Vedi LAOCOONTE dell'anno: 1961 - 1995
LAOCOONTE (v. vol. IV, p. 467)
Nel gruppo si compie, davanti agli occhi dello spettatore, la tragedia di L. che si trova davanti all'altare con i due figli celebranti. Da destra e da sinistra sono giunti due serpenti: uno avvinghia la caviglia del figlio maggiore e quando questi, al pesante e viscido contatto, alza la gamba per liberarsi, il rettile scivola sulla coscia destra, avvolge anche il polpaccio del padre e si avventa sul ginocchio del figlio minore. Passando dietro al poplite di L. il serpente forma con il suo corpo un nodo, risale lungo la sua coscia e gli piega la gamba all'altezza del ginocchio, così da farlo ricadere sull'altare. Come in una presa di lotta, il serpente cinge le spalle del figlio più giovane e lo morde in modo che il veleno, giungendo direttamente nel fegato, ne causa la morte istantanea. La mano del ragazzo cerca di allontanare la testa del rettile ma perde forza. La vita abbandona il corpo del fanciullo, sorretto ormai solo dalle spire del serpente.
Nello stesso tempo l'altro serpente, giunto da sinistra, si è alzato verso la gamba di L. e gli agguanta il polso destro; il sacerdote alza le braccia per scrollarselo di dosso ma resta avvolto tra le spire. Il rettile si avventa quindi verso il figlio maggiore e gli afferra il braccio teso nella richiesta di aiuto, girando dietro la schiena del padre. La testa di questo serpente è di restauro, ma la correttezza della sua posizione è garantita dalla rappresentazione dei segni lasciati dal morso del rettile sul fianco di L. che, colpito, s'inarca. La muscolatura del ventre si contrae per le convulsioni, il capo cade di lato, come fosse afferrato dalla mano invisibile di Atena, dalla bocca socchiusa prorompe un gemito, gli occhi da cui sta fuggendo la vita, guardano accusatori il cielo. Questo momento è giudicato da Lessing come il più alto, perché libera l'immaginazione dello spettatore che deve ricostruire mentalmente lo svolgimento dell'episodio.
L'indagine sul gruppo di L. è stata condizionata dall'interpretazione del passo pliniano (Nat. hist., XXXVI, 37) che proponeva la scultura del Vaticano come opera originale degli artisti rodi Hagesandros Athenodoros e Polydoros menzionati nel testo. Tale ipotesi va ritenuta errata in seguito alle scoperte della Grotta di Tiberio a Sperlonga (v.) dove il Gruppo di Scilla reca la firma degli stessi artisti: poiché tale gruppo, come gli altri rinvenuti a Sperlonga, va considerato copia di un originale in bronzo, si tratta di copisti attivi al tempo di Tiberio. Anche il L. va giudicato come copia da un originale bronzeo eseguita dalla stessa bottega. Recenti analisi hanno riconosciuto il marmo impiegato nel L. come proveniente dalle cave di Docimio (Synnada) presso Atyou.
Una luce diversa sull'interpretazione del gruppo di L. è data ancora dalle somiglianze stilistiche e iconografiche con personaggi scolpiti nella Gigantomachia dell'Altare di Zeus e con altre sculture pergamene. Oltre alla somiglianza, già da tempo rilevata, con l'Alcioneo della Gigantomachia, il più giovane dei figli di L. è confrontabile con un Niobide, mentre il figlio maggiore è mediato dal portatore dell'otre di vino in fuga nel Gruppo di Polifemo a Sperlonga.
Importanti precedenti iconografici sono da considerare le opere di Phyromachos (v.) e, in ultima analisi, si può definire il Gruppo del L. come l'apice di tutte le tendenze maturate nell'arte pergamena, sopratutto quella della prima metà del II sec. a.C.
Anche ragioni di carattere storico permettono di ascrivere nell'ambito pergameno la committenza del Gruppo del L., l'episodio che determinò la creazione della scultura può, forse, essere identificato nell'ambasceria segreta compiuta a Pergamo nel 139 a.C. da Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine e assediatore di Numanzia.
La rappresentazione della tragedia di L. conteneva e poteva far recepire con immediatezza un duplice messaggio: l'avvertimento ai Pergameni a non contrastare i Romani con le armi e, nello stesso tempo., il ricordo ai Romani della vittima comune del mito di fondazione e la parentela di sangue che impediva la ripetizione per Pergamo del destino di Troia. Proprio sulla sorte di Troia si era infatti interrogato Scipione Emiliano davanti alle rovine fumanti di Cartagine e, nello stesso tempo, aveva scongiurato le forze vendicatrici della storia citando i versi dell'Iliade «giorno verrà che la sacra Ilio cadrà», alludendo alla futura sorte di Roma.
Oltre al messaggio politico l'artista sconosciuto del bronzo originale del L. ha rappresentato con la sua opera l'immagine eterna delle sofferenze umane immeritate che, anche separata dal suo presupposto storico, è sempre valida e offre spunti per osservazioni sempre nuove.
Il consiglio imperiale di Tiberio fece copiare il gruppo dagli stessi scultori che avevano copiato il gruppo ellenistico di Scilla, probabilmente per ricordare al princeps, per adozione discendente da lulo, di comprendere il volere degli dei, avendo come monito la morte di Laocoonte.
Plinio lodò molto il gruppo collocato nel Palazzo di Tito, poiché l'opera tradotta nel marmo dai virtuosi scultori rodi gli piaceva più dell'originale in bronzo e delle raffigurazioni pittoriche del soggetto, dimostrando in tal modo la predilezione dei Romani per le copie in marmo, documentata implicitamente dal gran numero di esse.
Le diverse interpretazioni del Gruppo di L. ne confermano l'alto significato, anche se oggi, in seguito a nuovi ritrovamenti e studi, può essere affermato il suo vero senso di opera che, al tramonto dell'arte greca e come riassunto di tutte le sue conquiste, si pone come momento conclusivo della disputa di valore storico e universale tra Roma e il mondo greco in declino.
Bibl.: G. Daltrop, Die Laokoon-Gruppe im Vatikan. Ein Kapitel aus der römischen Museumsgeschichte und der Antikenerkundung, Costanza 1982; Β. Andreae, Laocoonte e la fondazione di Roma, Milano 1989; id., Eine weniger elegante Lösung. Noch einmal zu Plinius, Naturalis historia 36,37, in RM, XCVI, 1989, pp. 433-438; F. Hiller, Zur kunstgeschichtlichen Stellung des Laokoon, in Mannheimer Berichte, XXXV, 1989, pp. 29-34; O. Zwierlein, Plinius über Laokoon. Beiträge zur Ikonographie und Hermeneutik, in Festschrift für N. Himmelmann, Magonza 1989, pp. 433-443; Β. Andreae, Laokoon und die Kunst von Pergamon, Francoforte 1991; Ν. Himmelmann, Laokoon, in AntK, XXXIV, 1991, pp. 97-115.
(Β. Andreae)