COLONNA, Landolfo
Figlio di Landolfo, come risulta da una bolla di Bonifacio VIII del 3 febbr. 1298, nacque intorno al 1250; la famiglia era del ramo dei Colonna signori di Gallicano. Compì a Bologna gli studi di diritto percorrendo l'intero corso di studi sino a conseguire il titolo di "magister".
Testimonianza dei suoi interessi giuridici è un atto del 7 sett. 1269 con cui si ratificò l'acquisto di un codice del Digesto con le note di Accursio, da lui compiuto per una somma piuttosto ingente; un accenno autobiografico sulle sue esperienze alla scuola dei legisti bolognesi si rintraccia nel Tractatus brevis de pontificali officio da lui composto.
La bolla già ricordata affida la chiesa dei SS. Sergio e Bacco in Roma alle cure spirituali e temporali del C., che dovette peraltro godere di varie prebende e benefici, come testimoniano le bolle del 2 nov. 1301, dove viene chiamato "canonicus Senonensis" ed il documento di Giovanni XXII del 20 luglio 1326 che enumera le varie responsabilità del C. al momento della concessione delle prebende connesse al canonicato di S. Maria Maggiore in Roma: sappiamo, così che era arcidiacono di Tardano presso Soissons, canonico a Chartres, e gli erano affidate le chiese di S. Pastore e di Gallicano nella diocesi di Preneste e dei SS. Sergio e Bacco.
Dal 1299 il C. è già sicuramente canonico residenziale a Chartres, tradizionale prebenda dei Colonna, in una casa presso la cattedrale, e per molto tempo farà seguire al suo nome la qualifica di "canonicus carnotensis". In questa sede dovette ricoprire anche incarichi finanziari, forse come economo sovrintendente alle entrate della cattedrale: certo è che per questi anni abbiamo notizie particolareggiate sulla sua attività, conservateci per gran parte dai registri capitolari con le relative deliberazioni che riguardano le diverse attività dei canonici, comprese le richieste di prestito dei libri della ricca e antica biblioteca.
In tal modo conosciamo un suo intenso commercio per acquisto di terre e di case (1299, 1310, 1323), di granai, di prati a pascolo e vigne, oltre che di terre in usufrutto (1302, 1307, 1308, 1309 ed ancora nel 1310), sappiamo che si occupava personalmente dei suoi possessi, e per i frequenti periodi di assenza nominava procuratori; egli stesso aveva procure di altri proprietari e poteva anche assentarsi spesso come conferma l'istituzione da lui voluta nel 1313 di un mattutino perpetuo, al quale assicurava dodici libbre di rendita. Ancora dai registri capitolari sappiamo che dal 1309 al 1313 godeva di due congedi annuali fissi, forse anche per espletare più liberamente le missioni affidategli dal capitolo.
Nel 1303, e dal 1304 al 1306, dovette soggiornare a Roma, dove si era già recato nel 1300 e dove sottoscrisse documenti pontifici; in anni, più tardi (7 maggio 1319), a Roma, fuori porta Maggiore, comprò per mille fiorini, tramite procuratori, il casale che era stato di Paolo Monaco ("Turris Pauli Monaci").
Altre importanti testimonianze dei Registri riferiscono delle sue lettere e dei suoi interessi di studioso, dei prestiti e della restituzione dei volumi della biblioteca, minuziosamente ricordati: ha in lettura nel 1299 il De consolatione di Boezio, che chiede nuovamente nel 1301; restituisce nel 1303 testi di Giovanni di Salisbury, Livio, Boezio e Cicerone; nel maggio del 1308 "cepit in precario a capitulo librum Orosii hystoriarum"; nello stesso mese dell'anno seguente (1309) preleva scritti di Fulberto e qualche mese dopo (12 novembre) di Giustino, Pietro di Blois e Tito Livio; nel 1318 un salterio. Negli anni successivi non troviamo informazioni sul prestito di libri, ma ciò è dovuto, probabilmente, al fatto che il C. non era più canonico residente e dal 1322 una disposizione capitolare vietava il prestito dei libri ai non residenti. In questo periodo, infatti, si intensificano i suoi soggiorni in Curia ad Avignone. Uno di tali soggiorni è documentato dalla lettera scritta fra il settembre e l'ottobre del 1320 ai confratelli in relazione al contrasto tra i canonici ed il vescovo di Chartres Roberto di Joigny: i canonici rivendicavano la diretta dipendenza dall'autorità pontificia, ma il vescovo usò la scomunica ed ottenne da Giovanni XXII giudizio a lui favorevole. La lettera è conservata parzialmente alla fine del Liber pontificalis del C. (Vat. lat. 3762): era sua abitudine stendere sui fogli di guardia dei manoscritti da lui posseduti note ed abbozzi di lettere. Anche nel suo Lattanzio (ora Oxford, Canon. 131) il testo è preceduto da una lettera del C. al nipote Giovanni, mentre in fine, vergata dalla stessa mano, una petitio per ottenere la dispensa matrimoniale per Stefano Colonna e Calenda Capocci (dispensa ottenuta nel 1329) offre una precisazione cronologica di qualche interesse: il C. non si definisce più "canonicus carnotensis" ed accenna agli impegni curiali che lo distraevano dallo studio.
Dal 1326 il C. inizia un progressivo distacco da Chartres, con la cessione di molte sue terre, anche se nel 1326 è ancora incaricato dal capitolo di missioni e nel 1328 si reca con il nuovo decano al concilio di Parigi; nel 1328 avvenne infine una frattura definitiva, di cui restano ignote le cause.
Sappiamo solo che il C., citato a comparire di fronte al capitolo si rifiutò, e fu allora estromesso e scomunicato; l'anno successivo (1329) inviò tuttavia lettere "de confirmatione compositionis et exemptionis faciendae" di cui ignoriamo il contenuto perché una delibera capitolare minacciò scomunica contro tutti coloro che avessero rivelato particolari. Se infatti ancora il 6 ag. 1329 nei documenti pontifici è chiamato canonico di Chartres, in quello del 6 ott. 1329 viene ricordato solo il suo arcidiaconato di Tardano di Soissons. Nei registri capitolari alla data del 15 marzo 1328 si dice: "L. de Columpna canonicus Carnotensis cepit licentiam secundum consuetudinem ecclesiae Carnotensis et fecit procuratores suos…".
Al soggiorno di Chartres risalgono tutti gli scritti che del C. ci sono noti: canonico carnotense egli si dice nel Tractatus brevis de pontificali officio, tuttora inedito, e scritto dunque ancora a Chartres, vista anche la citazione diretta di lettere dagli archivi capitolari. L'opera dedicata a Giovanni XXII è densa di franchi propositi nel rimproverare al clero di volgere a beneficio dei parenti i beni della Chiesa, che dovrebbero essere dei poveri. Nel prologo sono indicate le motivazioni dell'opera ed è giustificata la forma compendiosa del trattato strutturato in quattro sezioni che corrispondono alle qualità "que requiruntur principaliter in prelato: timor Dei, cultus sui, disciplina, id est debita correccio delinquencium, amor, dileccio atque proteccio subditorum". Fonti dichiarate sono Boezio, s. Bernardo e Graziano.
Dedicato a Lamberto da Castello ed al padre di quest'ultimo è il Tractatus de statu et mutatione Imperii che ebbe eco perché legato alla disputa tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, anche se il Riezler che identificò nel C. l'autore formulò l'ipotesi che fosse stato composto al tempo della spedizione di Enrico VII. Forte è il sapore guelfo del lavoro in cui il C. dimostra una notevole conoscenza del diritto canonico. L'opera dovette avere una notevole fortuna se fu subito più volte trascritta e presto riecheggiata da Marsilio da Padova; quest'ultimo, anche se ne capovolge le affermazioni e si rifà spesso, come il C. del resto, alla Cronaca diMartiri Polono, per gran parte gli è sicuramente debitore. Le dipendenze testuali, mentre fissano inderogabilmente per la dipendenza da Martiri Polono il termine a quo al 1277, indicherebbero anche, secondo quanto suggerito dal Maccarrone per quanto attiene alla validità e legittimità della traslazione compiuta dai pontefici, una derivazione del C. dalla opera di Tolomeo da Lucca (1308). La dipendenza di Marsilio indicherebbe invece il termine ante quem di composizione del Tractatus de statu al 1324. Il titolo attribuitogli, De translatione Imperii a Graecis ad Latinos, è comunque posteriore; nel prologo il C. parla infatti "de statu et mutatione Romanii imperii".
Dedicato a Giovanni XXII infine è anche il suo Breviarium historiarum, che ebbe scarsa fortuna e più tardi, in Francia, fu rielaborato anonimamente e stampato col titolo di Breviarium historiale. Povero di senso critico e di stile, oltre che privo di ogni accenno biografico, il Breviarium appartiene tutto alla cultura scolastica del XIII secolo: abbondano le citazioni e trasparente è l'uso di molti classici, soprattutto storici, e delle opere dei Padri; si richiama inoltre a Isidoro, alla Vita Caroli di Eginardo, alla Historia Langobardorum di Paolo Diacono e infine alle opere di Vincenzo di Beauvais e di Martiri Polono, oltre che al Liber pontificalis.
Quando nel 1329, quasi ottantenne, il C. si mise in viaggio verso Roma, stava concludendo il Breviarium e recava con sé i testi più amati: il Liber pontificalis (che egli attribuiva a papa Damaso), il Lattanzio, due vaste miscellanee di opere sacre antiche e recenti di cui aveva curato la realizzazione, allestite da copisti e miniatori francesi e da lui annotate (Parigi, Bibl. nat., Lat. 1617e Lat. 2540).
Sappiamo anche che il C. possedette o ebbe a lungo a disposizione opere diverse e importanti già provenienti in parte dagli anni romani o bolognesi, e che fu tramite, spesso non criticamente consapevole, di numerose tradizioni che passeranno dalla antica e ricca biblioteca di Chartres in Italia, e contribuiranno a formare il ricco terreno dell'umanesimo italiano. Basti pensare che il codice petrarchesco di Livio (l'Harleian 2493 della British Library), che già conteneva riunite la prima e la terza decade, fu corretto ed integrato dal Petrarca, che pure non nomina mai il C., grazie alla copia che il C. stesso fece di un antico manoscritto della biblioteca capitolare, da lui studiato fin dal 1303, contenente una nuova tradizione della seconda metà della terza decade e la fino ad allora sconosciuta quarta decade (tranne il l. XXXIII e l'ultima parte del XL). Il Livio di Chartres, tanto amato dal C. e tanto antico, ormai logoro ed illeggibile, andò poi disperso, ma il fruttuoso lavoro di collazione ed integrazione compiuto dal Petrarca non andò perduto anche perché il C., che ad Avignone aveva incontrato Simone d'Arezzo, il postillatore del Livio Laurenziano, fece riunire in una silloge di storia classica l'Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese, l'opera di Floro e il Livio, ripreso da quello di Chartres e corretto sulle indicazioni petrarchesche. Scene miniate, eseguite probabilmente da miniatori italiani, presenti numerosi ad Avignone, volle per ogni libro degli Ab urbe condita, ed il manoscritto fu in seguito acquistato, ad Avignone nel 1352, dal Petrarca, che a lungo lo aveva già utilizzato. L'elenco dei libri posseduti dal C. è stato ricostruito con cura dal Billanovich nonostante alla morte del possessore la sua ricca biblioteca privata fosse stata smembrata e divisa: il nipote Giovanni ebbe il Lattanzio; Petrarca, nel suo soggiorno a Roma, acquistò le due miscellanee sacre ed aggiunse ai margini del Par. lat. 1617 le sue glosse accanto a quelle tracciate con mano elegante e chiara dal C.: la somiglianza delle due grafie è tale che ha permesso al Petrucci di parlare di "muto magistero".
Il C. morì a Roma nel settembre del 1331: fra il settembre e l'ottobre di quell'anno, e poi in seguito fino al 1333, documenti pontifici assegnano infatti ad altri le prebende ed il canonicato di Chartres, "vacantem per obituni Landulphi dicti de Gallicano... in Urbe defuncti".
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