CICALA, Lanfranco
Nacque a Genova verso gli inizi del sec. XIII da Gugliehno e da una Sibilia.
Appartenne alla nobile famiglia genovese, dei Cicala, che partecipò attivamente al governo di Genova: il padre fu consigliere della Repubblica nel 1218 e nobile del Comune nel 1221 e nel 1227; dei due fratelli del C., Oberto e Nicolosio, il primo è spesso nominato nei documenti del Comune sia come grande commerciante, sia come cittadino investito di importanti cariche e Ai delicate missioni diplomatiche. Si trattava di una famiglia numerosa, erede di un nome nobile e rispettato, appartenente a quella classe di ricchi commercianti e di uomini di legge che governarono Genova nei secc. XII e XIII.
Del C. l'anonima Vida provenzale riporta, come unici dati biografici, la cittadinanza genovese e la notazione che "fo iutges e cavalliers, mas vida de iuge menava"; spetta allo Schultz il merito di aver indagato per primo negli atti ufficiali della Repubblica di Genova e di aver raccolto un elenco di dati storici che fornirono la larga trama in cui studiosi posteriori quali il Mannucci, il Bertoni, l'Ugolini hanno inserito ulteriori precisazioni e rettifiche, così che ora la biografia del poeta si presenta fondata su notizie sicure.
I dati notarili testimoniano in modo indubbio che il C. visse quasi ininterrottamente a Genova tra gli anni 1235 e il 1257, Il suo nome appare per la prima volta in un documento del 20luglio 1235;è menzionato poi in altre carte del 20 novembre 1238e del 20 luglio 1239, e, due anni dopo, il 22 luglio del 1241, il C. appare inviato come ambasciatore, insieme a Lanfranco Malocello, ad Aix in Provenza. presso Raimondo Berengario IV, per stipulare un trattato di amicizia e alleanza contro Federico II, trattato nel quale figurano come testi il trovatore Bertran d'Alamanon e Romeo di Villanova. La missione si prolungò certamente per qualche tempo e permise probabilmente al poeta di perfezionare la sua conoscenza della lingua provenzale, che egli con tanta perizia usò nella sua lirica. L'ambasceria testimonia l'ascesa del C. nel gioco della grande politica della sua città: due anni dopo egli fu, infatti, tra gli "octo pro Communis introitibus recipiendis et expediendis"; nel 1248 era tra i "consules placitorum in palatio suburbii".
Due ultimi documenti permettono di fissare con stretta approssimazione la data della morte del C.: nel primo, del 16 marzo1257, compare come teste, nel secondo, del 24 sett. 1258, è'nominato dal fratello Nicolosio come già defunto.
Viene così a cadere la romantica gotizia tramandata dal Nostradame e accettata anche da valenti provenzalisti, dell'assassinio dei C. a Monaco, nel 1278, per mano di ignoti sicari. Il C. si era sposato con Safiria, sorella di Lanfranco Pignattario, dalla quale ebbe sette figli.
Il canzoniere cicaliano consta, secondo l'edizione del Branciforti, di trentadue poesie, delle quali diciassette sono chansos d'amore, sette tenzoni, due sirventesi, due canti di crociata e quattro poesie mariane. Gli interlocutori genovesi delle tenzoni, che trattano gli argomenti consueti alla casistica amorosa trobadorica, sono Simon Doria e Giacomo Grillo. Il primo visse nella seconda metà del XIII secolo, comparendo per la prima volta in un atto dell'11 marzo 1253 e morì probabilmente tra il 1290 e il 1293. Ricoprì anch'egli, come il C., diverse cariche pubbliche, essendo stato tra l'altro podestà di Savona e di Albenga. Quanto a Giacomo Grillo, lo Schultz riferisce a lui tre notizie rinvenute in documenti degli anni 1242, 1244 e 1262, nel quale ultimo il Grillo appare come reggitore di Genova insieme ad altri quattordici nobili cittadini. È da notare che i due trovatori si rivolgono al C. come a un maestro e lo chiamano senher, mentre questi dà loro il titolo di amics. Ciò mostra la considerazione in cui il C. era tenuto come poeta e la posizione di rilievo, che doveva occupare nell'ambiente genovese, senza dubbio il centro italiano più cospicuo di lirica trobadorica. Interessante la tenzone "Amics Symon, si us platz, vostra semblanza", in cui Simon Doria e il C. discutono se sia da preferirsi chi è liberale in seguito ad un'istanza interiore oppure chi lo è per conseguire onore. Simon nega a chi è avido e nasconde la sua vera natura il diritto di ottenere onore: non devono mettersi sullo stesso piano coloro che sono liberali per pura brama d'onore e, coloro che agiscono bene spontaneamente. Per il C., invece, costituisce un merito particolare proprio la costrizione degli istinti finalizzata ad uno scopo etico. In un frammento di cobbola, "Honi qe donma se fegna", è nominato il poeta provenzale Blacatz e in una chanso, "Amics Rubaut, de leis, q'am ses bauzia", il poeta Rubaut, forse provenzale anch'esso, forse il genovese Rubaldo Rubaldi. La poetessa Guglielma de Rozers, di origine provenzale, forse sposata ad un genovese, scambiò con il C. le cobbole di una tenzone, "Na Guillelma, maint cavalier arratge", alla quale un anonimo italiano premise una fantasiosa razo. A questi personaggi va aggiunto il Guillem di un partimen in cui si dibatte se sia preferibile la fama di amante o l'amore nascosto della dama, che il Bertoni propose di identificare con Guilhem de Montanhagol, con il quale il C. sarebbe venuto a contatto durante la sua ambasceria presso Raimondo Berengario IV. L'ipotesi, pur essendo possibile, non è suffragata da alcun indizio consistente e lo stesso editore del trovatore provenzale, il Ricketts, lascia aperta la questione. Non è possibile nemmeno tentare l'identificazione di Lantelm, un ignoto rimatore, anzi giullare come con dispregio lo chiama il C. ("Lantelm, qui • us onra ni • us acuoill") poiché le allusioni contenute nel componimento sono poco chiare. Un'intera canzone di elogio il C. dedicò ad un principe italiano, Tommaso II di Savoia ("Seigne'n Thomas tan mi plai"), al quale rivolge la propria ammirazione e l'offerta della propria amicizia. Il Branciforti la data intorno al 1240, quando Tommaso si dichiarò nemico di Federico II, mentre altra datazione propone il Bertoni, poco dopo il 1250, al tempo del matrimonio di Tommaso con la genovese Beatrice Fieschi, nipote di papa Innocenzo IV, ed altra ancora, 1245-1259, lo Schultz.
L'attività pubblica del C. coincise con il decennio di preponderanza guelfa del governo della Repubblica genovese (1238-1250), e la sua produzione poetica non poté non ispirarsi agli avvenimenti di cui egli fu protagonista non secondario. L'ambasceria a Raimondo Berengario IV gli ispirò un vigoroso canto politico, "Raimon robin, eu vei que Dieus comenza", in cui esorta il conte di Tolosa ad unirsi ai Francesi e ai Provenzali contro il comune nemico Federico II, sotto l'alta guida del papa. I versi furono scritti dopo la grave sconfitta subita dai Genovesi alla Meloria. Più crudo e violento è quello indirizzato al marchese Bonifacio II di Monferrato ("Estier mon grat mi fan dir vilanatge"), chiamato "fils o fraire de ven", al quale il C. rimprovera un duplice tradimento: all'imperatore e ai Milanesi. Egli aveva partecipato, infatti, alla lega di Milano nel 1230 contro Federico II ma poi, amnistiato dall'imperatore nel 1233, fu con lui all'assedio di Brescia del 1238; nel gennaio del 1243 s'avvicinò di nuovo ai Milanesi, e poi nel luglio del 1245 fu di nuovo accanto all'imperatore a Torino. Questo è l'ultimo tradimento che provoca lo sdegno del poeta e di tutti i Genovesi. Dei due canti di crociata il primo, "Si mos chanz fos de ioi ni de solatz", si rivolge al re francese, al re inglese., ai Tedeschi, agli Spagnoli, al conte di Provenza, al papa, all'imperatore, perché intraprendano la santa Crociata, dopo aver concluso la pace tra di loro. Gli elementi storici contenuti nel canto permettono di datarlo tra, il dicembre del 1244 e il luglio del 1245. In esso il tono è accorato e smarrito, i versi malinconici, e il canto si chiude con l'immagine ammonitrice della morte, riparatrice e giustiziera suprema: "Car ben pot mortz sobrels emperadors". Il secondo canto di crociata, "Quan vei far bon fag plazentier", fu scritto probabilmente tre anni dopo, poco prima che Luigi IX si imbarcasse alla volta della Terrasanta (agosto 1248). Più forti di ira e di sdegno sono qui i rimproveri contro i malvagi baroni sordi all'appello di Dio.
Il C. si inserisce in una delle controversie più suggestive della poesia trobadorica, quella tra il trobar clus e il trobar leu. La sua poetica, condensata nella canzone "Escur prim chantar e sotil", non lascia dubbi in proposito: "Escur prim chantar e sotil / sabria far, si•m volia; / Mas no•s taing c'om son chant afil / ab tan pria maestria, / Que no sia clars coni dia"; e ancora, ai vv. 13-15: "E pres mais, qui qu'en als s'affil, / Clars digz; ab opra polia, / Qu'escurs moz ab seran lia". La chiarezza del dettato va congiunta, dunque, alla perfezione della tecnica poetica, e ciò significa che anche il C. afferma una sua maestria, sebbene non così preziosa quanto quella di coloro.che amano gli escurs mom Non mancano infatti nella sua poesia sapienti giochi di etimologie, voci e rime "derivative", ripetizioni, di una voce in ogni strofa.
Le ispiratrici della lirica d'amore del C. si celano nel segreto di senhals non ancora sicuramente rivelati: la donna di Villafranca, Na Bel-ris, Selvaggia, Berlenda. La prima è da identificarsi probabilmente con Adelasia o Alaide, sorella dì Guglielmo Malaspina, seconda moglie di Guglielmo di Palodi, marchese' di Sardegna e di Massa, che la sposò dopo aver divorziato nel 1231 dalla figlia di Guido Gorra. Selvaggia è Selvaggia d'Auramala, figlia di Corrado Malaspina, l'"antico" di Dante (Purg., VIII, v. 119). Più incerta l'identificazione di Berlenda, per la quale il C. ha scritto i più bei versi d'amore. Numerosi critici (Torraca, Savi-Lopez, Bertoni, Ugolini, Toja) la ritengono moglie di un altro Malaspina, contro le riserve pur degne di considerazione dello Schultz e del Branciforti secondo i quali ella fu una donna della Lunigiana andata sposa ad un conte di Provenza, come confermerebbe un'allusione contenuta nel chan-plor scritto dal C. in occasione della sua morte. Del tutto priva di valore è l'indicazione del Nostradame che indica in Berlenda un membro della casata dei Cibo. Il C. canta la fin'amors, gioia pura del cuore, esaltazione della bellezza e delle, virtù della dama. Il chan-plor dedicato alla morte di Berlenda - originale per l'accostamento di pianto e canto, che lo caratterizza come genere a sé - si conclude con l'ascesa in paradiso della donna che Dio volle far risplendere in cielo. Questa mistica conclusione in cielo ha fatto apparire Berlenda come una Beatrice dantesca e ha conferito al C. "l'aureola indefinita e vaga di precursore dello stil novo" (Branciforti, p. 81 n., 162). In realtà questa lode suprema è un motivo comune a tutti i planh. Questa ed altre concordanze di lessico, di immagini e di idee sull'amore del canzoniere cicaliano con il dolce stil novo sono più apparenti che reali, e i riscontri segnalati da più critici rientrano facilmente nella casistica tradizionale dell'ultima lirica provenzale e nella tradizione delle artes dictandi medievali. L'immagine della donna-angelo, qui semplice metafora, nel dolce stil novo è al centro di tutto un complesso sistema di capisaldi interagenti che danno un contenuto nuovo e particolare all'eterna vicenda amosa. Anche nella lirica d'oc l'amore è l'asse intorno al quale gira l'universo e opera nell'uomo una profonda trasformazione, ma esclusivamente a fini sociali, mondani, nella direzione di una perfetta cavalleria, mentre negli stilnovisti gli effetti vigono entro confini essenzialmente morali. Il canzoniere del C., dunque, pur presentando una fisionomia fortemente caratterizzata, è al centro di quella rifioritura tutta italiana della lirica provenzale che sarà di stimolo e spunto alla futura poesia stilnovistica.
Chiudono l'attività del poeta quattro canti mariani, frutto della sua maturità spirituale. Il motivo del contemptus mundi, già presente nel resto del canzoniere cicaliano, s'approfondisce e si fa meno generico a mano a mano che viene investito dall'esperienza di vita del poeta. Il canto a Maria si inizia con il rifiuto della vita passata, che si identifica soprattutto con il suo amore per Berlenda che egli ora definisce "amor savaia", cioè amore falso, così com'è l'amore terreno in contrapposizione al divino. La consapevolezza del peccato, la confessione aperta delle colpe si esprime con accenti sinceri di una religiosità fortemente vissuta. È a Maria "fior de roza ses spina", "mezina de totz los mals", che il C. si rivolge con colloquiale tenerezza che sembra presagire certi toni del Canzoniere petrarchesco.
Per il testo del canzoniere cicaliano si veda l'edizione parziale di sette poesie a cura di G. Toja, Liriche, Firenze 1952, e l'edizione critica completa a cura di F. Branciforti, Il canzoniere di L. C., Firenze 1953.
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