ZANON PALADINI, Laura
ZANON PALADINI, Laura. – Nacque a Venezia il 9 agosto 1845 da Giovanni e da Giovanna Bava.
La si può certo definire figlia d’arte in quanto il padre, veneziano benestante, fuggito dalla città lagunare per i moti politici del 1821, si era rifugiato in una compagnia comica dove conobbe la moglie quindicenne. Costei, attrice bresciana, era figlia a sua volta di Paolo, genovese, avvocato che, in seguito alla discesa di Napoleone in Italia e al saccheggio di Genova, era scappato con la famiglia di otto figlioli per mettersi a fare il suggeritore. Giovanni pretendeva che Laura parlasse toscano, seguendo i propri empiti nazionalisti e patriottici. Tornato nel 1848 a Venezia, con un accento ‘foresto’, a detta dei suoi concittadini, si impiegò nell’amministrazione all’ospedale civile.
Laura era l’ultima nata (dopo dodici anni) ed ebbe tre fratelli: Vincenzo, a lungo brillante con Giovan Battista Zoppetti e poi caratterista con Ernesto Rossi e Adelaide Ristori, che l’avviò all’arte; Leopoldo, suggeritore, e Teresa, deturpata da una gobba, che le reinsegnò il dialetto a lei all’inizio non gradito, in questo influenzata dal padre.
Esordì giovanissima con il fratello Vincenzo, e fu amorosa, in ditte secondarie, addestrandosi adolescente e con una paga giornaliera di tre franchi, con cui aiutare la madre da poco vedova, nella compagnia di Odoardo Miniati, abituato a portare in scena la maschera di Stenterello. Entrò quindi diciottenne nella Celeste Paladini-Michele Ferrante come prima attrice giovane, affrontando parti anche impegnative di tragica, per copioni in versi, e con buoni riscontri di pubblico davanti a creature da lei impersonate con indubbio impeto, da Giuditta a Medea e a Saffo. Fu scritturata altresì come amorosa, ma in tale ambito risultò poco convincente, dato il fisico sgraziato che rendeva poco credibili simili interpretazioni. Fu successivamente reclutata quale seconda donna e anche servetta da Angelo Moro Lin. In quest’ultimo genere fu un’autentica rivelazione nel 1871 in Maridemo la putela di Giovanni Zoppis, tradotta in veneziano dall’originale piemontese. Moro Lin la rivolle con caparbietà quando formò la celebre compagnia per due trienni, strappandola definitivamente ai ruoli melodrammatici in lingua.
Nel 1872 l’attrice sposò il brillante Francesco Paladini. Per un breve periodo lasciò la professione, che forse non amava, per impegnarsi con il consorte in un laboratorio fotografico, autentica passione del marito, a Padova, rivelatosi poi fallimentare per una malattia che lo colpì agli occhi. Rientrò pertanto nella ditta Gaetano Benini-Giuseppe Raspini dal 1880 al 1884, dove lavorò accanto ai fratelli Ferruccio e Itala Benini. Nel 1884 entrò in quella di Emilio Zago, e di Carlo Borisi, diretta dal celebre commediografo Giacinto Gallina, e vi rimase sino all’anno comico 1886-87 come seconda donna. Dal 1887 fece parte della formazione italo-veneta, sotto la direzione di Enrico Gallina, fratello del drammaturgo. Nel 1891 entrò nella compagnia goldoniana diretta sempre da Gallina e da Pier Giacinto Giozza, di nuovo assieme ai fratelli Benini. Con Ferruccio Benini restò sino alla morte del grande interprete nel 1916, valorizzando un repertorio vernacolo, sia veneto sia veneziano, in particolare contemporaneo, da Libero Pilotto a Riccardo Selvatico, da Ernesto Andrea De Biasio a Gallina. E soprattutto con i suoi registri esuberanti ed estroversi si amalgamò perfettamente con quelli smorzati e intimisti – tendenti al grigio drammatico e a una sobria cupezza – di Ferruccio. In questa ditta Laura si ritrovò come in famiglia, dato l’ambiente semplice e protettivo di quel nucleo, contornata da altre due donne, la dolce sorella di Ferruccio, Italia Benini Sambo, bruttina, ma grande madre patetica, e la moglie Amelia Dondini.
Nel 1917 passò con Armando Borisi e Carlo Micheluzzi, ma alla morte del marito, a fine anno, si ritirò definitivamente dalle scene.
Nonostante l’aspetto scolorito e poco avvenente fuori dal teatro, la statura piccola che la mimetizzava per strada, i tratti del volto sfuggenti e anonimi, i trasandati e folti capelli neri, sul palco Laura emanava uno strano magnetismo, per via di un’aria nervosa e inquieta che le attirava l’attenzione del pubblico distraendolo dai suoi partner, chiunque fosse al suo fianco, e anche se relegata in un angolo dello spazio scenico. Contribuivano alla sua presenza carismatica alla ribalta pure i cenni silenziosi, le pause immotivate e improvvise, le smorfie spiazzanti, le occhiate beffarde o incendiarie (e i suoi occhi erano capaci di infinite variazioni), i gesti minuti di insofferenza o di sarcasmo con cui sottolineava di solito le battute degli altri. Il fatto è che, minuscola e pepata, scivolava dentro la scena come un ‘sorcetto’ a fiutar pettegolezzi (Simoni, 1919, p. 189). Faceva ridere persino con i piagnistei pusillanimi e assillanti, con effetti sorprendenti, si potrebbe azzardare, di straniamento brechtiano in anticipo sui tempi. In generale, garantiva una misura sapiente nel tratto da assegnare al personaggio, pochi tocchi sufficienti a farlo balzare vivo, abbagliando e divertendo la sala. Da rimarcare che le sue caratterizzazioni, dalla parte delle servette, si tenevano ben lontane dalla tradizione settecentesca, ossia dalle coloriture delle Colombine vezzose, contigue alle maschere della commedia dell’arte, così come dalla variante appassionata, simulata o meno, che porta alle celebri Mirandoline e alle Coralline goldoniane, alle serve amorose divenute protagoniste nel casting ai danni della prima donna. Con lei, viceversa, il personaggio rientrò nell’ombra, palpitando ai margini della trama, mentre le tinte grigie, tardo Ottocento, con cui riuscì a dipingerle mandavano una luce singolare. E nondimeno venne lodata pure in serate goldoniane, come Luçieta ne La casa nova del 1883, così come nei panni di Margarita, seconda moglie di Lunardo, nei Rusteghi del 1904, e in quelli di Corallina nelle Donne curiose del 1907, queste due ultime sempre ben radicate nella ‘squadra’ di Benini.
Ma senza dubbio fu il commediografo Gallina – la cui produzione autoriale mostrò un ritmo compulsivo impressionante negli anni della collaborazione con Moro Lin, e poi subì un’ulteriore impennata nel fecondo sodalizio con Ferruccio Benini – a trovare in lei un formidabile strumento di contorno, sagomandole figurine a tutto tondo, non limitate certo ai ranghi ancillari, e ricreate dall’attrice sempre con un’arte astuta e intrigante. Così le linguacciute pescivendole, così le ruvidi calere, cioè le popolane maldicenti, chiacchierone e avide, con gli eterni scialletti sulle spalle, o ancora le fruttivendole armate di un civettuolo e bianco grembiule, tormentato senza requie dalle mani come faceva nevroticamente Malgari nella Famegia in rovina nel 1872.
La resa più impressionante, alla lettera, tramandata per generazioni quale modello inarrivabile di performance nel carattere in questione, fu per generale consenso la sommessa e in apparenza apatica Perina, la badante, la ‘donna di governo’ del Santolo in La famegia del santolo nel 1892, velata quasi uscisse devota da una chiesa ma sorretta in modo uniforme da una perfidia allusiva, e schermata da un’ambigua umiltà, untuosa e minacciosa. E sotto il segno di Gallina valorizzò parti brevi che lasciavano tuttavia grandi tracce dietro di sé, come Barbara, la ‘parona del forno’ in Mia fia nella stagione 1891-92, colei che prende a schiaffi il figlio intraprendente.
E fu ancora la Bettina vendicativa che provoca zizzanie in Barufe in famegia del 1872; la nuora nel Moroso de la nona del 1875; Orsolina nel coevo La chitara del papà; Bettina che lavora presso una famiglia arricchita in Zente refada del 1875; Lisa in Tuti in campagna! del 1876; Brigida in Teleri veci del 1877; Adelaide negli Oci del cuor del 1884; Giudita, la nuora del protagonista in Serenissima del 1891; l’altra Giudita in La base de tuto, del 1894, comare interessata ai ‘bezzi’, come ripeteva con cadenze ossessive. Ma fuori dall’universo galliniano fu deliziosa come Lucrezia, comare levatrice, nei Recini da festa di Riccardo Selvatico nel 1901. Rievocando queste creature, da lei per lo più fatte debuttare, così la descrive con la sua arguta e doviziosa penna Renato Simoni: «dal musetto aguzzo, dalle labbra ingreppate, nelle sue serve indocili, nelle sue popolane smaliziate, nelle sue borghesi antiquate, a volta a volta acidula schizzinosa ficchinosa soppiattona pettegola lesta di verbo e di mano o clamorosa» (Ombre, in Corriere della sera, 30 dicembre 1947). In una parola, misteriosa apparve la sua sintonia naturale specie con i toni accesi e vibranti delle serve, ora tutte brio indiavolato, fierezza sussiegosa nel difendersi dai capricci del padrone, specie se vecchio, ora amorfe e lamentose. Al punto che finì per farsi identificare e circoscrivere in quella parte, impostale di frequente nelle serate d’onore, tanto che alla sua scomparsa Simoni sentenziò che con lei si era spento il ruolo antico della servetta. Il maggior successo in questo repertorio lo riportò comunque nella Cameriera astuta di Riccardo Castelvecchio (vero nome del conte veronese Giulio Pullè), poi seguita da La cameriera prudente, commedia in cinque atti in dialetto veneziano e versi martelliani, che Zanon Paladini interpretò spesso, scegliendola anche per le serate d’onore, come il 5 febbraio 1906, al teatro Olimpia di Milano (Ars et Labor, 3, 1906, p. 278).
Questa sovrapposizione non le impedì di sfoggiare in altri titoli duttilità impensabili, affrontando parti di bambina e poi di vecchia da un giorno all’altro senza alcuna difficoltà, con la versatilità collaudata da vera promiscua-caratterista. Esibiva una voce di testa squillante e cristallina, tendente a timbri nasali, capace però di scendere a toni bassi con brusche virate, salvo poi farsi melliflua nel concerto del campiello e del pianerottolo. Tutto ciò agevolava la citata empatia con la sala: Laura aveva infatti il suo pubblico che l’adorava e accorreva fedele ogni volta che si annunciava la sua presenza anche in cammei, in parti sulla carta di contorno.
Negli ultimi tempi della sua esistenza Simoni tentò invano di coinvolgerla per il ‘Teatro del Soldato al Fronte’ nei mesi ultimi della Grande Guerra, e così fece, incontrando analoghi rifiuti, la Compagnia veneziana della Serenissima, ambiziosa ditta diretta da Carlo Micheluzzi e Albano Mezzetti, sorta in quel periodo, ma destinata a breve vita.
A Milano Zanon Paladini si provò con poca convinzione e nessun appeal inesistente nel cinema, dove lo stesso Simoni la ricordava negli Stabilimenti con abiti lisi e una valigetta di stracci. Com’era prevedibile, i risultati furono inesistenti.
Da tempo malata, morì in miseria il 9 agosto 1919 (nei medesimi giorno e mese della nascita), dopo aver intrapreso, quale estrema soluzione economica, un’attività di affittacamere dal pessimo esito.
Modesti e sbrigativi i funerali, con ben poche presenze artistiche. I colleghi di tanti anni di circuito sembrarono quasi voler marcare la loro assenza. La ‘cara macia’, come la chiamavano nell’ambiente teatrale (Rasi, 1905, p. 740), verificava in tal modo sulla propria pelle la breve durata del successo nel mondo dello spettacolo. Il feretro venne mestamente portato al cimitero Monumentale e poi al Musocco.
Fonti e Bibl.: L. Rasi, I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, II, Firenze 1905, pp. 737-742; R. Simoni, L. Z. P., in Corriere del teatro, 1919, n. 6, pp. 188-190 (poi sviluppato sia in Ritratti, Milano 1923, pp. 109-117, sia in Teatro di ieri. Ritratti e ricordi, Milano 1938, pp. 53-60); C. Levi, L. Z. P., in Profili di attori. Gli scomparsi, I, Milano 1923, pp. 153-162; C. Antona-Traversi, Le dimenticate. Medaglioni di attrici: L. Z. P., in Varietas, XXIII (1926), 1, pp. 39-41; P.D. Giovanelli, La società teatrale in Italia fra Otto e Novecento, III, Documenti e appendice biografica, Roma 1984, pp. 1546 s.