Latona
Figlia (L. è versione latina della greca Leto) del titano Ceo e di Febe, fu amata da Giove, che la rese gravida.
Fu perciò perseguitata accanitamente dalla gelosa e infuriata Giunone, che inviò contro la partoriente il serpente Pitone e proibì alla Terra di offrirle qualsiasi asilo, per quanto piccolo e disagiato. Per sfuggire al mostro, L. fu costretta a vagare senza posa, finché ottenne ospitalità da Delo, un'isola che errava in balia delle onde e dei venti alla stregua di una grande zattera. Qui ella trovò finalmente pace, e tra una palma e un ulivo (cfr. Met. VI 335) partorì due gemelli, Apollo e Diana: i quali divenendo poi divinità tra le più potenti - il mito li identificò nel Sole e nella Luna (v. APOLLO; DIANA) - resero illustre la madre, assurta perciò anch'essa all'Olimpo e venerata in particolar modo nei santuari sacri ad Apollo (soprattutto Tebe e Delo). Il mito vuole che Apollo uccidesse il Pitone e, in segno di gratitudine per l'aiuto dato alla madre, legasse saldamente Delo, rendendo così l'isola finalmente stabile, tra altre due dell'arcipelago delle Cicladi, Micono e Giaro (cfr. Aen. III 74-76).
L. rimane comunque una divinità minore, frequentemente nominata dai maggiori poeti latini ma quasi esclusivamente per la sua qualità di madre di Apollo e di Diana (onde il Sole e la Luna sono appellati ‛ Latonii ': cfr., soprattutto per Diana, Aen. XI 534 e 537); e anche in D. è citata in modo analogo, in perifrasi astronomiche (Pd X 67 e XXII 139: la luna è la figlia di Latona; Pd XXIX 1: il sole e la luna sono ambedue li figli di Latona). Tuttavia due ampi episodi delle Metamorfosi ovidiane hanno come protagonista L.: la punizione inflitta a quei Licii che schernirono la dea assetata e furono perciò mutati in rane (VI 313-381) e la pietrificazione della superba regina di Tebe, Niobe, vinta da immenso dolore: questa, orgogliosa della sua numerosa figliolanza (sette maschi e sette femmine), aveva osato anteporsi a L., madre di solo due figli, e addirittura aveva impedito le cerimonie religiose in onore della dea. Apollo e Diana, adirati per l'offesa arrecata alla madre che se n'era con loro lamentata, trafissero con frecce tutti i figli della sacrilega (VI 146-312).
D. ricorda il più famoso dei due episodi ovidiani tra gli esempi di superbia punita scolpiti nel primo girone purgatoriale: O Nïobè, con che occhi dolenti / vedea io te segnata in su la strada, / tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! (Pg XII 37-39). Il poeta inoltre paragona il terremoto, che fa vibrare il monte del Purgatorio ogniqualvolta un'anima si avvia libera verso il cielo, allo scuotimento cui un tempo fu soggetta Delo: Certo non si scoteo sì forte Delo, / pria che Latona in lei facesse 'l nido / a parturir li due occhi del cielo (Pg XX 130-132; cfr. Met. VI 190-192).
È qui da osservare come la comparazione, che svolge funzione unicamente esornativa e poetica, non comporti alcun sovrasenso: laddove Pietro Alighieri adduce una spiegazione ‛ morale ' della favola (la religione, madre della sapienza e della castità, " firmat omne instabile "). In questo caso però D. sa accostarsi alla lettura dei poemi classici senza soverchie preoccupazioni d'intendimenti allegorici; semmai, è forse ravvisabile traccia d'interpretazione razionalistica del mito antico: il paragone dantesco infatti fa pensare a fenomeno sismico o vulcanico (non a caso proprio di questo parlano alcuni commentatori trecenteschi), più che all'errabondo vagare alla mercè di onde e di venti (benché i testi latini siano al proposito ben chiari: cfr., ad esempio, Aen. III 76 " errans "; Met. VI 190-191 " errare ", " instabilis "; 333-334 " erratica Delos /... levis insula nabat "). Si segnala infine per completezza che una spiegazione raccolta dal Boccaccio (gli sarebbe stata comunicata da Barlaam: cfr. Geneal. deorum IV 20) voleva che la nascita in Delo di Apollo e di Diana stesse a indicare che dopo il diluvio universale in quell'isola per la prima volta si riuscì a percepire nuovamente la luce del sole e della luna.