LAVORI FORZATI
. A differenza delle legislazioni criminali progredite, in cui il lavoro è concepito come complemento della funzione socialmente rieducatrice che la pena si propone, presso i popoli antichi, e anche in certe legislazioni dell'età moderna, il lavoro è imposto come una forma di costrizione della libertà del condannato; quindi con funzione afflittiva.
La specie dei lavori imposti, le regioni quasi sempre di clima malsano (il lavoro forzato spesso si accomuna alla deportazione) dove i lavori si debbono eseguire, l'asprezza della disciplina di vita, tutto concorre a favore del concetto di una pena eminentemente afflittiva. Le fisiche coercizioni che colpiscono i meno docili completano il quadro del carattere forzoso ed espiativo di tali prestazioni personali: non molti e non a lungo (quando pure la pena è temporanea) sopravvivono ai tormenti di una vita così organizzata, sì che spesso la commutazione della pena capitale nella pena perpetua dei lavori forzati rappresenta un beneficio che finisce con l'essere tale soltanto nelle apparenze.
Tra i popoli antichi, è certo che i Romani conobbero questa categoria di sanzioni punitive; si chiamarono servi poenae coloro che, per gravi pubblici delitti, erano condannati ai lavori forzati nelle miniere o all'esercizio dell'arte gladiatoria nei sanguinosi combattimenti con le fiere: il che comportava, in coerenza con le idee romane, tutte quelle conseguenze minoratrici della capacità giuridica che si raggruppano nel concetto di capitis deminutio. Ciò che caratterizza, infatti, dal punto di vista dei principî giuridici, il lavoro concepito quale pena del delinquente è l'annullamento, in forza di esso e per effetto di esso, della libera personalità umana. Per il diritto romano, poiché pare certo che il nexum rappresenti una forma primitiva di obbligazione e più precisamente una forma di autopignorazione verso la persona del creditore, può dirsi che anche i nexi versassero nella condizione di coattive prestazioni di lavoro, conseguenza dell'obbligazione. Ma in questa e nelle altre condizioni servili o semiservili analoghe, il pubblico carattere insito nella natura afflittiva della pena è meno chiaro, perché siamo nel territorio del diritto privato.
Tra le legislazioni dei popoli moderni, una di quelle dove i lavori forzati trovarono presto larga applicazione e favore, anche di dottrina, è la legislazione francese. Nel codice 3 brumaio dell'anno IV la categoria compare e nel codice del 1810 si ammettono anche i lavori forzati a vita. I lavori si espiano per lo più in terre d'oltremare, in stabilimenti appositi (i cosiddetti bagni penali); il lavoro è a favore dello stato e il condannato lo compie incatenato con vincolo di palla al piede.
Nel diritto italiano, dal 1866 in poi, l'istituto è soppresso. Nel codice penale del 1889 e nel codice del 1930, ora vigente, il lavoro, in conformità alle idee largamente applicate dal legislatore di curare il riadattamento sociale del reo in espiazione di pena, appare quale complemento della pena aflittiva e distinto nettamente da essa. È una rieducazione, un sollievo morale, e fornisce assai spesso il mezzo all'esistenza nel periodo di tempo successivo alla liberazione. Esso, con norme molteplici che attengono ai modi di esecuzione della pena, è regolato sotto tale profilo. Per lo più, è compiuto all'aperto, in comune e nelle ore diurne. L'isolamento e la segregazione (nei reati più gravi e nei periodi primi dell'espiazione) si prevedono per le ore notturne. In antitesi a questo moderno significato del lavoro compiuto nei penitenziarî, il lavoro forzato era una forma di condanna fine a sé stessa.
Bibl.: C. Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899; A. Pertile, Storia del diritto italiano, V, Torino 1892, p. 307 seg.; C. Saltelli e E. Romano Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, Roma 1930.