lamentare [lamentasse, I singol. cong. imperf.]
È usato quasi sempre nella forma pronominale, e significa " dolersi ", " esprimere cordoglio per travaglio intellettuale, affettivo, fisico "; ma ricorre anche, con lo stesso valore, la forma senza pronome (cfr. per es. Vn VIII 6 10). È presente in tutte le opere di D., con frequenza massima nella Vita Nuova. All'interiorizzata doglia d'amore ci riconducono i passi di Rime LXVII 38 ivi si lamenta [la mente mia] / d'Amor, che fuor d'esto mondo la caccia, e CXVI 68 non donne qui... / veggio, a cui mi lamenti del mio male, nonché i passi della Vita Nuova, ove nondimeno questo campo di significato (assai chiaro in XII 2) si complica per influsso della terminologia stilnovistica (in XIV 6 sono gli spiritelli, che si lamentavano forte) e del frequente collegamento del verbo al contesto dell'epicedio per la donna scomparsa prematuramente (VIII 6 10, XXII 3, XXXII 3, XXXIII 4 [quattro volte]). Situazione affine in Cv II Voi che 'ntendendo 41 Tu non se' morta, ma se' ismarrita, / anima nostra, che sì ti lamenti (con autoesegesi in IX 2 dico che [l'anima mia] dice parole lamentandosi), e in III III 14.
Si tratta in questi casi dell'uso più tradizionale del verbo, che conosce le sue prime attestazioni proprio all'interno di una patetica liturgia amorosa (cfr. ad es., per testi anche geograficamente lontani, un componimento di Stefano protonotaro [in Contini, Poeti I 137] per cui l'amore è " Io mal di ch'io non m'oso lamentare ", e un testo come Il Panfilo in antico veneziano [in Monaci, Crestomazia 182 r. 10] in cui il verbo pare quasi una parola-chiave). Maggiore intensità in If III 44 Maestro, che è tanto greve / a lor che lamentar li fa sì forte?, dove la forma verbale è connessa al ‛ fisico ' tormento dei dannati, e in Pd XIX 147 Niccosïa e Famagosta / per la lor bestia si lamenti e garra, insolita e metaforica attribuzione di ‛ senso ' umano a città tormentate da un tiranno. A parte dev'essere considerata l'attestazione di Pd XIV 25 Qual si lamenta perché qui si moia / per viver colà sù, non vide quive / lo refrigerio de l'esterna ploia, in cui il verbo introdotto in un contesto di contemptio mundi esprime delusione intellettuale: " Chi si lamenta di morire quaggiù per poscia vivere in Cielo, certo si lamenta perché non vide quivi, in cielo, il gaudio che la pioggia eterna del beatifico lume produce ne' beati " (Ottimo).