CARACCIOLO, Landolfo
Nacque a Napoli, con ogni probabilità nell'ultimo quarto del sec. XIII; apparteneva al ramo Rossi della famiglia Caracciolo. Suo padre Giovanni, creato cavaliere da Carlo I nel 1275, aveva fatto carriera nell'amministrazione angioina, ricoprendo tra l'altro le cariche di capitano di Amalfi (1300) e tesoriere regio (1303). Al C. fu imposto il nome dello zio paterno, conte di Montemarano. Sembra che dei figli maschi di Giovanni (probabilmente quattro) il C. sia stato l'unico ad essere destinato alla carriera ecclesiastica. Non possediamo documenti riguardanti la sua educazione e la data del suo ingresso nell'Ordine dei frati minori. È probabile che dopo i primi studi sia stato inviato a perfezionarsi a Parigi, dove avrebbe conseguito quel titolo di maestro in teologia da cui il suo nome è regolarmente accompagnato.
Una tradizione costante, ma non documentata, fa il C. discepolo di Duns Scoto e testimone di una famosa disputa attraverso la quale il teologo scozzese avrebbe definitivamente imposto nell'università parigina il culto dell'Immacolata Concezione. Si tramanda che il C. avrebbe anche raccolto l'eredità di Scoto come lettore di teologia in quello Studio e avrebbe in questa veste giurato di osservare la festa dell'Immacolata Concezione. L'unica fonte sull'attività parigina del C. è costituita dall'Elucidarius Virginis del vescovo di Acerno Antonio Bonito de Cucharo, apparso a Napoli nel 1507. In quest'opera, oggi comunemente reperibile solo nella ristampa curata nel sec. XVII da P. de Alva y Astorga per i suoi Monumenta antiqua seraphica, è infatti più volte e con scarsa precisione citato un trattato sulla Immacolata Concezione attribuito al C. e non altrimenti pervenutoci. Se si escludono le notizie fornite dall'Elucidarius Virginis, a favore dello studio e dell'insegnamento parigino del C. milita un solo, lieve indizio, costituito dalla permanenza dal 1309 al 1316 di un Francesco Caracciolo nella carica di cancelliere dell'università di Parigi.
Meglio documentata è l'attività successiva del C.: le cronache francescane sono unanimi nell'attribuirgli la dignità di provinciale di Terra di Lavoro, e non si dovrebbe essere troppo lontani dal vero fissando attorno al 1320-25 il periodo in cui il C. ricoprì questa carica, la più importante attribuitagli all'interno del suo Ordine. Il gradino successivo della sua carriera ecclesiastica fu la nomina a vescovo di Castellammare di Stabia (21 ag. 1327). Le entrate della mensa vescovile non dovevano tuttavia soddisfarlo, se il 7 luglio 1331 Giovanni XXII scrisse a Pietro, vescovo di Nola, perché accertasse la veridicità di quanto affermato in una supplica di re Roberto d'Angiò a proposito della cattiva amministrazione del monastero di S. Arcangelo de Insula Rubiliani.
Il re aveva proposto il trasferimento dei beni del monastero sotto la giurisdizione del C., motivandolo appunto con la scarsezza dei proventi della diocesi stabiana. Ma probabilmente prima ancora che la questione si risolvesse il papa trasferì il C., il 20 sett. 1331, alla più prestigiosa e ricca archidiocesi di Amalfi, retta temponeamente fino allora dall'arcidiacono Matteo de Alagno. Quest'ultimo, in compenso della rinuncia ai diritti derivantigli dall'elezione da parte del capitolo amalfitano, fu a sua volta trasferito alla sede di Castellammare il successivo 24 settembre. Il 29 febbr. 1332 Giovanni XXII concesse al C. il pallio, incaricando della consegna il minorita Pietro Borbelli, vescovo di Sulmona.
Impegnato come era nelle vicende politiche del Regno, il C. non sembra aver lasciato significative tracce di sé nelle cronache amalfitane, che gli attribuiscono soltanto la costruzione di un nuovo coro nel duomo. La sua sottoscrizione figura in calce a un documento rogato nel palazzo arcivescovile il 19 marzo 1332, concernente uno scambio di terre tra il convento di S. Maria di Positano e Giovanni figlio di Pietro de Iudice di Amalfi. È rimasta testimonianza di una controversia tra il C. e il Comune di Maiori per il possesso della spiaggia di quest'ultima località: l'11 giugno 1332 la "Universitas Terrae Maioris" promosse causa contro l'arcivescovo davanti al tribunale regio.
Una significativa prova del crescente prestigio del C. nell'ambiente napoletano e della fiducia di Giovanni XXII in lui è costituita dalla sua partecipazione in un ruolo di primo piano alla persecuzione dei fraticelli, che godevano le simpatie di re Roberto e l'appoggio della corte. Lo stesso 29 febbr. 1332 in cui gli concesse il pallio, il papa gli inviò infatti una lettera per ringraziarlo dell'aiuto prestato al generale dei minori Guiral Ot (Geraldus Othonis) nella repressione di quella setta eretica nel Napoletano. La situazione doveva comunque mantenersi grave se il successivo 5 marzo il papa gli ordinò di procedere contro i fraticelli senza indugio, con l'aiuto del braccio secolare, dopo aver preso le adeguate informazioni "summarie, de plano et simpliciter, sine strepitu et figura iudicii". Contemporaneamente, con un'altra lettera, il pontefice raccomandò alle autorità civiche napoletane di fornire ogni aiuto al C. nella repressione dell'eresia. Nella sua veste di arcivescovo di Amalfi il C. intervenne anche alla solenne consacrazione della chiesa di S. Chiara, avvenuta nel 1340 alla presenza dell'intera famiglia reale.
Il C. ricoprì un ruolo non trascurabile nelle travagliate vicende del Regno di Napoli sotto Roberto e Giovanna I. Uscito da una famiglia tradizionalmente vicina alla monarchia, egli costituiva per le dignità ecclesiastiche ricoperte e la buona udienza di cui godeva ad Avignone un tramite particolarmente utile per i rapporti tra il Papato e la corte angioina. I re di Napoli si servirono di lui per numerose iniziative diplomatiche, di cui la prima a noi nota è la missione compiuta a Bologna nel maggio-giugno 1326. L'ambasciata ottenne un aiuto di duecento cavalieri e trecento lance per Firenze, dove la signoria di Carlo duca di Calabria, figlio di re Roberto, rischiava di crollare di fronte alla minaccia ghibellina di Ludovico il Bavaro e Castruccio Castracani. L'attività diplomatica del C. crebbe con l'ascesa al trono di Giovanna (1343). Quando l'ammiraglio aragonese Ramón Peralta si presentò minaccioso davanti a Napoli, fu appunto al C., al nobile partenopeo Alessandro Brancaccio ed al giudice della Gran Corte Bernardo de Alferio che la regina, d'accordo con i principi di Taranto e di Durazzo, affidò, il 27 sett. 1347, il compito di risolvere con trattative dirette l'ormai annosa questione siciliana. I tre ambasciatori, muniti di pieni poteri, si recarono nell'isola probabilmente a bordo della stessa flotta del Peralta e conclusero in breve tempo con la regina Elisabetta ed il vicario Giovanni di Randazzo (che agivano a nome del giovane re Ludovico) un accordo che sanciva in pratica la rinuncia angioina alla sovranità sulla Sicilia. Dopo ulteriori rapide consultazioni a Napoli, la pace fu definitivamente siglata a Catania il 30 ott. 1347 e proclamata il successivo 7 novembre. Ben più complesso e difficilmente ricostruibile fu il compito toccato al C. nelle oscure vicende succedute all'assassinio di Andrea d'Ungheria, primo marito di Giovanna (1345). È, comunque sicuro che il C. prese parte alle affannose trattative intercorse tra Napoli ed Avignone per scongiurare l'invasione minacciata dal re d'Ungheria Luigi per vendicare il fratello.
A questo riguardo ci sono rimasti due discorsi conservati ai ff. 22v-24r e 26v-30r del codice Vat. lat. 4376 (contenente fra l'altro una serie di sermoni attribuiti al C.): nel primo, intitolato semplicemente Coram papa e rivolto al pontefice ed al collegio dei cardinali, si trova una generosa difesa dell'operato della regina, mentre nel secondo In morte regis Andree si ricorda il regicidio con accenti non troppo diversi da quelli tenuti da Clemente VI nell'allocuzione funebre pronunciata il 1º febbr. 1346. Almeno il primo discorso fa supporre una presenza del C. ad Avignone, che la mancanza di documenti ci impedisce di stabilire contemporanea a quella della regina, fuggita nel gennaio 1348 davanti alle truppe ungheresi e rimasta in Provenza per circa sei mesi. L'idoneità del C. a perorare la causa di Giovanna davanti al papa è confermata dalla benevolenza che Clemente VI gli aveva poco tempo prima dimostrato inviandogli, il 21 maggio 1342, una lettera particolare per comunicargli la propria elezione al pontificato.
I meriti acquisiti valsero al C., al ritorno in patria di Giovanna, la carica di logoteta e protonotario, una delle più alte nell'amministrazione regia. Dietro l'onore riservato al C. s'intravvedono però i segni della nuova controversia che opponeva la regina al secondo marito Luigi di Taranto, che era ancora impegnato contro gli Ungheresi e desideroso di guidare da solo la politica angioina in quel delicato momento. La nomina del C. a protonotario fu infatti decisa lo stesso giorno (17 marzo 1349) in cui venne affidata la carica di cancelliere al vescovo di Firenze Angelo Acciaiuoli e confermata quella di gran camerlengo al favorito della regina, Enrico Caracciolo. Le cariche dei due Caracciolo, sempre fedeli a Giovanna, bilanciavano quella dell'Acciaiuoli, cugino del gran siniscalco Niccolò, partigiano ed ispiratore di Luigi di Taranto. L'equilibrio durò poco: il 25 apr. 1349 Luigi faceva arrestare e quindi uccidere Enrico Caracciolo; il 29 dello stesso mese fu nominato viceprotonotario il "maestro razionale" Sergio Donnorso, che esautorato praticamente il C. nella carica.
Dopo questi fatti si perdono le tracce del C., cui doveva essere stata sottratta ogni influenza negli affari del Regno e che morì con ogni probabilità nel 1351 (la data del 1355 proposta dall'Eubel contrasta con un documento del 20 novembre del 1352 in cui è menzionato Pietro Capuano con il titolo di arcivescovo di Amalfi). Il C. fu sepolto nel duomo di Amalfi nella cappella dei SS. Cosma e Damiano; il martirologio francescano lo ricorda come beato alla data del 1º marzo.
Nella storia degli studi teologici il C. non occupa un posto di particolare rilievo: si può dire che viva della luce riflessa di Scoto, le cui dottrine riccheggia costantemente, nonostante sia avvertibile nelle sue tesi anche l'influenza di Matteo d'Acquasparta e Guglielmo di Ware. La tradizione scolastica gli assegna il titolo di doctor collectivus. Gli vengono attribuiti un commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (dedicato a re Roberto), dei Quodlibeta, commenti all'Antico e Nuovo Testamento (In Zachariam prophetam,In IV Evangelia,In epistolam ad Hebraeos), una nutrita serie di sermoni, un Liber collationum spiritualium, una Postilla super Evangelia dominicalia (dedicata al minorita Monaldo da Perugia, procuratore presso la Curia avignonese nel periodo 1316-1322), Quaestiones in Metaphysicam. Le opere del C. sono conservate in numerosi manoscritti, e per alcune di esse (parti del commento alle Sentenze, commenti ai Vangeli) si ha notizia di antiche edizioni oggi apparentemente irreperibili. Fa eccezione il commento al secondo libro delle Sentenze, stampato a Napoli nell'ultimo decennio del sec. XV da Christian Preller nell'officina di Francesco del Tuppo (su questo incunabolo, la cui prima parte contiene il De philosophia naturali del medico napoletano G. B. Elisio, v. L. Hain, Repertorium bibliographicum.., I, 2, n. 6586; M. Fava-G. Bresciano, La stampa a Napoli nel XV secolo, II, Leipzig 1912, n. 185; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VIII, 1, n. 9291). Dal commento al terzo libro delle Sentenze, nel testo del codice VII. C. 49 della Biblioteca nazionale di Napoli, D. Scararnuzzi ha estratto e pubblicato la questione riguardante l'Immacolata Concezione (L'immacolato concepimento di Maria. Questione inedita di L. C., O.F.M., († 1351), in Studi francescani, s. 3, III [1931], pp. 33-69; cfr. la recens. di G. Fussenegger in Arch. franciscanum historicum, XXV [1932] pp. 138 s.).
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