sottrarre spazio all’iniziativa dei gruppi di estrema sinistra che puntavano a radicalizzare la protesta e promuovere un movimento alternativo incentrato su comitati di base composti di lavoratori, studenti, disoccupati, in polemica con il presunto moderatismo dei sindacati. Sottraendo in una certa misura l’iniziativa alle istanze di base, le confederazioni intensificarono un’azione già avviata nel 1968 in direzione di rivendicazioni dirette al governo per una serie di riforme, dalle pensioni alla casa, ai trasporti, all’assistenza sanitaria, con un’azione che venne definita di ‘supplenza sindacale’, in quanto il sindacato si assumeva i compiti dei partiti. La stessa strategia si traduceva, nei confronti delle maggiori imprese, nella richiesta di contrattare gli investimenti a difesa dell’occupazione, in particolare riallocandoli verso il Sud, e di indirizzarli verso i consumi collettivi.
I consistenti aumenti salariali vennero scaricati sui prezzi, innescando spinte inflazionistiche aggravate dal primo shock petrolifero del 1974, in una situazione di crescita economica rallentata e a singhiozzo. Il tentativo di porre un freno all’iperconflittualità indusse Giovanni Agnelli (1921-2003) – già protagonista nel 1973 di un’intervista nella quale proponeva un patto tra le forze della produzione contro le posizioni di rendita – ad assumere la presidenza della Confindustria e a siglare, all’inizio del 1975, un accordo con i sindacati sull’indennità di contingenza che rendeva assai più sensibile il meccanismo di recupero automatico del potere d’acquisto dei salari. Si contava per tal via di mettere un freno alle agitazioni connesse alla rincorsa salari-prezzi.
Tuttavia, nella seconda metà degli anni Settanta la situazione economica si fece pesante, con le grandi fabbriche affette da deficit di efficienza e produttività, connessi anche al clima di insubordinazione e sfida alla gerarchia aziendale, mentre capi e dirigenti si sentivano minacciati dall’intensificarsi degli attentati terroristici. A livello confederale le organizzazioni sindacali non erano insensibili alle difficoltà. Nel febbraio 1978, l’assemblea dei consigli generali e dei quadri di CGIL, CISL e UIL, tenuta a Roma all’EUR, si concluse con l’approvazione di una linea di rigore e moderazione, illustrata dal segretario della CGIL Luciano Lama (1921-1996): il sindacato si dichiarava disposto a proporre ai lavoratori una politica di sacrifici per superare le difficoltà economiche. Tuttavia, la svolta dell’EUR, maturata in connessione con l’imminente appoggio esterno del Partito comunista a un governo di unità nazionale, incontrava l’opposizione dei militanti più radicali (Accornero 1992).
Alla fine del 1979, la convinzione di trovarsi di fronte a una situazione insostenibile spinse la FIAT alla decisione di licenziare 61 delegati e militanti accusati di grave insubordinazione. Il sostanziale fallimento dello sciopero contro il ‘licenziamento dei 61’ fu interpretato dalla direzione aziendale come il segnale che stava declinando il consenso di massa dei lavoratori per l’élite conflittuale dei delegati. Un anno dopo, nel pieno di una crisi del mercato automobilistico europeo che colpì con particolare forza la FIAT, l’azienda chiese un drastico ridimensionamento degli organici con 14.000 licenziamenti. La richiesta scatenò un duro sciopero, condotto con il blocco dei cancelli e durato 35 giorni, che si concluse dopo una manifestazione promossa dal coordinamento dei quadri FIAT a metà ottobre 1980 – la cosiddetta marcia dei quarantamila ‒ che sfilò in appoggio all’azienda. Il sindacato fu indotto a chiudere prontamente la vertenza, accettando la cassa integrazione per 23.000 operai.
L’autunno ‘freddo’ del 1980, a undici anni di distanza da quello caldo del 1969, segnò il regresso delle agitazioni in tutto il Paese. La lotta operaia, infatti, era stata sconfitta in quella realtà che era considerata, dalle componenti più radicali, la punta di diamante del movimento, un laboratorio di esperienze d’avanguardia destinate a essere riproposte altrove, in tono minore. L’equiparazione della FIAT a un laboratorio era frutto di un abbaglio: le esperienze torinesi non potevano costituire un modello trasferibile, data l’eccezionalità stessa delle dimensioni della casa automobilistica torinese nel panorama industriale italiano. Tuttavia, gli avvenimenti che riguardavano la FIAT assumevano una notevole importanza per attenzione mediatica e valore simbolico.
Il sindacato, vittima di una sorta di sindrome della sconfitta, avviò una revisione critica, mentre il movimento di contestazione e i gruppi di ultrasinistra che avevano radici nel Sessantotto studentesco entrarono in un irreversibile riflusso. Al ciclo discendente della mobilitazione operaia contribuì anche la crisi economica, che vide i primi cenni di ripresa solo nel 1984. L’ingresso della lira nel sistema monetario europeo, pur nella cosiddetta banda larga, mise fine alle svalutazioni competitive e impose alti tassi di sconto, così che l’inflazione scese, ma a spese del dinamismo economico. Al calo dell’inflazione contribuì anche il raffreddamento della scala mobile, imposto nel 1984 dal governo, in mancanza di un accordo tra le parti sociali e all’interno stesso del sindacato: mentre la CISL, la UIL e la componente socialista della CGIL approvarono il decreto governativo, la maggioranza comunista della CGIL si oppose, aderendo al referendum abrogativo del decreto sulla scala mobile voluto dal Partito comunista che, tenuto nel 1985, si tramutò in una pesante sconfitta dei promotori. Su questo scoglio naufragò l’unità sindacale.
Negli anni Ottanta le imprese avviarono processi di ristrutturazione finalizzati alla riduzione degli organici, attraverso l’introduzione di tecnologie informatiche e robotiche e un maggior ricorso al decentramento produttivo e alla subfornitura. Ne derivò un forte ridimensionamento dell’occupazione nella grande industria, destinato a protrarsi nel tempo. La contrattazione aziendale, fino alla metà del decennio, divenne ‘gestionale’ e ‘oblativa’: ebbe come oggetto prevalente l’eccedenza degli organici e, in situazioni di crisi, non fu più occasione di miglioramenti ma di modificazioni peggiorative. La posizione del sindacato nei confronti dei lavoratori si faceva difficile, anche quando riusciva a strappare minori tagli occupazionali e il miglior impiego degli ammortizzatori sociali. Con la ripresa, nella seconda metà degli anni Ottanta tornò la contrattazione salariale, che peraltro, nelle imprese non interessate dalla crisi dell’auto, non era venuta meno a lungo: per es., nel Milanese, gli anni Ottanta non mostrarono tratti di discontinuità in confronto agli anni Settanta così marcati come nel Torinese. La contrattazione aziendale si incentrò su premi collegati all’andamento dell’impresa e si ampliò al di là dei problemi di eccedenza di personale, orientandosi a problematiche di sviluppo, riconversione e miglior impiego della forza lavoro, anche in relazione all’introduzione delle nuove tecnologie. Si ebbero accordi di carattere innovativo, per un utilizzo più flessibile degli impianti, con riguardo ai turni e alla gestione degli straordinari.
Alla fine del decennio, l’affermarsi dei modelli organizzativi postfordisti di origine giapponese, mutuati in Italia dalla versione americana della lean production, implicava il coinvolgimento dei lavoratori nella ricerca della qualità totale e del miglioramento continuo. Vari accordi di partecipazione videro la costituzione di commissioni paritetiche, in tema di ambiente e sicurezza, servizi sociali aziendali, scaglionamento delle ferie, contratti part-time e a termine, premi di miglioramento della qualità, ricaduta delle innovazioni sui lavoratori, formazione professionale. Sul nuovo corso della contrattazione influì il sistema delle Partecipazioni statali, che anticipò la tendenza con un protocollo IRI di regolazione delle relazioni sindacali voluto da Romano Prodi nel 1984.
Pur non mancando le resistenze, forti in particolare nella FIOM-CGIL, un clima diverso si stava affermando. Nel corso della nuova, pesante crisi del 1992-94 si ebbe una prima intesa tra governo e parti sociali nel luglio 1992, che mise tra l’altro definitivamente fine alla scala mobile, seguita dal protocollo d’intesa tripartito siglato nel luglio 1993, che varò una riforma del sistema contrattuale, avviando la politica dei redditi (Cella, Treu 2009). La moderazione salariale che ne derivò diede un notevole contributo al raggiungimento dei parametri previsti dall’accordo di Maastricht e all’ingresso dell’Italia nell’euro. Si trattò di una svolta epocale nella storia delle relazioni industriali italiane, caratterizzate in precedenza dal prevalere dei rapporti di forza e dall’assenza di regole. Nel nuovo clima concertativo, sostenuto dai governi di centrosinistra e confermato dal Patto per il lavoro del 1996 e dal Patto di Natale del 1998, furono varate riforme tese a flessibilizzare il mercato del lavoro: in particolare l’abolizione della chiamata numerica nel 1991 e la fine del monopolio pubblico del collocamento nel 1997 con l’introduzione del lavoro interinale e di altre tipologie di lavoro atipico. Le riforme degli anni Novanta prevedevano una sorta di gestione contrattata della flessibilità, che riservava un ruolo di controllo alle organizzazioni sindacali, alle quali il sistematico confronto tripartito conferì anche un accreditamento nei confronti dei poteri pubblici, che le ha portate a gestire servizi quali i patronati e i centri di assistenza fiscale. Si aprivano nuove occasioni di protagonismo sindacale gestionale, che sostituiva il protagonismo conflittuale degli anni Settanta, per il quale erano venute meno le grandi concentrazioni operaie relativamente omogenee dell’epoca.
Sul finire del decennio Novanta partecipazione e concertazione entrarono in crisi. Le imprese non erano disponibili a cedere poteri sostanziali agli istituti partecipativi; inoltre, erano riluttanti a cercare il consenso dei lavoratori in una dimensione collettiva che intaccava le tradizionali strategie di attrazione individualistica e i canali di comunicazione tra impresa e lavoratori basati sulla gerarchia intermedia: in altri termini, la partecipazione poneva un difficile problema di equilibrio tra capi e rappresentanti sindacali, e più in generale tra funzione aziendale e ruolo sindacale. Le organizzazioni sindacali, dal canto loro, temevano di dover accettare di circoscrivere la loro azione all’interno di un quadro di regole concordate, in assenza di disponibilità delle imprese a dare profondità alla partecipazione estendendola oltre il momento puramente consultivo; per di più, lo sviluppo del sistema partecipativo comportava l’assunzione delle compatibilità dell’impresa come orizzonte entro cui collocare le spinte rivendicative, una limitazione dura da accettare in una fase che vedeva, ormai da anni, una crescita della diseguaglianza nella distribuzione del reddito a scapito del lavoro dipendente.
L’avvento del governo di centrodestra in seguito alle elezioni del 2001 mise la sordina alla concertazione, accusata di aver attribuito una sorta di potere di veto alle rappresentanze. Da allora la concertazione ha avuto un andamento altalenante, in corrispondenza dell’alternanza delle forze al governo, e anche la Confindustria ha visto notevoli oscillazioni, tra il rifiuto, in consonanza con il governo Berlusconi, durante la presidenza D’Amato che aveva scalzato per la prima volta il predominio della grande industria sull’organizzazione, e un certo recupero durante il breve governo di centrosinistra guidato da Prodi tra il 2006 e il 2007, sotto la presidenza Montezemolo, che ha rappresentato il recupero di controllo su Confindustria da parte delle tradizionali élites del Nord-Ovest.
Tuttavia, nonostante la crisi della concertazione sia stata più accentuata a livello nazionale rispetto ai tavoli di confronto sullo sviluppo locale, la stagione della concertazione è sostanzialmente finita, anche a causa della crescente divisione tra le organizzazioni sindacali, esplosa intorno al problema della flessibilità del mercato del lavoro e del peso del contratto nazionale. In particolare, il conflitto si è incentrato sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevedeva il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa, mentre nella maggior parte dei Paesi occidentali il licenziamento può essere confermato attraverso l’indennizzo economico. Da difendere per alcuni in quanto baluardo dei diritti dei lavoratori, per altri da cancellare perché causa di una rigidità in uscita dal rapporto di lavoro incoerente con la flessibilità in entrata per i nuovi assunti (e quindi foriero di un dualismo sul mercato del lavoro tra lavoratori garantiti a tempo indeterminato e lavoratori precari), l’articolo 18 è stato caricato di valori simbolici. A strenua difesa si è schierata la CGIL, che ha prodotto un grande sforzo di mobilitazione politica, dopo il suo rifiuto di aderire al Patto per l’Italia, sottoscritto invece dalle altre confederazioni con il governo Berlusconi nel luglio 2002. La CGIL si è opposta nettamente anche alla l. 14 febbr. 2003 nr. 30, accusata di aver moltiplicato i soggetti abilitati a operare la mediazione del lavoro e le forme contrattuali atipiche; la legge 30, peraltro, presenta aspetti controversi, quali l’avvicinamento normativo dei lavoratori precari a progetto al lavoro subordinato e l’inclusione degli enti bilaterali tra gli organismi che possono esercitare il collocamento della manodopera nonché la gestione di fondi mutualistici per la formazione professionale e l’integrazione del reddito.
Le polemiche tra le organizzazioni sindacali si sono inasprite di fronte alla crisi scoppiata nel 2008. La crisi, infatti, ha indotto le imprese a chiedere la possibilità di derogare a livello aziendale alle norme previste dal contratto nazionale, con l’obiettivo di modellare i contratti sulle esigenze aziendali. Ne è seguito un accordo interconfederale sulle possibilità di deroga aziendale al contratto nazionale firmato nel gennaio 2009 da CISL e UIL ma rifiutato dalla CGIL. Questo primo episodio è stato seguito da altri accordi separati: nel 2009 con il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici, non firmato dalla FIOM, e con gli accordi separati per gli stabilimenti FIAT di Pomigliano e Mirafiori del 2010. Questi accordi, non firmati dalla FIOM, hanno consentito alla FIAT di escludere la federazione metalmeccanica della CGIL dalla rappresentanza aziendale, in quanto a fine 2010 la FIOM si è trovata a non essere firmataria né di un contratto nazionale né di un contratto aziendale in vigore alla FIAT.
L’esclusione della FIOM ha spinto la CGIL, già propensa a rompere piuttosto con Confindustria e con CISL e UIL che non con la sua maggiore categoria, a schierarsi apertamente contro la FIAT e contro l’accordo separato, con il risultato di riportare al calor bianco le tensioni tra i sindacati. Si è così verificato un arroccamento identitario di CISL e UIL da un lato e CGIL dall’altro, nel quale sono riemerse con forza le differenziazioni delle culture sindacali forgiate negli anni Cinquanta. La CGIL, sindacato di classe, insiste sul ricorso generalizzato al referendum per piattaforme e accordi, privilegia le rappresentanze aziendali elette da tutti i lavoratori (RSU, previste dal protocollo tripartito del 1993) rispetto a quelle di nomina sindacale (RSA, previste dallo Statuto dei lavoratori), difende il ruolo del contratto nazionale, invoca interventi legislativi regolativi e protettivi, assume atteggiamenti di contrapposizione ai governi di destra. La CISL, in consonanza con il pragmatismo della UIL, si rifà alla tradizione di sindacato degli iscritti, propende per l’assunzione di responsabilità decisionale sugli accordi da parte del sindacato, è favorevole alla possibilità di deroghe aziendali agli accordi nazionali, privilegia il contratto rispetto alla legge, tende a sfruttare ogni apertura di campo contrattuale, indipendentemente dal colore del governo in carica. In questa situazione, si palesa il rischio di caos nelle relazioni industriali.
Sul piano giuridico, l’assenza di norme sulla rappresentanza e la validità dei contratti pone seri problemi di applicabilità degli accordi separati ai non iscritti alle organizzazioni contraenti. In passato anche gli accordi separati, essendo comunque migliorativi, venivano applicati a tutti i dipendenti senza eccessive polemiche. Ma ora, in presenza di deroghe peggiorative di alcuni trattamenti, l’applicazione di contratti aziendali separati si presenta problematica, e le occasioni di conflittualità, anche giuridica, si moltiplicano, come dimostra la clamorosa decisione della FIAT di Sergio Marchionne, presa nell’autunno 2011, di uscire dalla Confindustria per svincolarsi dal contratto nazionale.
Sin dall’accordo separato del 2009 si sono levate da più parti voci peroranti la ricerca di una soluzione al duplice problema della misura della rappresentatività delle organizzazioni e dell’estensione di validità dei contratti. Si è auspicata una soluzione basata sull’adattamento al settore privato dei criteri di rappresentatività per il pubblico impiego statuiti nel 2008, pena il permanere di relazioni industriali caotiche. Questi appelli sono stati raccolti dall’accordo interconfederale, nuovamente unitario, del giugno 2011, che prevede la misura della rappresentatività attraverso la media ponderata tra numero di iscritti e consenso elettorale, la possibilità di derogare nelle singole imprese al contratto nazionale su materie stabilite dal contratto nazionale stesso, e l’estensione di validità dell’accordo aziendale qualora approvato dalla maggioranza delle RSU o da referendum tra i lavoratori se approvato dalla maggioranza delle RSA. L’accordo, favorito dagli sforzi di ricucitura con la CGIL della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, è stato salutato con soddisfazione dalla maggior parte degli osservatori, ma su di esso si sono presto addensate ombre, per la netta opposizione tanto della FIOM quanto della FIAT, e per la mancata adesione delle altre organizzazioni datoriali, che ha lasciato Confindustria isolata.
L’avvento del governo guidato da Mario Monti a fine 2011 ha affrontato la crisi del debito italiano con una politica di sacrifici che i sindacati hanno in parte accettato, data la situazione di emergenza, compresa la soluzione di compromesso sulla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con la l. 28 giugno 2012 nr. 92, ottenuta con una mediazione parlamentare che ha tenuto conto delle posizioni sindacali, tanto che la CGIL non ha aderito al referendum abrogativo della riforma indetto dalla sinistra radicale e dalla FIOM. Tuttavia, il dissenso nei confronti delle prassi concertative più volte espresso da Monti e la politica di rigore non accompagnata, nel giudizio della CGIL, da equità e crescita, ha innescato polemiche tra CGIL e governo, schierato a favore del blocco degli aumenti salariali nazionali connessi all’inflazione e per aumenti solamente aziendali legati alla produttività. Così il patto del giugno 2011, che avrebbe dovuto rappresentare il cardine dell’accordo quadro sulla produttività e che, nelle aspettative della CGIL, avrebbe dovuto fornire le basi per il rientro della FIOM al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, è rimasto inoperante, e l’accordo sulla produttività tra parti sociali e governo è stato firmato nell’autunno 2012 senza la CGIL. Le culture sindacali, comprese quelle datoriali, radicate in una tradizione conflittuale, sembrano non riuscire a trovare la strada della regolazione concordata, tanto che, sotto l’incalzare della gravissima crisi internazionale che scuote i mercati finanziari, gonfia il debito pubblico e incide pesantemente sull’economia reale, non pochi osservatori sono inclini a prevedere un drastico ridimensionamento del peso delle organizzazioni confederali di entrambe le parti. Tuttavia, nel maggio 2013 un ulteriore accordo tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL ha fissato le regole per l’applicazione del precedente accordo del giugno 2011, lasciando intravedere la possibilità di nuove regole concordate per le relazioni industriali, assieme a una inedita alleanza tra Confindustria e sindacati per rivendicare congiuntamente l’alleggerimento della tassazione su lavoro e imprese.
Le difficoltà delle organizzazioni dei lavoratori affondano le radici nei processi di terziarizzazione dell’occupazione che si sono avviati in Italia sul finire degli anni Settanta. Lo sviluppo economico aveva prodotto nel dopoguerra gruppi di proletariato industriale che da minoritari, in un mondo del lavoro a lungo dominato dall’agricoltura, erano diventati numericamente consistenti e concentrati nelle aree urbane grazie al completamento dell’industrializzazione. Concentrata nei grandi stabilimenti e dotata di notevole forza contrattuale, la classe operaia aveva conquistato una centralità sociale e politica destinata però a esaurirsi rapidamente. Quella che si potrebbe chiamare l’età matura della classe operaia italiana, infatti, giunse a compimento tardi, quando il modello di produzione fordista che l’aveva alimentata era ormai sulla soglia della crisi. Di pari passo con il rapido mutamento sociale successivo si sono allentati i legami organizzativi e le appartenenze culturali e politiche cementate dalla grande industria.
L’occupazione nella grande impresa diminuì drasticamente: tra il 1980 e il 1989 il numero dei dipendenti delle imprese con più di 500 addetti si ridusse del 30%. Da allora il processo di dimagrimento dei grandi impianti è proseguito. Negli ultimi quindici anni è cresciuta sensibilmente la quota occupazionale delle imprese fino a 49 dipendenti, è restata sostanzialmente stabile quella delle imprese tra 40 e 499 dipendenti, mentre si è ridotto notevolmente il peso delle imprese con 500 e più dipendenti, dal 25% al 13% del totale. Benché l’Italia mantenga una consistente struttura manifatturiera che la colloca al secondo posto in Europa a ridosso della Germania, l’industria italiana è caratterizzata, nel confronto internazionale, dal peso assai elevato della piccola impresa.
Queste linee di trasformazione hanno investito in particolare il Nord-Ovest, caratterizzato al contempo dal mantenimento di quote rilevanti di manifattura e dalla caduta della grande impresa. Ne è risultato indebolito il ruolo delle tradizionali grandi famiglie nell’associazionismo imprenditoriale, oggi caratterizzato dall’aumento del peso della media e anche piccola impresa, nonché delle società ex pubbliche, nate dalla fine dell’IRI e dalla privatizzazione delle Partecipazioni statali alla metà degli anni Novanta. Le piccole e medie imprese hanno preso slancio anche nel Nord-Ovest, tanto da diminuire notevolmente le differenze con il Nord-Est e l’asse emiliano-romagnolo, in direzione della formazione di una megalopoli padana dai confini interni labili (Berta 2008), caratterizzata dall’emersione, a partire dagli anni Novanta, dell’importanza delle medie imprese, parte delle quali caratterizzabili come ‘multinazionali tascabili’, fino a delineare la formazione storica di un quarto capitalismo, dopo il primo della grande impresa del Nord-Ovest, il secondo dell’industria di Stato, il terzo dell’Italia dei distretti (Colli 2002).
È emerso con forza il ruolo delle medie imprese capaci di penetrare nei mercati internazionali con prodotti differenziati e di nicchia, che aggirano la concorrenza delle grandi multinazionali e dei Paesi a basso costo del lavoro; prodotti che sono fabbricati in processi di filiera attraverso l’affidamento a imprese minori di fasi di lavorazione, e che sono valorizzati da dinamiche innovative nella qualità del design, dei materiali, nei servizi al cliente e nella comunicazione di marchio. La culla della media impresa dinamica è tuttavia la Lombardia, mentre in Piemonte e Liguria restano vivi, pur stemperati in direzione della nuova tendenza, i segni lasciati dai tradizionali assetti della grande impresa privata e pubblica.
Le trasformazioni delle dimensioni d’impresa hanno determinato non solo il cambiamento della base associativa della Confindustria, ma anche accresciuto il peso delle organizzazioni della piccola impresa e dell’artigianato. L’attuazione dell’ordinamento regionale negli anni Settanta e le successive attribuzioni di competenze alle regioni hanno moltiplicato le occasioni per l’avvio di tavoli di concertazione locale, anche e soprattutto in relazione all’utilizzazione dei fondi europei, in particolare il Fondo sociale europeo e il Fondo europeo per lo sviluppo regionale: le regole per la gestione di questi fondi richiedevano infatti il dialogo e l’apporto di tutte le forze sociali. Questi sviluppi hanno sedimentato abitudini e attitudini al confronto sistematico a livello locale che non sono state senza influenza sull’avvio a livello nazionale della politica dei redditi nel 1993.
Le regioni hanno acquisito peso negli stessi anni in cui entrava in crisi il modello fordista, cresceva il peso della piccola e piccolissima impresa, andavano affrontati i processi di deindustrializzazione. Il Nord-Ovest, particolarmente investito dalle ristrutturazioni e dalla necessità di sostenere le riconversioni, ha visto, specialmente in Piemonte e Liguria, svilupparsi una concertazione locale più robusta di quella lombarda oltre che di quella nazionale, anche in ragione di coalizioni di governo regionale più inclini a dare sostanza al dialogo sociale. In Lombardia, la lunga affermazione dell’amministrazione di centrodestra ha improntato la sua politica sociale al principio di assegnare agli individui risorse da spendere liberamente sul mercato della formazione professionale e dei servizi per l’impiego, determinando un sistema della formazione e del sostegno all’inserimento al lavoro meno gestito e coordinato di quanto non lo sia stato in Piemonte e Liguria, dove la concertazione è stata perseguita con maggior costanza, nonostante i cambi di colore delle amministrazioni regionali. Sembrano qui ripresentarsi diversità di accenti già emerse qua e là nella storia: due circostanze in particolare si possono ricordare. Nella crisi del tentativo di compromesso corporatista del primo dopoguerra che aprì la strada alla conflittualità del biennio rosso, gli industriali piemontesi aderenti all’Associazione metallurgici, meccanici e affini (AMMA) – l’associazione dei metalmeccanici fondata (1919) e guidata da Giovanni Agnelli ‒ mossero critiche nei confronti dei cugini lombardi: mentre in Piemonte l’accordo di livello regionale al quale il concordato delle otto ore demandava la ridefinizione delle paghe fu firmato rapidamente e senza scioperi, in Lombardia le resistenze degli imprenditori avevano tirato in lungo le trattative e scatenato scioperi che si erano sommanti ai moti del caroviveri, senza peraltro riuscire a strappare condizioni salariali meno onerose.
Nel secondo dopoguerra, il blocco di potere incentrato sul settore elettrico tenne saldamente in mano Assolombarda, che a sua volta dominò a lungo la Confindustria, spingendola sulle posizioni conservatrici oggetto delle critiche della FIAT di cui si è detto. La commissione guidata da Leopoldo Pirelli (1925-2007), che avrebbe ridisegnato le posizioni confindustriali alla fine degli anni Sessanta, fu animata da un gruppo di giovani imprenditori in prevalenza torinesi e sostenuti dall’avvocato Giovanni Agnelli, nipote del fondatore della FIAT. Sembra di poter ipotizzare che una realtà caratterizzata dal predominio della grande impresa e dominata dall’organizzazione (Bagnasco 1986) abbia sviluppato maggiori tendenze al coordinamento centrale e, nonostante l’acutezza dei conflitti, favorito l’emergere della sistematicità del confronto.
Seppur in grado diverso, la partecipazione delle parti alla definizione delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale da parte delle amministrazioni si è esercitata intorno all’utilizzo degli ammortizzatori sociali, alla formazione professionale, al sostegno agli insediamenti produttivi, ai poli tecnologici, ai centri di ricerca e alle aziende innovative, all’informatizzazione e all’internazionalizzazione delle imprese.
Non sono mancate le differenze di accento tra imprenditori e sindacati, con i primi interessati a programmi di sostegno alle imprese, i secondi inclini a privilegiare l’occupazione e le misure di coesione sociale. Tuttavia, la cooperazione delle parti intorno allo sviluppo locale ha creato un’abitudine al dialogo intorno a obiettivi almeno in parte comuni, che si è riflessa positivamente sul recente sviluppo di enti bilaterali per politiche della formazione, del collocamento e di welfare integrativo a quello pubblico, per es. a sostegno dell’occupazione per le imprese artigiane escluse dalla cassa integrazione. Anche in relazione al bilateralismo si sono fatte sentire le tradizionali differenziazioni tra le culture sindacali, con CISL e UIL decisamente favorevoli, mentre la CGIL ne ha criticato l’assenza di universalismo, data l’origine contrattuale degli enti e la conseguente differenziazione delle prestazioni per categoria. Tuttavia, a fronte delle difficoltà dei bilanci pubblici e dell’evoluzione degli istituti bilaterali, anche la CGIL ha finito per compiere una scelta pragmatica di collaborazione. Si tratta in fondo dell’estensione ad altre categorie di strumenti che richiamano le casse edili diffusesi sin dagli anni Sessanta, che hanno dato buona prova nella gestione paritetica dei problemi legati all’instabilità occupazionale. Del resto, la carenza di universalismo può essere compensata dalla maggiore adattabilità a esigenze specifiche dei settori e la sperimentazione di buone pratiche suggerire utili adattamenti ad altre realtà.
Dialogo sociale e concertazione locale possono giocare un ruolo dirimente nell’alternativa che sembra profilarsi tra il declino dell’industria (Gallino 2003) e la sua metamorfosi (Berta 2004) in direzione dell’affermazione del modello ‒ già ampiamente caratteristico della Lombardia ma in estensione verso il Piemonte – della media impresa capace di internazionalizzarsi. Il declino, che si profila minaccioso con i venti di crisi, è da scongiurare con sforzi congiunti, in quanto solo la manifattura consente oggi all’economia del Nord-Ovest di intrattenere rapporti con il mondo, non essendo i servizi sufficientemente attrezzati per imporsi sui mercati internazionali.
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