LAPIDARIO
. Nel significato oggi corrente è una raccolta di antiche lapidi spesso frammentarie e con iscrizioni più o meno mutile, come quella ricchissima vaticana. Ma nel Medioevo si chiamarono con tale nome certe opere appartenenti alla letteratura didattico-scientifica, che descrivevano, secondo le tradizioni classiche e orientali, le pietre preziose e ne indicavano le meravigliose proprietà curative e le virtù talismaniche.
Contrariamente a quello che avveniva per i bestiarî (v.), ai lapidarî non sempre andò congiunta la moralità, ossia l'interpretazione allegorica, nel senso religioso, delle notizie date sulle pietre. Erano insomma manuali di mineralogia medica e filaterica e spesso nei manoscritti si trovano insieme con opere di medicina. I medici infatti se ne servivano per farne ricette meravigliose; i gioiellieri per esaltare il pregio di certe pietre che, oltre a guarire tutte le malattie, potevano dare la bellezza e la bravura, verificare la fedeltà delle mogli, proteggere da infortunî i mariti, ecc. Con questo valore i lapidarî continuarono ad avere voga sino al Rinascimento, ma infine le pietre si ridussero alla semplice funzione di amuleti. Nel Medioevo circolarono lapidarî in latino, in prosa e in versi, ma su tutti prevalse il Liber lapidum seu de gemmis di Marbodo (v.), vescovo di Rennes, morto nel 1123, che pare risalga a un testo greco di Damieron vissuto nel sec. I, della cui opera si ha una traduzione latina del sec. V. Da Marbodo derivano immediatamente o mediatamente quasi tutte le molte redazioni che si fecero, in versi o in prosa, in francese, italiano, spagnolo e in altre lingue, o come trattati a sé o inserite in opere letterarie, come l'Intelligenza (v.), attribuita a Dino Compagni, e in enciclopedie, come quella di Vincenzo di Beauvais (v.).
Bibl.: Sui lapidarî francesi: L. Pannier, Les lapidaires franç. du moyen âge, Parigi 1882; P. Meyer, Les plus anciens lapidaires français, in Romania, XXXVIII (1909); P. Studer e J. Evans, Anglo-Norman Lapidaries, Parigi 1924, che dànno notizia anche delle redazioni latine. Sugl'italiani: E. Narducci, Intorno a tre inediti volgarizzamenti del buon secolo della lingua, ecc., in Il Propugnatore, II, i (1869); O. Targioni-Tozzetti, Lapidario anonimo, Livorno 1871; V. Finzi, Di una inedita traduzione in prosa italiana del poema "De Lapidibus praetiosis", attribuito a Marbodo, ecc., in Il Propugnatore, n. s., III, i (1890); V. Mistruzzi, L'Intelligenza, Bologna 1928, pp. xcix-cx; C. Giordano, Un lapidario in volgare del sec. XV, in Studi dedicati a F. Torraca, ecc., Napoli 1912, pp. 66-77. Sui lapidarî spagnoli: J. Vollmöller, Ein spanisches Steinbuch, Heilbronn 1880. Si veda inoltre alla voce marbodo.