Vedi LAOCOONTE dell'anno: 1961 - 1995
LAOCOONTE
Sacerdote troiano per lo più associato dalle fonti letterarie all'episodio del cavallo di legno, del quale denunzia l'inganno guadagnandosi pena o morte.
1. Le narrazioni più importanti sono le seguenti. La più antica risale alla Ilioupèrsis di Arktinos nel sunto di Proclo. I Troiani sono esitanti sulla sorte da far toccare al cavallo: delle tre proposte, arderlo, gettarlo dalle mura o consacrano ad Atena, prevale quest'ultima. Nel frattempo due serpenti apparsi improvvisamente uccidono L. e uno dei suoi due figli (τὸν Λαοκόωντα καὶ τὸν ἕτερον τῶν παίδων διαϕϑείρουσιν); al che, turbati e impauriti "quelli di Enea" (οἱ περὶ τὸν Αἰνείαν) si ritirano segretamente sul monte Ida. Qui dunque la morte tremenda di L. e di uno dei suoi figli non sembra avere altra ragione che quella di ammonire con un segno straordinario i Troiani affinché una parte di essi si metta in salvo: L. non è perciò ucciso perché colpevole, ma è soltanto la vittima designata dal fato nella sua imperscrutabile economia. Più tardi, allorché non si intese più questo movente, o forse parve troppo crudele e immorale che un giusto fosse così sacrificato per il suo popolo, si raccontò che L. aveva gravemente peccato contro Apollo, sia con lo sposarsi contro la volontà del nume sia, peggio ancora, con l'unirsi alla moglie entro il tempio stesso del dio davanti al suo simulacro. Con questa "invenzione" il sacerdote troiano appariva sacrilego e profanatore e perciò degno del più severo castigo, che si manifesta appunto con l'uccisione dei suoi due figli denominati ora Antifate e Timbreo, da parte dei due serpenti, che anche hanno ora i rispettivi nomi di Πόρκις e di Χαρίβοια, provenienti dalle Isole Calidne; lui stesso è invece risparmiato. Del cavallo qui non si parla, ma la tragedia che si abbatte su L. è tuttavia ancora stimolo per Enea a mettersi in salvo. Questo pare che fosse il contenuto, per quel pochissimo che ne resta, della perduta tragedia a lui intitolata da Sofocle, che trasse dunque materia dalla Ilioupèrsis e fors'anche da Bacchilide.
A molta distanza di tempo segue poi la testimonianza virgiliana del II libro dell'Eneide, il più esteso racconto che ci sia tramandato su Laocoonte. Qui egli non solo ammonisce i Troiani a diffidare del cavallo di legno, ma per poco ne rende palese l'inganno scagliandovi contro la propria lancia; senonché l'arrivo del prigioniero Sinone che testimonia il falso e, più ancora, il sopraggiungere fulmineo di due immani serpenti da Tenedo, che assalgono e uccidono prima ambedue i figli di L. e poi lui stesso, accorso in loro aiuto, salendo indi a rifugiarsi nel tempio di Atena sull'acropoli della città, persuadono il popolo a trarre dentro le mura il cavallo; l'eccidio è interpretato come la giusta punizione della dea per l'offesa recata da L. al miracoloso cavallo. Qui dunque non è più lo scotto fatale da pagare per una parziale salvezza dei Troiani, né la giusta punizione del sacrilegio, ma solamente l'inesorabile ira di Atena contro Troia che si sferra contro l'incolpevole L. e i suoi figli. La medesima irosa reazione della dea domina nell'ulteriore racconto dell'episodio di L. che è narrato nel canto XI delle Postomeriche di Quinto Smirneo. Colpito prima il padre da cecità e provocato per di più un terremoto, Atena invia i due serpenti dall'isola di Calidno a uccidere i due figlioli, sul cui cenotafio, che pietosamente i Troiani poi erigono, L. e la consorte vanno a piangere la trista sorte delle loro creature.
2. - Nell'arte figurata non sembra che il mito di L. abbia trovato frequente accoglimento. Tra le rappresentazioni più antiche pare ora che la sola probabile sia quella offerta da un vaso della Collezione Jatta databile intorno al 400 a. C. Infatti lo scarabeo etrusco del British Museum (se genuino), generalmente datato al sec. V, che mostra tre figure virili, due giovani intorno a un barbato, tra loro legate da serpenti, dovrebbe piuttosto riferirsi, secondo i più recenti studî, a una triade bacchica che si può rintracciare lontano nel tempo fino all'Oriente preellenico, e seguire dall'altra parte fino all'età romana. In essa triade potrebbe trovarsi il prototipo della raffigurazione del Laocoonte. La scena del vaso Jatta sarebbe una illustrazione dell'episodio quale si suppone nella versione sofoclea (i serpenti con avanzi del macabro pasto di membra umane sono attorti al simulacro di Apollo), forse contaminata col ricordo di Arktinos, se - come sembra - le membra appartengono a un solo figlio.
Sicure rappresentazioni della fine di L. e dei suoi figli sono invece le due ben conosciute pitture parietali pompeiane, di diverso stile e grandezza, ma molto simili fra di loro, l'una rinvenuta nella Casa detta appunto del L., l'altra nella Casa del Menandro. In ambedue, che possono rimontare, con notevoli varianti, ad uno stesso prototipo, per il quale si è fatto addirittura il nome di Zeusi, ma che forse meglio sono da ritenere libere riproduzioni di illustrazioni dei poemi epici da repertorî ellenistici, il padre, che è molto realisticamente vestito e calzato, viene assalito isolatamente sull'ara da un serpente, che in un caso lo morde alla spalla sinistra, nell'altro tenta di morderlo alla testa, mentre egli col braccio destro disteso si sforza di allontanarlo. I due figli nudi con sulle spalle i loro piccoli mantelli sono rappresentati in primo piano: l'uno disteso supino è già morto, l'altro seminginocchiato per terra (come il padre è sull'ara), appare in un caso già addentato alla spalla destra, nell'altro tenta di allontanare col braccio disteso il serpente e il suo morso fatale. Le due scene presentano inoltre un toro che fugge o si accascia, e oggetti che cadono o sono già caduti nel trambusto, e ancora alcuni spettatori. I rapporti fra questa versione che chiameremo "pompeiana" e il racconto di Virgilio hanno appena bisogno di essere richiamati tanto son stretti: basterebbe l'episodio del toro che fugit... saucius aram... et incertam excussit cervice securim.
3. - La più importante rappresentazione della morte di L. è tuttavia il gruppo statuario eseguito in stretta collaborazione dai tre artisti rodii Hagesandros, Athanodoros e Polydoros, esistente al tempo di Plinio il Vecchio nella casa di Tito e da lui celebrato come l'opera omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum; gruppo che fu ritrovato nel gennaio del 1506 in località detta Le Sette Sale sull'Esquilino e di li a poco trasportato in Vaticano, dove tuttora si trova nel Gabinetto che da esso prende nome nel Cortile Ottagono. Recenti studî hanno dimostrato che il gruppo vaticano, nonostante sia composto di almeno otto pezzi (contrariamente all'affermazione di Plinio che lo dice fatto ex uno lapide), è sicuramente una scultura originale greca ellenistica. Così pure, la non meno recente scoperta nella cosiddetta Grotta di Tiberio a Sperlonga (in mezzo a centinaia di altri antichi marmi), di cospicue parti di almeno due gruppi statuarî di soggetto epico, similissimi per stile al L., e con essi di una iscrizione che reca i nomi degli stessi artisti rodî menzionati da Plinio, conferma in pieno la tradizione pliniana sul gruppo del Laocoonte. Non pare invece che la Grotta di Sperlonga abbia restituito alcun avanzo sicuro di un altro gruppo di L. e i suoi figli, che sia uguale a quello vaticano, e neppure ne sia una variante o diversa "edizione". L'iscrizione, che sembra essere di età romana (forse del tempo dei Flavî, quando si svolse nella grotta suddetta un grande lavoro di riattamento e di abbellimento), è specialmente importante perché dimostra, mediante i patronimici che essa dà per ognuno dei tre artisti, che la cronologia stabilita dal Blinkenberg per il L. sulla base di un albero genealogico da lui ricostruito sulla scorta della onomastica rodia, è inconsistente: ne consegue che si può ora datare il L. (e i gruppi rodî di Sperlonga) con piena libertà sulla base dei soli confronti stilistici. Questi confronti, come già era stato più volte avvertito, portano queste opere molto da presso all'Altare di Pergamo, sicché pare ormai inevitabile lo spostamento, dalla data fin qui proposta del 25-50 a. C., al II sec. a. C. Il recente studio di cui si è detto è stato condotto su di un esame completo del gruppo vaticano, che ha perciò subito una totale scomposizione, oltre ad essere stato liberato dalle integrazioni moderne per potersi correttamente ricomporre. Così ricostituito, esso ha assunto una struttura assai meno frontale, e quasi a semicerchio. Il riconoscimento inoltre, che un braccio destro piegato, già da tempo rintracciato da L. Pollak, apparteneva originariamente alla figura di L., ora definitivamente accertato, così come la accertata integrazione del braccio destro del figlio minore che si flette fino a toccare con la mano la testa, hanno ridato alla scultura il suo originario ritmo serrato, sensibilinente diverso da quello aperto che risultava dalle integrazioni con le quali il celebre gruppo era universalmente noto. Nonostante la potente energia di cui si rivela capace la figura del padre nella lotta suprema con la morte sopraveniente, e che si esprime anche nella tormentata e vibrante epidermide, specie nel volto, nulla vi appare di abnorme, ma al contrario tutto vi è contenuto, sia pure all'estremo limite, nei termini di quell'ideale rispetto della realtà che è caratteristico retaggio dell'arte classica. Se si tien conto poi della non analitica trattazione dei corpi dei figli, fatta pure la debita parte alla diversità dell'età in essi rappresentata, che mostra come questo "verismo analitico" si manifesti soltanto parzialmente nel gruppo e precisamente nel solo anziano padre, nonché si confronti con la Vecchia Ubriaca (v. greca, arte, vol. iii, figg. 1331, 1333), col Fauno Barberini, e, per il solo panneggio (pieghe a occhiello), anche con la Nike di Samotracia (v.), opere tutte databili intorno al 200 a. C., non pare assurdo formulare l'ipotesi (Magi) che il L. possa risalire fino a quel torno di tempo, quasi a costituire un logico elemento intermedio fra i Grandi Donarî di Attalo e l'Altare di Pergamo.
Che il gruppo vaticano sia ispirato alla più antica versione della storia di L. è fuori dubbio: i due serpenti, piombati da destra e da sinistra sul padre e i due figli che gli sono accanto intorno all'ara, uccidono L. e il figlio minore, ma non l'altro figlio, che non soltanto non viene morso, ma addirittura sembra essere in procinto di sciogliersi dalle spire, cosicché finisce per assumere il ruolo di inorridito spettatore. Il caratteristico τὸν ἕτερον τῶν παίδων non poteva essere più fedelmente rappresentato. Quali ragioni spinsero gli artisti rodî a preferire la versione epica, che potremmo anche chiamare eschilea per il suo contenuto etico, non sappiamo: potrebbe darsi che accanto a ragioni di ordine culturale abbia valso anche quella d'ordine pratico, che induceva a prescegliere per un'opera di scultura la redazione più sintetica. Certo è che nel gruppo rodio l'episodio è trattato in termini eroici (si noti qui la completa nudità di L., che appare invece vestito nelle, pitture pompeiane), e sulla scorta della Ilioupèrsis si ha ragione di vedervi non la esaltazione della tremenda ira divina che si abbatte inesorabile su chi si oppone ai suoi disegni, come nel celebre passo virgiliano sopra ricordato, ma sì bene l'esaltazione del sacrificio di una nobile vittima a pro' del suo popolo generoso e infelice.
Echi del gruppo vaticano possono rintracciarsi in alcuni contorniati (v.) che lo rappresentano in due poco differenti versioni, e in una miniatura del Codice Vaticano Latino virgiliano 3525, databile fra il IV e il V sec. d. C.
L'influsso che la celeberrima statua ha esercitato sull'arte del sec. XVI, e poi ancora, se anche in misura minore, nei secoli seguenti, costituirebbe una trattazione a parte, così come la storia delle sue vicende e dei suoi restauri. Basterà qui richiamare il nome di Michelangelo come quello, tra i grandissimi artisti, che più ne trasse ammaestramento e ispirazione (del quale è stata recentemente confermata la paternità di un restauro marmoreo non finito del braccio destro della figura di L.) come sarà sufficiente ricordare il noto restauro del Montorsoli (metà del sec. XVI), che distendendo violentemente il braccio all'infuori, ha impresso per secoli (fino alla scoperta del braccio Pollak nel 1906) al L. "tradizionale" il ben conosciuto carattere enfatico e discentrato; ricorderemo anche la più famosa delle copie, quella cinquecentesca di Baccio Bandinelli (Firenze, Uffizî), e il meno noto, ma molto importante calco di bronzo del Louvre, eseguito intorno al 1540; infine si menzionerà ancor qui, preceduto da altri tentativi effettuati sui calchi (Vergara Caffarelli, Ferri), il recentissimo ripristino (Magi) di cui si è già fatto cenno, aggiungendo che nell'occasione è stato collocato non lungi dall'originale un calco "tradizionale" per l'immediato confronto, e che è anche stato allestito un piccolo museo del L. contenente la documentazione relativa alla fortuna della celebre opera e agli studî relativi ad essa.
Bibl.: Mito: Engelmann, in Roscher, II, 2, c. 1833 ss., s. v.; Bethe, in Pauly-Wissowa, XII, 1924, i, c. 736 s., s. v.; v. Blumehtal, ibid., III, A, i, c. 1067, n. 68, s. v. Sophocles.-Arte: a) precedenti: R. Förster, Laokoon, in Jahrbuch, XXI, 1906, p. i ss.; G. Lippold, Zur Laokoongruppe, ibid., LXI-LXII, 1946-47, p. 94, nota 3; Ch. Picard, Les origines plastiques du Laocoôn et les triades bacchiques aux serpents dans l'art gréco-romain, in Hommages à Léon Hermann, in Coll. Latomus, XIV, Bruxelles 1960, p. 595 ss. b) Pitture pompeiane: G. Lippold, art. cit., p. 90; S. Ferri, Aspetti ipotetici di un ulteriore restauro al gruppo del Laocoonte, in Arch. Class., II, i, 1950, p. 68, tav. XIX, 2. c) Gruppo vaticano: Plin., Nat. hist., XXXVI, 37. Bibl. fino al 1908: W. Amelung, Die Sculpturen des Vaticanischen Museums, II, Berlino 1908, p. 202 ss.; id., fino al 1914: A. Mau-E. v. Mercklin-F. Matz, Katalog der Bibliothek des Deutschen Archäologischen Institus in Rom, II, 1932, p. 227 ss. Seguono: Chr. Blinkenberg, Zur Laokoongruppe, in Röm. Mitt., XLII, 1927, p. 177 ss.; G. Krahmer, Die einansichtige Gruppe und die späthellenistische Kunst, in Nachrichten v. d. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, 1927, p. 53 ss.; M. Pohlenz, Laokoon, in Die Antike, IX, 1933, p. 54 ss.; Chr. Blinkenberg, Lnidos-Fouilles de l'Acropole, Inscriptions, I, 1941, c. 29 ss.; II, 1942, c. 678 ss., n. 347; G. Lippold, art. cit.; id., in Handbuch d. Archäologie, III, i, 1950, p. 384; S. Ferri, art. cit., p. 66 ss.; C. Brandi, Divagazioni attuali sul L., in L'Immagine, I, 1947-48, p. 634 ss.; G. M. A. Richter, Three Critical Periods in Greek Sculpture, Oxford 1951, p. 66 ss.; E. Vergara Caffarelli, Studio per la restituzione del L., in Riv. Ist. Arch. St. Arte, N. S., III, 1954, p. 35 ss.; L. Laurenzi, Cronologia e fase stilistica del L., ibid., p. 70 ss.; M. Bieber, The Sculpture of the Hellenistic Age, New York 1955, p. 134 ss.; C. C. van Essen, La découverte du laocoôn, in Meded. Ned. Akad., XVIII, 1955, p. 291 ss.; F. Castagnoli, Le "Sette Sale" cisterna delle terme di Traiano, in Arch. Class., VIII, 1956, p. 53 ss.; H. Sichtermann, Laookon, in Opus Nobile di Th. Dohrn, 3, Brema 1957; S. Howard, On the Reconstruction of the Vatican Laocoon Group, in Am. Journ. Arch., LXIII, 1950, p. 365 ss.; Ch. Picard, art. cit.; F. Magi, Il ripristino del L., in Mem. Pont. Acc., XI, i, p. 3 ss. d) Influssi del gruppo vaticano: M. Bieber, Laocoon, New York 1942; W. M. Ivins, Jr., Ignorance, the End, in Bull. of the Mer. Mus. of Art, N. S., II, 1943, p. 3 ss.; A. von Salis, Antike und Renaissance, Erlenbach-Zurigo 1947, p. 136 ss.; G. Kleiner, Die Begegnungen Michelangelos mit der Antike, Berlino 1950, p. 27 s.; H. Ladendorf, Antikenstudium und Antikenkopie, in Abh. d. Sächs. Akad. d. Wiss., in Phil. Hist. Kl., 46, 1953, p. 37 ss.; A. Prandi, La fortuna del L. dalla sua scoperta nelle terme di Tito, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, N. S., III, 1954, p. 78 ss. Per le scoperte di Sperlonga: G. Jacopi, I ritrovamenti dell'antro cosiddetto "di Tiberio" a Sperlonga, Roma, Ist. st. Romani (Orme di Roma, IX), 1958, pp. 1-38, figg. 28; id., Gli autori del L. e la loro cronologia alla luce delle scoperte dell'antro "di Tiberio" a Sperlonga, in Arch. Class., X, 1958, p. 160 ss., tav. LI; H. von Heintze, Die neuen Funde von Sperlonga, in Gymnasium, 65, 1958, p. 481 ss., tavv. XVII-XXIV.
(F. Magi)
4. - Fortuna critica del gruppo vaticano. La fortuna critica del L. nel Cinquecento può misurarsi dal celebre proemio alla Terza Parte delle Vite del Vasari: il "veder cavar fuora da terra" opere come quella sta senz'altro all'origine della "maniera moderna". La "loro dolcezza e le loro asprezze", i loro "termini carnosi e cavati dalla maggior bellezza del vivo", specialmente "certi atti che non in tutto si storcono, ma si vanno in certe parti movendo" sono la rivelazione che aiuta a mettere a fuoco il problema artistico del momento: "di levar via certa maniera secca e cruda e tagliente", di dare alle figure "una terribil movenzia", anzi "il moto e il fiato".
Ciò che impressiona è una naturalità piena, fisica e psicologica raggiunta dalle statue antiche ed è davvero interessante, poiché mette bene in luce dove le aspettative fossero rivolte, che quasi le stesse emozioni suscitasse, già nel 1488, la scoperta di quella che sembra essere stata una piccola replica del L., scavata in Roma, in un terreno del cardinale di S. Pietro in Vincoli, il futuro Giulio II (E. Paribeni suppone però che si trattasse di un gruppo simile a quello dei Satiri combattenti del Museo Capitolino). L'opera è descritta come "tre belli faunetti in suna basetta di marmo, cinti tutti a tre da una grande serpe". Essi sono tali, osserva l'ammirato scopritore, che "dell'udir la voce in fuora in ceteris pare spirino, gridino et si fendino con certi gesti mirabili; quello del mezo vedese quasi cadere et expirare".
In questa prima descrizione immediata, più ancora che nel Carmen de Laocoontis statua del Sadoleto (1477-1547); o nella tarda rievocazione post factum del Vasari, è dato cogliere il sentimento della scoperta. L'interesse psicologico e naturale per il L. va infatti assai al di là del semplice riferimento iconografico agli schemi delle figure. Questi erano già noti agli artisti del Rinascimento attraverso monumenti che derivano da opere sorte nello stesso clima del Laocoonte. I Theriakà di Nicandro (v.), il manoscritto del X sec. che era stato in Italia sin dal XIV, conteneva nella sua composizione della Genesi dei Giganti (vol. iv, fig. 140) più di un motivo che ripeteva il L. (cfr. il mosaico della Strage di Ercole a Piazza Armerina, così vicino iconograficamente). Altri suggerimenti potevano venir dai sarcofagi e da altre rappresentazioni (Heraklistos, triade bacchica). Sarebbe perciò un errore ricercare il successo del L. attraverso le rappresentazioni rinascimentali in cui soltanto il suo atteggiamento sia imitato.
Ma all'ammirazione artistica più diretta non mancava di associarsi quella propriamente umanistica. Anche di questa ci serba un ricordo quasi intatto il racconto della scoperta del 1506, fatto a distanza di anni da uno dei testimoni, Francesco da Sangallo: "Scesi dove erano le statue, subito mio padre (Giuliano da Sangallo) disse: questo è Laocoonte di cui fa menzione Plinio. Si fece... la buca per poterlo tirar fuori; e visto, ci tornammo a desinare; e sempre si ragionò delle cose antiche".
È l'entusiasmo archeologico di chi si trova insperatamente in contatto direttamente con un'opera bramata dalla lettura degli Antichi. L'enorme distanza tra concezione medievale dell'antico e quella rinascimentale, più volte studiata, è esemplificata in maniera chiarissima proprio dal Laocoonte. L'illustrazione di Apollonio di Giovanni della storia di L. nel Virgilio della Biblioteca Riccardiana di Firenze (Cod. 492, prima del 1465) è una dimostrazione eloquente della incapacità della mente medievale di situare nel tempo il mondo antico e di riviverlo senza trasferirlo forzosamente nella favola contemporanea.
La suggestione virgiliana doveva così prendere il sopravvento nell'interpretazione del L., insieme al crescere del concetto dell'ut pictura poesis. L'unico modo per comprendere la bellezza del L. è per il Winckelmann di rilevare come "egli non levi nessun grido terribile, come, del suo L., canta Virgilio".
È appunto da questa felice osservazione critica del Winckelmann che il Lessing trae lo spunto per il suo Laokoon oder über die Grenzen der Mahlerey und Poesie (1766). La "calma grandezza" del L., la sua eroica rassegnazione non sono per il Lessing motivi letterarî, ma necessità intrinseche del linguaggio figurativo. Il L. è la dimostrazione che l'arte figurativa insegue un proprio ideale di bellezza che non è quello della poesia, anche se ha possibilità espressive minori di questa (la poesia rimane per il Lessing superiore alla pittura). E, malgrado tutte le limitazioni, la sanzione dell'autonomia dell'arte figurativa, il ripudio delle interpretazioni allegorizzanti, senonché nello stesso momento in cui il L. ottiene di essere apprezzato per sé, come opera d'arte, la condizione della sua emancipazione è un'interpretazione classicheggiante che vi cerca più l'eco delle misure e delle norme attribuite all'arte classica che non l'accento più profondamente suo.
Bibl.: Il ritrovamento del 1488 è ricordato in una lettera di Andrea Lotti di Barberino a Lorenzo il Magnifico: v. G. Gaye, Carteggio inedito d'artisti italiani dei secc. XIV, XV, XVI, I, Firenze 1839, p. 285; cfr.: J. Burkhardt, Beiträge zur Kunstsgeschichte von Italien, in Gesamtausgabe, XII, Berlino-Lipsia 930, pp. 349-50; A. Warburg, Gesammelte Schriften, cura di G. Bing, II, Lipsia 1932, pp. 449, 625. Sul Virgilio della Riccardian: P. Schubring, Cassoni, Lipsia 1915, p. 275, tav. LI, 227; E. H. Gombrich, Apollonio di Giovanni, in Journal of the Warb. a. Court. Inst., XVIII, 1955, 1-2, p. 16 ss. Sul Laokoon del Lessing: A. Frey, Die Kunstform des Lessingschen Laokoon, Zurigo 1905; A. Schmarsow, Lessings Laokoon, Erläuterung u. Kommentar, Lipsia 1908.
(C. Bertelli)