lasso
La voce ricorre con buona frequenza nelle opere di D. e nel Fiore, ma più nel linguaggio poetico che non nella prosa della Vita Nuova e del Convivio.
L'accezione fondamentale è quella di " fiacco ", " affaticato " (si ricordi G. Villani VII 27 " la gente di Curradino erano lassi e stanchi di combattere "), e, anche per D., in rapporto con la matrice del lassus latino, come risulta da un passo allegorico di Cv IV XXVIII 17 " Ora " dice Marzia " che 'l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vuota, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo ", chiaramente tradotto da Lucano II 340 (" visceribus lassis partuque exhausta revertor / iam nulli tradenda viro ").
In questo ambito si muovono le attestazioni della Commedia, ove l'aggettivo connota l'effetto di un depauperamento o fisico o spirituale. Alla prima possibilità ci riportano i realistici cedimenti dell'homo viator dantesco: il corpo lasso (If I 28), ansando com'uom lasso (XXXIV 83), io era lasso (Pg IV 43); gli affanni delle anime itineranti in ascesa nel Purgatorio: un di lor, che mi sembiava lasso (Pg IV 106), lasse [quell'ombre] su per la prima cornice (XI 29); alcuni paragoni riferiti al poeta (Pd XIII 113) o ad altre creature (If XVII 130). Alla seconda, luoghi come l'invettiva O superbi cristian, miseri e lassi (Pg X 121), o come lo spirito / lasso conforta (If VIII 106), di quell'angoscia parea lasso (IX 84), pria [di risolvere questa difficoltà] saresti lasso (Pd IV 93). Vicine a quest'ultima sfumatura, ma più intense, alcune occorrenze in cui l'aggettivo vale " affranto ", in riferimento ad anime dannate e angosciate per la loro sorte: abbiamo così quell'anime, ch'eran lasse [" per dolore, non per lunghezza di cammino ", Boccaccio] e nude (If III 100); torna'mi indietro da l'anime lasse (XVII 78); le teste de' fratei miseri lassi (XXXII 21). Nel senso di " cadente " è variante di basso, in Pg XXVII 66 (il sol ch'era già basso).
In tutte le altre presenze il termine è impiegato come interiezione deprecativa equivalente a " misero ", " infelice ", o al semplice " ohimè ", come notava nel Cinquecento il Varchi postillando la forma nell'uso fattone dal Petrarca (cfr. Opere, Milano 1834, I 94): " ‛ Lasso! ' oimè, interiezione che significa dolore, e tanto significa sola, quanto accoppiata col pronome ‛ me ', come si vede in questo luogo della canzone ‛ Lasso me, ch'io non so 'n qual parte pieghi ' [LXX 1] ".
Con o senza pronome dunque, spesso all'inizio di verso, rara in prosa, la voce appare nella Vita Nuova (XVI 7 3, XXXII 5 7, XXXIII 5, XXXIX 6 [2 volte] e 8), nelle Rime (LXV 12, LXVII 4, LXXIII 13, LXXXVIII 5, CI 2, CVI 18, CXVI 67, e Rime dubbie XII 3), nel Convivio (II Voi che 'ntendendo 31 [ripreso in IX 2]; III Amor che ne la mente 7 [ripreso in III 15]), e nella Commedia (If V 112, XXVII 84, XXVIII 107 e 140, XXX 63). Si tratta di uno degli stilemi più comuni nella lirica dotta e popolare italiana: fermandosi ai soli incipit di poesie di area culturale dantesca, potremmo ricordare Guittone di Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, Dante da Maiano di O lasso me che son preso ad inganno, o Cino da Pistoia di Oimè lasso quelle trezze bionde.
Situazione affine nel Fiore, ove si ripete la bipartizione tra uso aggettivale (XLVIII 5, LXIII 11, LXXVI 13, CCXIII 12) e interiettivo (XXVI 12, CLXXXI 3, CLXXXVI 3 e 10, CXCII 1), con la sola esclusione di XIV 13 ti manda molte di salute / il lasso cu' ti piacque abbandonare, uso sostantivato da casistica cortese coincidente con " l'infelice ".