GAMBARA, Lattanzio
, Lattanzio. - Nacque intorno al 1530 probabilmente a Brescia, dove fu attivo come pittore, da Ludovico e Annunziata di Mori.
Databile fra il 1546 e il 1548 è una polizza della madre che menziona, tra l’altro, il figlio «Lactatio... de anni 16» impegnato ad apprendere «l’arte del pictore» (Begni Redona - Vezzoli, p. 257, cui si rimanda, ove non diversamente indicato, per i documenti citati). Dallo stesso documento si rileva che Annunziata, allora trentaquattrenne, godeva di una certa agiatezza e che il marito, «mastro Ludovico di Bozi sartore» era stato «bandito» dalla città.
La condizione del padre, al quale non fu revocato il bando, ha provocato la fioritura di leggende e aneddoti sulla giovinezza del G., raccolti da Nicoli Cristiani; ma non impedì al pittore bresciano G. Romani (il Romanino) di dare in sposa al G. la figlia Margherita. Lo testimonia il contratto dotale dell’11 nov. 1556, in cui il G. è qualificato come pittore abitante in Brescia. Ne deriva che il G., a quest’epoca, doveva essere già figura stimata e nota nell’ambiente artistico locale. D’altra parte, sulla consistenza economica del suo patrimonio fa luce una polizza del 16 apr. 1565 nella quale il G. dichiara di possedere «una casa murata cupata et solerata cum curte sita ... in contrata de Santo Benedet al incontro del vescovato», vale a dire nella zona più prestigiosa di Brescia. Del resto che l’esercizio della sua arte fosse redditizio fin dal tempo del suo matrimonio sembra indicarlo una polizza d’estimo del 1568 nella quale, tra l’altro, l’artista trentottenne elenca i suoi cinque figli (il primo dei quali di dieci anni) cui si aggiungerà Giulia nel 1573.
Di un alunnato del G. presso il cremonese Giulio Campi scrisse per primo G. Vasari, poi ripreso da tutti i biografi del Gambara.
Tale notizia, non riscontrabile sul piano documentario, trova conferma dall’attendibilità dimostrata, in questo caso, da Vasari, che fece conoscenza diretta del Gambara. Il biografo aretino scrive infatti: «nella qual casa [del G.], che è da San Benedetto al vescovado, vidi, quando fui ultimamente a Brescia, due bellissimi ritratti di sua mano; cioè quello d’Alessandro Moretto suo suocero, che è una bellissima testa di vecchio, e quello della figliuola di detto Alessandro, sua moglie». AI di là della confusione fra il Moretto e il Romanino (del resto entrambi deceduti all’epoca della visita di Vasari a Brescia) l’autore delle Vite rammenta esattamente la casa di proprietà del G. menzionata nella polizza del 16 apr. I565.
Il G. fu dunque allievo del pittore e architetto Giulio Campi, fratello di Antonio e Vincenzo, ed è probabile che egli abbia avuto un ruolo nella realizzazione dei cicli di affreschi eseguiti dal maestro, intorno al 1547, nella chiesa cremonese di S. Margherita.
Vezzoli (pp. 26, 5I) ha proposto l’attribuzione al G. della donna, veduta di schiena con il bambino accanto, della Presentazione al tempio di S. Margherita. L’ipotesi si basa sulla notizia, non da tutti considerata attendibile, riferita da Guglielmo Della Valle (curatore dell’edizione delle Vite vasariane stampate a Siena nel 1791-94), secondo cui l’esordi ente G. avrebbe collaborato all’affresco in questione. Tuttavia, questa figura femminile, a metà fra i modi del Parmigianino e del Salviati, non da tutti è considerata autografa del G. (Bora, 1990).
Ignote sono le ragioni che indussero il G. a fare ritorno a Brescia, dove risulta presente dal 1549. Con un atto del 26 febbraio di quell’anno egli entrava nella bottega del Romanino e del fratello di questo, Giovanni Giacomo, per un apprendistato regolarmente retribuito e a condizioni assai proficue: Cook (1984, pp. 186, 192) nota giustamente che il tipo di contratto era molto più vantaggioso di quello stipulato dal Romanino, per esempio, con Daniele Mori; sicché, fin da subito, la posizione del G. dovette essere privilegiata all’interno della bottega. Il fatto ha un riscontro immediato nella partecipazione del G. al ciclo di affreschi commissionato al Romanino da Giovanni Andrea e Leonardo Averoldi, per il loro palazzo bresciano, ed eseguito nella prima metà del sesto decennio.
Nonostante i tentativi della critica (M.L. Ferrari, Romanino, Milano I961, tav. 104; G. Panazza, Affreschi di G. Romanino, Brescia 1965, p. 67), resta difficile distinguere le mani dei due pittori in quest’impresa. Cook ha pubblicato tre studi preparatori del G. per gli affreschi nel grande salone. Relativi al fregio animato che l’artista dipinse nello sguscio del soffitto, questi disegni mostrano alcune scene del corteo bacchico che si snoda con ritmo incessante da un angolo all’altro della sala. Tuttavia, parte della critica (Nova), piuttosto che continuare a distinguere fra la mano del Romanino e quella del suo allievo, si è indirizzata verso la consapevolezza che il ciclo di affreschi di palazzo Averoldi vada ascritto al G., anche se - per alcuni soggetti - su disegno del maestro. In altri termini, il Romanino, ormai famoso, si sarebbe limitato a impostare il ciclo decorativo e a fornire disegni e modelli, demandando l’esecuzione al giovane e valente pittore. D’altra parte, non è difficile constatare come l’affresco centrale del soffitto del gran salone, con l’immagine del Carro del Sole, porti in sé l’eco delle invenzioni pittoriche realizzate dal Romanino nella loggia del Buonconsiglio a Trento. Anche nella cosiddetta saletta delle Stagioni e in quella del Carro di Diana è possibile vedere il riflesso degli affreschi trentini: per esempio, nell’uso di finte cornici marmoree che inquadrano le figure delle stagioni e nelle immagini dell’Autunno e dell’ Inverno che derivano direttamente da modelli utilizzati dal Romanino nella loggia del Buonconsiglio (Nova, p. 343). Semmai, una concessione alla cultura raffaellesca e romana può esser vista nell’impiego della decorazione a grottesche nelle vele delle lunette della saletta del Carro di Diana.
D’altro canto, secondo Nova (p. 58), quasi tutti i lavori realizzati dal Romanino tra il 1549 e il 1560 «tradiscono l’attiva collaborazione» del Gambara. In palazzo Lechi, sempre a Brescia, intorno al 1553 i due collaborarono nei termini di cui si è detto: di tali lavori sono sopravvissuti soltanto alcuni lacerti, mentre sono andati completamente perduti gli affreschi realizzati dieci anni più tardi nel medesimo palazzo dal solo G., che aveva ricevuto l’incarico da Camillo Bargnani di lavorare nella zona del palazzo denominata «La Caminata», come risulta da un documento del gennaio 1563.
Ancora grazie al felice connubio con l’anziano maestro si devono le tele per il duomo vecchio di Brescia, dipinte fra il 1557 e il 1558, nonché la decorazione della Biblioteca di S. Eufemia che si ferma al 1560, anno della morte del Romanino.
Dopo questa data il G. si avvia verso una autonoma attività professionale. La torrenziale produzione dell’artista (per un elenco delle opere conservate e di quelle andate perdute si rimanda alla monografia di Begni Redona e Vezzoli, ma anche a specifici contributi segnalati via via) e la scarsità di documenti e di riferimenti certi rendono problematica la datazione delle sue opere. Felice eccezione è costituita dal grande affresco, datato 1566, della chiesa di S. Stefano a Vimercate: l’opera, tradizionalmente attribuita a G. Campi, è stato ricondotta alla mano del G. da Mulazzani (1988) che, nel corso di un restauro, ha rinvenuto la firma dell’artista.
Estremamente scenografico nel pullulare di figure raccolte intorno alle solide cornici architettoniche (pure dipinte) che fregi ano le due finestre dell’abside, l’affresco racchiude in un’unica immensa scena e senza soluzione di continuità la Disputa e condanna, il Martirio e la Visione di s. Stefano. Al di sopra, nel catino absidale vero e proprio, le nuvole che sovrastano un paesaggio irto di palmizi offrono appoggio alla Gloria di Dio Padre che, circonfuso di luce, finisce per unificare compositivamente e concettualmente tutto l’insieme.
La tradizionale attribuzione a G. Campi gioca un ruolo nella ricostruzione della personalità artistica del G., dal momento che sottolinea un’affinità fra i due pittori a conferma delle notizie tramandateci dai biografi. D’altra parte, l’impiego di mascheroni ornamentali che il G. aveva adottato nella decorazione di palazzo Averoldi ricorda la scuola dei Campi. Il legame con i suoi maestri di formazione è stato recentemente ribadito da studi (Bora, 1994, pp. 117 s.) che hanno sottolineato come, anche nella fase matura della produzione del G., riaffiorino gli insegnamenti di G. Campi: in particolare l’uso dello ({ schizzo» rapido per appuntare l’idea, che invece non trova seguito nell’ambito della scuola del Romanino. Lo dimostrano i disegni (Milano, Biblioteca Ambrosiana) realizzati come studi preliminari per l’Adorazione dei pastori conservata nella chiesa dei Ss. Faustino e Giovita a Brescia (databili tra il 1561 e il 1568).
L’affresco di Vimercate può essere considerato uno spartiacque nella carriera del G., giacché, dopo questa data, risulta essere attivo anche al di fuori dell’ambito bresciano. In altre parole, fra il 1560 e il 1566, il G. dovette lavorare soltanto nella città natale o nel territorio circostante. Sono di questo periodo gli affreschi del palazzetto denominato «Le Caselle» in frazione Noce di Brescia. In questo ciclo il G., pur riprendendo lo schema decorativo di palazzo Averoldi, trovò una propria vena monumentale che ben si esplicita nel soffitto della saletta al primo piano dove dipinse una personificazione dell’Abbondanza, circondata da mascheroni decorativi, e un Pregio di putti e animali, sempre d’impronta dionisiaca, ma assai più composto di quello realizzato per gli Averoldi: in questo modo il G. va via via affrancandosi dalla lezione del Romanino, anche se si tratta di un processo relativamente lento, visto che gli affreschi del salone del pianterreno del palazzetto di Noce mostrano al centro del soffitto una Caduta di Petonte che risente fortemente dei modelli pittorici del suocero.
Fra le molte imprese realizzate dal G., verosimilmente prima dell’affresco di Vimercate, si devono ricordare gli affreschi di palazzo Avogadro, che mostrano scene tratte dalle Metamoifosi di Ovidio, la decorazione della casa descritta da Vasari e gli affreschi di facciata della casa di via XXIV Maggio, sempre a Brescia, ora incorporata nel palazzo della Posta.
Sicuramente datati al 1568 sono invece gli affreschi di palazzo Cimaschi, la cui sala al pianterreno - purtroppo pesantemente ritoccata all’inizio dell’Ottocento - mostra la rappresentazione di un Diluvio nella quale Nettuno, al centro, ordina alle acque di scrosciare sulla terra, dopodiché Deucalione e Pirra, gettandosi alle spalle grossi massi che si trasformano in uomini, ripopolano la terra di una nuova umanità.
Risale al 1568 circa anche quello che è unanimemente considerato il capolavoro del G., la Sepoltura di Cristo della chiesa di S. Pietro a Po, a Cremona. Nel corso dei restauri effettuati nel 1973 sulla monumentale tela (Rodeschini Galati) è apparsa chiaramente, oltre alla firma del G., l’aggiunta realizzata da un allievo di Vincenzo Campi, Luca Cattapane. Tale innesto - segnalato già da Baldinucci che lodò Cattapane per essersi correttamente attenuto «alla maniera del Gambara» (p. 489) - si era reso necessario per adeguare la pala originaria al contesto architettonico che, proprio nel 1568, veniva completamente rinnovato.
L’inadeguatezza della tela del G. rispetto alle dimensioni dello spazio che la doveva ospitare ha indotto a supporre che l’opera fosse il frutto di una sorta di risarcimento da parte degli eredi del G. per la mancata realizzazione di affreschi (Grasselli). In realtà, fu molto probabilmente lo stesso artista a consegnare ai committenti di Po un’opera diversa da quella prevista. La vicenda, infatti, va interpretata tenendo presente che nel 1567 l’artista aveva preso l’impegno di realizzare gli affreschi per la cattedrale di Parma, la cui portata risulta chiara dall’insieme dei mandati di pagamento, che coprono un arco di sei anni: dal 14 luglio 1567 fino al 7 sett. 1573. L’impresa colossale, di fatto, costrinse il G. a rinunciare alla committenza di S. Pietro a Po, inducendolo a donare la celebre tela in guisa di scuse. Si spiegherebbero cosi le piccole dimensioni dell’opera, scelte per eseguire il lavoro più rapidamente. Nello stesso tempo l’aggiunta del Cattapane fu probabilmente voluta per valorizzare al massimo l’opera di un artista ormai sulla cresta dell’onda.
Un datazione al 1568 della Sepoltura può essere confermata dalle chiare ascendenze raffaellesche che rimandano alla celeberrima Pala Baglioni conservata presso la Galleria Borghese a Roma, ma che erano già presenti nell’affresco dell’abside di Vimercate del 1566: fra le scene che il pittore rappresentò in S. Stefano c’è, infatti, anche la Sepoltura di s. Stefano che, con la figura dell’uomo sbilanciato all’indietro nello sforzo di sostenere il lenzuolo su cui è adagiato il corpo del santo, appare ancora di più legata alla Deposizione di Raffaello. In questo senso la Sepoltura in S. Pietro a Po deve considerarsi come la completa assimilazione da parte del G. del modello raffaellesco della sepoltura di Cristo.
Gli affreschi della cattedrale di Parma (1567-73) segnarono l’apice dell’attività del G. e ne sancirono la fama in tutta l’area lombarda. L’impresa comportò la decorazione della navata centrale e la realizzazione di un grande affresco che prendesse tutta la controfacciata.
Sulle pareti della navata l’artista dipinse le Storie di Cristo dividendo il ciclo in modo che, sul muro di destra, stessero le scene dall’Annunciazione di Maria al Battesimo di Gesù, mentre sulla parete opposta apparissero gli episodi che andavano dalla Guarigione della suocera di Pietro fino alla Resurrezione. Si tratta di lunghe tabelle rettangolari che sovrastano il triforio dell’edificio e, fitte di figure come sono, danno l’idea di classici bassorilievi. Al di sotto, nel registro compreso tra il triforio e le centine degli archi della navata, troviamo le figure dei Profeti e dei Patriarchi di chiara ascendenza michelangiolesca.
La controfacciata, invece, è sostanzialmente divisa in due pani. Quella in basso è a monocromo e fascia l’entrata con colonne, statue e rilievi allegorici dando maggiore monumentalità all’ingresso che appare come un vero e proprio corpo architettonico concluso, in alto, dalla presenza delle finte statue della Fortezza e della Temperanza. La zona superiore dell’affresco, invece, è policroma: all’interno di uno spazio architettonico arretrato rispetto al corpo inferiore e vuoto, quasi fosse una sona di patio, vi appare la Gloria di Cristo fra gli angeli. Si tratta di un’invenzione complessa e ardita che mette in luce tutte le capacità artistiche del G., che qui sintetizza decenni di esperienza e di mestiere impiegato a riquadrare stanze e facciate. Il G. è riuscito ad «infrangere» il massiccio muro della controfacciata aprendovi uno spazio illusorio nel quale avviene il miracolo dell’apparizione di Cristo. Al di là delle possibili e molteplici ascendenze stilistiche, non è difficile individuare un riferimento a Giulio Romano e, in particolare, alla sala dei Cavalli di palazzo Te.
La notevolissima capacità produttiva permise al G. di accettare, negli stessi anni in cui portava avanti i lavori nella cattedrale parmense, anche altre commissioni: nel duomo di Monza, per esempio, dipinse ad affresco l’Albero di Jesse, sulla controfacciata, nonché gli Evangelisti ed angeli sulle vele della crociera; ancora, realizzò sul tamburo della cupola della chiesa della Steccata a Parma il fregio monocromo in ocra con Putti e animali che giocano (di cui sono stati anche individuati i disegni preparatori) e i dodici riquadri a grisaille con Storie dell’Antico Testamento.
Il 28 febbr. 1574 il G. prese parte alla riunione generale della Confraternita del Ss. Sacramento di Brescia.
Mori a Brescia il 18 marzo 1574 (Boselli), pochi giorni dopo aver dettato le sue ultime volontà.
Il 19 luglio del medesimo anno, gli eredi furono pagati per i disegni che il G. si era programmato di tradurre in affreschi da eseguire « sotto al volto della Loggia » a Brescia (Begni Redona Vezzoli, p. 264): l’atto di pagamento e le pitture sono andati distrutti e il documento è noto esclusivamente grazie allo Zamboni (1778).
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite ... (1568), a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, pp. 506 s.; C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte (1648), a cura di D.F. von Hadeln, I, Berlino 1914, pp. 274-279; F. Baldinucci, Notizie dà professori del disegno (1685), a cura di F. Ranalli, II, Firenze 1846, pp. 487, 489; B. Zamballi, Memorie intorno alle pubbliche fabbriche più insigni della città di Brescia, Brescia 1778, p. 81 n. 57; F.N. Cristiani, Della vita e delle pitture di L. G. ..., Brescia 1807; E. Jacobsen, Die Gemalde der einheimischen Malerschule in Brescia, in Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen, XVII (1896), pp. 38 s.; G. Grasselli, Guida storico sacra... di Cremona ..., Cremona 1918, p. 99; E. Calabi, I cortei miniati del convento di S. Francesco a Brescia, in La Critica d’arte, 111 (1938), pp. 57-67; G. Godi, Anselmi, Sojaro, G., Bedoli, nuovi disegni per una corretta attribuzione degli affreschi della Steccata, in Parma nell’arte, VIII (1976), I, pp. 55-79; P.V. Begni Redona - G. Vezzoli, L. G. pittore, Brescia 1978; C. Boselli, Il testamento di L. G., in Arte veneta, XXXII (1978), pp. 253 s.; C. Cook, The last works by Romanino and G., in Arte lombarda, XXVI-XXVII (1983-84), pp. 159,166: Id., The collaboration of Romanino and G. through documents and drawings, in Arte veneta, XXXVIII (1984), pp. 186-192; S.A., Vimercate. Non è dei Campi: c’era la firma di L. G., in Il Giornale dell’arte, V (1987), 46, p. 25; G. Mulazzani, An unpublished fresco by L. G., in The Burlington Magazine, CXXX (1988), pp. 28-31; P.V. Begni Rodona, Il manierismo e L. G., in VIII Seminario sulla didattica dei beni culturali, Brescia... 1985, Brescia 1983, pp. 167-174; La pittura in Italia. Il Cinquecento, a cura di G. Briganti, Milano 1988, I, ad indicem; F. Frangi, ibid., II, pp. 722 s.; G. Bora, in Pittura a Cremona ..., a cura di M. Gregori, Cremona 1990, p. 271; M.C. Rodeschini Galati, ibid., p. 276; M. Tanzi, Tre disegni del Cinquecento bresciano, in Prospettiva, 1994, nn. 73-74, pp. 159-165; G. Bora, Nota sui fondamenti del disegno cremonese e la sua eredità: Bernardino Campi e L. G., in Studi di storia dell’arte in onore di Mina Gregari, Cinisello Balsamo 1994, pp. 114-119; C. Fociadi, Il restauro degli affreschi di L. G. nella chiesa di S. Stefano a Vimercate ..., in Mirabilia Vicomercati. Itinerario di un patrimonio d’arte: il Medioevo, Venezia 1994, pp. 427-433; G. Mulazzani, Un grande affresco inedito di L. G., ibid., pp. 421-426; A. Nova, G. Romanino, Torino 1994, pp. 53, 58, 343, 347, cav. 122; U. Tbieme - F. Becker, Kunstlerlexikon, XIII, pp. 138 s.