Lapo da Castiglionchio
Nato a Firenze, non si sa bene in quale anno, dopo un breve tirocinio letterario, intraprese gli studi giuridici a Bologna, conseguendovi la laurea. Fu in rapporti di amicizia col Petrarca, al quale procurò un manoscritto della Institutio oratoria di Quintiliano e alcune orazioni di Cicerone. Chiamato intorno al 1358 a leggere le Decretali a Firenze, vent'anni dopo fu costretto ad abbandonare l'incarico e la sua città, in seguito alla situazione venutasi a creare dopo il tumulto dei Ciompi. Si trasferì allora a Padova, nel cui Studio rimase fino al 1380; nello stesso anno lo troviamo a Roma, a difendere Carlo III di Durazzo, che, ottenuto da Urbano VI il regno di Napoli, memore di quanto L. aveva fatto in suo favore, lo nominò suo procuratore a Roma. Quivi morì nel 1381.
Scrisse molte lettere e orazioni in latino, oggi purtroppo perdute; in volgare fiorentino ci resta un'Epistola o Ragionamento, che tratta della questione (molto discussa in quel tempo) della nobiltà. Notevole fortuna ebbero pure le sue Allegationes (stampate per la prima volta a Napoli nel 1477), i trattati De Hospitalitate e De canonica partitione et de quarta.
Nell'Epistola sulla Nobiltà L., tra le varie testimonianze a proposito del problema, ricorda e discute pure un noto passo del Convivio (IV III). L'opuscolo però, se costituisce un interessante momento della fortuna ‛ ideologica ' dell'opera dantesca, non documenta tuttavia alcuno studio o simpatia particolare verso il poeta fiorentino: non solo infatti la problematica propria del Convivio risulta conosciuta e filtrata attraverso la critica che ne aveva fatto Bartolo da Sassoferrato, ma altresì essa è in definitiva grossolanamente fraintesa, attribuendosi agli ‛ antichi ' (le cui opinioni erano state in precedenza rifiutate dall'Alighieri) la stessa concezione dantesca, mentre a D. risulta attribuita l'opinione che " ogni anima destinata da Dio in felicità, che in ogni tempo adoperi bene, eziandio innanzi che niuno atto virtuoso faccia, si è nobile ".
In particolare poi L. accetta e fa proprie le critiche mosse al Convivio da Bartolo a proposito del rapporto tra nobiltà e ricchezza e della definizione da D. attribuita a Federico II, non attestata " in capo di ragione scritta ". In realtà la testimonianza di L. relativa a D., anche se non mancano in essa altri riferimenti precisi all'opera dell'Alighieri (per esempio, a proposito della decadenza della propria famiglia, L. cita Pd XVI 73, come una riverita ‛ auctoritas '), è un interessante documento della difficile ricezione dell'opera dantesca in ambienti già umanistici e a ogni modo vicini a Petrarca: valga a tal proposito l'esplicito paragone che alla fine dell'Epistola viene instaurato tra i " due eccellentissimi Poeti fiorentini, cioè Dante Alighieri, e l'altro non minore di lui, e s'io dicessi maggiore, forse tu, Dante, non isdegneresti, cioè Francesco Petrarca ".
Bibl. -L. Da C., Epistola, ossia ragionamento... con la vita del medesimo composta dall'abate L. Mehus, Bologna 1754; C. Negroni, D.A. e Bartolo di Sassoferrato, in " L'Alighieri " I (1890) 302-308; J.E. Sandys, A History of classical Scholarship, II, Cambridge 1908, 42; A. Foresti, Per la storia del carteggio di F. Petrarca con gli amici fiorentini, in " Giorn. stor. " LXXIV (1919) 254-261; E. Cavallari, La fortuna di D. nel Trecento, Firenze 1921, 60-62; G. Billanovich, Petrarca Letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, 342-343.