LANDOLFO Seniore
Con questo nome viene tradizionalmente chiamato l'autore di una Historia (o Chronica) nella quale, attraverso la presentazione delle vicende della Chiesa milanese dall'età di s. Ambrogio fino al sec. XI, si prende posizione contro la riforma ecclesiastica di carattere protogregoriano, cui si ispirava a Milano il movimento della pataria.
L'ipotesi avanzata da F. Savio all'inizio del Novecento di attribuire allo stesso autore dell'Historia varie opere agiografiche anonime scritte nell'ambito della Chiesa di Milano nel Medioevo, fra cui anche il cosiddetto Libellus de situ civitatis Mediolani, si è rivelata in seguito infondata, in particolare grazie alle osservazioni di G. Colombo e P. Tomea, e può dirsi oggi definitivamente abbandonata.
Il nome dell'autore dell'Historia è in realtà tutt'altro che certo: nel prologo dell'opera lo scrittore si definisce soltanto con l'iniziale "L."; un altro personaggio indicato dalla medesima iniziale "L.", di cui si dice essere arcipresbitero della Chiesa milanese, ma che non è altrimenti identificato, è il dedicatario del testo. Il nome "Landulphus", attribuito all'autore, appare soltanto nell'explicit che conclude l'opera in uno dei due manoscritti più antichi dell'Historia (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss., H.89 inf.), ma non figura nell'altro (New Haven, Yale University Library, Beinecke, 642), che per molti aspetti è più affidabile del primo; entrambi i codici sono peraltro piuttosto tardi e mostrano tracce di un'intensa opera di revisione redazionale.
Nel 1930 A. Colombo propose l'identificazione dell'autore dell'Historia con il titolare di un testamento redatto nel 1073, nel quale un Landolfo, figlio di un Obizo "qui dicitur Grassus", che si definisce "clericus ac notarius de ordine maiore sancte Mediolanensis ecclesie", lascia al fratello Arioaldo e al nipote Uvifredo i propri beni, consistenti in terreni nei dintorni di Appiano Gentile, nel Comasco, e in una braida a Milano, nei pressi della porta Ticinese, con la condizione che gli eredi versino una determinata somma ai canonici della chiesa milanese di S. Eustorgio "ad communiter vivendum sicut decet in Christo". Dal testamento Colombo deduceva che L. dovesse essere nato intorno al 1010; che appartenesse alla nobiltà cittadina dei capitanei - come altrimenti attestato per la famiglia De Grassi -, e che facesse parte del clero ordinario della cattedrale. L'identificazione di Colombo è stata in seguito contestata da Cattaneo, il quale considerò incredibile che un fervente nicolaita - sostenitore cioè della liceità del matrimonio per il clero - quale è l'autore dell'Historia potesse prevedere nel suo testamento una donazione a favore di un'istituzione ecclesiastica che praticava un modello di vita comunitaria contro il quale egli aveva violentemente combattuto. La tesi di Colombo non viene più presa in considerazione dagli studi più recenti.
Il nome Landolfo - anche ammesso che tale fosse effettivamente quello del cronista - appare del resto fra i più comuni nella Milano dell'epoca e non può costituire elemento sufficiente per alcuna identificazione. Sulla fisionomia dell'autore dell'Historia qualcosa di più si può ricavare a partire dalla sua opera, la cui esatta natura e delimitazione è stata oggetto di approfondite discussioni. Nella forma in cui essa è giunta a noi, in manoscritti di almeno tre secoli successivi all'autore, essa si presenta divisa in tre o in quattro libri. Il primo tratta dei fondamenti della tradizione della Chiesa di Milano e in particolare dell'ordinamento a essa conferito da Ambrogio, illustrando le principali cariche ecclesiastiche e i riti peculiari. Il secondo racconta alcune delle vicende della Chiesa ambrosiana fra il VI e l'XI secolo; per l'epoca più antica la scelta ricade su episodi che testimoniano l'autonomia dell'episcopato milanese da altri poteri civili e religiosi, un'autonomia che appare riconosciuta da autorità massime come papa Gregorio I e l'imperatore Carlo Magno, e nella stessa linea si svolgono le più dettagliate narrazioni relative a episodi di epoca più recente, che hanno come protagonisti gli arcivescovi Valperto (953-969), Arnolfo (998-1018) e soprattutto Ariberto (1018-54). Il terzo libro è incentrato sul durissimo scontro avvenuto all'interno della Chiesa milanese a partire dall'elezione dell'arcivescovo Guido da Velate (1045) fra la corrente tradizionalista e quella riformista rappresentata dalla pataria, cui erano a capo il diacono Arialdo, il notaio ecclesiastico Landolfo e il nobile Erlembaldo, e si conclude con l'effimera vittoria del partito tradizionalista segnata dalla morte violenta di Erlembaldo (1075); all'interno della narrazione hanno parte importante le allocuzioni - probabilmente fittizie, ma autenticamente rappresentative nel loro contenuto delle posizioni delle due parti - dei principali capi delle due fazioni, presentate in contraddittorio. Il quarto libro, distinto soltanto in uno dei due manoscritti più antichi, mentre nell'altro costituisce semplicemente la parte finale del terzo libro, tratta per sommi capi le vicende relative all'episcopato di Tedaldo, iniziato nel 1075. In esso, l'ultimo avvenimento databile è la morte di papa Gregorio VII, avvenuta nel 1085, cui segue il racconto del miracoloso ritorno in vita di un sacerdote di nome Anselmo, che dichiara di aver avuto conoscenza di pene e premi della vita ultraterrena; quest'ultimo episodio è in realtà incompleto - come mostrano le ultime parole presenti nel manoscritto Beinecke 682 - ed è probabile che in uno stadio precedente della tradizione il testo dovesse avere qualche prosecuzione.
Anche se la maggior parte dell'opera è dedicata al racconto di vicende storiche e anche se nel corso del tempo essa venne considerata alla stregua di un testo storiografico - "ystoriographus" è infatti l'appellativo assegnato all'autore nelle rubriche dei manoscritti tardomedievali - l'obiettivo, dichiarato fin dalla lettera dedicatoria e ribadito poi nel più breve prologo del III libro, non è tuttavia quello cronachistico, bensì quello della libellistica politica. All'interno del duro scontro fra tradizionalisti e riformisti, che l'autore aveva certo vissuto di persona, egli prende decisa posizione a favore dei primi e presenta senza appello i secondi come "pseudoprophetae", come sovvertitori delle regole che avevano fatto grande e ricca la Chiesa milanese fin dall'antichità e i cui fondamenti, stabiliti dalla somma autorità di Ambrogio, avevano trovato tante volte conferma nel corso della storia. Il passato della Chiesa ambrosiana viene perciò riletto e ricostruito per servire a un dibattito più recente, come sostegno pubblicistico contro il movimento patarinico. In particolare, l'autore si pronuncia senza mezzi termini a favore del matrimonio degli ecclesiastici, contro l'obbligatorietà del celibato che costituiva una delle richieste di punta dei riformisti; rivendica la piena autonomia della Chiesa milanese dagli altri poteri ecclesiastici, in particolare in merito all'elezione del suo arcivescovo, anche contro le posizioni papali che tendevano a introdurre il controllo da parte di Roma su questa materia; sostiene di fatto l'identificazione della potenza di Milano con quella della sua Chiesa, contestando il valore dell'iniziativa dei laici che tendevano ad affiancarsi a essa nel governo della città. Il mutamento dell'assetto tradizionale su queste e altre questioni viene visto come una minaccia, foriera di disgregazione e declino.
L'autore dell'Historia appare dunque un ecclesiastico milanese tradizionalista. Contro l'opinione vulgata che egli appartenesse al clero cardinalizio, Alzati ha recentemente ipotizzato che fosse invece membro del Collegio minore del clero milanese, quello dei cosiddetti decumani, vista l'importanza che tale categoria riveste all'interno della narrazione. Una certa simpatia che l'autore della Historia mostra verso il populus in occasione dello scontro che contrappose quest'ultimo alla nobiltà feudale durante l'episcopato di Ariberto ha fatto pensare in passato a una sua estrazione popolare (Giulini, Wattenbach, Kurth, Ferrai); ma, come ha osservato Violante, tale simpatia appare in realtà motivata non da un'appartenenza di classe, bensì dal desiderio di sostenere il partito che in quel momento sembrava meglio garantire la potenza e la ricchezza della Chiesa milanese, messa in pericolo dalla rivendicazione di feudi da parte della nobiltà minore laica.
Egli fu certamente attivo all'epoca dell'arcivescovo Guido da Velate, della quale descrive gli eventi in modo vivido e particolareggiato; ma ottima conoscenza mostra pure di quanto accaduto durante l'episcopato di Ariberto, anche se dalle espressioni usate nel prologo del III libro si direbbe che per tale periodo egli si basi più su racconti che sulla propria esperienza diretta. Se dunque il suo periodo di maggiore attività come ecclesiastico sembra da collocarsi nel terzo quarto del sec. XI, opinioni diverse esistono circa l'epoca in cui l'Historia sarebbe stata scritta. Poiché all'interno dell'opera (III, 30) si fa menzione della traslazione delle reliquie di Arialdo, avvenuta nel 1099-1100 durante l'arcivescovato di Anselmo di Bovisio, per lungo tempo si è considerata questa data il terminus post quem per la composizione dell'Historia, che secondo Wattenbach e Ferrai può essere ancor meglio attribuita agli anni fra il 1102 e il 1110. Il passo in questione è tuttavia oggi considerato dalla maggior parte degli studiosi come un'interpolazione successiva, e il terminus post quem andrebbe dunque arretrato al 1085, anno in cui ebbero luogo gli eventi narrati nei capitoli finali della Historia (Cattaneo, Violante). Recentemente Busch ha proposto di considerare anche il cosiddetto "quarto libro" un'aggiunta posteriore, dato che esso presenta caratteristiche e toni diversi da quelli precedenti; in tal caso, il terminus post quem della stesura originaria dell'Historia andrebbe arretrato all'aprile 1075, ossia al momento della morte di Erlembaldo.
La questione della datazione è strettamente collegata a quella delle finalità e delle esatte prospettive dell'opera. Se scritta nel 1075, in un momento in cui il partito riformista, per quanto ormai radicato, non era ancora definitivamente vittorioso e anzi aveva subito un duro colpo dopo la morte dei suoi principali capi, essa apparirebbe un documento pubblicistico ancora pienamente utilizzabile all'interno della controversia, come vuole Busch; se scritta invece non prima del 1085, quando ormai il partito riformista era definitivamente prevalso, grazie soprattutto all'azione di Gregorio VII, essa rappresenterebbe una polemica retrospettiva a esaltazione di un passato glorioso, ma ormai definitivamente superato, e si giustificherebbe maggiormente il tono di rassegnato e amaro rimpianto che vi ravvisano Violante e Alzati.
L'autore della Historia mostra di avere una discreta formazione scolastica e retorica; le sue letture sono soprattutto bibliche e patristiche, ma sono state individuate nel testo anche alcune reminiscenze virgiliane. Egli conosce la letteratura canonistica dell'epoca e la sa impiegare nella discussione teologica, secondo una prassi che venne consolidandosi appunto nella seconda metà del sec. XI. Caratteristico da un punto di vista letterario è l'ampio impiego di allocuzioni retoriche, affidate ai protagonisti del racconto, utilizzate come artificio a un tempo narrativo e argomentativo.
Assai discusso è il valore dell'Historia come fonte storica. Ampiamente utilizzata e giudicata autorevole dagli scrittori di cose milanesi del tardo Medioevo e dell'età umanistica (Galvano Fiamma, Benzo di Alessandria, Tristano Calco, Bernardino Corio; gli impieghi più antichi sarebbero però quelli che ne fecero la raccolta liturgica detta Beroldus vetus, nel sec. XII, e l'anonimo autore di una Passio Arialdi contenuta nel ms. dell'Ambrosiana H.89 inf.), essa venne guardata con sospetto dalla storiografia ecclesiastica del Sei e del Settecento che, condizionata anche dal desiderio di censurare le posizioni nicolaitiche e antiromane che vi vengono sostenute, la considerò alla stregua di una raccolta di notizie fantasiose. A partire dalla metà dell'Ottocento essa è considerata una fonte di sicuro interesse, anche se di parte, per le vicende più recenti, quelle comprese fra gli episcopati di Valperto e Tedaldo; in particolare, Alzati ha rilevato che il racconto della controversia patarinica rappresenta un formidabile documento dell'autocoscienza della Chiesa milanese nel sec. XI e corrisponde nei suoi contenuti ai termini di un dibattito che effettivamente si svolse. Per la sezione della Historia relativa alle vicende più antiche (libro I e parte del II), la cui inaffidabilità come fonte tout-court è universalmente riconosciuta, la discussione fra gli studiosi verte sul possibile utilizzo da parte del cronista di eventuali documenti precedenti.
Mentre si può verificare l'impiego della Vita Ambrosii di Paolino, dei Dialogi e del Registrum di Gregorio Magno e del cosiddetto Libellus de situ civitatis Mediolani, assai discussa è la possibilità che egli abbia attinto anche ad altri documenti della Chiesa milanese che sarebbero stati a quel tempo disponibili ma oggi non sarebbero più conservati: una presunta Chronica attribuita a Dazio, vescovo milanese del VI secolo, dalla quale sarebbe stato tratto l'ordinamento più antico della Chiesa ambrosiana, come descritto nel I libro dell'opera; un Sermo attribuito a un arcivescovo di nome Tommaso relativo alla controversia sul canto ambrosiano che si sarebbe sviluppata al tempo di Carlo Magno, riferita in Historia, II, 10-14; una Querimonia attribuita a un altro arcivescovo di nome Benedetto, come protesta circa la sottrazione, avvenuta nel sec. VIII, della Chiesa di Pavia alla giurisdizione della metropolitana milanese, riferita in Historia, II, 15. Mentre per il Sermo di Tommaso e - più cautamente - per la Querimonia gli studi più recenti propendono per l'effettiva utilizzazione di documenti precedenti, circa l'impiego di una Chronica Datii e circa la sua stessa esistenza si registra un diffuso scetticismo; è stato osservato, fra l'altro, che questo nome veniva attribuito già nel Medioevo alla stessa Historia landolfina, come indica la titolatura dell'opera nel codice H.89 inf., e che le menzioni antiche di un tale testo, invocate in genere per dimostrarne una sua esistenza autonoma, potrebbero senza eccessive difficoltà riferirsi alla nostra Historia.
L'opera è tramandata, come si è detto, nei due manoscritti tardomedievali H.89 inf. e Beinecke 642, vergati tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo; si tratta di due codici rimasti fino al Settecento in possesso della biblioteca del capitolo metropolitano di Milano, dove avevano rispettivamente le segnature E.21.4 ed E.24.4, e con queste segnature sono ancora oggi occasionalmente citati. Da questi due manoscritti medievali derivano alcune copie più recenti (codici Braidense AF.X.6 e Ambrosiano N.128 sup.; l'opera è segnalata anche in una parte oggi perduta del codice Trivulziano 1347), che non hanno valore per la ricostruzione testuale. La storia della tradizione dell'Historia mostra come ben presto essa venne interpretata quale opera meramente storiografica, ridimensionando la sua portata polemica e riconducendo all'interno dell'ortodossia riformistica le posizioni nicolaitiche e conservatrici del suo autore; le rubriche del manoscritto Ambrosiano, certo non originarie, attribuiscono ormai la qualifica di santi a quelli che all'interno dell'Historia sono invece definiti "pseudoprophetae", ossia i due capi patarini Arialdo ed Erlembaldo, dei quali viene posto in margine anche l'epitaffio. Nella stessa prospettiva normalizzatrice può bene spiegarsi la probabile interpolazione relativa alla traslazione delle reliquie di Arialdo (III, 30), nonché la possibile introduzione di alcune ulteriori citazioni di carattere canonistico, recentemente ipotizzata da Busch. Tale lettura "storiografica" e "normalizzante" ha un riflesso preciso anche nella composizione dei due manoscritti che comprendono l'opera. In entrambi il testo è associato al Liber gestorum recentium di Arnolfo, altra importante cronaca di parte ecclesiastica del sec. XI; oltre a questa, il codice Beinecke comprende anche un Catalogus archiepiscoporum Mediolanensium che nella sua stesura originaria può risalire ancora all'XI o al XII secolo, mentre il manoscritto Ambrosiano aggiunge - in un'unità codicologica diversa - due testi filopatarini, ossia l'Historia Mediolanensis di Landolfo Iuniore (o di S. Paolo) e una Passio Arialdi. In questo modo la caratterizzazione polemica della Historia finiva per essere del tutto dimenticata, e il materiale in essa contenuto poteva essere pienamente utilizzato da parte della Chiesa milanese per la conservazione della propria memoria storica.
La prima edizione dell'opera, col titolo Historiae libri IV, fu realizzata da O. Bianchi per i Rerum Italicarum Scriptores di L.A. Muratori - IV, Mediolani 1723, pp. 49-120 - sulla base di entrambi i manoscritti allora al capitolo metropolitano. Una seconda edizione, Historia Mediolanensis, curata da L. Bethmann e W. Wattenbach per i Mon. Germ. Hist. -Scriptores, VIII, Hannoverae 1848, pp. 32-100 -, poté giovarsi soltanto del codice dell'Ambrosiana e delle copie recenti dell'altro, che era in quel momento disperso; questa edizione è considerata ancora oggi canonica, essendo quella successiva di A. Cutolo (Historiae libri quatuor, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., IV, 2) viziata da numerosi errori, nonostante il vantaggio di essere elaborata nuovamente con l'apporto di entrambi i codici medievali.
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