Lavoro: conflitto generazionale
Nel 2012 la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 35%. Le riforme degli ultimi 15 anni si sono concentrate sui meccanismi di entrata, mentre i contratti della generazione più anziana sono rimasti invariati.
Le innovazioni e i limiti della riforma Fornero.
L’Italia non progredisce ormai da 15 anni.
Da un recente studio sulla crescita del Fondo monetario internazionale emerge che soltanto tre paesi su 185 sono cresciuti meno dell’Italia negli ultimi dieci anni. È di certo vero che l’Italia rimane ancora una nazione relativamente ricca, con un rapporto tra patrimonio netto e reddito delle famiglie tra i più alti al mondo. Questa ricchezza, però, è concentrata nelle mani del 10% delle famiglie e in particolare è detenuta dalle generazioni più anziane. In un contesto economico di questo tipo, è molto difficile offrire una speranza alle giovani generazioni, anche perché il sistema sociale italiano, il mercato del lavoro e il sistema formativo sono poco attenti alle loro esigenze. Queste contraddizioni riflettono un conflitto intergenerazionale che la grande recessione ha reso ancora più gravoso e che è necessario attenuare.
Nel 2008, la disoccupazione giovanile italiana era di poco inferiore al 20%, un dato certamente non soddisfacente, ma comunque in riduzione per quasi più di un decennio. Quattro anni più tardi, il tasso di disoccupazione giovanile – calcolato tra i 15 e i 25 anni – è purtroppo quasi raddoppiato e nell’estate del 2012 è arrivato intorno al 35%. Molti commentatori sostengono che il dato sulla disoccupazione giovanile è fuorviante e mal calcolato. Può anche essere vero, ma è misurato nello stesso modo in cui era registrato nel 2008, eppure appare molto più alto. Come se la grande crisi avesse concentrato sui più giovani gran parte della sua forza distruttrice. Per capire come ciò sia potuto accadere, occorre ragionare sui meccanismi del mercato del lavoro italiano e delle sue istituzioni. Dietro la dinamica della disoccupazione giovanile vi è il processo di riforma del mercato del lavoro degli ultimi 15 anni. Dal punto di vista generazionale, è stato un processo di riforma totalmente asimmetrico, poiché basato su una liberalizzazione graduale e crescente dei contratti di lavoro a termine, destinati ai lavoratori che entrano nel mercato del lavoro: giovani e – in misura minore – donne di mezza età.
Al tempo stesso, i contratti di lavoro a tempo indeterminato, quelli occupati dalla generazione dei ‘padri’, sono rimasti sostanzialmente invariati. Si è scelto di concentrare tutto il processo riformatore sui meccanismi di entrata nel mercato. La legge Treu del 1997, la riforma del contratto a termine del 2001 e la legge Biagi del 2003 sono i passaggi legislativi fondamentali di questo processo. Peraltro, il processo di riforma appariva davvero funzionare. Tra il 2000 e il 2008 sono stati creati diversi milioni di nuovi posti di lavoro per i più giovani: sembrava davvero un buon meccanismo sociale. La generazione dei padri era sostanzialmente immune da questo processo e manteneva inalterati i propri diritti e aspettative, mentre i figli avevano apparentemente la possibilità di entrare nel mercato del lavoro, ancorché con un sistema più flessibile e in varia misura precario.
I salari crescevano poco, come anche l’economia. Non emergeva però il conflitto intergenerazionale insito in queste riforme. Oltre che a essere tutelati sul posto di lavoro, i padri erano anche protetti con le pensioni e con il sistema previdenziale.
Dopo la riforma Dini del 1995 – destinata a entrare pienamente a regime soltanto 30 anni dopo – un tentativo di alzare bruscamente l’età di pensionamento era stato fatto da Roberto Maroni nel 2004 attraverso l’introduzione del cosiddetto scalone, che prevedeva un innalzamento di quasi tre anni dell’età di pensionamento, ma a partire dal 2008.
Lo scalone non entrò mai in vigore, poiché cancellato e ammorbidito dal governo Prodi nel 2007.
In sostanza le pensioni di anzianità – e con esse la possibilità di andare in pensione prima dei 60 anni di età – sono rimaste in vigore fino al 2012. La doppia recessione – quella in corso nel 2012 dopo quella del 2009 – e la crisi dei debiti sovrani hanno creato uno squilibrio in questo meccanismo.
Gli interventi legislativi di fine 2011 e inizio 2012 sembrano indicare un’inversione di tendenza, non tanto a favore dei giovani – che purtroppo non sono stati al centro dell’azione riformatrice del governo Monti – quanto piuttosto nel tentativo di toccare alcuni meccanismi sacri del quadro sociale della generazione dei padri.
La riforma delle pensioni del dicembre 2011 è forse l’esempio più significativo. In piena crisi finanziaria e a poche settimane dall’insediamento del governo Monti, si è deciso di accelerare bruscamente i meccanismi previsti dalla riforma Dini. Con il passaggio al sistema contributivo pro quota a partire dal 2012, la riforma Fornero ha pressoché eliminato le pensioni di anzianità e molti lavoratori della generazione dei ‘padri’ sono destinati a rimanere sul lavoro cinque o sei anni di più di quanto avevano programmato. La riforma Fornero ha però commesso un grave errore: nel processo riformatore sono stati dimenticati i cosiddetti esodati, quei lavoratori che in base ad accordi aziendali erano stati messi in mobilità ed erano destinati ad andare in pensione anticipatamente nel 2012 e 2013. Con l’introduzione della riforma Fornero questi lavoratori – le cui stime sono ampiamente imprecise ma riguardano una platea di circa 200.000 persone – sono destinati a rimanere senza pensioni, senza lavoro e senza ammortizzatori sociali. Se a questi esodati si aggiungono i cosiddetti esodandi, quei lavoratori che avrebbero dovuto lasciare il posto di lavoro in base ad accordi aziendali tra il 2013 e il 2014, assistiamo a un vero e proprio dramma sociale per la generazione degli ultracinquantenni. La riforma del mercato del lavoro del 2012 è invece un’opportunità mancata. È una riforma che apparentemente riguarda tutto il mercato del lavoro, ma che in realtà ha cambiato poco. Per compiacere mercati e fantomatici investitori esteri, si è deciso di mutare alcuni meccanismi di protezione dell’impiego per l’intera platea dei lavoratori.
Queste riforme – il cui esito sarà da monitorare e dagli effetti del tutto incerti – hanno finito per accrescere l’ansia tra i lavoratori più anziani, senza peraltro migliorare le aspettative dei più giovani. Mentre tali riforme vengono approvate, la condizione dei più giovani non pare migliorare. Oltre alla disoccupazione, in Italia sta emergendo in modo significativo un’altra categoria di esclusi: i NEET, giovani fuori dal sistema educativo e dal mondo del lavoro. Tra i paesi dell’OCSE, l’Italia conta quasi il 20% di NEET, un livello inferiore soltanto a quello del Messico. In attesa della crescita, che non arriverà prima del 2013, occorre ora provare a dare una speranza ai giovani e tranquillizzare i meno giovani. Le riforme più significative per i giovani dovrebbero essere due. Offrire un canale di ingresso nel mercato del lavoro di lungo periodo, attraverso un contratto a tempo indeterminato e con tutele crescenti nel tempo.
Contemporaneamente, occorre riformare profondamente l’apprendistato, mettendo in essere una compagine a tre parti tra lavoratori, imprese e università.
Il nostro apprendistato sembra porre al centro del sistema il sindacato, dimenticando invece le università. Queste due riforme proteggerebbero i giovani, mentre risolvere davvero il problema di esodati ed esodandi darebbe un po’ di tranquillità alle generazioni più anziane. Con questi aggiustamenti il conflitto generazionale non sarà eliminato, ma in attesa della crescita sarebbe certamente ridimensionato.
Gli introvabili
Le imprese lamentano la difficoltà di reperire manodopera qualificata che ricopra i posti vacanti. Le richieste non riguardano solo il lavoro ‘artigianale’ o manuale (idraulici, elettricisti, panettieri, sarti, falegnami), dal quale spesso si rifugge vuoi per mancanza di preparazione vuoi perché ritenuto un ‘accontentarsi’, ma soprattutto il settore ‘tecnico’ (ingegneri, amministrativi, infermieri, addetti alla robotica) che dovrebbe essere maggiormente ambito perché giudicato qualificante. La crisi economica che ha colpito tutto il mondo forse spingerà i più giovani verso una preparazione più attenta.
La riforma Fornero
■ Flessibilità in uscita: con la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sono stati introdotti limiti alla reintegrazione (prima automatica) nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per motivi economici, estendendo il ricorso all’indennizzo.
■ Flessibilità in entrata: una serie di norme tende a limitare il ricorso a forme contrattuali come il contratto di inserimento, di associazione in partecipazione, di lavoro intermittente, di lavoro a progetto; restrizioni sono state introdotte anche per le prestazioni a partita IVA (quando la durata della collaborazione superi gli 8 mesi in un anno e rappresenti l’80% del ricavo complessivo del lavoratore), per l’impiego dell’apprendistato e dei tirocini formativi in sostituzione del lavoro dipendente (impossibilità di superare il rapporto di 1 a 1 tra apprendisti e professionisti nelle aziende con meno di dieci dipendenti; obbligo di stabilizzare almeno il 50% degli apprendisti già dipendenti prima di assumerne di nuovi nel caso di aziende che occupano più di dieci persone).
■ Ammortizzatori sociali: è stata introdotta (dal 2013) l’Assicurazione sociale per l’impiego (ASPI), che dal 2017 sostituirà l’indennità di mobilità e di disoccupazione e interesserà una platea più ampia dei soli lavoratori dipendenti (potranno usufruirne anche apprendisti, artisti e dipendenti a termine della pubblica amministrazione), mentre per i collaboratori a progetto in regime di monocommittenza è prevista, in determinati casi, l’erogazione di un sussidio una tantum.